Ottanta lettere
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Ottanta lettere - Mitia Chiarin
Ottanta lettere
racconti di
Mitia Chiarin
Blonk Editore
Prefazione di Gianfranco Bettin
Il doppio cuore del racconto.
Questi racconti di Mitia Chiarin, così singolari (come le storie della Kristof che cita e che sembra amare), ironici e spiazzanti (come i racconti di una Grace Paley), così acidi a prima vista, da leggere ascoltando e omaggiando Amy Winehouse, ma così carsicamente teneri (nel senso che sotto la dura terra di parole antiretoriche custodiscono amore e pietà, gesto raro e apprezzabile in tempi di sentimenti sguaiati e insinceri), lavorano sulla realtà come ogni gesto creativo deve fare. Raccontare, scrivere è esattamente questo: lavorare sulla realtà, non semplicemente descriverla, rifletterla. Lavorare la realtà significa penetrarla, scavarci dentro, rivelarne aspetti e tendenze che spesso sfuggono all’occhio normale e a volte anche a quello più scaltro. E’ il grande gioco, il grande compito, della letteratura, della narrazione in questo caso. Parole in fila scelte bene e che, insieme, dicono più di quanto non sembri, mostrano più di quanto non ci sembri di vedere di solito.
Nel primo racconto, uno dei migliori, lo specialista in eliminazione
a domicilio dei sentimenti fa i conti con ciò che, consentendogli di farsi killer dell’amore deluso altrui, gli indurisce il cuore e la carne fino a renderlo di pietra, libero dai ricatti emotivi ma impoverito di uno dei principali attributi umani. Si può avere una struggente nostalgia di questi attributi, fino a immaginarsi dialogare con un bancomat, l’Alfa 89 del racconto Il terminale
, quasi una grottesca rivisitazione del dialogo tra Hal 9000 e l’astronauta di 2001 Odissea nello spazio
di Kubrick. L’odissea, qui e tutti questi racconti, non ha più niente di epico, nemmeno nella forma a suo modo ancora tale, ancorché immersa nel quotidiano, dell’Ulysses joyciano. Siamo nelle derive e nei miraggi del tempo attuale e dei suoi personaggi immediocriti, il popolo della gente scema
, che spesso è anche ipocrita, che inganna e si inganna e non sa far altro che sopportare e rassegnarsi per paura di cambiare, per paura di essere sincera, come il protagonista del racconto che da quella gente prende il titolo: Son sei mesi che mia moglie mi dorme accanto come se fossi morto. Lei si gira dall’altra parte per non sentir il mio fiato e se la sfioro, si scosta come se provasse uno schifo direttamente dalla pelle. E a me ogni sera, vien da dirle di sparire dalla mia vista, che se le faccio così schifo alla pelle, sarebbe meglio se scomparisse lei e tutta la sua dinastia e poi invece non lo faccio, perché so che, dopo, sarei solo e non saprei cosa farmene della mia libertà a sessant’anni. E allora scaccio il vaffanculo e cerco di dormire
.
Si tratta, per dirla con il dirigente d’azienda dell’ultimo testo, di gente che ha soprattutto il problema di dover fare i conti giusti
, dove i conti sono ossessivamente quelli economici, in società e in microcosmi in cui solo questo infine sembra contare (anche se poi ci si ritrova a cercare consolazioni miracolistiche, in scatolette che contengono bamboline magiche o ci si scopre a desiderare tutti i baci del mondo
o a sentire la nostalgia di un tempo in cui a emozionarci bastava una canzone, Slave to Love
di Brian Ferry, ad esempio).
Lo sguardo di Mitia Chiarin agisce in due direzioni, scava dentro, e vede il guasto, la parodia, la menzogna, ma va anche oltre, al di là, e scorge ciò che potrebbe essere. E’ come il suo Doro, il ragazzino protagonista di uno dei testi più secchi e suggestivi. Trasparente, si sente Doro, e con i due cuori dei genitori nel proprio petto, perché è così, gli hanno spiegato, che nascono i bambini: rendendosi, i genitori, trasparenti l’uno all’altro e scambiandosi i cuori, che poi passano a lui, figlio straordinario (come i genitori sempre dicono ai figli, tenera bugia che se infine non evolve in una matura consapevolezza è fonte di molti guai).
Questo ragazzo dai due cuori, che si prende molto sul serio, conosce perciò i due lati della realtà, quello trasparente, la sua essenza, e quello visibile, colorato, la sua apparenza: Io ho detto a mamma e papà, dopo che mi hanno raccontato dell’amore e di come sono nato io, che sono stanco di girare sempre vestito, fuori casa. Io quando sento i primi raggi del sole, in primavera, voglio correre sull’erba e diventare verde come lei, e poi sdraiarmi e diventare rosa e poi fucsia e osservare la rana laggiù in fondo, vicino allo stagno e diventare blu
. Però, attenzione: Io sono bravissimo, a diventare blu. Ma posso farlo solo nella mia cameretta… Fuori casa non posso giocare coi colori…
.
Nella stanza della scrittura tutto diventa possibile, come in quella di Doro. Fuori, gli altri mi farebbero del male
. D’altra parte, se venisse a trovarlo a casa, dove lui potrebbe mostrarle come riesce a diventare colorato, la sua piccola amica vedrebbe che i genitori di Doro sono trasparenti e, a sua volta, prenderebbe paura. E allora Doro può soltanto immaginare che lei venga a trovarlo e fantasticare di mostrarle i suoi poteri e di donarle il suo doppio cuore rivelandole, infine, come lei stessa sia trasparente anche se ancora non lo sa.
Spesso la letteratura, l’arte, sono così. Vivono come stanze separate nella nostra stessa dimora, come parti sconosciute e (apparentemente) infrequentabili della nostra stessa esperienza, come un cuore sconosciuto accanto a solito che ci batte in petto. E’ compito di chi scrive far sentire quel battito, aprire la porta di quella stanza, rendere praticabile quel lato segreto dell’esperienza. Possono nascondere rischi, produrre rivelazioni sgradevoli, perfino sconvolgenti. In ogni caso, ci rendono più consapevoli, più liberi.
Doro ci rinuncia, per ora. Con un click
, dice, spengo il doppio battito
, accetta il realismo grigio. Ma lui è solo un personaggio. Mitia, il suo autore, che di storie da narrare mostrandone soprattutto i lati documentabili in modo ordinario, di cronaca, se ne intende fin troppo, ha invece, nel racconto, la forza creativa di sollevarsi sopra i resoconti falsamente realistici
e sopra questi stessi timori – Doro spegne il doppio battito, rinuncia a mostrarsi colorato, perché teme che la sua amichetta s’impaurisca – e, con fiducia nella capacità della narrazione di ripagarci delle paure che possiamo provare seguendone anche