Una vita sprecata: romanzo
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Una vita sprecata - Antonio Mennella
Una vita sprecata
romanzo
Antonio Mennella
Published by Giuseppe Meligrana Editore
Copyright Meligrana Editore, 2013
Copyright Antonio Mennella, 2013
Tutti i diritti riservati
ISBN: 9788868150396
Opera Omnia di Antonio Mennella per Meligrana Editore
Sezione narrativa: Una vita sprecata – romanzo, 2013
Opera già pubblicata, in versione cartacea, nel 1975 col titolo:
Confessioni di un figlio dell’uomo
In copertina:
Amedeo Modigliani, Frans Hellens, 46x34cm,
1919, olio su tela, collezione privata.
Meligrana Editore
Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)
Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041
www.meligranaeditore.com
info@meligranaeditore.com
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INDICE
Frontespizio
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Licenza d’uso
Antonio Mennella
Copertina
Dedica
Premessa
Ringraziamento
Premessa
Una vita sprecata
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Grazie per il rispetto verso il duro lavoro dell’autore.
Antonio Mennella
Nato il primo gennaio 1943 e laureato in giurisprudenza, è stato un funzionario di dogana. Collabora, tramite articoli sulla birra nel mondo, con la rivista Degusta di Bologna. Ha pubblicato:
Confessioni di un figlio dell’uomo – 1975 – romanzo;
San Valentino – 1975 – poemetto classico;
Gea – 1980 – romanzo;
Il fratello del ministro – 1980 – commedia;
Don Fabrizio Gerbino – 1980 – dramma;
Gigi il Testone – 1982 – romanzo per ragazzi;
Il figlioccio – 1982 – commedia;
Umane inquietudini – 1982 – poesie classiche e libere;
Memoriale di uno psicopatico sessuale – 1983 – romanzo per adulti;
La famiglia Limone – 1983 – commedia;
Gli anemoni di primavera – 1983 – dramma;
Giocatore d’azzardo – 1984 – commedia;
Fiordaliso – 1984 – dramma;
Dizionario di ortografia e pronunzia della lingua italiana – 1989;
La birra – 2010;
Guida alla birra – 2011;
L’Italia oggi – 2012 (i Comuni italiani nella loro pronunzia corretta e nome dei rispettivi abitanti, con notizie storiche sulle regioni e province).
Contattalo:
antonio.mennella@awf.it
A te, mio piccolo Luigi Maria,
quest’opera che mi ha portato via i giorni
più belli della giovinezza.
E che il nome tuo
possa, un giorno, rendere un piccolo omaggio
alla memoria di chi ti ha amorevolmente
spianato la via, quando avrai mostrato al
mondo, meglio di quanto non abbia saputo
fare tuo padre, che nel momento in cui la luce
della fede illumina la sapienza, e la forza
di quest’ultima annulla l’istinto, allora e soltanto,
s’immortala il mortale figlio dell’uomo.
Premessa
Era la sera del 14 novembre del 1974. Una sera all’apparenza, e per i più, non diversa dalle altre. Lo scolaro che ha bighellonato per tutto il pomeriggio si ripromette di far meglio l’indomani. Il muratore bisognoso di denaro non riesce a distogliere il pensiero dal lavoro ultimato potendosi finalmente presentare di buon mattino a incassare il resto del compenso pattuito nel contratto d’opera. L’avvocato deluso dalla causa, sfregandosi gli occhi sul manuale ingiallito, si crogiola, come un vecchio bacucco dinanzi al caminetto durante i giorni interminabili della merla, nell’udienza più prestigiosa di sicuro successo.
Un tempo molesto. L’aquilone soffiava in modo leggero ma freddo. Con la caligine si nascondevano i barranchi e i canaloni dell’acrocoro che termina alle ginocchia del gigante vulcanico. La tottavilla già svernava nei coltivi, lontano dalle colline inospitali. Nelle aiuole brulle rimanevano pochi esemplari del ciclamino, e odoravano di morte: proprio come il dottor Santino Galeri.
