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Nella valle di Cono
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Nella valle di Cono

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About this ebook

Cono, il protagonista di questa biografia, sarà quello che affronterà la vita conoscendone tutti gli alti e bassi, le gioie più intense e i dolori più estremi. Non a scuola, ma per strada forgia il suo destino. L’infanzia felice che vive nel paese di Teggiano, nella pittoresca valle del Cilento, s’interrompe bruscamente quando la sua famiglia si trasferisce al nord Italia.

Cono non si adatta alla nuova situazione e rimpiange continuamente la sua valle. A scuola viene emarginato. Nessuno vuole giocare con lui. Gli tocca subire ogni tipo di angheria. Conosce a Sandro, un ragazzo un po’ più grande di lui. I due diventano amici, crescono insieme e compiono le prime esperienze erotiche con il proprio corpo. Cono scopre di provare un’attrazione per il proprio sesso, identica a quella che prova per il sesso femminile.

Cono cambia nome in Marcello, e ciò è una metamorfosi nel suo carattere e nel tipo di vita che condurrà da questo momento in poi. Quello che segue è un doloroso ma necessario percorso per la sua emancipazione. A Bologna incontra Roberto, un ragazzo dall’aspetto femmineo, più giovane di lui, con cui Marcello ha una breve ma intensa relazione affettiva. Roberto, il cui sogno è quello di diventare un’attrice, si chiamerà qualche anno più tardi, EVA ROBINS. Marcello/Cono si trasferisce alle Canarie dove conosce a Edith che è destinata a diventare sua moglie. L’unione finisce con il divorzio dieci anni più tardi. Questo è il periodo più confuso della vita di Marcello, quello in cui non riesce ad ammettere a se stesso la propria natura. Marcello intende approfondire il tema della bisessualità, perché, nonostante il suo percorso di vita, vuole appartenere ad una sola “sfera” della sessualità. Salvatore, suo padre, si avvicina alla morte, Cono gli sarà vicino sorreggendolo e confortandolo fino all’ultimo momento.

Più tardi inizia a lavorare nel settore turistico, incontra Diego, si innamora; sarà l’incontro della sua vita, quello che aspettava da tanto tempo.

La morte di Juccia, madre di Cono/Marcello, sancisce la fine di un’epoca.

Marcello aveva promesso ai suoi genitori, ed a se stesso, di ritornare a rivedere la valle da cui era partito, quando era bambino.

Il cerchio si chiude quando tutti i conti con il passato sono stati pagati.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateAug 27, 2012
ISBN9788867514007
Nella valle di Cono

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    Nella valle di Cono - Daniele Morello

    Madre

    IL VIAGGIO NEL PASSATO

    Il pomeriggio era appena cominciato.

    Un tiepido e sereno pomeriggio d’autunno.

    Nel cielo non c’erano nuvole e il sole, un poco stanco, invitava a riscaldarsi con i suoi raggi caldi.

    Il fresco venticello che veniva dal mare, distante solo poco più di un chilometro, faceva oscillare senza pace gli angoli del fazzoletto azzurro con piccoli disegni chiari, che lei aveva sempre tenuto in testa.

    Fra qualche giorno il vento di tramontana si sarebbe alzato.

    L’aria si sarebbe fatta fredda e gli alberi spogli. Il tappeto di foglie secche avrebbe annunciato l’arrivo dell’inverno.

    La fitta nebbia della riviera romagnola non si sarebbe fatta attendere, portando con sé grigiore e solitudine.

    Juccia era rimasta sola a casa quel giorno. Suo figlio aveva insistito molto affinché anche lei andasse a fare una passeggiata in riva al mare con loro: «Ti farebbe molto bene alle gambe e non andremmo molto lontano», aveva detto a sua madre, ma lei aveva rifiutato, facendo capire a suo figlio che realmente desiderava restare sola.

    «Grazie», aveva aggiunto, mentre si accingeva a recuperare il suo bastone appoggiato al muretto del giardino che si trovava davanti a casa. Poi, dirigendosi verso l’orto, si era fermata per guardare suo figlio che si allontanava in macchina in compagnia di alcuni amici.

