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Quindici uomini
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Quindici uomini

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Questa è una storia di pirati nostrani: gli Uscocchi, corsari di Fiume che infestarono l'Adriatico combattendo contro Mori e Venezia fino al 1618. Gli stessi Uscocchi che, esattamente tre secoli dopo, rispunteranno al fianco di Gabriele D'Annunzio in quella che verrà ricordata come l'occupazione di Fiume. Il romanzo quindi si divide in due parti. La prima, epica, con terminologie da marinaio di cui Felli non sembra essere assolutamente digiuno, la seconda più moderna in cui l'occupazione di Fiume viene fuori nella sua vivacità artistica fatta di ricette culinarie e incontri tra mondi differenti. Esilarante quello tra uno dei pirati e Marinetti. Personaggio principale di questa storia è Capitan Nebbia, le cui poco eroiche gesta vengono raccontate nel diario di bordo del quartiermastro Scassacarogna.
Un libro originale, da leggere tutto d'un fiato. Che non annoia e sa essere avvincente come tutte le storie raccontate da Pierluigi Felli.

LanguageItaliano
PublisherPulpEdizioni
Release dateFeb 3, 2014
ISBN9781310624759
Quindici uomini

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    Quindici uomini - Pierluigi Felli

    PROLOGO

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    Che Poseidone mi inghiottisca qui, ora, all’istante, se ciò che sto per raccontarvi non è tutto dannatamente vero. Parola di marinaio.

    La notte è cupa, senza stelle, e il legno sul quale dovremo imbarcarci è alla fonda. Ovviamente piove, e quanto precipita dal cielo tra le altre cose fa muovere in modo ossessivo l’insegna arrugginita della Locanda dell’Annegata.

    Io mi ci trovo dentro, seduto nell’angolo più nascosto e buio, buio al punto che l’unica parte di me che si può notare è il sigaro che ad intermittenza si accende e si spegne.

    Frequento questo covo da tanti anni ormai e debbo dire che di donne non ne ho mai viste, e meno che mai annegate. Salvo forse le due cameriere che a petto nudo servono tra i lerci tavoli non disdegnando affatto di sedersi sulle ginocchia di qualche avventore in vena di lasciti più o meno spontanei.

    Mentre sto appuntando queste mie prime note scorgo a dritta il muso di un topo e lo riconosco all’istante. È Mezza Orecchia, ce lo portiamo sempre appresso, a lui e alla sua ciurma di onesti ratti di sentina, e non c’è gatto che tenga!

    Quanto a me, il mio nome non ha più importanza perché tutti mi chiamano Scassacarogna e mi sta bene così. Del resto non è per niente strano: da tempo che non sento più chiamare un compagno Daniele Manin, John Smith o, che so, Ian McDonegan.

    Di mestiere faccio il quartiermastro, sulla nave sono l’ufficiale che valuta gli ordini del capitano controbilanciandone i poteri. Oltre a dover tenere un diario di bordo, su per giù questo che avete tra le mani, svolgo diverse altre funzioni: approvo ciò che il mio unico superiore vorrà intraprendere; parlo nell’interesse dell’equipaggio, del quale mi prendo cura né più né meno di come faceva il tribuno con il popolo Romano; quindi organizzo la squadra di abbordaggio, ne seleziono i componenti e li arruolo; al dunque distribuisco con equità la posta, il bottino, ed in ultimo, tre volte al dì, per l’esattezza ogni dodici giri di clessidra, mangio il primo boccone del cibo destinato al capitano. Quest’ultima mansione la eseguo non senza un pizzico di apprensione, non fosse altro perché si dice che la nave è pericolosa come una prigione. In carcere però c’è più spazio per muoversi, il mangiare è più vario e soprattutto è migliore la compagnia.

    Qualcuno di voi terrestri si sarà già accorto che sono anche moderatamente colto – uso l’avverbio perché il vero dotto è solo il capitano – e allora dico subito che, malgrado io viva in un ambiente dove il più pitagorico sa contare fino a dodici, che non a caso è la combinazione massima nei dadi, ad esempio un tale sir Henry Mainwaring, che potremmo definire un nostro collega inglese, si laureò nientemeno che ad Oxford e non più di vent’anni fa.

    Di come poi io sia arrivato a ricoprire il ruolo di quartiermastro non ne farò un mistero.

