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Un Sogno Marginale
Un Sogno Marginale
Un Sogno Marginale
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Un Sogno Marginale

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About this ebook

Il nostro protagonista è una persona straordinariamente normale, talmente qualunque che, pur narrando in prima persona l’intera storia, non cita mai il proprio nome. E’ un guidatore di corriere, abituato a percorrere una strada nel corso della quale viene a contatto con l’umanità più svariata, capta situazioni, avverte umori e sentimenti. Non giudica ma paragona, non s’intromette ma elucubra.

Ogni giorno, alimenta il proprio sogno, marginale in quanto distaccato dalla vita reale che conduce, ma vivo, caldo, confortante.

La moglie del nostro, infermiera, è tanto dinamica e pratica quanto il marito è riflessivo e « tenue ». La loro vita è contornata da personaggi colorati, in grado di stimolare la tenera, irrinunciabile dimensione parallela del protagonista. Il figlio Simone, forte, spavaldo, ma sostanzialmente buono, dotato di un notevole, prematuro senso di discernimento. Il padre, saggio e permeato da urticanti ironie, i colleghi, specialmente uno di questi, che prende il protagonista sotto la propria ala protettrice, (e non è detto sia sempre un bene). Lui ricambia tutti con una mansuetudine sorridente, un ponderare acuto, magari fintamente cosmico ma comunque sorprendente.

Il rapporto fondamentale che il nostro autista tiene in piedi è però quello, epistolare, con un’entità che non viene svelata, ma che il lettore più attento non faticherà a riconoscere. Lettere appassionate, spesso commoventi, umili ma anche trasudanti, in certune occasioni, rabbia e rimpianto, appena soffuso ma non diminuito dal tempo, sempre permeato di dolci nostalgie.

Sarà proprio quest’entità a condurre per mano il nostro protagonista al passo fondamentale per la realizzazione del proprio sogno “marginale”.

Sono pagine pressoché prive di tensione, tranne per brevi paragrafi; eppure l’irripetibile filosofia del protagonista si dimostra accattivante, spinge il lettore a continui raffronti, a porsi domande che potrebbero riservare risposte sorprendenti.

Il finale potrebbe sembrare stravagante, ma a chi abbia preso realmente “a cuore” le vicende del nostro protagonista, cercando d’immedesimarsi con esso, e di adeguarsi al modo di pensare dello stesso, magari eccessivamente “old fashioned”, un po’ naif, ma sempre, testardamente genuino, non potrà che trovarlo logico e perfettamente in linea col personaggio.

Ossia sorridente, vitale, così estraneo al mondo odierno (cruento, meschino, pazzoide), d’apparire per certi versi irresistibile.
LanguageItaliano
Release dateDec 22, 2015
ISBN9788869821653
Un Sogno Marginale

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    Book preview

    Un Sogno Marginale - Alfonso Gariboldi

    n.9

    1) Una vita benedetta

    Ancora bambino, mi trovavo al mare con i miei genitori. Eravamo scesi in refettorio per il pranzo. La sala era un ampio locale quadrato, con quattro colonne, poste all’incirca dove i lati si congiungevano. I tavoli erano disseminati alla rinfusa. Avevamo finito di mangiare e io avevo preso a girare per la sala, seguito dal benevolo sguardo di mia madre, che sapeva che dopo un breve giro sarei tornato al posto, senza farmi troppo pregare. Mi ero fermato ad un tavolo piuttosto appartato, seminascosto da una colonna. Mi ero avvicinato e vedevo tre persone, due piuttosto anziane e una un po’ più giovane, alla quale non riuscivo ad assegnare un’età. Aveva una testa piccola, chinata sulla tavola, stava tutto incassato sulle spalle, che erano grandi, da uomo. In quella aveva alzata la testa, mi aveva guardato e s’era messo a ridere in modo strano. Faceva smorfie che mi spaventavano, alzava le mani, forse voleva dirmi qualcosa, ma non capivo. S’esprimeva solo con strani borbottii, confusi, irregolari.

    Poi aveva chinato di colpo la testa e non l’aveva più alzata.

    Ero passato oltre, sentivo che le due persone anziane sorridevano al mio sguardo stupito, e non avevo più timore, anche se ero contento di tornare al mio tavolo.

    E’ stato quello il momento in cui ho capito che la mia era una vita benedetta.