    E mentre due lacrime si perdevano su quel viso, dall’espressione stanca, mormorava leggera: «Che Dio ti protegga, figlio mio!», subito dopo, appoggiandosi al suo bastone, si era diretta lentamente verso l’orto.

    Quello era il suo angolo di mondo. L’unico vero legame con il suo passato, con le sue origini.

    Alcuni chicchi d’uva, già appassiti, erano rimasti attaccati alla piccola vigna, che lei aveva sempre curato con amore.

    Per la terra dell’orto, questo era un tempo di riposo, di preparazione alla semina del mese di novembre.

    In quella terra vivevano tutti i suoi ricordi e si alimentavano i suoi sentimenti. Il tempo che lei dedicava al lavoro nell’orto le risultava gratificante. Le piaceva molto osservare il ciclo della vita. Il miracolo della natura che si poteva spiegare anche con il germogliare di un seme.

    Il suo sguardo era sereno, scolpito su un viso piccolo, appesantito dalle rughe attorno agli occhi e sotto il mento. Già da qualche anno aveva superato gli ottanta, sapeva che erano tanti per il suo corpo consumato e stanco.

    Quello stesso sguardo cominciò a vagare attraverso i verdi cespugli di pomodori fuori stagione che avrebbero dato un frutto lucente e rotondo, non più grande di una noce.

    Un sospiro profondo era uscito dalla sua gola: in esso vi erano tracce di nostalgia e d’amarezza.

    Seduta su una vecchia poltrona di vimini, che aveva sempre tenuto a portata di mano nell’orto, incrociò le braccia e appoggiò la testa alla parete di quello che una volta era stato il fienile. Il vento debole faceva danzare leggere le foglie dell’albero che dava ombra al posto e a quelle che stancamente volteggiavano nell’aria, fino a cadere inevitabilmente al suolo.

    Pochi metri più in là, dal pollaio saliva l’orgoglioso coccodè di una gallina vanitosa che aveva appena deposto l’uovo e voleva che tutti lo sapessero.

    «Questa deve essere la rossa!» pensò Juccia «solo lei fa i suoi coccodè lontana dal nido, mentre pelata comincia a cantare subito dopo aver deposto l’uovo e quindi il canto è più cupo».

    Lei aveva sempre dato un nomignolo alle sue galline, come aveva fatto da bambina con tutti gli animali della fattoria di suo padre. Così era nata la rossa: nominata tale, perché aveva la cresta scarlatta, come quella di un gallo e le penne delle ali color rosso argentato.

    Pelata, invece, aveva il brutto vizio di mettere il collo nel buco della rete metallica che proteggeva il pollaio per beccare la verdura vicina e, tirando indietro la testa, molte piume restavano agganciate.

    Filippo, il suo gatto preferito, che la seguiva dovunque lei andasse, faceva notare la sua presenza sfregando il corpo contro le sue gambe.

    Lei si sentì invadere da un senso di quiete. C’era tanta pace in quell’angolo di paradiso.

    Il suo pensiero cominciò a volare nello spazio limpido. Scavalcando fiumi e monti, attraversando gli anni e il tempo, senza fermarsi in nessuna parte.

    Negli ultimi anni aveva parlato spesso della sua fanciullezza, dei luoghi lontani in cui era nata e di quanto le sarebbe piaciuto rivederli. Sapeva che dopo tanto tempo, nulla poteva essere rimasto lo stesso. Ma il cielo, i fiumi e le montagne non possono essere cambiati. Pensava.

    «Prima di morire voglio tornare a rivedere la mia valle». Aveva sempre detto ai suoi figli.

    Sapeva che non le restava più tanto tempo.

    Oggi, in groppa alla sua memoria, voleva fare quel viaggio. Oggi voleva ritornare bambina, rivedere quei luoghi e rivivere quegli anni, che tanto spesso aveva ricordato con tenerezza e nostalgia, cominciare proprio dai più belli: quelli della fanciullezza, delle prime scoperte, delle prime illusioni, delle prime rinunce.

