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Racconti di angeli e diavoli - La ribellione di Demetros
Racconti di angeli e diavoli - La ribellione di Demetros
Racconti di angeli e diavoli - La ribellione di Demetros
Ebook474 pages5 hours

Racconti di angeli e diavoli - La ribellione di Demetros

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About this ebook

Aurelio e Astorre lavorano rispettivamente per il Paradiso e per l’Inferno.

Il loro compito è raccogliere le anime dei defunti sulla Terra e guidarle nei loro mondi. Ormai lo fanno da secoli, come una routine.

Ma un giorno scoprono che c’è qualcosa di malvagio all’opera. Il demone Demetros vuole riprendersi il comando degli Inferi e dei suoi simili, ricacciando Lucifero e i diavoli invasori da dove sono venuti.

Per farlo deve stringere d’assedio il nucleo del potere dei diavoli, l’Oasi di Malazan, e liberare i Demoni Ancestrali dalla loro prigione. Se per l’assedio ha già raccolto un esercito sufficiente, per la seconda impresa deve ancora trovare il Custode delle chiavi della prigione, sulle cui tracce è stata inviata anche una squadra di coraggiosi, provenienti sia dal Paradiso che dall’Inferno, tra cui, appunto, Aurelio e Astorre. Mentre il cerchio si stringe attorno alla roccaforte di Lucifero, il gruppo di eroi si trova ad affrontare numerose disavventure, ognuna delle quali cela delle sorprese e aprirà il varco a nuove consapevolezze.

Chi troverà per primo il Custode? Sarà questo a decidere l’esito della guerra? Sopravvivranno i diavoli oppure soccomberanno al soverchiante esercito di demoni, spianando così la strada all’invasione della Terra e forse addirittura del Paradiso?
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateOct 26, 2014
ISBN9788867823451
Racconti di angeli e diavoli - La ribellione di Demetros

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    Racconti di angeli e diavoli - La ribellione di Demetros - Fosco Baiardi

    RACCONTI DI ANGELI E DIAVOLI

    LA RIBELLIONE DI DEMETROS

    EDITRICE GDS

    Fosco Baiardi

    Racconti di angeli e diavoli - La ribellione di Demetros 

    ©EDITRICE GDS

    EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via G. Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    tel. 02 9094203

    e-mail: edizionigds@hotmail.it

    Collana AKTORIS©

    Illustrazione in copertina di © Fabio Porfidia

    Tutti i diritti riservati

    E Dio creò l’Inferno

    per racchiudervi tutti i mali dell’Universo.

    Fino a quando essi non trovarono una via di fuga

    per contaminare ogni atomo dei mondi infiniti.

    Capitolo I

    UN ANGELO E UN DIAVOLO

    L’avevano uccisa. Avevano ucciso quella povera bambina innocente.

    Li avrebbe trovati, seguendo il puzzo delle loro anime corrotte.

    E l’avrebbe vendicata.

    Il ragazzo guardò i cadaveri dei suoi amici brutalmente massacrati e riversi al suolo in un vicolo del quartiere malfamato della città.

    «Tu... tu non sei un essere umano...» balbettò terrorizzato. «Sei un mostro, un… demonio!»

    L’essere che gli stava di fronte socchiuse minacciosamente gli occhi e, circonfuso da uno splendido alone di fulgida luce, spiegò un paio di candide ali macchiate di sangue.

    Il ragazzo rimase impietrito, allibito, incredulo, poi si gettò ai piedi dell’angelo piagnucolando, supplicando per essere risparmiato.

    Dagli occhi della creatura alata scesero due gocce cremisi.

    «Voi non avete avuto pietà di quella bambina... il suo sangue grida vendetta!» e, con un sol colpo delle possenti, temibili appendici alate, fece giustizia del giovane assassino.

    Un attimo dopo si udì uno scampanellio.

    Dall’angolo della strada trasversale fece capolino un ometto vestito con un pastrano e un cappellaccio dalla tinta indefinibile, un bastone con tre campanellini in cima nella mano destra e una sigaretta nella sinistra.

    «Buongiorno, angelo!» disse con voce squillante.

    «Buongiorno a te... raccoglitore» rispose ironico l’angelo.

    «Sai che non mi piace essere chiamato così» si incupì il nuovo arrivato.

    «Neanche io mi chiamo angelo, se è per questo!»

    I due si studiarono per qualche istante in silenzio, poi il piccoletto proruppe in un’allegra risata.

