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La Mole e La Luna
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La Mole e La Luna

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About this ebook

Andrea e Mwezi, due donne separate dal tempo e dallo spazio. Due donne alle prese con la più grande sfida: un figlio. Entrambe si troveranno ad affrontare emozioni e paure, sfideranno i pregiudizi e si immergeranno nella più grande avventura della loro vita. Supereranno confini, rivoluzionando il concetto di famiglia, allargandolo e ridefinendolo. Due donne capaci di amare che sfioreranno una la vita dell’altra.
LanguageItaliano
PublisherSilvia D.f.
Release dateMar 20, 2015
ISBN9786050366570
La Mole e La Luna

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    La Mole e La Luna - Silvia D.f.

    Le persone sono sempre persone,

    non tasti di pianoforte.

    Perché nessuno può schiacciarti per suonare la musica che piace a loro.

    F. Dostoevskij

    Silvia D.F.

    La Mole e la Luna

    In copertina foto di

    Thèo Dalla Francesca

    Questo romanzo è dedicato a chi ha il coraggio di cambiare, a chi rimescola le carte in tavola, a chi, nonostante tutto, è ancora capace di sognare.

    Capitolo Uno

    TORINO 2013

    Tre gradi, tre gradi! È novembre e ci sono solo tre gradi, guardo fuori dalla finestra della mia cucina, un enorme finestrone in stile liberty, con due imponenti vetri zigrinati, rosso intenso. Appiccico il naso al vetro gelido, l’alito lascia un alone informe, ci passo sopra un dito, disegno uno smile sorridente. Torino, lì fuori, si è vestita di grigio. Non so perché, ma alla mia città questo drappo color pidocchio piace parecchio durante l’autunno.

    Non si distingue nemmeno il profilo sconnesso delle montagne innevate, la foschia copre tutto, un manto morbido e indissolubile, il palazzone di fronte completa l’opera, non lasciandomi intravedere nemmeno il viale. La mia dirimpettaia ha coperto i suoi gerani con un orrendo lembo di nylon, totalmente uguale al colore del cielo.

    Il borbottare della moka mi distrae, distogliendomi dal quadro dai colori informi in cui mi sono calata. In un attimo l’aroma dell’arabica si diffonde per tutta la cucina hi-tech e m’investe. Abbandono la mia postazione all’interno del quadro e mi dirigo verso la piastra elettrica prima che il caffè si rovesci ed io mi debba mettere a pulire in tutta fretta.

    Mi verso una tazza di caffè, ci tuffo dentro due cucchiai di zucchero, riconosco che questo non è molto cinematografico...nei film, i personaggi fighi, il caffè lo bevono sempre amaro e bollente. A me piace a temperatura non vulcanica e dolce. Dicono si perda il gusto del vero caffè. Lo butto giù in due sorsi, m’ infilo in bocca del cioccolato nero e cerco d’istinto il pacchetto di sigarette. È tardi. Ci sono tre gradi ed è maledettamente tardi!

    Mi infilo il soprabito beige, oddio che male queste scarpe! Avrei dovuto lucidarle, ma me ne sono completamente dimenticata, se avrò la fortuna di passare per un’aiuola umida, potrò contare sull’erba bagnata per un effetto lucido.

    Ciao Amore buona giornata...

    La sua voce, un suono gutturale, mi arriva sbiascicante dal fondo della camera buia.

    Ciao

    Gli rispondo in maniera frettolosa e poco convinta, mi risparmio qualsiasi affettuoso nomignolo. È tardi.

    L’ascensore arranca qualche piano più sotto, intrappolato nell’enorme gabbia di metallo. Nei vecchi palazzi di Torino, gli ascensori sono tutti così, trasudano nobiltà, s’inerpicano per le spaziose trombe delle scale, cigolando e ci mettono una vita per arrivare, soprattutto se l'inquilino del piano di sotto si ostina a tirare fuori uno per volta i sacchetti della spesa.

