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una boccata d'aria
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una boccata d'aria

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About this ebook

Tornando a casa pensavo all’assoluta mancanza di sensi di colpa.

Teoricamente ne avrei dovuti avere.

Praticamente non ne avevo nemmeno l’ombra.

Passarono cinque mesi e tutto sembrava essere tornato alla normalità.

L’avevo intesa come una parentesi, come una boccata d’aria in una situazione che cominciava a crescere, una storia che cominciava a durare. Quante volte ho pensato a queste parole: una boccata d’aria.
LanguageItaliano
PublisherDiego Brusa
Release dateNov 19, 2015
ISBN9788892519251
una boccata d'aria

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    una boccata d'aria - Diego Brusa

    Parte

    Prima Parte

    La sensazione è quella di essere appena andato a dormire, ma quel bip bip fastidioso che arriva dal comodino mi ricorda che è ora di alzarsi comunque.

    Dopo essere passato dal bagno per la prima pisciata mattutina, quella che pone fine all’erezione idrica della notte, mi appoggio al paramano della scala per fare quei 16 scalini che mi porteranno in cucina.

    Mio padre sta già facendo colazione, seduto a capotavola e non solleva la testa nemmeno per salutare. Mia madre è sveglia probabilmente da qualche ora, ha già preparato i vestiti da lavoro, tirato fuori la macchina e come al solito , ha già iniziato a cucinare quello si mangerà a cena, considerando che il pranzo lo facciamo in fabbrica.

    La tazza è già sul tavolo, alla sinistra del capofamiglia, posto riservato al secondogenito.

    Il primogenito siede alla destra, ma a quest’ora dorme ancora perché non lavora ed iniziare a studiare per finire la facoltà di economia ,non significa alzarsi all’alba.

    Infilo i jeans da lavoro, il maglione e mi siedo a far colazione senza che un solo gemito esca dalla mia bocca.

    Anche perché la sera prima, con gli amici, mi ero sputtanato l’ultimo cinquantamila lire per una devastante gara di birre all’asse, che mi ha lasciato un cerchio alla testa che potrebbe fasciare un camion, e una lingua tanto spessa che ancora non si era staccata dal palato.

    Sentivo parlare mia madre di certe piante che dovevano essere travasate, e mio padre annuire dicendo che al ritorno saremmo passati a prendere dei vasi nel vivaio che era sulla strada tra casa nostra e la fabbrica.

    Mando giù il caffellatte più per non destare sospetti che per voglia, e vado a sedermi in macchina.

    Mi raggomitolo sul sedile e cerco di dormire ancora per quella mezzora che normalmente, con qualsiasi condizione climatica, ci impieghiamo ad arrivare in fabbrica.

    E’ lunedì…si comincia un'altra settimana in quella fabbrica di prefabbricati…..rumorosa, grigia e sporca, dove il collega più giovane ha comunque una decina d’anni più di me.

    Produciamo capannoni industriali. Dalla progettazione (che spetta ai colletti bianchi, quelli che lavorano in giacca e cravatta al piano superiore), alla realizzazione per mezzo di stampi e casseforme fino alla posa. Quest’ultima fase spetta a noi, quelli con i jeans e le antinfortunistiche, quelli sporchi.

    Un lavoro fisico, duro, faticoso, con un aggravante che solo io ho: il capo cantiere, il responsabile alla produzione e alla posa, è mio padre.

    Qualche anno prima avevo provato a fare ragioneria, ma sono stato bocciato; non mi è stata concessa la seconda chance, bocciato a giugno, al primo luglio ero a lavorare su quelle casseforme per il cemento vibrato. Forse, pensandoci ora, ho abbandonato la pubertà il primo di luglio nell’anno del mio quindicesimo compleanno.

    Non ero stupido, anzi, intuitivo, goliardico, sempre allegro e vivace. E come la maggior parte degli adolescenti pretecnologia, avevo solamente due passioni: il calcio e le ragazze ed in entrambe me la cavavo bene.

    Arrivavo da una scuola media esclusivamente maschile, con sacerdoti come insegnanti.

    Alle superiori, i maschi, me compreso, erano 5. Di cui uno obeso, uno ripetente, io ed altri due diciamo "normali". In piena evoluzione ormonale, la mia capacità di concentrazione sui libri e sui nuovi insegnanti, era praticamente zero. Troppe distrazioni. Non ero abituato a quelle sensazioni, quei profumi, quei sorrisi. Troppe ragazze sedute davanti, di fianco, dietro, ragazze con cui avevo legato subito. Più che con i maschi. Anche perché’ dei quattro compagni, solo uno giocava a pallone, con risultati che presuntuosamente non erano al mio livello.

    Morale, loro quattro promossi, io ed altre tre ragazze condannati a ripetere la prima ragioneria.

    Forse loro hanno ripetuto, io come ho già detto, sono stato mandato ai lavori forzati. In famiglia c’era già chi studiava, ed era Carlo, mio fratello maggiore, 6 anni di differenza. Mai stato bocciato, mai neanche una materia a settembre, e i primi due anni di economia con 24 di media.

    Il genio di casa, o almeno così era visto da mio padre. E così, verso la fine di giugno, con la sua estrema sensibilità mio padre mi aveva detto che le possibilità economiche della famiglia non potevano essere sperperate per chi doveva ripetere gli anni di scuola; di conseguenza, Carlo poteva e doveva continuare, io era meglio che andassi a lavorare con lui, in quella fabbrica che mi avrebbe fatto diventare uomo. Fabbrica di proprietà di un ingegnere in manicato in politica; i suoi capannoni sarebbero continuati a fiorire ovunque.

    Dopo la pagella di giugno, mio padre aveva parlato con l’ingegnere e quasi come un piacere personale aveva chiesto di poter farmi lavorare. Erano i primi anni ottanta, il lavoro c’era, l’ingegnere per assumere uno che non conosceva, ha preferito accontentare la richiesta di mio padre, considerando la grande fiducia che riponeva in lui. Fiducia legittima; il capocantiere sbraitava 8 ore su 8, la produzione non doveva rallentare, ed a me, che ero il figlio, non si chiedeva quello che si chiedeva agli altri operai. Dovevo comunque e sempre essere un po’ più degli altri…..altrimenti passavo da paraculato agli occhi dei colleghi.

    Nell’immaginario di mio padre, non che non ci fosse la fabbrica per me, anzi, si era immaginato un futuro al piano di sopra, con i contabili ed i progettisti. Vedermi con gli operai, credo che fosse una sorta di punizione che inconsciamente (o consciamente) voleva affliggermi. Non hai voluto studiare per poterci guardare dall’alto degli uffici? Lavora più degli altri.

    Questo l’avevo capito, ma avevo il fisico la grinta e la cocciutaggine per non mollare, ed ormai erano anni che costruivo, assemblavo e montavo pezzi di capannone.

    I lati positivi erano che anche lasciando lo stipendio in casa, mi rimanevano sempre soldi in tasca. La mia paga settimanale, valutata dall’amministratrice della famiglia,

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