    L’angelo continuò a osservarlo. Non poteva negare che gli incontri con quel diavoletto lo lasciassero divertito; la sua ilarità era contagiosa, anche se non capiva come un diavolo potesse essere così simpatico e piacevole. Fin da piccolo, dai tempi del suo addestramento secolare, aveva immaginato sia i diavoli che i demoni come esseri grandi e grossi, con occhi fiammeggianti, facce truci e comportamento scorbutico, senza grandi differenze tra le due genie... niente a che vedere con quell’omino che di diabolico aveva soltanto le battute con le quali amava punzecchiare tutti.

    «Sai che non possiamo intervenire nella vita degli uomini e tanto meno ucciderne tre?!» disse il diavolo in tono critico, più per far sentire in colpa l’angelo che per reale disapprovazione.

    «Lo so! Ma so anche che tu non dirai niente, visto che ci guadagni tre anime perfette per il tuo Inferno!» rispose l’altro senza scomporsi.

    Il diavolo finse di pensarci. «E va bene! Dovrò falsificare qualche documento ma, dopotutto, tre anime valgono pure qualche sacrificio». Aspirò una grossa boccata di fumo e colpì i cadaveri col suo bastone.

    «Non ho mai capito a cosa serva quella sigaretta che hai sempre quando raccogli le anime» lo interruppe l’angelo.

    «A niente... mi piace fumare, tutto qui!»

    L’inviato del Paradiso alzò gli occhi al cielo, con comica e marcata esasperazione.

    «So che voi angeli siete perfetti e non cadreste mai in un vizio come questo» disse il diavolo sarcastico, sbuffando una vaporosa nuvola di fumo. «Ebbene! Non sai cosa ti perdi!» aggiunse canzonandolo.

    L’angelo mimò una faccia annoiata.

    «Allora! In piedi, fannulloni!» prese a sbraitare il diavoletto, visto che l’angelo non raccoglieva la sua provocazione. Dopo aver gettato via il mozzicone, si diede a pungolare con il bastone i tre corpi, che fremettero e si rialzarono, un po’ disorientati.

    Si guardarono increduli, poi presero a ridere e ad abbracciarsi, frenetici.

    Un discreto colpo di tosse li riportò alla realtà e solo allora si accorsero del piccolo uomo indolentemente appoggiato al suo bastone, intento, in apparenza, a esaminarsi con esagerata attenzione le unghie di una mano. Lì accanto giacevano ancora i loro resti smembrati.

    «Già, già...» strascicò l’omuncolo, facendo roteare il bastone e tintinnare i campanelli. «Vi vedo confusi, lasciate che vi illumini: siete morti! Ora vi condurrò nella vostra nuova, piacevole dimora» concluse con un sorriso diabolico.

    «Ma...» una delle anime provò a protestare, però un particolare rintocco di una campanella sul bastone lo zittì perentoriamente.

    «Mi spiace, Aurelio, oggi non posso proprio fermarmi a scherzare con te. Ho altre nove anime che mi aspettano e il mio turno è appena iniziato...»

    L’angelo seguì con lo sguardo divertito le anime che si allontanavano in fila indiana dietro al diavoletto, mentre questi continuava a lamentarsi, convinto d’essere lui l’unico a lavorare seriamente in quell’inferno...

    Appena scomparsa la comitiva, l’essere celeste si girò verso i cassonetti allineati sul ciglio della strada.

    «Vieni, piccola, è tutto finito» disse dolcemente.

    Un’anima minuscola fece capolino timidamente da dietro un bidone e corse fra le braccia aperte dell’essere con le ali, che si occupava di lei da quando si era risvegliata.

    «Dove andiamo?» domandò la bimba.

    «Andiamo in un bel posto, dove starai bene, ti divertirai dal mattino alla sera e non dovrai più avere paura di niente».

    «Ci saranno anche i miei genitori?»

    «Sì, troverai anche loro» sorrise l’angelo.

    La bambina emise un grido di gioia.

    «E può venire anche Teddy?» chiese indicando il suo orsetto di pezza.

    «Sarà il benvenuto!»

    «Allora è proprio un bel posto» concordò con sorprendente solennità.

    L’angelo la guardò negli occhi, così grandi per una bimba così piccola, e di nuovo le sorrise teneramente.

    Incamminandosi, la strinse forte a sé.

    «Non avere paura» la tranquillizzò ancora, poi spiegò le candide ali e si alzò in volo.

    Capitolo II

    IL SIGNORE DEI CANI

    «Avete abusato della mia ospitalità!» tuonò Edgar Ross.

    Da anni viveva solo nella magione avita, ultimo componente della potente famiglia dei Ross.

    I canti e gli schiamazzi gioiosi della gioventù erano spariti, spenti nel silenzio calato inesorabile sull’antica dimora, teatro di sventure e lutti infiniti. Solo i fedeli cani, ormai, facevano compagnia all’anziano padrone.