    Erano altri tempi e solo i bambini della gente ricca potevano avere qualche giocattolo per sognare. Anche lei però, nonostante tutto, qualche volta, rubando un poco di tempo alle faccende domestiche, riusciva a staccare una pannocchia dal tronco di una pianta di granoturco verde, a legarle uno straccetto attorno e sognare di avere una bambola.

    La più bella era quella che aveva le foglie più verdi e i capelli più colorati.

    Laggiù, oltre Eboli, nel profondo sud, fra le montagne del Cilento ai confini della Campania con la Basilicata si trovava una grande valle: Il vallo di Diano, con molti fiumi, che trasportavano continuamente l’acqua, che scendeva dai monti e che correva veloce sotto i ponti, perdendosi poi fra i campi dell’estesa pianura. Tutt’attorno, le alte montagne con i folti boschi facevano da cornice alla collina, situata al centro della valle alta poco più di seicento metri. Era il nucleo centrale delle tante contrade disperse nella pianura, il punto d’incontro più importante per tutti i suoi abitanti.

    Qui, durante i giorni di festa, si rivedevano i parenti che vivevano dall’altra parte della montagna, si concludevano affari o si rendevano noti i fidanzamenti.

    C'erano una farmacia, un medico, un proprio municipio e una cattedrale con un santo patrono di nome Cono.

    Teggiano è il nome del paese.

    Nella valle, ancora oggi, le tradizioni, l’omertà, l’onore e il dare la parola (compromettersi), vengono trasmesse da una generazione all’altra.

    La realtà e la leggenda hanno sempre camminato di pari passo.

    Oggi, come tanti anni fa, le storie di altri tempi vengono raccontate ancora dai più anziani.

    Oggi ancora, il loro sguardo seminascosto dalla falda di un grigio cappello, si perde dietro le immagini della fantasia dei loro racconti.

    Accanto al camino, durante le lunghe sere d’inverno, ancora oggi, il fumo della legna umida fa arrossire gli occhi degli anziani, ma non ci sono più i sonnolenti bambini ad ascoltare le storie di fantasmi che vivono sotto i ponti dei fiumi.

    Storie di banditi buoni, di streghe e santi protettori, come quella di San Cono, il patrono del paese.

    Narra la leggenda che nel XII secolo un bambino di nome Cono nacque a Teggiano, ma già molto presto, durante la sua infanzia, si rifugiò, all’insaputa dei suoi genitori, nel monastero di Cadossa presso Montesano. Era figlio unico. I genitori angosciati andarono a cercarlo. Cono, per paura di dover abbandonare quel posto, si nascose nel forno acceso e già pronto per infornare il pane. Rimase chiuso in esso parecchi minuti, ma ne uscì indenne, neanche una screpolatura.

    Durante la sua permanenza fra quelle spesse mura, che lo isolavano completamente dal mondo esterno, il giovane monaco si era distinto per la sua bontà, la sua semplicità e la sua modestia. Quando cantava nella piccola cappella, i monaci si sentivano rapiti da tanta misticità. Loro stessi credevano che il piccolo fraticello non appartenesse a questo mondo e che fosse una creatura del cielo: un angelo caduto sulla terra.

    La stessa cosa succedeva alla gente dei paesi vicini, quando durante i giorni di festa si recavano a messa nella piccola cappella del convento di Cadossa.

    Quel bimbo, così fragile e delicato, che parlava con voce esile morì a soli diciotto anni. Per i sentieri di montagna, in mezzo ai boschi e sulle sponde dei fiumi tutti erano d’accordo nel credere che il fraticello era ritornato in cielo… da dove era venuto. Immediatamente cominciarono le dispute. Quale paese si sarebbe tenuto il piccolo monaco?

    Dopo giorni e settimane di trattative, gli anziani avevano deciso: la salma del giovane monaco sarebbe stata caricata su un carro trascinato da due buoi. La provvidenza divina avrebbe fatto il resto conducendo i buoi sulla strada giusta e la strada che gli animali imboccarono, conduceva al paese di Teggiano.