    È tardi.

    Prendo al volo le scale, aggrappandomi al mancorrente lucido e levigato.

    Mi fiondo nell’umidità torinese, sento i capelli arricciarsi, mi alzo il bavero del soprabito, rabbrividisco e mi stringo alla mia ventiquattrore in eco-pelle.

    Mi accodo alla fila di persone che, diligentemente, si avviano verso le scale mobili della metropolitana.

    Ognuno perso nel proprio delirio ritardatario.

    Come ogni mattino, mi restringo il più possibile per entrare tra le porte della metropolitana più bella d’Italia. Poche fermate e la folla mi spinge fuori, sputata malamente sul marciapiede. C’è puzza di carne, qualcuno si ostina a non lavarsi, forse pensando che il freddo congeli anche il tanfo, ma quello, più ostinato che mai, fuoriesce a zaffate. Accelero il passo, trattengo il respiro e sorpasso la fila. È quasi inebriante l’aria di Porta Susa, quando le scale mobili mi riportano, finalmente, in superficie. Mi avvio impettita, pronta a travolgere chiunque, verso lo ufficio.

    Percorro via Cernaia sotto i portici, alti e coperti di smog. I tram sferragliano al mio fianco, traballano sui binari lucidi, le auto schizzano veloci, guidate da altrettanti schizzati automobilisti. Dal fornaio all’angolo fuoriesce il profumo fragrante del pane caldo, non ho tempo di fermarmi.

    Le porte automatiche dai vetri opachi del mio ufficio si spalancano, fredde, come ogni mattina, m’inghiottono per un’altra giornata. È una serie di buongiorno che m’investe, sorrisi di cortesia e la sensazione di commistione con tutta questa gente.

    Il mio ufficio è enorme. Due pareti sono totalmente coperte da un’elegante libreria in mogano. Sfilze di libri soggiornano nella medesima posizione da decenni. La mia scrivania guarda alla porta, alle mie spalle si apra un’importante finestra.

    Un’altra finestra mi offre l’affaccio su un elegante parco, che ormai di elegante ha ben poco. Diversi senza tetto hanno eletto le panchine come loro stabili dimore, pile di cartoni, coperte, sacchetti logori, fungono da armadi, sedie o da qualsiasi altro tipo di mobilio. Li vedo scambiarsi giornali o cibo durante la giornata, a volte litigano e le loro grida si arrampicano veloci sull’elegante facciata della palazzina del nostro ufficio. Le mie colleghe si affrettano a chiudere fuori le urla, vogliono tenerli lontani, come se chiudere fuori quelle grida corrispondesse a esiliarli. Un vetro sottile per separare due mondi. Illuse.

    Per fortuna quell’arpia non è ancora arrivata. Appendo il mio soprabito dentro l’armadio a muro, accendo il pc. Verso il tè verde dentro il thermos e lo lascio in infusione. Il profumo che esce dal sacchetto di carta riciclata mi spedisce in India, a Ceylon. Lei mi manda a comprarlo in una farmacia in pieno quadrilatero romano; il farmacista mi guarda dall’alto al basso quando entro. Con aria assorta infila quella sua mano scheletrica, munita di palettina d’acciaio all’interno del vecchio vaso e versa le minuscole foglie di tè all’interno del sacchetto. Ogni tanto mi lancia qualche sguardo inquisitore da dietro la montatura invisibile degli occhiali. Si chiederà di certo cosa diavolo me ne faccia di tutto questo tè verde, che te ne frega, gli rispondo io sibilando e sorridendogli falsa. Poi allungo la mano, mi impossesso del prezioso pacchetto e me ne vado a culo dritto. Odioso! Il suono del telefono mi riporta alla realtà del mio ufficio. Schiarisco la voce e rispondo come mi hanno insegnato, educata, mono tonica. Segno l’appuntamento sull’agenda elettronica e mi appresto a riordinare l’archivio.