    2) Da due a tre

    Il destino, nient’altro che il destino, beffardo come sempre, poteva essere stato a scegliere quella data. Tutti erano certi che non vi sarebbe stata la minima complicazione, includendo alla voce complicazioni anche anticipi di qualsiasi genere. Invece, sai che c’era? Che all’alba s’eran rotte le acque, e allora via, di corsa in ospedale, a conquistarsi un posto letto in neonatologia, e sperare in bene.

    Ed evidentemente, non era stato un anticipo normale. Lui doveva nascere ai primi di aprile? Ok, ridacchia il fato, simpatico come il ricordino che il piccione ti spiaccica sulla camicia nuova, io te lo anticipo di due mesi secchi, proprio in questo febbraio polare (e meno male che tutti si sentivano, dopo un dicembre mite e un gennaio così così, pronti a giurare che ormai la brutta stagione era alle spalle), quando le strade sono disastrate dalla neve notturna che è diventato ghiaccio mattutino. Al massimo, sghignazza ancora il sadico fato, ti concedo che capiti di sabato, così almeno sei a casa dal lavoro. Vantaggio solo apparente, dato che proprio perchè è sabato nessuno ha pensato di spedir fuori i mezzi con il sale, e le strade sono bianchi scivoli che ti possono lanciare contro un palo, in un fosso o in mezzo ai prati, puoi scegliere. Vantaggio nullo, perchè il destino non sa (ma il fato non dovrebbe essere onniscente?) che sia io che mia moglie lavoravamo a turni, e il sabato e la domenica erano giorni esattamente come gli altri.

    Comunque poi alla fine ce l’avevamo fatta. Alla fine era stato esattamente come l’abbiamo immaginato per quei sette mesi, e non mi ero più amareggiato per tutti le maledizioni che mi avevano tirato i colleghi quando finalmente mi ero degnato di rispondere al telefonino. Perchè, in effetti, avevo dimenticato di avvisarli che quella mattina avevo qualcosa di meglio da fare che guidare un pullman, e meno male, visto che dovevo montare alle cinque e con quelle strade ti raccomando.

    E pensare che quando finalmente avevo realizzato che era meglio stroncare quel suono crescente, stridulo e imbecille che mi fuoriusciva dalla tasca, e a causa del quale attiravo senza rendermene conto gli sguardi colmi di rimprovero degli astanti, leggendo il nome apparso sul display, credevo che lui volesse complimentarsi con me.

    Senonchè, così non poteva essere, io non avevo detto niente a nessuno. Tutti sapevano che il bimbo doveva nascere ai primi di aprile, io stesso lo sapevo, prima di questa notte imprevedibile. Oltretutto, Gustavo Salmoiraghi, detto il Vivaldi della Milano-Saronno perchè guidando aveva un tocco di freni e acceleratore vivace e armonioso, ma ancor di più perchè diffondeva sempre lo stesso, maledettissimo CD delle Quattro stagioni, era celebre per il carattere fumantino e per essere uomo tutto d’un pezzo. Quarantotto anni e novantasei chili, due per anno, faccione quadrato con mascellone vista sud, taglio fisso a spazzola 1 cm sale e pepe, il Salmoiraghi era puntigliosissimo sul lavoro, prima di tutto con sè stesso, e provava profondo disprezzo verso chi sgarrava. E io avevo sgarrato di brutto, avevo lasciato scoperto un turno fondamentale come quello del sabato mattina senza preavviso, nè avviso, nè spiegazione alcuna. Ero nell’orgasmo più totale: un figlio alle sei e trenta di un mattino di febbraio col termometro ancorato a meno otto e la suoneria del cellulare che preannunciava un epico cazziatone di Vivaldi. Ero deciso a spegnere l’apparecchio ma, l’ho appena ammesso, ero in preda all’orgasmo. Il mio dito sudaticcio ed emozionato sbagliò a planare sul display, accettò la chiamata e invece di spegnere subito dopo, schiacciò il tasto altoparlante, diffondendo a volume altissimo gli insulti e le maledizioni di Vivaldi, cui non feci nemmeno il tentativo di spiegare che ero diventato padre e non vedevo l’ora di condividerne la gioia anche con lui. Non feci quel tentativo anche perchè due grossi e grassi addetti alla security s’avventarono su di me con fare minaccioso, il telefonino mi cascò di mano e volò sotto qualche letto, dal quale Vivaldi proseguiva instancabile a manifestarmi disprezzo a toni elevatissimi.

