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Un giorno come ieri
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Un giorno come ieri

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About this ebook

Un manoscritto ritrovato spalanca le porte all’inaccessibile tema della verità inseguita a tutti i costi. In un’altra epoca, pettegolezzi, invidie e scandali tracciano la narrazione di questo romanzo allegorico e intangibile, come le deformi maschere dei protagonisti. Un pingue medico di provincia, un fabbro, un prete, un farmacista, due giovani sposi, una fanciulla… e poi un’ingannevole parata di prove e smentite, fino a giungere ad un epilogo del tutto inaspettato. Un contesto narrativo apparentemente lontano, tuttavia più che mai attuale. Una triste metafora sulle indiscrezioni dapprima ridicolizzate, poi violentate e infine contestate. Una malinconica immagine sull’inconsolabile consapevolezza di sopravvivere soltanto alle proprie interpretazioni.
LanguageItaliano
Release dateSep 10, 2015
ISBN9786050414646
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    Un giorno come ieri - Emiliano D'alessandro

    Emiliano D'Alessandro

    Un giorno come ieri

    Emiliano D’Alessandro, nato a Chieti nel 1973, vive e lavora in Abruzzo. Giornalista e scrittore, collabora con diversi giornali e periodici. Per la TV, oltre ad aver realizzato centinaia di servizi, ha ideato, scritto, sceneggiato e condotto, una trasmissione: Libri nell’Ombra, che presenta in modo originale scrittori emergenti di tutta Italia e le loro relative opere letterarie. Il suo primo romanzo, La collina dei fuochi fatui, uscito nel 2008 in tutte le librerie, ha ottenuto importanti riconoscimenti.

    UUID: b9cf9e4e-5a7a-11e5-b202-119a1b5d0361

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Ringraziamenti

                  Un grazie particolare è diretto ad Andrea De Carlo che, con estrema sensibilità, ha creduto e sostenuto la mia opera indicandomi vie di pubblicazione oggi all'avanguardia.

                    A Martina ed Emanuela per aver supportato e sopportato ogni mia ossessiva stravaganza filologica.

                    Inoltre, un ringraziamento e un sincero abbraccio è rivolto a tutte quelle persone che, in qualsiasi forma e maniera, hanno manifestato l’impaziente desiderio di leggere un mio nuovo romanzo. 

    A Severino

    Il desiderio non può, per la sua stessa natura, 

    essere soddisfatto, 

    ma la maggior parte degli uomini 

    vive solo per soddisfarlo.

     (Aristotele)

    Prologo

    In men che non si dica mi ritrovai a percorrere un vecchio sentiero di campagna.

    Attorno a me tutto si mostrava meraviglioso e virtuosamente perfetto. Alle mie spalle il casolare - contemplativo e stabile come i languori ineffabili delle genuine tenerezze - sembrava s’allontanasse insieme al suo ricco passato d’impenetrabili storie di desideri senza forma e di amori senza amanti. Quel giorno la natura pareva essere incontaminata e non ancora profanata dai segni imperfetti degli umani. I petali dei fiori somigliavano a lacrime colorate, mentre l’aria che respiravo possedeva il titanico peso di uno straordinario, quanto organizzato, caos. La quiete che assediava il mio cervello crivellava brutale i miei timpani e la mia anima.

    Era un anonimo mese d’agosto di tanti anni fa quando m’invitarono in campagna. Consanguinei vanitosi, per essere più precisi, cugini, che, col pretesto di esibire a tutti i parenti la vecchia casa di famiglia in via di ristrutturazione, coglievano la tediosa occasione per concedersi a quelle patetiche rimpatriate stracolme di cibi unti e vino rosso servito in bicchieri delicati e inquietanti. Guai a me se negassi che l’impudico vitto fosse gustoso, tuttavia non posso non ammettere una sorta di disagio nell'affogare nei soliti noiosi discorsi del tipo: Ricordi quando eravamo bambini? Si giocava sempre all'aria aperta, e altre amenità sul medesimo smielato argomento.

    Approfittai dell'intorpidimento generale post-pranzo per fare due passi.

