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Una sola pagina bianca
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Una sola pagina bianca

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About this ebook

Mi chiamo Lyral Reyes, ho quindici anni e sono costretta a vivere in un villaggio confinato nelle montagne del Messico, in una società dittatoriale che si basa sulle leggi fatte dagli uomini e per gli uomini.
Ci sono solo due modi per lasciare questo villaggio: essere giustiziati o uccidersi.
Ed io non ho voglia di morire.
Quindi chiedo a te, lettore, di leggere questo libro, in modo che io possa rivivere nella tua memoria per sempre. Dentro di te scoprirò il coraggio di vivere, perchè so che nei tuoi pensieri non mi torturerai. Non mi costringerai a perdere la verginità tra gli scarafaggi, non mi chiamerai “puttana bionda”, non mi prenderai a calci nelle costole...
Ti prego, quindi: fammi vivere!
LanguageItaliano
PublisherSilvana Uber
Release dateFeb 2, 2015
ISBN9788896561300
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    Una sola pagina bianca - Silvana Uber

    bianca

    Una sola pagina bianca

    Per voi che state iniziando a leggere queste pagine, per voi che amate sognare con storie scritte da altri, a voi chiedo, se potete, di non dimenticare la mia di storia, di tenere vivo dentro di voi il richiamo delle mie parole, perché solo così potrò dunque sperare che qualcuno tra voi possa, forse un giorno, continuare questo libro e dargli una degna fine.

    Questo libro non è scritto bene, ma io non sono una scrittrice e mai lo diventerò. Non ho mai preso una penna in una mano e un block-notes nell'altra, se escludiamo i temi in classe, che a dirla tutta sono stati sempre giudicati appena sufficienti dai miei professori.

    Mi sarebbe piaciuto imparare a scrivere, inventare delle storie pazzesche per poi renderle reali su un foglio bianco. La

    vita però mi ha portata a scrivere una sola pagina bianca, un foglio da riempire giorno dopo giorno con i ricordi reali della mia vita reale. Mi piacerebbe scrivere storie fantastiche, storie di regni fatati che si aprono su un paesaggio medievale, di principesse dai lunghi capelli che attendono il ritorno dei loro principi, di draghi e fate...

    Invece scriverò la mia storia, anche se non voglio, anche se mi fa male. Ma lo devo fare se voglio farvi diventare testimoni di una realtà che ai giorni nostri è ancora sconosciuta e sottovalutata.

    Lo devo fare perché voi che state per leggere questo libro senza fine, dovete sapere e sperare per me, e perché voi tutti siete l'ultima preghiera che mi è rimasta.

    Ho pregato il mio Dio, ho pregato il Dio dei musulmani, quello degli indiani, quello dei gesuiti.

    Non credo mi abbia dato ascolto.

    E se l' ha fatto, forse non è stato in grado di fare nulla per aiutarmi.

    Ho pregato, supplicato, implorato, pianto, pianto e ancora pianto. Pianto tanto da non sapere più cosa significa avere il

    volto asciutto. Ma non è servito a niente.

    E non servirà più a niente.

    Perché io sabato morirò.

    Allora mi rivolgo a tutti voi; se non potete fare nulla per me prima di sabato, vi prego, vi scongiuro, aprite le porte della vostra fantasia, insaporitela con la vostra realtà, mescolatela alle mie parole, incasellate verità e finzione come in un puzzle e regalatemi almeno la fine di questo libro.

    Queste sono le prime parole che Lyral ha scritto su una pagina bianca che le ho consegnato. Le uniche che non mi ha mai voluto far leggere. Adesso le lascio a voi insieme a tutte le altre pagine bianche che ha riempito perché è l’unico modo che ormai mi resta per aiutarla.

    Carlos J. Paltres

    1

    Tutte le volte che dopo scuola voglio andare al Barlybooks devo inventare miliardi di scuse con mia madre per poterci andare.

    Tutte le mie compagne di classe non hanno queste difficoltà. Eh, ma loro sono ricche, vivono in città, hanno la macchina, una carta di credito platino nascosta nei loro portafogli firmati, i capelli con le mèches, le unghie laccate. Loro dopo scuola non devono correre a casa per aiutare le proprie madri ed accudire i figli delle loro vicine di casa.

    Per questo mi sento sempre in colpa quando mento alla mia per restare qualche ora al Barlyebooks, il bar più chic di tutta Oaxaca, dove un cappuccino costa 10 dollari e dove noi studenti ci ritroviamo per leggere i libri che il barista mette a disposizione su delle lunghe mensole in legno d'acero che circondano il perimetro dell'intero locale. Ogni tanto riesco a rubarne qualcuno, ma poi, presa dai sensi di colpa lo riporto sempre indietro e lo nascondo nello scaffale accanto alla porta mentre il barista guarda da un'altra parte.

    Mia madre mi ha sempre criticato per questo, dice che rubare non è un reato per i poveri come noi. Io invece ho sempre creduto che tutti i cittadini dovrebbero essere considerati sullo stesso piano, indifferentemente dal loro ceto, e quindi puniti allo stesso modo. Ma ovviamente non mi sono mai sognata di dire queste parole a mia madre.

    Le voglio bene. Più le sue mani si consumano dall'artrosi, più i suoi capelli si ingrigiscono sotto il leggero foulard variopinto che tiene in testa, più le voglio bene.