    Nessuno più si curava di quel vecchio eremita e la gente girava al largo da Casa Ross, aborrita e temuta.

    Spinto da inconsueta pietà, a causa del tempo avverso, quella sera Edgar aveva accolto in casa un vagabondo dall’aspetto, per la verità, assai poco rassicurante. O forse era stata la voglia di vedere un altro essere umano, di fare quattro chiacchiere con qualcuno che potesse capirlo e rispondergli, qualcuno che non fosse soltanto uno dei suoi, pur amatissimi, cani. E, visto che erano ben pochi gli esseri umani che si spingevano fino alla sua porta, aveva approfittato della circostanza straordinaria.

    Ben presto, però, il disagio iniziale si era trasformato in fastidio e, poi, in disgusto. La causa andava ben al di là del suo prolungato isolamento e delle sue difficoltà a relazionarsi col prossimo.

    Quell’individuo, con le sue domande infide e l’atteggiamento subdolo, gli faceva venire la pelle d’oca. Persino i suoi molossi erano nervosi e irrequieti.

    All’ultima maligna frecciata, Edgar non aveva resistito e, alzandosi in piedi, aveva invitato il forestiero ad andarsene. Quest’ultimo, però, non dava segno di voler sloggiare.

    «Fuori da casa mia! O sguinzaglio i cani!» intimò Ross un’ultima volta.

    Lo straniero sorrise beffardo, come se auspicasse quell’eventualità.

    «Lamento! Compianto! Gemito!» chiamò Edgar. I tre cani si avventarono sull’estraneo, ringhiando ferini.

    Gli occhi dello sconosciuto si tinsero di una luce sanguigna...

    Un solo gesto della mano e i cani si rivoltarono contro l’amato padrone, facendone scempio.

    Casa Ross aveva un nuovo proprietario.

    Capitolo III

    L’ALTERCO

    Il ragazzo guardava incredulo il suo corpo, inerte e disarticolato, incastrato sotto la macchina.

    Non poteva credere che lui, il bullo del quartiere, si fosse sacrificato per salvare un marmocchio. Si voltò, sentendosi toccare.

    Un essere, bianco come il latte dalla testa ai piedi, gli appoggiava una mano sulla spalla.

    «Seguimi!» L’ordine gli rimbombò nella mente.

    Si avviarono lungo il vicolo, finché uno scampanellio li fece fermare. All’imbocco della viuzza, un omino alto non più di un metro e sessanta li fissava accigliato.

    «Dove stai portando la mia anima?» interrogò, calcando intenzionalmente la voce sull’aggettivo possessivo.

    «Tua? E perché mai?» domandò l’angelo, inarcando un sopracciglio.

    Un bagliore sanguigno illuminò per un istante gli occhi del piccoletto.

    «È un delinquente, lo sai anche tu, non ha mai fatto niente di buono nella sua vita».

    «Ha appena salvato un bambino, sacrificando se stesso... questo basta, per chi sai tu!»

    Lo squillo dei tre campanellini attaccati al bastone anticipò la comparsa di un tomo nero, enorme, nella mano sinistra del diavolo.

    «Secondo il Libro delle Parche, il bambino non sarebbe comunque morto, quindi, tecnicamente, non l’ha salvato!»

    «Ma lui non lo sapeva, conta il gesto e la buona intenzione».

    Il diavolo, ormai, controllava a fatica il nervosismo e il tomo scomparve in una nuvola di fumo.

    «È stato un gesto d’impulso, non significa che sia puro e altruista...»

    «È stato un gesto spontaneo e coraggioso!»

    L’ometto digrignò i denti che, piano piano, si facevano sempre più lunghi e affilati.

    «Non... può... cancellare... il suo... passato!» scandì a fatica, soffocato dalla rabbia.

    «Per chi sai tu... sì!» ribatté l’angelo.

    Il diavolo esplose in un ruggito, piantando in terra il bastone, con i tre campanelli, fissati all’anello in cima, che si agitavano furiosamente. L’asfalto si frantumò e la spaccatura si allungò fino a raggiungere i piedi della creatura celeste, il cui pugno si illuminò di una luce sfolgorante e si abbatté al suolo, bloccando il propagarsi della fenditura.

    Il diavolo, tuttavia, era già pronto alla mossa successiva. Iniziò a far roteare il bastone, dal quale scaturì un turbine di fuoco che si spense contro lo scudo delle ali spiegate e incurvate come una cupola protettiva. In questo modo, però, l’angelo perse di vista l’avversario e, quando dischiuse le ali, un segugio infernale gli balzò addosso. Il guerriero celeste fu lesto ad afferrarlo, spezzandogli il collo, ma una pioggia di lava gli si riversò addosso e, di nuovo, dovette usare un’ala per proteggersi, in modo da spazzare via i lapilli.