    Avvicinandomi a quella che un tempo era adibita a stalla, tra cicale impazzite e querce secolari, vidi il rustico da un'altra prospettiva. Non più di quaranta metri, eppure quell'esiguo tratto mi fece osservare il casolare alla stessa maniera di come l’ammiravo da bambino. Mi vennero i lucciconi agli occhi, ma non fecero in tempo a scendere sugli zigomi che subito mi resi conto quanto, anch'io come i miei satolli congiunti, mi stessi lasciando andare a ricordi fin troppo uggiosi.

    Mi ricomposi dignitosamente sforzandomi di pensare al futuro. Mi avvicinai alle ruvide mura con l'animo svecchiato, di chi ha sicura intenzione d'immaginare quante altre persone ancora avrebbero varcato la soglia della vecchia casa. Superai il basso cancelletto in legno ed entrai in soggiorno senza far troppo rumore. Riposavano tutti esibendo impavide bocche spalancate, le labbra turbate dal vino e gli addomi gonfi come zampogne. Iniziai a percorrere i corridoi e le stanze cercando di capire come la ristrutturazione avrebbe abbellito ciò che era di per sé già affascinante.

    Nel mio silenzioso peregrinare ogni oggetto, ogni angolo, qualsiasi minuscolo ninnolo, e perfino il tanfo stantio che sbottava dalla carta da parati, mi trasportava ai tempi dell'assoluta spensieratezza di molte estati fa. Le foto sul tavolino della buonanima della zia avevano preso il colore del tempo, ma per me erano scintillanti e attraenti come tanti anni prima. Persino la polvere incastonata tra le pieghe del legno delle poltroncine di velluto verdi, possedeva il carisma dell'immortalità. E chissà, forse erano davvero eterni quegli oggetti all’apparenza inanimati. Infatti tutto sembrava immobile, e allo stesso tempo tutto appariva straordinariamente dinamico e vivo. Ogni cosa pareva parlasse, e il buffo di quel giorno è che con gli occhi potevo rispondere.

    A pensarci ora, non mi capitò mai più.

    Continuai a camminare lento, incrociai la libreria, e mi resi conto che sugli scaffali regnassero gli stessi libri di venti anni prima. Stessa collocazione disordinata, stessa fragranza di carta impecorita; però sembravano tristi, forse perché nessuno li consultava più o perché avevano smesso di svolgere il loro primitivo compito, semmai un libro possa mai cessare d’essere utile.

    Scesi le scale che portavano a quello che un tempo era il seminterrato, successivamente convertito in cantina per la trasformazione dell’uva in vino. Le pareti, contrariamente a quelle del piano superiore, erano prive d’intonaco, e il tanfo di muffa aspra spingeva in gola. Gli antichi attrezzi dello zio erano ancora tutti lì, compreso l’immobile torchio: opacamente bruno all’esterno e meravigliosamente vermiglio all’interno; indelebile impronta della tinta del mosto. Anche per quegli arnesi il tempo si era fermato, le ragnatele contrassegnavano il sigillo di garanzia dell'immutabilità delle cose.

    I massicci tramezzi possedevano mille fori e profondi antri. Ricordo come fosse oggi la disposizione di molti utensili all'interno di quelle nicchie. Martelli, raspe, chiodi, tenaglie, bottiglie e affari di ogni genere erano inseriti dentro quei cassetti naturali. Tutti collocati in un ordinato disordine che soltanto lo zio sapeva come destreggiarsi per recuperare un oggetto in pochi secondi. Egli era l'amministratore unico di quei pertugi, e guai a chi provava ad infilarci le mani. Era tutto così straordinariamente bello se ci rifletto adesso; chissà se dopo la sua morte zia sistemò quella cianfrusaglia. Da ciò che potevo ricordare - e dallo spessore di polvere e ragnatele - la cantina fu a lungo abbandonata. Tuttavia a me piaceva più così, rendeva bene la sensazione di staticità; pareva offrisse la malinconica impressione che di lì a poco spuntasse mio zio con la stessa angoscia di sempre: quella di camminare in compagnia di un bastone indiscreto.