    Era settembre. Al giovane fraticello vennero fatti tutti gli onori di un grande personaggio: il suo corpo venne imbalsamato, ma già da subito, per molta gente della valle, quel fanciullo era un santo.

    Poco tempo più tardi a Cono vennero attribuiti vari miracoli. La gente arrivava numerosa da ogni parte della vallata e da oltre le montagne.

    I doni e le offerte in denaro che il piccolo fraticello riceveva

    (Le riceve ancora oggi), erano delle vere fortune.

    La Chiesa, sempre molto attenta alle esigenze dei suoi fedeli, nell’aprile del 1871, pensò bene di beatificare il piccolo monaco e di nominarlo protettore di Teggiano.

    Si era creata una nuova fonte di entrate per la curia del paese. Ben presto si era costruita una grande chiesa, naturalmente con grandi sacrifici dei poveri.

    Si fabbricarono varie statue, con l’immagine del fraticello. Alcune erano di gesso, altre di legno. Una di esse si era ricavata dal legno di un albero di ciliegie. Le immagini si distribuivano nelle piccole chiese dei diversi punti della valle.

    Erano anni di stenti e sacrifici. Poche erano le persone che sapevano leggere e l’ignoranza regnava padrona in ogni famiglia, dove appena ci si alimentava con un pezzo di pane e si riposava su un giaciglio di paglia.

    Il rispetto verso i santi si confondeva con il terrore del castigo divino. Era temuta la bestemmia. Ancora più temuta era la scomunica della Chiesa, per chi avesse voluto saperne di più sulla religione e sulla parola di Dio.

    Andare a messa tutte le domeniche e i giorni comandati era una stretta regola sociale, serviva per restare in pace con Dio e nelle grazie dei preti. Non farlo significava andare contro il loro modo di pensare; non era cosa da buon cristiano né da buon cittadino.

    La Chiesa, con il suo velo oscurantista, alimentava il terrore dell’inferno dopo la morte, per tutti quei fedeli che non seguissero gli insegnamenti del clero, fra i quali c’era quello di fare donazioni durante le funzioni religiose.

    L’assenza di benedizione in tutte le camere della casa durante il periodo prepasquale avrebbe attratto gli spiriti del male che si sarebbero impadroniti di quegli spazi.

    La realtà era ben diversa.

    Quello che la Chiesa voleva sapere era il grado di benessere di tutti i cittadini: «Dall’ovile placido si alimenta il lupo».

    Per san Cono si stabilì una data di festeggiamento annuale, sarebbe stata il tre di giugno, ma il flusso dei fedeli era talmente grande, che si dovette stabilire una seconda ricorrenza, il ventisette di settembre.

    Gli anni passavano e la fama del santo cresceva!

    La più nota immagine del beato è senz’altro quella che si trova in cima ad una guglia alta più di dieci metri, che, situata all’entrata del paese, il visitatore nota subito al suo arrivo.

    Durante la processione, la tunica scura che vestiva il fraticello si ricopriva interamente di banconote.

    Dall’America arrivavano preghiere e suppliche di miracoli accompagnate da Biglietti di dollari. Uomini e donne si prostravano davanti all’immagine del Santo. Alcune donne con famigliari malati o figlie da maritare si colpivano il petto invocando un miracolo. Alle finestre delle case si esponevano i più bei copriletto in suo onore. Le vie principali erano adornate con migliaia di lampadine colorate. Lassù, al centro del paese, la gente già disponeva della corrente elettrica.

    Non mancava la presenza di un’allegra orchestrina e a mezzanotte il grande spettacolo dei fuochi d’artificio accaparrava tutta l’attenzione della gente.

    Ancora oggi questa ricorrenza è vissuta con lo stesso entusiasmo di tanti anni fa.

    In fondo alla via principale, dietro la guglia, si trova una grande piazza con accanto il vecchio castello che era appartenuto ai Sanseverino, principi di Salerno, da cui si domina gran parte della valle sottostante. Da questo posto si possono contare i tanti fiumi, distinguere i contadini che lavorano nei campi e ammirare le grandi montagne che circondano la valle. Da questo posto il cielo si può toccare con un dito.