    L’attacco dell’animale infernale aveva creato il diversivo necessario perché il diavolo avesse il tempo di evocare la potente stregoneria del Fuoco degli Abissi. L’ala destra dell’angelo ne uscì offesa e l’avversario, irto di corna che spuntavano dal pastrano stracciato e quasi completamente trasformato nella sua forma demoniaca, ne approfittò per piombargli addosso. L’angelo parò il colpo col braccio destro e contrattaccò con una frustata dell’ala sinistra. L’altro venne sbalzato lontano, mentre l’angelo sgranchiva l’arto usato come difesa.

    I due stavano preparandosi a un nuovo assalto, quando un fulmine esplose in mezzo a loro. Una figura in armatura torreggiava là, dove si era appena abbattuto il lampo.

    «Ora basta!» tuonò il nuovo arrivato. «Siete impazziti?!»

    L’elmo ruotò prima in direzione di un contendente, poi si volse verso l’altro.

    Subito i due si calmarono. Si sentivano trafiggere dallo sguardo di disapprovazione che filtrava attraverso l’impersonale celata.

    «Quest’anima verrà con me!» proseguì la voce metallica. «Voi preparatevi a essere giudicati dall’Alto Consiglio del Purgatorio!»

    I due si scambiarono uno sguardo pieno di consapevolezza e scomparvero.

    Il cavaliere si tolse il guanto e porse la mano nuda allo spirito rannicchiato a terra, gli occhi sbarrati dal terrore. Esitando, questi si alzò e afferrò le lunghe dita affusolate, dalla pelle morbida e calda. Un senso di benessere lo pervase, mentre sparivano in un’ultima esplosione di luce accecante.

    Pochi giorni dopo, l’angelo e il diavolo furono convocati nel Purgatorio. Entrambi uscirono dalle porte dimensionali – che li avevano trasportati dai loro rispettivi mondi – nello stesso momento.

    Si ritrovarono a girare su loro stessi per la meraviglia, in una grandissima piazza di forma semiellittica, pavimentata da grosse lastre di nera ardesia. Al centro, in una fontana di finissima fattura, gorgogliavano allegri zampilli d’acqua limpida e trasparente. Sui lati, la piazza era bordata da altissimi e rigogliosi cipressi, separati gli uni dagli altri da lampioni di antica foggia, mentre sullo sfondo la notte scura era punteggiata di stelle.

    Oltre la fontana, a delimitare la piazza, si innalzava un palazzo il cui tetto sfuggiva alla vista. L’edificio sarebbe risultato anonimo, con porte e finestre tradizionali, se non fosse stato per l’arcata sopra l’ingresso, dove era scolpita la scritta: Purgatorio.

    L’intera struttura sembrava galleggiare nello spazio profondo.

    All’entrata, li attendeva il Sorvegliante del Purgatorio, un essere mezzo angelo, mezzo demone, che rispondeva al nome di Octavius. Era unico nella sua specie, perché non era mai esistito un altro essere che accomunasse, nello stesso corpo, sia caratteristiche angeliche, sia peculiarità di demone: i diavoli avevano perso i tratti tipici angelici ben prima che comparissero i primi esemplari nati dall’unione di un diavolo e di un demone.

    Mentre li accompagnava per i lunghi meandri, ricoperti di moquette rossa, verso la sala del tribunale, sempre restando al piano terreno, Astorre ne osservava incuriosito le ali, una candida e piumata, l’altra di nuda pelle callosa. L’angelo, dal canto suo, ne osservava il corpo, metà del quale era bella e raffinata come quella di un cherubino, l’altra aspra e irregolare come quella di un antico abitante degli Inferi. Così anche la sua voce, che usciva con un doppio timbro, sovrapponendo virilità e violenza a un sottofondo dolce e un po’ effeminato.

    Finalmente, dopo un lungo peregrinare, dominato dalla preoccupazione della pena ormai prossima, i due colpevoli giunsero alla non molto agognata meta.

    Octavius li fece entrare senza proferire verbo, quindi se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle e lasciandoli al loro destino.

    La stanza non era molto grande e sembrava che mancassero solo loro due all’appello. Infatti, su uno scranno in posizione rialzata era seduto un tipo dal naso adunco e dall’aspetto arcigno e altero. Una coroncina di alloro gli cingeva la testa, sopra un copricapo di colore rosso.