    Di inclinazione vagabonda, mai coniugato a causa presumo della mia barba alla nazarena e del volto grifagno, mi sono frequentemente trovato dal lato sbagliato della legalità. Dopo una condanna per fellonia decisi di intraprendere la carriera di gentiluomo di fortuna, sempre ben attento però a fuggire sia dai creditori che dall’umor tetro che troppe volte, chi sa perché, mi attanaglia ancora. Non dovendo dunque sperare grazia ed anzi attendendomi dall’Avventura il sacrosanto castigo, sono riuscito ad impostare la mia esistenza basandomi esclusivamente sull’oggi. E devo costatare che non mi sono mai fatto abbattere dalla malasorte, che per diletto spesso mi ha fatto visita, né al contempo ho saputo mai trarre un duraturo vantaggio dal benessere acquisito. Per concludere con le doti confesso infine che, pur vivendo ora un periodo di casta morigeratezza, sono stato in passato molto amato, a digiuno, dalle donne e molto odiato dagli uomini dopo aver bevuto.

    Dei difetti, oggi che son maturo nella mente e nelle membra, credo mi sia rimasto soltanto quello che a torto viene considerato il più pericoloso per un uomo di mare.

    Io non so nuotare, d’accordo, ma a ben pensarci cosa importa: chi nasce pirata muore sulla forca, mica in acqua.

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    CAPITOLO PRIMO

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    Isola di Segna, nel Golfo del Carnaro. 19 marzo 1620.

    Dopodomani dobbiamo andar via, non c’è altra scelta. Dove, come e per qual diavolo di ragione lo dirò più tardi perché adesso è il momento delle presentazioni. La famigerata Camera dei Lordi, che ho il dovere di ricostituire, non può attendere oltre. Noblesse oblige.

    Tuttavia, prima di intraprendere questo viaggio di mare e di carta, reputerei il caso di premettere un paio di informazioni atte a far sì che in seguito tutto possa apparire intelligibile. Come parlo forbito, cazzo!

    Lo faccio innanzitutto per quei pochi, o tanti chissà, che nulla masticano di cose di mare e che per un imperscrutabile disegno del fato si ritroveranno a leggere questo manoscritto. Esclusivamente per costoro, dunque, sarà mia cura evitare frasi da nocchiere tipo mi rivolsi verso le griselle del sartiame di mezzana o decisi di bracciare in croce i pennoni con amantigli. Se mi esprimessi in tal guisa, in molti non provocherei altro che irritazione e fastidio, mentre solamente in certuni, invero un misero numero temo, accenderei il desiderio di andare a recuperar per porti qualche ingiallito manuale di nautica. Quindi, ove possibile, ricorrerò a perifrasi più immediate e ove non lo sia spiegherò dappresso il concetto usando la loquela degli uomini di terra.

    Certo, vorrei sperare che almeno qualche rudimento vi sia già noto: la cambusa è la cucina, la plancia è il ponte di comando, la stiva è il locale più basso in cui viene immagazzinato il carico, babordo è sinistra, dritta è destra, la prua sta davanti e la poppa dietro. Quest’ultima corrispondenza, poi, è quella che dovrebbe restarvi più impressa delle altre perché la nave è stata costruita all’inverso di come Nostro Signore, sempre nella Sua Somma Bontà, ha ideato la donna. Nella quale infatti le poppe – addirittura due! – stanno davanti e, Dio mi perdoni, dietro c’è persino di meglio.

    In secundis, due parole sulla nave che, come accennato, ci attende ormeggiata all’ancora.

    Bene, se riuscite a togliervi dalla testa l’immagine dei duecento vascelli con a bordo sessantamila uomini e duemilacinquecento cannoni con i quali Andrea Doria fronteggiò Solimano il Magnifico vi sarete già posti nella posizione consona per recepire un dato tanto secco quanto chiaro: noi della Camera dei Lordi siamo rimasti con una sola nave.

    Precisamente una goletta a remi, di sicuro ottima per percorrere, lunga e sottile com’è, canali o insenature, ma decisamente meno adatta a navigare nei larghi e perniciosi spazi dell’Oceano. Badate che quando parlo di Oceano intendo solo l’Atlantico, perché il Pacifico, con il nome che si ritrova, non credo possa mai essere solcato da alcun pirata che si rispetti!

    Ma tant’è, poiché altro non abbiamo e alla bisogna, la nostra goletta, ce la faremo bastare.

    Cercate ora, però, di vedervela dinanzi, così potrete iniziare a prendere confidenza con quel piccolo grande mondo – giardino, villaggio e al tempo stesso universo lontano – dentro il quale la straordinaria, ringhiosa e malandata umanità di cui sto per narrarvi le gesta ha vissuto per gran parte della propria strabordante nonché abbordante vita.

    Per essere stringati, l’imbarcazione era sormontata in verticale da soli due alberi, uno di maestra, che è quello principale al punto che qualcuno lo definì corona, onore e ardire del bastimento, e l’altro di trinchetto, e qui non vi spiego nulla, anche se potrei, perché questo è semplicemente quello più basso e basta. Poi abbiamo le vele e i cannoncini. Le prime – poche, ad essere schietti

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