    Narra la leggenda che molti anni prima, in quel luogo, un nobile guerriero innamorato, durante una notte d’estate, aveva preso una stella con le mani per regalarla alla sua amata.

    Laggiù nella valle, oltre quel gruppetto di case, dopo quel folto boschetto di querce, in quella casa dalle finestre verdi con la scalinata di pietra… era nata lei, Maria, ma sempre l’avevano chiamata Juccia.

    LA FANCIULLEZZA DELLA MADRE

    Era l’anno 1915, là aveva vissuto la sua infanzia, là spesso, con poco, aveva dovuto inventare alcuni momenti felici.

    Era nata solo qualche mese prima della grande guerra.

    Prima di lei erano nati due maschi e per festeggiare quelle nascite suo padre aveva invitato tanti amici alla taverna del paese. Per le nascite delle figlie, invece, non era neppure andato all’osteria.

    Lo stesso atteggiamento nella distinzione fra figlio maschio e femmina lo avrebbe mantenuto tutta la vita.

    «La donna serve solo per poche cose nella vita di un uomo», lo aveva sentito dire spesso Juccia.

    Tutto quello che lei sapeva di quegli anni lo aveva sentito raccontare da sua madre o dai vicini di casa, durante le fredde serate d’inverno, quando si facevano visita reciprocamente.

    La sua mente poco a poco dava immagine ai suoi ricordi che cominciavano all’età di sei o sette anni.

    Suo padre, un uomo di bassa statura, era severo e manesco. Esercitava il potere del patriarca: accondiscendente con i figli maschi e tiranno con le figlie femmine. Era rispettato da tutti quelli che lo conoscevano. Un uomo di parola, dicevano di lui. Quando era molto giovane era entrato a far parte della guardia forestale e si mostrava volentieri in pubblico con la sua divisa addosso.

    Frequentava le persone più in vista del paese come il medico, il comandante dei carabinieri, il vescovo o la nobile famiglia Macchiaroli ai quali destinava sempre una buona cesta di fichi freschi con abbondante uva bianca zuccherina durante il tempo della vendemmia.

    Prima che finisse l’estate, gli uomini si recavano in montagna per raccogliere la legna per l’inverno e spesso incontravano il forestale (così lo chiamavano), che agli amici e alle persone di suo gradimento permetteva di caricare il legname sulla groppa dei muli, mentre altre persone erano costrette ad abbandonare tutto, tronchi e rami tagliati.

    La madre di Juccia era una donna buona ma energica e proteggeva in particolare le figlie femmine che l’amavano teneramente. Nelle discussioni con il marito, in difesa delle figlie, imprecava contro di lui, che privo di argomenti e forte della sua condizione di maschio cominciava a picchiare brutalmente la donna che spesso aveva avuto il corpo pieno di lividi, un braccio o una gamba rotta.

    «La donna deve cedere sempre», le aveva detto il medico del paese, un giorno che era dovuto intervenire per curare una ferita alla testa che suo marito le aveva provocato con una sedia.

    Juccia in quei momenti odiava suo padre e ogni volta, con gli occhi pieni di lacrime, pregava sua madre di non rispondere alle sue provocazioni.

    I suoi fratelli non approvavano gli atteggiamenti del patriarca, ma ne subivano le conseguenze. Il loro carattere non si formava con sintomi di violenza, ma sì con ogni diritto sopra il sesso opposto. Includendo le proprie sorelle che avrebbero dovuto servire e rispettare sempre il padre, i fratelli e più tardi il marito.

    La casa dove lei era nata era la tipica costruzione di quell’epoca, situata nella parte più alta della valle, all’ombra della montagna. Il terreno era fertile, anche se in alcune parti era un poco sassoso, ma se lavorato con pazienza dava buoni raccolti: legumi, peperoni, patate e frutta per l’inverno.

    Le costruzioni si trovavano al centro della proprietà e fra un vicino e l’altro c’era una distanza di duecento/trecento metri.

    Attorno alla casa c’erano molti alberi da frutta: ciliegi, fichi, noci e altri.