    Ad ogni buon conto, io nel pomeriggio l’ho richiamato, il Vivaldi. Sapevo che lui doveva solo sbollire la rabbia e poi amici come prima. Io mi trovavo ancora in reparto, finalmente ci avevano lasciato il bambino un po’ tutto per noi e ce lo stavamo coccolando per bene, poi a un certo momento mi ero allontanato per telefonare in pace. Al terzo squillo, avevo sentito la sua voce esplodere con foga e per un attimo avevo temuto volesse riprendere gli insulti da dove li aveva interrotti la mattina. Invece, come previsto, gli era passato tutto. Mi chiese come mai non m’ero presentato al lavoro, e gli dissi che mio figlio era nato con due mesi d’anticipo. Si congratulò con me, senza mancare però di rimproverarmi: se l’avessi detto subito..ero il solito pasticcione. Aveva poi urlato altri complimenti misti a colorite espressioni in slang brianzolo, per poi interrompere di botto la comunicazione. Si avvertiva nitido il rombo del pullman e il cd della Primavera che stava iniziando, il segnale della sua partenza da Piazzale Lotto, in perfetto orario. come aveva sempre fatto. Forse avrei dovuto scusarmi, stavo per importunarlo sul lavoro. Per tutto il tragitto, il Vivaldi non avrebbe più pensato a me, al mio primo figlio, alla mia assenza sul lavoro, e più in generale a tutto il resto delle cose dell’universo che non fossero connesse al percorso Milano-Saronno.

    Non vorrei aver a questo punto insinuato nel lettore un dubbio che non ha ragione d’essere. Io amavo guidare le corriere, per me era un lavoro bellissimo dove venivo pagato per andarmene in giro. Solo che quella mattina avevo poca voglia, tutto quel ghiaccio, e poi ero giustificato. Ma in genere, mi piaceva molto. Anch’io avevo la mia tratta fissa, come Vivaldi; era la Milano-Abbiategrasso, che è bella facile, lungo il naviglio, senza troppi dentro e fuori. Ogni tanto ci cambiavano itinerario, a seconda delle esigenze, ma in genere il percorso era quello.

    Non so neanch’io dire come avessi fatto, dopo il diploma di perito meccanico e una esperienza come manutentore di motori presso una piccola azienda di periferia, all’imbocco della Paullese, a trovarmi tra le mani, appena ventiquattrenne, il volante della gloriosa Freccia di bronzo AS 458 della compagnia tramviaria Lo sparviero. So solo che non l’ho più mollato, non ho mai saltato un turno, una presenza, mai un giorno di malattia, sempre rigato dritto fino alla mattina che è nato nostro figlio, una decina d’anni più tardi.

    Il lunedì, ho telefonato alla direzione, perché anche se le corriere girano, loro il sabato e la domenica sono chiusi, mi hanno fatto gli auguri e le raccomandazioni di rientrare quanto prima, e io ho ricominciato lo stesso giorno, anzi sera, dato che quella settimana facevo il terzo. Avevo staccato che era notte fonda, ormai era tardi per rientrare in ospedale, ma tanto il giorno dopo venivano dimessi tutt’è due, madre e figlio, e sarei andato a ritirarli.

    Mi sono addormentato subito quel lunedì, e anche se per la prima volta da quando eravamo sposati avevo dormito da solo, ero contento come una Pasqua.

    3) Marina

    Marina invece l’ho conosciuta che già guidavo la Freccia di Bronzo da cinque, sei anni. Era quel periodo che papà non stava molto bene, non stava bene per niente, in realtà, e faceva dentro e fuori dagli ospedali. Durante una degenza particolarmente dura, m’ero fatto dentro quattro o cinque notti di fila. L’ultima notte era stata interminabile. Quando verso le quattro ho sentito il tenue russare del babbo e ho capito che stava per prendere sonno, ne ho approfittato per sgattaiolare fuori e andarmi a prendere un tè alla macchinetta. Dovevano averla vuotata da poco, perchè le due monete arrivarono sul fondo della cassetta portamonete originando un tonfo metallico rumorosissimo, che avrebbe certamente svegliato i degenti, e di tutti almeno uno, mio padre, che soffriva d’insonnia e che in quell’ospedalizzazione avrà dormito si e no dieci ore. Mi sarei impiccato. Trattenevo il fiato e non riuscivo a decidermi a ritirare il tè dall’apparecchio, restando lì col braccio a mezz’aria e l’orecchio fisso verso i letti.