    Durante la mattinata prendo un altro paio di appuntamenti, rispondo ad almeno una ventina di improbabili amici del capo, esco a comprare i beni di sua primaria necessità.

    Oggi non ho voglia di incorrere in una delle sue sfuriate nel caso non trovasse le sue barrette energetiche o l’acqua fresca sulla scrivania. Mi ributto nella frenesia mattutina di Torino, questo quartiere potrebbe sembrare la city di Londra, uomini in cravatta, segretarie che barcollano su tacchi dodici, veloci ed eleganti come pantere. Mi perdo per le vie del centro, mischiandomi nella bolgia, anch’io barcollo sui miei tacchi, bassi, ma barcollo comunque. Lascio che le persone mi passino amabilmente davanti in coda, mi fumo una sigaretta, mangio una brioche ripiena di crema e fragole; poi mi metto il cuore in pace e rientro in ufficio, sperando sempre che un improvviso attacco di dissenteria la inchiodi sul cesso di casa, invece, ci fosse stata una volta che il fato mi abbia ascoltata!

    Mi accorgo sempre di quando arriva, l’agitazione investe l’ufficio con la forza di un tornado. Le segretarie cominciano a sgambettare più veloci, le centraliniste si innervosiscono sulle sedie. Gli sguardi si fanno veloci, inquieti e poi eccola, nello splendore dei suoi cinquant’anni, apparire sulla porta.

    Capitolo Due

    GREAT RIFT VALLEY (KENYA) 1890

    Mwezi si abbassò di colpo, nascondendo la testa liscia e levigata dietro un cespuglio spinoso, cercò un varco tra i rami e scrutò dalla parte opposta. Non si erano accorte di nulla, continuavano placide nel loro brucare. L'odore intenso le percosse le narici, si strofinò il naso allontanando le mosche appiccicose. Fece ancora un paio di passi in avanti, affondando i piedi nella polvere rossa. Si mosse veloce e in silenzio, aggirando i folti cespugli, sbatté le palpebre, non erano lontane, si riparò gli occhi con la mano, il caldo a quell'ora era, come sempre, insopportabile, nel silenzio raccolse la lunga lancia affilata, piegò il gomito all'indietro, tenne la lancia in perfetto equilibrio, chiuse un occhio, prese la mira e con tutta la forza che aveva in corpo scagliò la lancia in avanti. Lo spostamento d'aria le solleticò la guancia liscia. Ritrovò velocemente l'equilibrio, prima di cadere nel cespuglio spinoso. Il sibilo nell'aria fu appena percettibile, le orecchie puntute e striate delle gazzelle si piegarono tutte all'indietro, in una strana danza, la lancia passò fulminea tra loro. L'otarda cadde, aprendo le grosse ali in cerca di un balzo, nell'ultimo disperato tentativo di spiccare il volo, verso il cielo, lontana dal pericolo, ma la lancia la raggiunse nel petto, affondando.

    Il grosso uccello cadde nella polvere. Le gazzelle scapparono in uno scatto fulmineo, utilizzando ognuna una traiettoria diversa per confondere il nemico. Mwezi uscì dal cespuglio, si guardò con attenzione intorno, a quell'ora calda del giorno i grossi predatori dormivano, ma era già capitato che qualcuno fosse attaccato, scivolò veloce verso l'otarda, la raccolse e prima di caricarsela sulla spalla ringraziò gli spiriti che le avevano permesso di cacciare. Girò la punta aguzza della lancia nella carne ancora calda dell'otarda, quando fuoriuscì, versò alcune gocce di sangue nel terreno, le coprì con la polvere per evitare che l'odore del sangue attirasse qualche predatore, si sporcò la fronte con la polvere rossa e si caricò infine l'otarda sulla spalla.

    Una squadra di scimmie le attraversò veloce la strada, si arrampicarono sugli alti arbusti, qualcuna si perse nel folto dell'erba secca, le più piccole correvano dietro le madri, saltando sulle schiene pelose per essere trasportate.