    Salutai con lo sguardo lo scantinato e presi di nuovo le scale, quando notai sulla mia destra una nicchia chiusa con un mattone. Era strano che la buonanima ne avesse chiusa una, in fondo soltanto lui aveva accesso a quei piccoli loculi. Rimasi a guardare quel mattone come fossi ipnotizzato. Confesso, non senza imbarazzo, d'aver fantasticato di antichi tesori e scrigni pieni zeppi d'oro, ma poi, definitivamente uscito dai suggestivi racconti di Salgari, mi ritrovai di nuovo di fronte a quel rettangolo d’argilla. Sembrava mi guardasse, non ero soltanto io a guardarlo, ma anche questo a guardare me. Mi convinsi che mi stava proprio fissando, come volesse lanciarmi una sfida. E io raccolsi volentieri quella provocazione! Stesi il braccio, lo afferrai e guardandolo come il boia guarderebbe il condannato a morte, lo tirai a me.

    Lo estirpai come una pianta dalle fonde radici e lo buttai alle mie spalle. La nicchia ormai aperta mostrava soltanto un foro cavernoso e tetro. Non avevo fiammiferi in tasca, quindi, un po' riluttante, infilai timoroso la mano al suo interno. Niente! Non c'era un bel niente dentro quel cassetto a muro. Roteavo la mano sulle quattro pareti strette, ma nulla. Allora entrai più in profondità introducendo metà braccio, ma i risultati erano tali e quali ai precedenti. Iniziavo ad assaporare la sconfitta della sfida raccolta.

    Certo è che essere battuti da un mattone non era poi così edificante, tuttavia avevo giurato a me stesso che non avrei menzionato a nessuno quel grottesco episodio. Il senso di scrupolo - visto ormai che il braccio era all'interno di quella trappola - fu quello di conseguire almeno un risultato: toccare la quinta parete e come sopraffatto tornare su, dai parenti anestetizzati dal vitto.

    Nonostante l’audace proposito, non riuscivo nell'intento: o il mio braccio era troppo corto o quell'affare era troppo profondo. Cercando di allontanare dalla mente quali minuscoli e orripilanti forme di vita potesse contenere quel parallelepipedo, giunsi a schiacciarmi il viso alla parete, con la vana speranza di lambirne il fondo. Disgustato e inquieto ci riuscii. Tastai la fine del muro con le dita rendendomi conto di non toccare nulla. Fu l'ultimo sforzo a darmi una scossa di pura adrenalina, quando, spostando la mano da destra a sinistra, urtai qualcosa. Terminato l'effetto adrenalinico ebbi timore di cosa avessi potuto toccare, anche perché la consistenza era pressoché morbida e secca allo stesso tempo. Mi allontanai istintivamente da quella cosa, per tornarci cauto con la sola punta del dito medio. Sfioravo qualcosa che, non solo pareva plastica, ma produceva uno strano crepitio. Ormai certo che non potesse trattarsi di una feroce creatura, il dito medio si accompagnò all'indice, poi all'anulare, quindi al mignolo, fino a brandire qualcosa che godeva di una modesta consistenza. Trascinai cauto quell'oggetto verso l’uscita, trovandomi tra le mani una busta di plastica corpulenta, arrotolata più volte su se stessa.

    Custodiva un oggetto non più grande di un libro, e anche il peso rispettava le dimensioni del mio modello. Srotolai la compatta busta e finalmente potei sbirciare al suo interno.

    Non trovai monete d'oro, né pietre preziose, ma solo carta, tanta vecchia carta appassita dal tempo.

    Per l'esattezza erano centinaia di fogli piegati in due e scrupolosamente numerati uno per uno. Non impiegai molto a notare che, a parte la numerazione in calce, quelle pagine erano fitte di annotazioni e scritte.

    Rabbrividendo mi chiedevo cosa avessi scovato. Un istante dopo, un irreale pugno allo stomaco segnò il mio stupore: la calligrafia dello zio.

    Ma quanto scrisse? E soprattutto, cosa aveva scritto? E perché nascose i fogli? Da quanto tempo soggiornavano in quell’anfratto?

    L'unico modo per dare risposta almeno a una delle mie domande, era fare la cosa più ovvia e logica: leggerne il contenuto.

    Mi affrettai a riporre nella busta quel fagotto assicurandolo sotto la camicia, riposizionai il mattone nella fessura e tornai in soggiorno. Una scusa maturata al momento mi autorizzò al congedo dall’ormai svigorito convivio.