    Ai suoi lati erano posizionati due esseri provenienti da Paradiso e Inferno, intenti a guardare con aria di rimprovero i loro rispettivi dipendenti. In piedi, sotto la tribuna, c’era il cavaliere in armatura che aveva interrotto la scaramuccia tra Aurelio e Astorre. Teneva l’elmo sotto il braccio e una fluente cascata di boccoli biondi ricadeva sulle sue spalle, incorniciando un viso piccolo e tondo, inequivocabilmente femminile.

    Accanto, seduta su una panca di legno appoggiata al muro, incombeva una figura ammantata di nero, il cui cappuccio celava il volto scheletrico, sotto il riflesso della falce posata sulla spalla. I due imputati potevano immaginare le scarne orbite fiammeggianti d’ira.

    Il processo fu breve, poiché il Giudice nonché Direttore del Purgatorio era già stato informato di tutti gli avvenimenti e delle mancanze dei rei. Quindi, sotto cinque paia di occhi che li guardavano con riprovazione, la sentenza venne emessa e, ancor prima di essersi resi conto di ciò che essa implicava, si ritrovarono fuori dalla stanza.

    Octavius li aspettava fuori dalla porta e li riaccompagnò, seguendo a ritroso il percorso dell’andata fino alla piazza.

    Qui erano attesi da Gabriele e Minosse, i due personaggi che, un attimo prima, si trovavano ancora nell’aula del processo. Simili a due mamme che prendono per un orecchio il figlio che si è comportato male, le due personalità di alto lignaggio accolsero i rispettivi dipendenti e li accompagnarono alle Porte Dimensionali, perché facessero ritorno ai loro mondi.

    Capitolo IV

    CONSEGUENZE DI UN GESTO IMPULSIVO

    Malagenia, l’enorme demone rosso dai vermi al posto dei capelli e dalle corna di muflone, rideva della sua risata grassa e tonante.

    «E così l’Alto Consiglio ti ha condannato, piccolo Astorre?!» stridette Rufububu, l’alto, magro demone dalla pelle verde foruncolosa, la pancia sporgente, il muso allungato e neri capelli unti.

    Una vampata di fuoco scaturì dal bastone di Astorre e incenerì la testa di Rufububu, il cui corpo cadde pesantemente all’indietro.

    Malagenia non si scompose neanche un po’. «E come mai ti hanno processato?»

    «Perché... mi sono azzuffato con uno dell’altra schiera... e perché ho taciuto di aver preso tre anime, prodotte illegalmente dallo stesso angelo qualche settimana prima».

    Malagenia scosse il testone, divertito. «Si direbbe che hai un nuovo amico… ah ah ah!»

    «Se non fosse stato per l’ossuta falciatrice, che si è presentata al processo...» si lamentò Astorre, ignorando l’allusione.

    «E quale sarebbe la punizione?» intervenne la nera demonessa alata, seduta su una roccia davanti all’originale costruzione, a guisa di tenda fatta di ossa e pelli di animali, poco oltre il perimetro delle Prigioni, delimitato dall’Acheronte. Era intenta a rammendargli il cappotto e solo ogni tanto interveniva nella discussione.

    «Dovrò tenermi pronto a collaborare con... quello!» tagliò corto Astorre. «E pensare che ha anche ucciso il mio Rogna!» aggiunse mentre grattava la pancia a un altro animaletto dal corpo tozzo che, da coricato, lo guardava adorante.

    «Tieni, ho finito» disse la demonessa porgendo il tabarro al proprietario. «Ma la prossima volta che ti trasformi, toglilo!»

    «Grazie, Calpurnia» rispose Astorre, accarezzando amorevolmente l’indumento.

    Mentre infilava l’amato pastrano, il corpo di Rufububu si scosse. Il busto scattò all’insù, la testa intatta e senza nemmeno una scottatura.

    «Ma sei scemo?!» sibilò indignato.

    «Oh, andiamo Bubu, sei immortale! Era solo un innocuo scherzetto» sorrise innocente il diavolo.

    «Ma questo non significa che non faccia male!» mugugnò l’altro, offeso.

    Per tutta risposta, un’altra fiammata gli cancellò di nuovo la testa, in mezzo alle risate sguaiate dei compagni.

    Quando Rufububu rinvenne, sputacchiando e tossendo, se ne erano già andati tutti.

    L’angelo, assiso sui gradini davanti al suo tempietto, rimuginava su quello che era accaduto.

    Da anni, le due parti non si scontravano e ora proprio lui aveva infranto quel tabù. Non solo, aveva anche eliminato tre esseri umani – beh, insomma, più disumani che umani, per la verità. Proprio lui, un angelo, aveva commesso omicidio. Era normale, anzi, perfino troppo poco che gli avessero tolto le mansioni di Guida delle anime di chi era deceduto di morte violenta, per lasciarlo in aspettativa.