    Apparentemente, non era successo nulla, mi pareva d’avvertire lo stesso ovattato silenzio di prima.

    Così ho allungato la mano per prendermi il thè. Ho trattenuto stoicamente un urlaccio, il che sarebbe stato giustificabile, perché mi sono ustionato le dita con le ultime gocce di the bollente che fuoriuscivano dal condotto. Ultime perché non ce n’erano più. Il resto del tè se n’era già fuggito per lo scarico, dato che il bicchierino s’era risparmiato la fatica di presentarsi per la sua funzione. Erano finiti oppure s’erano bloccati, per il mio dito sofferente però contava poco. Potevo andarmene in giro a cercare un bicchiere di plastica ma non avevo altre monete e se ne avessi avute, non le avrei mai inserite, per non far rumore. Mi sedetti su una panca a fianco della macchina, un po’ triste, con lo sguardo basso. Dopo qualche secondo, ho fatto per rialzarmi, e ho visto Marina, seduta a fianco a me, con addosso un sorriso dolce e una tazza di tè tra le mani.

    Lavorava lì, da infermiera. Era un po’ che mi vedeva, m’ha detto, ed ero davvero ammirevole a restare accanto a mio padre ogni notte, ma per le macchinette automatiche ero proprio un massacro. (Ho dimenticato di dire che la scena della macchinetta s’era appena ripetuta per la terza notte di fila, sempre allo stesso modo). Così, quando m’ha visto recarmi verso l’apparecchio, è andata in cucina e m’ha preparato il tè. Ho cercato di recuperare un pò di dignità, dicendo che ero in un momento psicologicamente complicato e l’uso di una macchinetta automatica andava forse oltre le mie possibilità, accettando tuttavia di buon grado il tè. Marina mi disse comunque, per il futuro, che anche il bicchierino andava selezionato, non scendeva da solo.

    Qui sorse un problema, che era tutto mio, perché non appena ha pronunciato la parola futuro, io ho pensato si riferisse a noi due, e con sguardo da pesce lesso le ho preso la mano. Lei è arrossita, l’ha stretta forte presentandosi (è così che ho saputo il suo nome) e se n’è corsa via, lasciandomi lì col tè bollente da finire in una mano, e l’altra ancora stesa.

    Non sapevo bene cosa fare. Di certo, ho finito il tè. Poi mi son ricordato del papà, e mi son precipitato in camera sua senza far rumore. Sentivo ancora un lievissimo respiro, un mezzo russare, insomma ho pensato che dormisse, o forse mi faceva comodo crederlo. Mi sono sentito in dovere di andare a cercare Marina per completare la presentazione, che s’era svolta in modo insolitamente univoco, e naturalmente per restituire la tazza di tè vuota, forse avrei dovuto anche lavarla. Trovai Marina quasi subito, usciva da una camera spingendo il carrello dei medicinali, forse doveva fare qualche somministrazione notturna. Quando mi ha visto, ho avuto come l’impressione che volesse farsi scudo del carrello, ma io ho preannunciato le mie intenzioni con un’espressione rassicurante: Non vorrei apparirle maleducato. Io sono....

    In quel preciso istante, s’e sentito un urlo angosciante, era mio padre che mi chiamava disperato, s’era svegliato e non m’aveva trovato al suo fianco. La presentazione, ci aveva pensato lui a finirla. Dimenticai Marina e corsi da lui. Ma la mia futura moglie aveva un cuore d’oro. Mi seguì e m’aiutò a tranquillizzare il babbo, che pian piano si riaddormentò. Stavolta restai da lui fino al cambio, al mattino. Prima di uscire, Marina, che ha tuttora un cuore d’oro ma sulle questioni di principio è peggio di Vivaldi, mi ha fatto una lavata di capo sensazionale, e sono andato al lavoro sentendomi un verme, ma per qualche strano motivo dentro ero tutto contento.

    Proprio quel giorno, per fortuna, il babbo veniva dimesso, e da quel momento non è più tornato in ospedale. Purtroppo però, non per questo ha smesso di diventare anziano. A un certo punto, circa un paio di mesi più tardi, ha chiesto espressamente di essere ricoverato in una casa d’accoglienza. Naturalmente io ero nettamente contrario, e malgrado fosse abbastanza complicato per me aver cura di lui, dati i turni ballonzolati che m’affibbiavano sul lavoro, ero stato irremovibile fin dall’inizio.