    Il viaggio in macchina, nonostante fosse relativamente breve, sembrò più lungo del solito. La curiosità di leggere ciò che aveva scritto mio zio rendeva ogni cosa superflua, dilatando i minuti e perfino i secondi. Entrai in garage urtando con il paraurti la parete di fronte, salii gli scalini due per volta, attraversai il salotto, salutai mia moglie con un bacio fugace e mi barricai dentro lo studio.

    Senza troppi scrupoli, e in un sol colpo, liberai la scrivania da appunti, documenti e manuali. Da sotto la camicia estrassi l’involucro incellofanato e lo poggiai sullo scrittoio.

    Dopo essermi sistemato sulla poltrona, iniziai a fissare quei fogli piegati.

    Non potevo crederci, ero lì, dinanzi a essi e stavo per leggerli. Probabilmente l’aspettativa era tanta, sarà che ho sempre avuto una fervida immaginazione, fatto sta che preferivo fantasticare racchiudesse antichi segreti, magari codici da decifrare e cose del genere. Come svegliatomi da un morbido intorpidimento decisi di dare avvio alla lettura.

    Nonostante le bramosia di trangugiare chilometri d'inchiostro nero, stesi i fogli con gran calma; forse per godere ancora di qualche istante di quell’indefinibile sensazione masochistica di gioia e struggimento.

    Con la pressione del dorso delle mani cercai di restituire alla carta la sua forma originaria, ma nonostante lo sforzo i fogli rimanevano leggermente piegati su se stessi. Non importava, in fondo sembrava che avessi tra le mani un vecchio libro; la circostanza mi intrigava ancor di più.

    Nei primi due fogli c'era ben poco da leggere poiché mio zio si era divertito nel disegnare sagome completamente prive di significato. Linee rette e linee convesse, forme geometriche buttate lì alla rinfusa. L'unico schizzo che più somigliava a una fisionomia umana fu il palmo di una mano dischiuso. Peccato che l’unica figura comprensibile venne deturpata da una linea retta che fendeva in parte il palmo; aveva l’aspetto di uno squarcio lungo e profondo, quasi a lambirne il polso: una sorta di cicatrice.

    Appurate le inclinazioni artistiche dello zio, giunsi finalmente alla terza pagina dove, e riporto fedelmente, al centro scrisse:

    Sti fogli de carta m’becorita stipati d’annotazioni e longhi concetti, li truvai casualmente in un cassetto di n’armadio abbandunato nella scarpata di Vallecoste. Mi truvai lì per rastrellà n’po’ di legna quando, tra li rovi appuntiti come li spilli di ‘na balia, vidi ‘sto grosso guardaroba mezzo sfracassato. In mente mia dissi che sicuramente fu buttato giù per la scarpata da lu lato nord, quello chiù alto, picchè erano evidenti li segni de lu violento capitombolo. Ciò che però mi stunava, è che la via de lu lato nord de lu dirupo è nu sentiero, pignente camminabbile da mezzi a motore, e purtà n’armadio cuscì grosso là, con la sola forza de li muscoli, rimane n’operazione da fattucchiera. M’accurgei che lu guardaroba sembrava essere là da assai tempo; infatti lu muschio verde s’era attaccato al lu legno. Però, qualcosa mi stunava: picchì lu muschio s’appiccichi come la colla a nu pezzo de legno, ci vogliono mesi interi, anni, ma io ero stato a Vallecoste sulamente ‘na settimana prima, e quel bestione sfracassato lì nun ci stava. Non posso ‘mmaginà a chi putesse appartenè, consideranno che nisciuno ietterebbe via n’armadio accuscì, e di ‘sti tempi poi, men che meno. Nella vita mea ammetto d’aver letto assai poco, e mai riuscii a finì nu libbro: ‘sti fogli invece me li ‘so mangnati in tre notti.

    Se li fatti che si raccontano di chella storia addavvero successero oppure no, mai lo verrò a sapè, come mai verrò a sapè lu nome de lu scrittore, visto che ‘nzò trovato nisciuna firma, manco nu scarabocchio. Ma sento lu sacrosanto duvere di custodì gelosamente ‘ste paggine. Pe mò li stipo a nu posto sicuro, nu giorno li consignerò a lu figlio di mio fratello, l'unico de la casa che sta studia stè cose che riguardano di libbri e robba del genere. Sarà sicuramende nu dono assai gradito.

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