    Mentre era assorto nei suoi pensieri, una torma di angioletti rubicondi sfrecciò a pochi metri da lui, starnazzando gioiosa. Bofonchiando qualche lamentela, Aurelio alzò la testa, giusto in tempo per venire travolto dall’abbraccio di una bimba dai boccoli d’oro.

    «Aube, sei tu?!» esclamò, dopo un attimo di incertezza.

    La bambina si aprì in un sorriso radioso, i capelli che le incorniciavano il viso come una fulgida aureola.

    «E c’è anche Teddy!» disse, alzando l’orsacchiotto di pezza che teneva in mano.

    «Ciao, Teddy!» salutò l’angelo.

    «Avevi ragione, è proprio un bel posto, questo! Ho visto mamma e papà, c’è Teddy e ora ho un sacco di nuovi amichetti!» raccontò entusiasta la piccola.

    L’angelo le accarezzò i morbidi ricci.

    «Vieni, Aube?!» la chiamò un fanciullo un po’ più vecchio degli altri, armato di arco e frecce.

    La bimba guardò il suo grande amico con gli occhioni blu cobalto e gli schioccò un bacio sulla guancia.

    «Tornerai a trovarmi, qualche volta?» le domandò l’angelo, rattristato dalla brevità della visita.

    Aube annuì vigorosamente e si riunì allo stormo di putti che scomparvero chiassosi dietro a una nuvola.

    «Beh, dopotutto quei tre se l’erano proprio meritata» commentò l’angelo, ma si rimproverò subito, pentito. Anche se quei tre erano criminali, non avrebbe dovuto arrogarsi il diritto di giudicarli e condannarli a morte, sostituendosi a una Giustizia molto più in alto di lui. Aveva sbagliato e avrebbe dovuto espiare a lungo e duramente quella gravissima colpa!

    Capitolo V

    LA PRIMA MISSIONE

    Astorre insultava a denti stretti Minosse, il suo capo, che gli aveva affibbiato il compito di pulire gli scaffali, rimettendo ordine in incartamenti vecchi di secoli e tra centinaia di libri di censo, punizione supplementare per aver falsificato dei documenti e infranto le regole.

    Contemporaneamente, l’angelo era stato chiamato al cospetto di Gabriele, che ricopriva in via provvisoria la carica di responsabile delle Guide delle anime terrene, in sostituzione del vecchio Laio.

    Percorrendo i luminosi corridoi celesti dell’Amministrazione, l’angelo vide in lontananza due figure conosciute: una era senza dubbio Pietro, il Direttore, vestito con un saio candido, i capelli che formavano una bianca aureola attorno alla testa... e l’altro... lineamenti femminei, capelli neri e lucenti, barbetta corta e curata, occhi lievemente a mandorla... una bellezza esotica e soprannaturale. La tunica che indossava, di un rosso scarlatto, strideva con i tenui colori dell’intero Paradiso.

    Non poteva essere che lui...

    «Che ci fa Lucifero qui?» domandò l’angelo, entrando difilato nell’ufficio di Gabriele.

    «Sembra ci siano delle novità su quel demone ribelle» rispose questo senza alzare la testa da una marea di scartoffie. «È venuto su a parlare con Pietro, per accordarsi sulla strategia migliore da adottare... Ah, ciao, giustiziere!»

    «Con Pietro?» rimarcò scettico quest’ultimo, senza prestare attenzione alla frecciata di Gabriele.

    «Volevi forse che ne parlasse con te?» ribatté caustico il capo.

    «Sai cosa intendo! Ogni parte copre e risolve le sue magagne. Non ricordo un caso di collaborazione da... da... insomma, non lo ricordo».

    «Beh, sembra che questo demone, Demetros, sia una bella spina nel fianco del vecchio Lucifero... una spina che da solo non riesce a togliersi! In fondo, nonostante quel piccolo dissapore all’inizio dei Tempi, con chi sai tu – e relativa condanna – i rapporti sono quasi sempre stati neutrali e, per quel che ne so, il birbante si trova bene laggiù... ha il suo regno, la sua residenza idilliaca, il suo esercito, i suoi schiavi, le anime... Non vuole di certo perdere tutto per un demone testardo e ambizioso. Ma ora passiamo al motivo per cui, malgrado tutto, ho dovuto farti chiamare. Devi sapere che ci sono dei problemi sulla Terra e, disgraziatamente, tu sei l’unico che può risolverli».

    Aurelio inarcò ironico un sopracciglio e attese altre spiegazioni.