Neopromosso giudice di Tribunale a cinque giorni dal trentesimo genetliaco, l’infelice stesso sentiva che era fatalmente arrivata l’ultima sera della sua vita. Dovette così assisterlo nel difficile momento del trapasso don Camillo il quale, da come si svolsero le cose, avrebbe infine preferito fosse toccato a un altro questo compito. Era lui purtroppo il prevosto alla Chiesa della Trinità.
Abitualmente scomposto nella persona e nel vestire, portava i capelli piuttosto lunghi, con un cernecchio che scivolava sulla fronte alta e grinzosa, non appena il vegliardo togliesse il solito nicchio sgualcio. L’inevitabile ragna della sottana, all’altezza delle ginocchia, pareva contenta e malignamente orgogliosa di poter mostrare nella circostanza opportuna quel processo dei tessuti che trova nell’usura l’equo compenso al ritirarsi per le lavature. Ma nascondevano le altre magagne camice e stola. Sul collare aperto, sempre appuntato un fazzoletto, apparentemente bianco la mattina, contro il sudore o le intemperie. Allacciavano i mocassini grigio scuro due stringhe sfilacciate alle estremità per aver perduto da tempo i puntali metallici.
Era, quella, la figura di un sacerdote il quale non poteva perdere, perché mai ne aveva avuto, o acquistare per l’occasione una forma di raffinatezza estetizzante. Secondo lui però, e il dottor Santino Galeri non lo avrebbe certo smentito, chiunque in possesso di un minimo di buon senso ha il sacrosanto dovere di concordare sull’eterna validità dell’adagio che l’abito non fa il monaco.
Proveniva dalla stirpe dei Bordonaro, molto nota nel circondario per aver sfornato, con lui, tre parroci e addirittura un vescovo. E ormai aveva l’aspetto del barbogio male in arnese che si strascicava sull’inseparabile bastone di canna d’India. Nel viso incartapecorito tuttavia, profondamente infossati tra grinze, scintillavano con cipiglio irrequieto due occhi piccoli ed espressivi, lo spirito strenuo e generoso di un corpo decrepito.
Il tramestio nel corridoio lo aveva annunziato agli orecchi aguzzi della solerte signora Galeri, seduta sul letto per tentare di mantenere accesa nel cuore dello sventurato ancora una languida speranza di vita.
– Dev’essere arrivato don Camillo! – esclamò la bellissima giovane scattando in piedi per precipitarsi verso l’uscio quando l’ospite bussò con riguardo. – Venga, Reverendo! Mio marito l’aspettava impaziente.
Era vestita elegantemente. Un maglioncino giallo con motivi di trecce sul davanti e kilt di tartan a fitte pieghe corto abbastanza sopra il ginocchio esaltavano le forme severe e dignitose di una donna che non si lascia avvilire, oltre i limiti di un sentimentalismo decoroso, dalle perniciose traversie del destino umano.
– Buona sera, Dottore! – augurò il prete con sorriso sforzato. Chiaramente per non dare l’impressione di essere venuto a portare i conforti religiosi.
– Io, vado di là, Santino. Ho paura che Nenè me ne combini un’altra delle sue – prese commiato Morena tirandosi la porta dietro.
Il sacerdote aveva approfittato di quei pochi secondi per scrutare l’ammalato. Dopo aver visto decedere tanti parrocchiani sapeva, modestamente, capire da un’occhiata approfondita se l’ora fosse giunta. Per il povero giudice purtroppo le cose stavano male davvero. E lui si augurò di avere perlomeno il tempo di ricevere la confessione e spendere per l’ennesima volta in una così lunga carriera qualche parola di conforto e di fede che aiutasse un cristiano a chiudere santamente i suoi giorni.
Si erano incontrati l’ultima volta poco prima che il magistrato si allettasse. Ora lo trovava assai diverso, naturalmente come può esserlo uno ricordato nel pieno delle forze e rivisto dopo una degenza inesorabile. Non più segaligno e dritto come un cero, bensì un autentico Cristo spirante. La voce nondimeno, liquida e flautata, tradiva sfacciatamente ogni esteriorità.
