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Ucciderò mia madre
Ucciderò mia madre
Ucciderò mia madre
Ebook152 pages2 hours

Ucciderò mia madre

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UNA MADRE, UNA FIGLIA, UN SEGRETO SEPOLTO NEL TEMPO. E UN AMORE IMPOSSIBILE DESTINATO A REALIZZARSI NEL PIU' IMPREVEDIBILE DEI MODI.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJul 21, 2014
ISBN9788891150189
Ucciderò mia madre

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    Ucciderò mia madre - Michela Franco Celani

    ucciderla.

    PRIMA PARTE

    Primo capitolo

    Non c’è stagione come l’autunno che abbia un suo odore. L’autunno sa di castagne arrostite, legna bruciata e foglie fradice anche dove non c’è traccia di castagne e neppure di alberi.

    L’odore dell’autunno combatte contro i miasmi dei gas di scarico e delle ciminiere, contro il lezzo di sudore e d’urina della metropolitana, contro il fetore delle friggitorie e dei fast foods, contro le esalazioni dei bidoni della spazzatura, contro i profumi e i dopobarba a buon prezzo.

    A tratti soccombe, scompare, non lo ritrovi più, ma poi ad un angolo di strada è lì che ti aspetta. Non si crea a poco a poco, non si annuncia: semplicemente, un giorno esci da casa, senti quell’odore, e sai che è autunno.

    Io lo so anche dall’unico albero davanti a casa mia. E’ un albero di una specie indefinita, trascurabile e insignificante sotto ogni aspetto, piantato nel mezzo di un’aiola incolore e senza pretese, con la sola particolarità che le sue foglie appassiscono impercettibilmente e poi, nel giro di una notte, si trasformano in un’esplosione di giallo.

    Sono uscita da casa stamattina con in bocca un buon sapore di caffè e, passando sotto quel precario tripudio d’oro, mi sono sentita bella e desiderata come Danae. Poi stasera, quando sono tornata, dopo un’intera giornata di pioggia e di vento non era rimasta che qualche foglia che spenzolava ancora da un ramo e allora ho pensato, trascinando su per le scale la spesa e la stanchezza, che Zeus neppure stavolta mi ha voluta e forse mi feconderà la prossima volta.

    Lo so anche perché mi devo mettere le calze. Io cerco di resistere il più possibile senza, mi metto le gonne lunghe e i pantaloni pesanti, ma una mattina prima o dopo sento il freddo che sale dall’asfalto e mi s’inerpica su per le gambe e allora capisco che non c’è più niente da fare e che mi devo arrendere alle calze e all’autunno. Mi verrebbe voglia di sedermi in poltrona con un gatto sulle ginocchia, a sfogliare un album di foto dell’estate, ma non ho il gatto e odio le foto. Così l’estate appena passata si dissolve senza lasciar traccia e si trasforma nell’attesa della prossima.

    Non so perché penso a questo mentre tiro fuori la spesa dal sacchetto del supermercato.

    Le mie assenze sono sempre brevi, ma sufficienti a riempire la cassetta delle lettere con un mare di cartaccia che tutte le volte minaccia di scivolarmi da sotto il braccio mentre sulla porta armeggio alla ricerca delle chiavi. L’amministratore ha cercato di arginare l’invasione con il garbato avviso in questo stabile non è gradita la pubblicità, affisso in bell’evidenza sul portone, e da allora è aumentato il mucchio variopinto, traslucido, patinato che informa, offre, chiede, pretende, in un vortice di bottiglie d’olio, neri occhioni sgranati, libri a metà prezzo, batterie di pentole, organi da donare, frati cappuccini, creme miracolose.

    Appena in casa, mi libero dalle scarpe con una pedata, facendole volare a metà stanza. E’ il gesto abituale con il quale ogni volta mi riapproprio del mio appartamento, un modo per dire alle cose che mi hanno atteso – un libro lasciato a metà, il letto sfatto, il plaid sul divano, le piante asfittiche, il dentifricio senza tappo – che sono di nuovo qui. Un giorno o l’altro so che con una scarpa centrerò la lampada sul tavolino del salotto che non mi piace ma che non ho il coraggio di buttare via.