    «Un’anima destinata a noi e una assegnata a loro sono entrambe bloccate e gli emissari non riescono a prelevarle... E tu sai cosa succede se rimangono troppo sulla Terra...»

    Una lucina eterea entrò galleggiando a mezz’aria dalla finestra dell’ufficio e si avvicinò all’orecchio di Gabriele, che ascoltò con attenzione.

    «Sbrigati ad andare!» sbottò trafelato il responsabile. «Sembra che il tuo sostituto stia per annientarle!»

    «Ma chi avete mandato al mio posto?» domandò Aurelio allibito, incapace di credere a quell’eventualità.

    «…Santino» rispose esitante Gabriele.

    «Santino chi? Quello della Falange?»

    «Perché? Ne conosci altri?»

    «No… purtroppo no! Ma come avete potuto? Quello è pazzo!»

    «Ah, sì?! E tu hai il coraggio di criticare, dopo quello che hai combinato?!»

    Senza curarsi di rispondere, agitatissimo, Aurelio scomparve in un lampo di luce.

    Frattanto, nell’altra dimensione, Astorre era ancora impegnato a redigere documenti, snocciolando maledizioni a destra e a manca.

    «Maledetto Titivillus, tu e la tua dannata mania di introdurre errori anche qui!»

    Capitolo VI

    LA NASCITA DELL’OMBRA

    «Santino, fermati!» gridò Aurelio appena materializzatosi nel luogo dove aveva percepito l’essenza del collega.

    Davanti a lui, un piccolo demone viola, alto poco più di mezzo metro, ali rachitiche sulla gobba e tentacoli privi di ventose al posto dei capelli, si frapponeva fra tre corpi umani esanimi e un essere celeste dall’aspetto minaccioso.

    Entrambi brandivano un bastone: uno era identico a quello di Astorre, se non fosse stato che, invece di tre campanelli, ne inanellava uno solo; l’altro era bianco e, a un’estremità, portava la statuina di un angelo con un’ala al contrario.

    «N-non to-to-toccherai la-la-la-la…» il demonietto batté qualche colpo sulla strada col bastone e riprese a parlare fluentemente: «Mia anima!»

    «Vanno eliminate» sostenne con calma apparente Santino, lo sguardo truce come sempre, gli occhi, neri come i lunghi capelli, ridotti a due fessure. «Diventeranno pericolose, se indugiamo ancora».

    «No! Non ne hai il diritto, l’autorità... niente, niente...» sputacchiò il piccoletto, attorcigliando la lingua e rendendo difficile la comprensione di quanto diceva.

    «Cosa succede, di preciso?» intervenne Aurelio.

    «Sono arrivato qui…» proruppe concitato il piccolo demone.

    «No, non tu, Medusello» lo interruppe Aurelio.

    Santino, continuando a tenere d’occhio le anime, prese a spiegare:

    «Tagliando corto, il padre ha colpito a morte moglie e figlia, quindi si è suicidato. Noi siamo arrivati a tempo, io per la bambina e lo sgorbio per il padre... la mamma, invece, è ancora viva...»

    «Già» gracchiò flebile Medusello.

    «Tuttavia è successa una cosa senza precedenti...» proseguì Santino, fulminandolo con gli occhi.

    «L’anima della bambina non vuole separarsi dalla madre e ha creato una sorta di barriera che ci impedisce di raggiungerle... anche quella del padre è all’interno della barriera».

    «Proprio a Medusello, proprio a Medusello! Lo s-s-sgrideranno, lo calceranno, lo punzecchieranno...» piagnucolò l’esserino, saltellando disperato da un piede all’altro. Ora mescolava erre blesa a esse sibilanti… Sembrava che tutti i difetti di pronuncia si fossero concentrati in una sola creatura.

    «Bisogna eliminarle prima che degenerino... la Legge lo prevede» affermò Santino, malcelando un sorriso sadico.

    «Questo non significa che si debba fare per forza. Fammi tentare» propose Aurelio conciliante.

    «Sì, sì, sì!» si rianimò Medusello.

    Santino era conscio delle postille della Legge, che prevedevano l’eliminazione solo come ultima spiaggia. Così, di malavoglia, assecondò il compagno con un cenno teatrale del braccio.

    Aurelio si accovacciò ai margini della barriera, provando a parlare dolcemente con la piccola, ma l’unica cosa che ottenne fu un muro di ostinato silenzio.

    Medusello, intanto, saltava qua e là come una pulce.

    Proprio quando l’angelo stava per arrendersi, notò tra le braccia della bimba un coniglietto di peluche. Scattò in piedi, nel cervello una sola idea fissa.