I capelli di un pallido castano rossiccio con la scriminatura perfetta cercavano di camuffare ordinatamente quelli veri, a spazzola, che un tempo campeggiavano sulla pelle brunita. Il naso bislungo e i denti di topo, se ben si addicevano alla bocca piuttosto stretta, mettevano però esageratamente in risalto le guance incavate. Mentre dietro le lenti spesse, in una simpatica montatura a giorno, si celavano maliziosamente gli occhietti non più vivi ma penetranti, di un marrone spento, attoniti, nell’espressione che illuminava le incipienti zampe di gallina.
– Don Camillo... lei è la persona che raccoglierà le mie ultime parole – proluse il giovane con il suo inconfondibile tono stringato e incisivo.
– Oh, Dottore! Credo non sia proprio il caso di pensare certe sciocchezze – rispose prontamente il vecchio, appellandosi al consueto tatto. – Sta bene, benissimo! La sua, non risulta per niente la faccia di chi vuol lasciare questa valle di lacrime prima che non siano trascorsi perlomeno cento anni. Da parte mia, glieli auguro di tutto cuore, pieni di benessere e di felicità.
– Purtroppo non mi rimane molto tempo. Ascolti attentamente, per favore! – soggiunse l’infermo. – Che altri legga quanto è scritto (indicando un bisunto scartafaccio che giaceva scompostamente sul comodino) in queste pagine, non m’interessa granché. Chi parla di sé quasi mai rivela il contenuto reale del mondo interiore, o quantomeno gli aspetti essenziali e più tormentati. Neppure deliberatamente, perché la facilità nel conoscere il prossimo, che illude in un crescendo lusinghiero, delude amaramente non appena l’obiettivo si sposti su noi stessi. Nessuno deve sapere invece, oltre a lei, in che modo e con quali idee ha chiuso i propri giorni Santino Galeri, figlio, marito, e padre.
– Mi dica! – incoraggiò allora il prete, alquanto curioso di conoscere qualcosa sicuramente non all’ordine del giorno e con lo sguardo fisso di soppiatto su quella specie di brogliaccio che ormai non aveva più il valore del solito quadernone per appunti. – Il suo segreto rimarrà custodito. Quello che si rivela in confessione è come se fosse stato sepolto. Non sarò certamente io il primo violatore del sigillo sacramentale.
– Orbene... lei, come gli altri, comprese le persone più care e vicine, mi considera un magistrato integerrimo, senza tener conto che per essere inappuntabile cittadino bisogna, prima, dimostrarsi uomo esemplare. E chi sono io? Anzi, cosa sono stato? – entrò con enfasi il padrone di casa nel vivo dell’argomento.
– Dottor Galeri! – ciancicò apprensivo l’ospite.
– Si spogli allora della veste di sacerdote, se vuol seguire da vicino un comunissimo mortale destinato a soffrire fino a che non gli venga negata la vita in questo mondo. Perché la mia indole vera... sì, diciamolo pure francamente, è quella di un verme, di un senzadio, dell’assassino – precisò alla fine Santino, sicuro dell’affermazione.
Don Camillo era terrorizzato.
– Per carità! – impetrò vanamente.
– Le tigri ubbidiscono alla sferza del domatore, ma fino a quando un banale incidente non faccia loro assaggiare una goccia di sangue. Da tale momento solo la giungla con la facili prede potrà soddisfare l’istinto non sopito dall’addomesticatura. Già, – continuava impassibile – l’uomo è per natura una belva, docile alla frusta della morale, dell’educazione, di tutte quelle stupidaggini ossia che gli s’inculcano in famiglia, a scuola, nella società. Guai quindi a macchiarsi del primo misfatto! Fatalmente l’uomo diventerebbe un pendaglio da forca.
– E io le dico che non si uccide soltanto con la pistola, con il pugnale o con il veleno – riprese dopo uno sguardo di sottecchi per assicurarsi di avere la completa attenzione dell’interlocutore. – Il delinquente predilige la pubblica piazza, l’incensurato teme la giustizia terrena; l’infame al contrario si serve di mezzi più sofisticati e crudeli, quelli sentimentali e spirituali cioè. Poiché l’individuo morto irrimediabilmente dentro non vede l’ora di potersi liberare del corpo ingombrante.
– Così è stato per Morena – aggiunse a occhi bassi e del tutto stinto in volto – dopo la