    L’albero che con più tenerezza lei ricordava era un gelso molto grande e frondoso, che ogni anno produceva una grande quantità di more grosse e dolci che facevano la delizia di tutti loro. Spesso per cena, durante l’estate, l’intera famiglia si riuniva all’ombra di quella pianta.

    I suoi rami robusti erano stati testimoni di tanti sogni e tante paure di quella bambina. Alcune volte, accovacciata fra le sue foglie, aveva sognato un altro mondo: una vita migliore, forse più benessere, meno lavoro e dei giocattoli che poteva solo ammirare esposti sulle bancarelle durante le feste dei paesi nella valle, quando aveva la fortuna d’accompagnare sua madre mentre andava a vendere i prodotti della loro terra.

    Davanti a casa, suo padre, aveva costruito un recinto di paletti di quercia incrociati fra di loro e sul ponticello d’ingresso ci aveva voluto anche un cancelletto di legno. C’era molto spazio libero attorno alla casa per far entrare il carro da trasporto dei foraggi, dei raccolti e il calesse da passeggio, che suo padre voleva sempre coperto con un telo impermeabile durante i giorni in cui non si utilizzava.

    Sull’aia, all’ombra del grande gelso, trovava anche posto un piccolo fabbricato che conteneva soltanto il forno per il pane e il camino dove, nelle grandi pentole, si facevano bollire le patate per i maiali, le bottiglie di pomodori freschi per l’inverno e le conserve di marmellata fatta in casa; si usava anche per scaldare i grandi pentoloni d’acqua, quando era il tempo di macellare i maiali.

    La strada che passava davanti a casa, non era altro che un fiume secco con il letto di pietre bianche, dove quando transitavano i carri con le ruote a raggi di legno ricoperte da un cerchio metallico facevano un rumore assordante.

    Sia su una, che sull’altra sponda, la fila di possenti querce le dava un’aria minacciosa e sinistra.

    Durante le giornate di tempesta il tranquillo letto di pietre bianche era invaso da una violenta corsa d’acqua scura, colmo di detriti che l’intensa pioggia trasportava dalle falde della montagna. In giorni simili la strada era transitabile solo sulle sponde, a piedi o con un animale da tiro, mulo o cavallo, anche se molta gente si poteva solo permettere un asinello che spesso trasportava un carico superiore a quello che avrebbe potuto.

    La casa era costruita su due piani: una parte del piano terra era riservata alla stalla, mentre l’altra parte era destinata a magazzino per le riserve di cibo per l’inverno, sia per loro che per gli animali. Molto spesso in uno stanzone si stipavano sacchi di grano, cumoli di patate, botti di vino o cesti di mele e sacchi di fagioli.

    All’esterno una scalinata di pietra portava al primo piano, la porta d’ingresso era disposta su uno stretto pianerottolo coperto. Questo spazio, per usanza di quei tempi, serviva per l’igiene personale. Le altre necessità si sbrigavano nel campo o più spesso nella stalla. Lavarsi tutto il corpo era possibile solo qualche volta durante l’estate, si usava una tinozza di legno dietro casa in uno sgabuzzino costruito con tavole di legno al riparo da occhi indiscreti. Naturalmente era una priorità riservata ai maschi, anche se qualche volta si facevano delle eccezioni per le femmine, soprattutto quando erano in età da marito.

    Al primo piano c’era la grande cucina con una sola finestra, che fungeva anche da sala da pranzo durante i ricevimenti di famiglia, ricorrenze festive, fidanzamenti, inviti ufficiali o la macellazione dei maiali.

    A una parete c’era il camino con una nicchia per la legna, sul suo ripiano c’era sempre una bottiglia di vino rosso ed una cesta di frutta. Una dozzina di sedie impagliate erano allineate all’altra parete, dove faceva bella vista una vecchia credenza che era appartenuta alla nonna materna.

    Dalle travi di legno del soffitto, quasi sempre fino all’autunno, pendevano salami, ricotte e prosciutti.