    «Posso procedere?» domandò impaziente Santino.

    «No! Torno subito!» rispose sbrigativo l’altro. «Non fare niente!»

    «Ti do dieci minuti, poi spazzo via tutto!»

    Medusello si ributtò tra Santino e le anime, digrignando i denti e agitando i tentacoli e le alucce ossute.

    Fu facile trovare la turba di Valentino. Bastò seguire gli schiamazzi e il baccano.

    Li trovò intenti a simulare una battaglia con palle di soffici nuvole. Uno, più dispettoso degli altri, era in procinto di fare la pipì sulla schiena di un altro, più in basso. Fu fermato da Aurelio con un buffetto sulla testa, mentre si faceva strada verso Valentino tra quell’orda assatanata.

    «Valentino, ho bisogno di Aube... sulla Terra».

    «Far tornare un’anima sulla Terra? Ma se non possono andarci neanche gli angeli senza autorizzazione, figurarsi un’anima…» protestò quello, scandalizzato.

    «Ci parlo poi io, con i superiori… tanto, ormai, più inguaiato di così… Ma è di vitale importanza che lei venga con me» tornò a insistere Aurelio, con urgenza.

    «Ma... non so... è così piccola...» Valentino sembrava sul punto di farsi convincere… del resto era sempre ben disposto e amichevole.

    «È l’unica che può salvare un’anima, giù... una bambina come lei, per la tua schiera, altrimenti Santino la annienterà...»

    Valentino alzò la testa, allarmato: «Santino?!»

    Aurelio si rese conto di aver parlato troppo.

    «Non permetterò che un mio bimbo si avvicini a quel pazzo sadico... o a un qualsiasi altro angelo della Falange!»

    «Elio!» Uno scricciolo biondo gli volò addosso.

    Aurelio colse al volo quell’interruzione, prendendo in contropiede l’altro angelo.

    «Aube! Ciao, piccola!» la salutò prendendola in braccio. «Ti va di fare un giretto col vecchio Elio?!»

    «Sììì!» gridò entusiasta Aube.

    «No!» disse categorico Valentino.

    «Salverà una bambina» tentò di nuovo Aurelio.

    «Sì, la voglio aiutare...» piagnucolò la piccola, senza ben sapere di cosa si stesse parlando, ma ansiosa di accontentare il suo eroe.

    «Ho detto no!» ribadì Valentino, ma il tono era meno determinato.

    E davanti allo sguardo supplichevole della bambina, alla fine non poté che accordare il suo consenso.

    «Ma guai a te se le succede qualcosa!» minacciò. «Ti strapperò le piume delle ali a una a una!»

    «Cosa c’entra, ora, un’altra poppante?» protestò stizzito Santino.

    Aurelio gli fece cenno di stare zitto.

    «Se non funziona neanche questo, allora potrai fare quello che credi».

    «No-no-no-no!» si disperò Medusello, affondando le sue tre dita corte e tozze nei capelli mollicci.

    Poi fecero tutti silenzio... a parte qualche gracidio inintelligibile del demonietto.

    Aube si avvicinò all’anima in singhiozzi.

    «Ciao!»

    La coetanea alzò la testa, incuriosita da quella giovane voce.

    «Come ti chiami?» domandò Aube.

    «Dawn» rispose l’altra, tirando su col naso e stringendo forte il suo peluche.

    «Io sono Aube. E questo è Teddy».

    «Lui è Bunny...» fece Dawn più interessata.

    «Che bello! Possono diventare amici, se vuoi… E lo possiamo diventare anche noi due, se vieni via con me e con Aurelio».

    «No!» Dawn tornò a rannicchiarsi contro il corpo della mamma.

    Santino strinse i pugni sul bastone. Aveva notato che l’anima dell’omicida, fino a quel momento immobile e annichilita, iniziava a dar segni di risveglio e a farsi più scura.

    «Dobbiamo agire» sussurrò.

    «Sì-sì-sì-sì!» conveniva ora Medusello.

    «Ancora un po’!» li bloccò Aurelio nervoso.

    «Voglio la mamma! Non si sveglia» piangeva Dawn, mentre tentava senza successo di scuotere il corpo esanime.

    Anche Aube, ormai, percepiva l’ondata nauseante di malignità che si dilatava pulsando intorno all’anima dell’assassino.

    «Vieni con me!» supplicò tendendo la manina. «Tua mamma ci raggiungerà, ne sono certa... ma se rimani qui, allora non la vedrai più...»

    Dawn esitava, spaventata dall’emergere di quella nuova minaccia e dall’idea di dover abbandonare la mamma.

    L’anima ormai nera del padre incombeva sulla bambina.

    «Tua

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