    Quando arrivo a casa non ho mai voglia di fare niente, mi sembra di aver già pagato il mio tributo all’esistenza, al privilegio di arrivare all’indomani per un’altra giornata come questa. Accendo la radio o la tv e mi butto sul divano con le gambe sollevate, mi sento solo stanca, sporca e, poiché in genere non ho avuto neanche il tempo di leggere un quotidiano o di guardare un telegiornale, anche qualunquista e politicamente scorretta. Il peggio è che non me ne importa assolutamente niente.

    Stasera, riponendo la spesa, pensavo - oltre che all’autunno, a Zeus, al gatto e all’album di foto - anche al fatto che io non riesco mai a comprare quello di cui ho voglia, ma piuttosto quello che posso consumare in una volta sola o conservare senza ridurre il frigo ad una pattumiera. Un paio d’etti di spaghetti e un po’ di vino sono una cena per due, un etto solo non vale neanche la pena di cucinarlo e il vino ha il sapore acido dell’osteria.

    Credo di meritarmi un bagno caldo, una pizza scongelata dal microonde e un’aspirina prima di andare a letto. Mi rilasso allo scroscio dell’acqua e al profumo del bagnoschiuma: sono la seconda buona cosa della giornata dopo l’albero d’oro di stamattina. Mentre aspetto che la vasca si riempia, pesco dal mucchio della posta buttata sul tavolo l’unica busta dall’apparenza innocua, una lettera che m' incuriosisce se non altro per l’indirizzo scritto a mano e la raffinatezza della carta. Non so da quanto tempo ricevo solo fax, sms, email, tutta roba che uno non ha neanche tempo di leggere e, se non fa attenzione, è già scomparsa. Me la rigiro tra le mani chiedendomi che cosa, anzi chi, possa essere. Quando dal timbro postale vedo da dove arriva, mi dico che è meglio non aprirla. Così naturalmente l’apro subito e vado ad ingoiare due aspirine.

    La giornata è cominciata male. La notte tutta un dormiveglia agitato e confuso, l’emicrania che non voleva cedere all’aspirina, il treno che partiva senza di me per una serie di contrattempi prevedibili che io comunque non riuscivo a prevedere, un risveglio torpido e già stremato dagli intoppi notturni che mal predispone ad affrontarne di reali.

    Il pavimento è gelato sotto i piedi che annaspano alla ricerca delle ciabatte scomparse, l’impianto di riscaldamento per qualche motivo non si è messo in funzione e l’accendino si rifiuta ostinatamente di accendermi la prima sigaretta della giornata, mentre la moka gorgoglia per conto suo, sputando in giro neri schizzi di caffè.

    C’è a volte una sorda ostilità tra me e le cose cui le cose stesse sembrano abbandonarsi sfuggendomi di mano, smettendo all’improvviso e senza ragione apparente di funzionare, scomparendo e nascondendosi nei recessi più impensati da cui emergono per volontà propria dopo essere state sostituite o semplicemente dimenticate, quasi a rivendicare una loro inquietante autonomia.

    Mentre bevo il caffè sopravvissuto ai sabotaggi della moka e che è nonostante tutto bollente e buono, guardo dalla finestra il buio che preme ancora fuori dei vetri e che con l’andar delle ore si trasformerà in grigio oleoso. Schiacciata da quel peso, la città si sveglia tra gli ultimi cigolii dei letti e i primi sciacquoni; dopo la pausa apparente della notte è come un meccanismo gigantesco e cieco che fatica a rimettersi in moto per costruire, distruggere, nutrire, digerire e defecare se stesso.

    Ho poco più di un’ora di tempo per prepararmi, dare alle piante un po’ d’acqua e qualche parola d’incoraggiamento come consigliano le riviste femminili che leggo dal parrucchiere, lasciare un messaggio sulla segreteria telefonica e trovare un taxi che mi porti in stazione.

