Alla ricerca di Padre Sorin
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I due sono catapultati, loro malgrado, in una storia allucinante, mentre sono impegnati alla ricerca di un religioso scomparso tra le montagne di Las Mitras che dominano la città di Monterrey.
Si tratta di un gesuita di nome Sorin. I due non hanno altre piste se non il loro intuito di ricercatori. Ma questa ricerca porterà i due all’interno di una realtà messicana povera, dove sta nascendo il cartello dei narcotrafficanti, i quali sempre sospettosi degli statunitensi li scambieranno per infiltrati agenti della Cia.
Ma l’indagine porterà i due protagonisti a incontrare demoni, uno dei quali passa per essere il più pericoloso e mellifluo perché ingaggia tenzoni teologiche con le proprie vittime. Colpi di scena e misteri.
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Book preview
Alla ricerca di Padre Sorin - Roberto De Giorgi
sull’autore
L’archeologo, tra passione e fede
Scendo le scale non più di corsa, piuttosto le salgo anche con un leggero affanno. Però sono molto lucido, nonostante abbia appena festeggiato con gli amici i settantacinque anni di età con il vecchio Sam, il giornalista reporter, anche lui in congedo e altri ex colleghi della scuola mineraria di El Paso nel Texas.
Sono Nelson Bentham Mill, per chi ha letto le mie memorie precedenti, conosce un po’ della mia storia personale, i nuovi lettori dovranno recuperare gli altri libri o comunque prendere nota dai miei ricordi. I ricordi di un anziano sono sempre più nitidi, specie se il passato è più remoto. Riguardo la mia esperienza di docente, mi chiamarono tre anni fa, ora siamo nel 1970, quando fu finalmente proclamata Università. Sono considerato un professore emerito, ricordato come un personaggio un po’ visionario, ma apprezzato dagli allievi. Soprattutto un fatto avrebbe colpito tutti, accaduto nel 1965, quando per alterne vicende fui scaraventato nell’avventura finale della mia vita professionale con risvolti religiosi. Ma ne parlerò in questo libro.
Mi sono sempre chiesto se valesse la pena scrivere. Ho atteso alcuni anni per parlarne. Anche perché dovevo raggiungere una età importante, dovevo essere fuori dalla scuola, scrivere per me stesso, più che per gli altri. Soprattutto quando l’emozione per le vicende vissute si fossero attenuate e sedimentate nei ricordi. Per poterle richiamarle dalla memoria con serenità. Un pezzo per volta, senza eccedere.
Fino a quel momento la vita era scorsa tranquilla, dopo le burrascose vicende della Guerra e quella avventura che, io e Sam, vivemmo a Napoli.
Per tutta la mia vita avevo dato una sterzata ad una professione, quella di archeologo che mi aveva trasportato dentro la Bibbia. Cosa m’era stato richiesto? Cosa dovevo dimostrare? Era per questo mio assillo professionale o il bisogno di fede del ricercatore? Eppure Napoli, durante la guerra aveva rappresentato un momento importante, di fronte alla delusione professionale che metteva a rogo l’entusiasmo giovanile, e la Croce mi richiamava alla responsabilità personale avuta nella guerra, ai morti che, in parte, erano dipesi anche da me. Ma anche a coloro che erano stati lasciati per strada. Io appartenevo ad una nazione che usciva dal terzo conflitto mondiale, in modo quasi indenne pur considerando i 290 mila commilitoni uccisi, nulla in confronto ai 55 milioni di morti, due terzi dei quali civili; oltre 32 milioni nella sola Europa, di cui 20 milioni i sovietici (il 12% della popolazione) e 5 milioni i tedeschi; in Estremo Oriente 13 milioni di cinesi uccisi e quasi 2 milioni i giapponesi. Europa, Giappone, intere aree della Cina erano distrutte; 25 milioni i senzatetto in URSS. Città rase al suolo dai bombardamenti o cancellate dalla bomba atomica. La Croce sanguinava, era questo il messaggio per me che m’ero portato a casa e sul lavoro. La mia stanza era piena di croci.
Ero tornato in America, nella mia città. Devo dire che, grazie a quello appena scritto, gli anni del dopoguerra in Usa furono migliori che nel resto del mondo. Emergeva la potenza mondiale con una marcia in più. Avevamo vinto la guerra. Non avevamo da ricostruire nulla. Mentre rammentavo Napoli e il disastro delle case distrutte. Il nostro apparato industriale era intatto. Poi avevamo la bomba atomica. Questo era un fatto che non mi piaceva, ma dava al mio paese un potere deterrente incredibile. Con Sam avevo fatto il viaggio di ritorno in una nave portaerei. Per tutto il viaggio il fotoreporter non aveva fatto riferimento ai fatti di Napoli, quando vi accennavo lui ricordava solo la sbornia e si metteva a ridere. Non ne parlammo più.
Per un po’di tempo, rientrati a casa, ci separammo, lui andò a New York e io a El Paso. Ci separavano migliaia di chilometri, ma ancor di più ci separava l’ultima esperienza che avevo praticamente vissuto da solo. Ci separava il lavoro, io sempre dentro l’insegnamento e la ricerca e lui nella cronaca, talvolta frivola e mondana.
La mia scuola sarebbe diventata università nel 1967, fino ad allora, e ancora oggi, è sempre stata nella periferia nord della città, incastonata come un diamante in mezzo a due colline, con un paesaggio brullo e pietroso tutto intorno che prelude al deserto. Per i veterani militari e studenti avevamo un percorso facilitato di sostegno e aiuto. Io insegnavo storia dell’arte, da archeologo non avevo nulla a che fare