    Altre tre stanze completavano il piano superiore: due di esse erano per i figli, una per le femmine e l’altra per i maschi, lo scarso arredo era composto da alcune sedie e da un grande letto con il materasso ripieno di foglie secche di mais. Alla parete alcuni chiodi servivano per appendere gli indumenti giornalieri, mentre quelli per la festa venivano custoditi nell’unico armadio della casa, che si trovava nella camera dei genitori. Questa era anche l’unica stanza che avesse un comò con uno specchio e una grande cassapanca di legno destinata a custodire lenzuola e coperte. Alla parete il ritratto del nonno paterno, dallo sguardo serio e con l’uniforme dei garibaldini, la faceva sussultare ogni volta che entrava in quella stanza.

    C’era il letto matrimoniale in legno massiccio, con le sponde alte e con la testata di alluminio riccamente abbellita da grandi disegni floreali, che sua madre aveva avuto in dote quando si era sposata.

    Dalla parete bianca pitturata con calce, sopra il letto, risaltava la bell’immagine di una madonna tessuta in un pregiato arazzo.

    Era l’unico letto che avesse il materasso di lana che una volta ogni due anni, lei e le sorelle, durante il mese di agosto, vuotavano e portavano al fiume per lavare. Era un lavoro faticoso al quale non si potevano sottrarre, però sua madre era sempre disposta ad aiutarle. La lana si doveva prima districare e poi affondarla nell’acqua del fiume in grandi ceste di vimini, facendo attenzione alla corrente che non si trascinasse via tutto, lana e canestri.

    Sotto ogni letto si trovava un orinale che puntualmente, alle prime ore dell’alba, si svuotava gettando il contenuto dalla finestra dietro casa, dove si trovava ammucchiato lo sterco della stalla. L’illuminazione della casa si otteneva con lucerne ad olio. Durante le notti d’inverno, quando la neve cadeva intensa e si accumulava sui davanzali delle finestre, lei guardava attraverso i vetri la luna argentata che con i suoi raggi illuminava tutta la stanza. Fuori gli alberi coperti di bianco sembravano giganteschi pupazzi immobili.

    Ogni tanto qualche passante, avvolto nella sua cappa scura, con in testa il cappello e sulle spalle l’immancabile fucile, transitava rapido.

    L’ululato dei lupi, che veniva dai boschi della vicina montagna, le faceva accapponare la pelle, rabbrividendo correva nel lettone cercando il corpo di sua sorella per riscaldarsi: allora si sentiva sicura, protetta e si addormentava serena.

    Anche il lavoro dei campi durante l’inverno veniva in parte ridotto, si raccoglievano solo pochi ortaggi tipicamente invernali: cavoli, cime di rape, ecc.

    Gli animali domestici si alimentavano con l’erba secca del fienile, immagazzinata durante l’estate.

    Le giornate erano corte, mentre erano lunghe le serate accanto al fuoco. La lampada a olio illuminava la grande cucina, dove spesso si riunivano i parenti o i vicini che venivano in visita.

    Si parlava degli ultimi raccolti, si scambiavano suggerimenti e si commentavano le ultime notizie della valle.

    Mentre gli uomini, giocavano a tressette o a scopa le donne rammendavano, lavoravano la lana ai ferri o filavano il lino raccolto durante l’ultima stagione.

    Spesso la persona più anziana era quella incaricata di narrare qualche racconto: storie di fantasmi vaganti, di regine malvage o coppie di amanti che avevano perso la vita tragicamente; spiriti giocherelloni che si muovevano nella valle durante le notti di luna piena, in cerca di anime da salvare o distruggere.

    Juccia viveva intensamente quei momenti, con attenzione seguiva ogni dettaglio del cantastorie. A volte il vento contrario faceva uscire il fumo dal camino, facendo tossire i più piccoli e arrossire gli occhi degli adulti.

    Le ombre riflesse sulla parete, lo scalpitio del fuoco e il lamento del vento, rendevano più assorbenti quelle storie.

    Ogni mattina preparava il panino con salsiccia per i suoi due fratelli che durante l’inverno andavano a scuola, ma ogni volta che li vedeva allontanarsi, verso il convento delle suore in cima alla collina di Teggiano, sentiva gli occhi riempirsi di lacrime.