    Saltellò con loro, i pesanti bracciali risuonarono, il legno colorato cozzò contro le perline e le ultime scimmie scapparono impaurite. Rise e i denti bianchi splendettero nel riverbero del sole africano.

    Mwezi guardò l'orizzonte, lì, fin dove arriva lo sguardo, svettava la grande montagna, la cima coperta da uno strato bianco luccicante. Si diceva che qualcuno ci fosse arrivato, dopo molte lune di cammino, ma si erano tutti fermati alla base delle pendici, agli spiriti degli antichi non piaceva l'idea che qualcuno invadesse la sacra montagna bianca.

    Vide il fumo sollevarsi in sottili volute dal suo villaggio. Alcune giovani arrivavano da un sentiero stretto e pietroso con grandi contenitori sulla testa, in perfetto equilibrio, sapeva di dover essere con loro, distolse lo sguardo e aggirò la prima capanna del villaggio, preferendo passare dal viottolo esterno piuttosto che attraversare l'apertura centrale dove ardevano già i fuochi.

    Lasciò che l'otarda le scivolasse dalla spalla, appoggiandola alla grossa stuoia che sua madre aveva tessuto subito dopo essere entrata in quella capanna. Sapeva che si sarebbe arrabbiata, non doveva andare a caccia, non era cosa per lei.

    Si sarebbe infuriata, l’avrebbe guardata con quelle due fessure torve che aveva al posto degli occhi, si sarebbe passata le mani sulle guance scavate, invocando lo spirito di Enkai su quella sua figlia strana, poi avrebbe preso l'otarda e l’avrebbe messa a cuocere sotto uno spesso strato di terra.

    Il kraal interno del villaggio era vuoto, il bestiame era ancora al pascolo, i suoi fratelli erano usciti prima che il sole sorgesse, persino il più piccolo, che a malapena riusciva a correre, era andato con loro. Sentiva il loro canto arrivare da lontano, trasportato dal vento insieme alla polvere.

    La capanna di sua madre era la seconda in ordine di arrivo, ciò voleva dire che lei era la seconda moglie di suo padre, alcuni dei suoi fratelli più piccoli vivevano ancora con lei, ma lei no. Lei viveva con le sue sorelle in un'altra casupola ovoidale, con una piccola apertura sul davanti. Le pareti fatte di rami intrecciati e sterco di mucca. Le mandavano a raccoglierli spesso, ogni qualvolta il sole cuoceva e sgretolava le pareti fetide. Il suo compito era questo: recuperare il materiale per la manutenzione delle pareti, pulire il kraal e andare a prendere l'acqua. Non le piaceva. Nulla di quello che le veniva chiesto le piaceva. Lei voleva uscire con i suoi fratelli all'alba, appoggiarsi alla lunga lancia con un solo piede come una gru. Voleva inspirare l'odore acre della savana, ripararsi alla discutibile ombra di un'acacia, voleva cacciare un leone. Non poteva farlo, doveva fare altro, e quell'altro proprio non le andava a genio.

    Lei apparteneva alla sua famiglia, e le sue braccia servivano a loro, almeno fino a quando suo padre non avrebbe deciso di darla in sposa.

    Sposa. Questa parola l’angosciava. Non voleva essere una sposa.

    Il suo nome era Mwezi, aveva quattordici anni e viveva sull'altipiano.

    Mwezi non voleva essere una sposa, voleva essere libera, voleva avere le sue mucche e la sua casa.

    Il suo nome significava Luna.