    Aveva impiegato due anni per risparmiare i soldi sufficienti per iscrivermi alla scuola superiore. Due anni di fatiche, di mani immerse nel fango e nelle risaie, di elemosine, di cene e pranzi con latte e pane vecchio che i nostri vicini ci portavano e dividevano con noi attorno al fuoco che accendiamo ogni sera al centro del campo.

    Di solito, dopo cena, tutto il villaggio si raduna al centro del campo, formando un cerchio attorno ad un falò. Restiamo seduti a terra con le gambe incrociate, mentre i vecchi raccontano a noi più giovani storie di antiche leggende. Sono leggende piene di fascino, che narrano l'angosciante spedizione che i nostri bis-bisnonni avevano affrontato per raggiungere questa città. Ovviamente si tratta di leggende, come si ostina a raccomandarmi mia madre.

    Però a me piace restare là fuori, avvolta in una coperta bucherellata, con il cielo come soffitto ed il vento caldo come sottofondo musicale. Mi piace che i bambini, e ormai sono molti, quasi una trentina, facciano a gara per addormentarsi sulle mie ginocchia. . Ogni sera quando spegniamo il fuoco tutti vogliono baciarmi la fronte e la mattina, quando esco dalla mia roulotte per andare a scuola, è la stessa storia.

    Sono l'unica tra tutte le persone a saper leggere e scrivere e ad aver nozioni di storia, geografia e matematica. Perciò sono riuscita a guadagnarmi una certa fama, sebbene il villaggio sia comunque piccolo e tutti noi ci conosciamo per nome e da una vita.

    Col tempo, gli anziani hanno cominciato a soprannominarmi la dottoressa e a considerarmi l'unica speranza per tutto il campo di un futuro migliore, magari con qualche dollaro per comprare una grande casa che possa un domani contenerci tutti. Siamo divisi in famiglie ovviamente, anche se poi ci consideriamo come una sola, unica, grande famiglia.

    Le famiglie prendono il nome del più vecchio membro ancora in vita, il sute, e la famiglia prende il nome di keylan che in inglese si potrebbe benissimo tradurre in clan. C’è quindi il keylan del sute Jetmir, di cui fanno parte Nadir con suo marito Oscar e i loro figli di uno, sette, otto e nove anni. Con loro mi trovo bene, soprattutto con Nadir che tra l'altro ha solo due anni in più di me. Lei mi invidia i capelli biondi e gli occhi verdi. Sono l'unica in tutto il campo ad avere dei lineamenti così chiari e delicati. Tutte le altre donne sembrano di dieci anni più vecchie, con i loro denti cariati, le rughe profonde e piene di terra, le mani raggrinzite e i capelli neri sempre coperti da foulard o legati stretti in uno chignon.

    Poi ci sono Alan con sua moglie Dana ed i loro cinque figli di anni diciannove, undici, dieci, otto e due del keylan del sute Bert.

    Io sono l'unica a non avere né fratelli né sorelle. E sono anche l'unica a non avere un padre. Mia madre non ama parlare di lui e negli anni sono riuscita a scoprire solo che era morto una sera, accoltellato alla schiena mentre cercava di rubare il portafogli ad uno più delinquente di lui.

    L'ironia della sorte!

    Per quello che ne so mia madre non ha mai pianto per la sua morte, avendo smesso di amarlo già da tempo per via del suo carattere aggressivo e manesco. Ma da quello che mi dice non era stato sempre così. Si era come trasformato nel tempo. Ed il fatto che mia madre non riuscisse a portare avanti una gravidanza non aveva fatto altro che alimentare la rabbia di mio padre. Ogni volta che lei aveva un aborto spontaneo lui la picchiava e l'accusava di essere una donna inetta.

    Poi ero nata io. Ma ero arrivata troppo tardi per sperare che il loro rapporto si aggiustasse.

    Sono stata adottata poi dal keylan del sute più vecchio, Aaron. Succede così alle persone del campo che hanno perso il loro sute. Con le altre famiglie del campo non vado troppo d'accordo. Ci parlo solo se sono loro a rivolgermi la parola per primi ed ormai non sono neanche più capace di nascondere la mia irritazione. Non che siano antipatici, è solo che mi da fastidio sapere che ogni cosa che passa dalle loro bocche faccia il giro di tutte le famiglie. Li chiamo gli informatori del campo, proprio perché amano distorcere le notizie, ingigantendole e spiattellandole dalla mattina alla sera. Unica loro occupazione. E sono diventati talmente abili da scoprire ogni mio movimento, ogni parola che dico che ancora prima che rientri in casa mia madre sa già tutto. Mi sento come osservata a vista. Gli anziani del campo, i quali pretendono l'assoluto rispetto e decidono a loro gusto e piacimento le leggi della nostra comunità, sono in sette: Araf, Gianni, Pablo, Pier, Aaron, Stephen e Wlad.

    Con loro non parlo mai direttamente, d'altra parte è assolutamente vietato farlo. Mi limito ad ascoltare le loro storie e a pregare ogni sera che nessuna delle loro mogli muoia o, cosa più improbabile, decida di divorziare.

    La legge del campo, prevede infatti che se un anziano rimane solo, quest'ultimo può scegliere una ragazza per

    consolarsi e appagare i suoi desideri sessuali fin tanto che non trova un'altra moglie.

    Io e Vivian siamo le uniche ragazze del campo a non aver marito. Io quindici anni, lei diciannove.

    Una volta lei mi raccontò di aver sentito dire ad un anziano che desiderava che sua moglie se ne andasse solo per il gusto di poter approfittare di me o di lei. Avevamo pianto una stretta all'altra per l'intera notte, nascoste

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