    «Perché mamma le donne non possono imparare a leggere e scrivere?», aveva domandato qualche volta, ma la risposta era stata sempre la stessa: «Leggere è cosa da uomini, ci vuole il tempo per farlo e per una ragazza ci sono tante altre cose da fare».

    «Una donna, figlia mia, deve solo preoccuparsi della sua casa e della sua famiglia, accettare con rassegnazione e sacrificio il suo destino. Deve essere paziente e mite».

    Durante quelle lunghe sere fredde suo padre andava spesso all’osteria del paese, le ragazze pregavano uno dei loro fratelli affinché leggesse qualche racconto dal libro di scuola.

    Nel letto la notte prima di addormentarsi, mentre fuori il vento faceva tintinnare i vetri della finestra, pensava a come sarebbe stato bello se anche le ragazze avessero potuto andare a scuola. Lei lavorava tutto il giorno e non avrebbe avuto il tempo da dedicare alla lettura, ma durante la notte… quando non poteva dormire, al lume della candela si sarebbe letta tante di quelle belle storie.

    Lentamente la neve si scioglieva sui monti. Attraverso i tanti ruscelli che scendevano a valle l’acqua correva verso i fiumi che, già colmi, spesso straripavano. Le prime foglie verdi incominciavano a rivestire gli alberi rimasti spogli durante l’inverno, mentre le margheritine spontanee formavano un tappeto di colori sui grandi prati verdi.

    La primavera era arrivata, le piante del grano tenero si piegavano sotto il leggero venticello. Spesso nel cielo non c’erano nuvole e il suo colore azzurro contrastava con il verde dei prati facendo risaltare tutta la bellezza dei colori.

    Era giunto il tempo di piantare, seminare e lavorare il terreno per avere un buon raccolto durante l’estate.

    Per gli abitanti della valle era come svegliarsi da un leggero letargo. I grandi campi arati dopo il raccolto dell’anno precedente, fertilizzati durante l’inverno, aspettavano ansiosi che il seme arrivasse al suolo.

    Gli uomini tiravano i solchi con la zappa, le donne deponevano gli spicchi di patate, cipolle e semi di fagioli precedentemente selezionati. Immancabilmente le donne intonavano una canzone popolare e le sue note si perdevano nell’aria calda.

    In pochi anni, fra una stagione e l’altra, sua madre aveva avuto altri due figli. Juccia aveva visto come l’età dei giochi si era allontanata da lei, trovandosi adesso sempre più spesso sulla riva del fiume a lavare ceste di panni sporchi che con grande abilità trasportava sulla testa.

    Mentre si insaponavano, si sbattevano e sciacquavano gli indumenti, le ragazze in fila sulla sponda canticchiavano in coro qualche canzoncina popolare, si raccontavano aneddoti o si trasmettevano notizie di parenti e amici, ma soprattutto spettegolavano come tutte le ragazze di quell’età.

    Era un lavoro faticoso, i panni erano tanti, ma lei era felice quando andava al fiume: le piaceva immergere le braccia nell’acqua chiara e fresca, che correva verso chissà quale meta.

    Alzando lo sguardo, dall’altra parte del fiume vedeva i contadini con la schiena piegata, che lavoravano nei campi.

    Sulle sponde, le foglie verdi degli alberi oscillavano con la leggera brezza del pomeriggio.

    L’abbaiare in lontananza di un cane annoiato e gli schiamazzi di alcuni bambini che giocavano sul ponte, poco più a monte, arrivavano cupi e frammentati.

    Fra meno di due ore i suoi fratelli sarebbero ritornati dai campi con il carro carico di erba per gli animali nella stalla. Avrebbero attraversato lo stretto ponticello di legno sul fiume e l’avrebbero aspettata all’angolo della via; nel frattempo i panni stesi sui cespugli vicini all’acqua si sarebbero asciugati, poi lei li avrebbe piegati ordinatamente e sarebbe tornata a casa contenta.

    Juccia amava la sua

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