    Invece di sbrigarmi, continuo a cincischiare tra le mani la lettera e a fissare con aperta antipatia l’orologio elettronico che pulsa nel buio il suo eterno presente racchiuso in sette tratti. Come la lampada in salotto, anche questo non vedo l’ora che si rompa, così mi comprerò una bella sveglia di latta, rossa e rotonda, con cifre e lancette. In risposta, quello sfarfalla baldanza ed efficienza sotto i miei occhi, trasformando tre cifre in un palpito di luce e una frazione di secondo. Allora capisco che è veramente tardi, che non è il momento di filosofeggiare sulla perduta circolarità del tempo e soprattutto che ho bisogno di un altro caffè.

    Poi, all’improvviso, tutto è pronto persino nonostante me e posso solo meravigliarmi che quella confusione abbia bene o male prodotto una valigia, un biglietto con le istruzioni che la colf comunque non seguirà e un tassista che mi aspetta di sotto.

    L’appuntamento è per le undici, ma io sono uscita molto in anticipo dall’albergo. La notte è trascorsa abbastanza tranquilla, nonostante la camera poco accogliente ed impregnata di quell’odore indefinibile che è la somma di mille odori altrui, ma mi sono svegliata presto. Fallito il tentativo di farmi portare un caffè in camera, ho cercato di risvegliarmi del tutto con una doccia e sono poi scesa nella hall, incautamente confidando nel bar aperto.

    Il portiere ha i modi servili di chi è abituato a procurare ai clienti ben altro che un caffè, ma forse vuole solo essere gentile e con quell’aspetto untuoso e la forfora sulla giacca è vittima dei luoghi comuni sui portieri; comunque ho tagliato corto con il suo consiglio di acquistare dei biglietti per uno spettacolo di balletto per il quale non ho il minimo interesse e mi sono ritrovata fuori nella piazza.

    L’aria è limpida e ancora fredda, i negozi hanno le saracinesche abbassate e in giro c’è poca gente; io d’altra parte non ho nessuna voglia di confusione e mi sento abbastanza in forze da ingannare il tempo girando senza una meta precisa.

    Mi sono addentrata nella città vecchia e ho affrontato il groviglio di viuzze in salita che portano al belvedere. Lì il mare che ci si lascia alle spalle quasi imprigionato tra i muri delle case si apre in una sventagliata d'azzurro metallico. Non si sa se quella vertigine che coglie e costringe ad appoggiarsi alla pietra fredda della balaustra sia dovuta alla fatica della salita o piuttosto a quella improvvisa, accecante vastità che da una parte la collina e dall’altra la linea sottile della costa lontana non limitano ma, al contrario, sottolineano, esaltano, e ci si aggrappa per non essere risucchiati in quel vortice.

    L’inquietudine in cui mi ha sprofondata il laconico messaggio di Renato - tutto riassumibile in un devo parlarti, ti vorrei vedere al più presto e che non ha trovato spiegazioni più esaurienti neppure in un breve colloquio telefonico – è da due giorni come un vuoto allo stomaco che si accentua con l’avvicinarsi dell’incontro.

    D’altra parte ho sempre saputo che prima o poi avrei dovuto risolvere quella situazione sospesa da troppo tempo nel limbo dell’indecisione o, meglio, nella non impellente necessità di dover decidere. Dell’eredità di mio padre – che non so neppure a quanto esattamente ammonti – non ho bisogno e vi rinuncerei volentieri pur di non affrontare un purgatorio di conti, fatture, carte bollate, notaio, banca, amministratore, ma dentro di me speravo si potesse rimandare ancora, di qualche anno o all’infinito. Renato potrebbe continuare ad esercitare il suo blando controllo, come ha sempre fatto dalla morte del fratello, su una situazione economica consolidata e statica che non richiede decisioni o interventi straordinari.

    Dunque, in realtà perché mi ha fatto venire?

    Quell’ansia ha dilatato le ore che mi separavano dall’appuntamento e nonostante la

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