    Raggiunse il kraal al centro del villaggio, l'enorme recinto all'interno del quale dormiva il loro bestiame, doveva essere riparato ogni giorno, vide le altre donne già intente ad intrecciare i rami. Di lì poco, all'orizzonte sarebbe stato possibile vedere l'enorme nuvola di polvere dipingere il cielo di rosso e tutti sarebbero corsi ad accogliere la mandria che tornava dal pascolo. Si allontanò dal villaggio verso un gruppo di acacie alte e spinose, lì avrebbe trovato sicuramente i rami secchi che le sarebbero serviti per riparare il kraal, la polvere della savana era morbida sotto i suoi piedi callosi, calda, la sentiva scivolare in mezzo alle dita. Sentì un gorgoglio solleticarle lo stomaco, fame, pensò alla succosa carne che arrostiva e che quella sera avrebbe mangiato intorno al fuoco.

    I rami delle acacie pungevano, evitò le lunghe spine, li legò in un fascio con un robusto filo di erba e sentì nelle narici arrivare l'odore intenso della polvere e delle vacche. Si arrampicò su un termitaio, socchiudendo gli occhi. Eccoli.

    Tornò correndo verso il villaggio, con il suo fascio di rami secchi; non aveva fatto il suo lavoro, qualcuno se ne sarebbe accorto sicuramente e per lei sarebbero stati altri guai, di nuovo. Arrivò poco prima che la mandria facesse il suo ingresso nel villaggio e che le urla delle donne la conducessero all'interno del grande kraal. Sapeva che non avrebbe mai fatto in tempo a riparare la parte mancante e chiese ad Enkai di essere benevolo e di tenere lontani quella notte tutti i predatori. Non potevano permettersi di perdere il bestiame, le vacche e i tori dalle lunghissime corna ricurve, erano la loro vita, erano la loro famiglia. Afferrò una grossa zucca vuota e cominciò a strillare anche lei, spinse i grossi vitelli all'interno del kraal, tirando secche pacche sulle loro docili cosce. Nel giro di poco la mandria fu all'interno del kraal e tutte le giovani del villaggio si misero all'opera. Si guardò intorno per individuare quella giusta, poi si avvicinò, le mormorò parole di benvenuto nelle orecchie basse e intonando una canzone si accovacciò sotto di lei per mungerla.

    Capitolo Tre

    Tutti i giorni ha qualcosa di strano che le solletica il cervello. Mi chiedo se queste idee assurde le pensi di notte o le appaiano in sogno. So solamente che ogni mattina tremo in attesa delle sue richieste irragionevoli e spero che non veda mai le mie nocche sbiancare per la tensione, quando stringo forte i pugni, all'estremità delle mie braccia, rigide lungo il tailleur. Voglio una granita! Oggi è questa la novità! Vuole una granita, a novembre, a Torino, una granita? Ma che sei incinta? No, una donna incinta sarebbe certamente più ragionevole, non si sognerebbe mai di mandare qualcuno in cerca di una granita in questa stagione. Invece lei si, ho girato tutti i bar del centro e ho chiesto una granita sottovoce, cercando di sembrare il più disinvolta possibile e ho sempre specificato che nooo... ma va, non è mica per me...è per una mia amica, si...certo che è incinta...ti pare??!!. Niente. Forse a Favignana avrei avuto più fortuna ma qui a Torino, qui no: Le granite arrivano a maggio, forse giugno, signorina.

    E così sono tornata in ufficio di pessimo umore, ben sapendo che mi sarei presa per l'ennesima volta dell'incapace. Lei è uscita, è andata a prendersi un tè in piazza San Carlo con un suo amico avvocato. Razza di stronza, mi manda in giro a cercare una granita e poi che fa? Va a prendersi un tè. Mi rimetto alla mia scrivania, ho ancora del lavoro da sbrigare, riordinare l'agenda per i prossimi giorni, decidere se andare prima a pagare la retta della scuola privata dei figli o chiamare l'Alitalia per chiedere conferma dell'orario del volo. In qualunque caso dovrò fare entrambe le cose, devo inoltre incastrarmi con gli altri impegni, è una settimana che non mi presento in palestra, chissà se mi hanno dato per dispersa. La spesa! Devo passare a fare la spesa, non c'è speranza che Claudio si ricordi che

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