    Tu nella casa di riposo non ci finirai mai.

    Tre giorni dopo, era una splendida giornata di sole, io e il babbo ci dirigevamo verso l’Istituto per Anziani Caduta libera, con una valigia e una cartelletta di documenti sui sedili posteriori.

    Abbastanza incomprensibilmente, io ero triste e papà allegro. Lui diceva che era meglio per tutti, che sarebbe stato servito e riverito, e che era a pochi chilometri e potevo andarlo a trovare ogni giorno, sai quel pacchettino di scuse che si inventano per tirar su il morale a qualcuno; io invece mi sentivo già orrendamente solo prima ancora che valicassimo l’ingresso della Casa. Ma avevo deciso di darmi un tono per non dargli un dispiacere. Stavamo superando la barbosa trafila dell’accettazione, tra l’altro la struttura era proprio come uno se la immagina, ossia con pareti altissime e sobrie, con vecchi quadri polverosi che nessuno guarda, ombre e silenzi e sguardi assenti, impersonali degli operatori, quando ho guardato dritto davanti a me, verso una porta chiusa, così senza motivo. Qualcuno m’aveva suggerito di farlo, (il che è un po’ come le prime spiegazioni che danno i serial killer dopo le proprie pazzie, però è così), e un attimo dopo da quella porta è uscita Marina. Vedendola ho capito due cose. La prima è che era la prima volta che ci pensavo dopo quello strano incontro in ospedale. La seconda è che sarebbe diventata mia moglie. Possono sembrare due pensieri contrastanti, e infatti lo sono. Pareva leggermente spaventata, più dell’ultima volta. Ma stavolta presi in mano io la situazione, in modo deciso.

    Buongiorno, Marina, per me e mio padre è un piacere rivederla, siamo dei nuovi ospiti.

    Siamo?

    Intendevo dire, è lui, mio padre

    Ah, meno male.

    Meno male?!?

    Il dialogo proseguì su binari traballanti per qualche secondo. Intervenne mio padre a trarci d’impaccio, con la prima domanda che avrei dovuto fare io, con una naturalezza che io potevo solo sognarmi, malgrado in fondo la formula fosse quasi la medesima:

    Che piacere rivederla, come mai è qui, signorina?

    Venimmo sapere che c’era stato uno strano flusso di personale, scambiato tra l’ospedale e la casa di riposo, e Marina era rientrata in questa combinazione, ormai da qualche settimana. Voi adesso direte: ci manca solo che tuo padre venisse assegnato alle sue cure. Meno male che non ho scommesso, è stato proprio così. Per giocare il carico, dirò che Marina, pur essendo giovane, gentile e assai piacente, era in quel momento single. Già tre sere dopo, quando tornai a trovare il babbo, restai un po’ a parlare con lei e buttai lì che prima o poi, si sarebbe potuti uscire insieme.

    Mi guardò per qualche secondo con aria stupita.

    Perchè?!?

    Preferiì ignorare la mia domanda e la sua risposta, m’inventai un impegno e scappai a casa. Dimenticai di salutare il babbo che mi chiamò in macchina coprendomi d’insulti. Non perchè non mi fossi fermato a salutarlo, ma perchè non ero riuscito a combinare l’uscita con Marina.

    Mi misi in testa fin da subito che avevo pochissime speranze di conquistarla. Doveva considerarmi poco, perché, durante le mie frequenti visite al babbo, mi trattava con un certo sussiego, quasi con altezzosità, mentre con papà era gentile, riverente, certo anche per lavoro, ma si capiva che aveva maggior considerazione. Un giorno, mentre io ero al capezzale del babbo, lei è entrata con la consueta aria professionale, è s’è profusa nelle usuali gentilezze al babbo, senza in pratica degnarmi di uno sguardo. Quando uscì dalla camera, mio padre mi fece notare due cose. La prima era che, secondo lui, Marina entrava in camera molto più del necessario, e in genere sempre quando c’ero io. La seconda era che solo un povero fregnone imbranato come me poteva non accorgersi. Aveva ragione, talmente ragione, che ne aggiunsi io una terza.

    Se non mi sbrigo, la perderò.

    Mi sbrigai, ma fu per puro caso che non la perdetti. Per quindici giorni non si fece vedere, proprio nel periodo in cui io, casualmente, avevo deciso di andare tutti i giorni a trovare papà. Ero terrorizzato. Mio padre era dispiaciuto per me, ma mi diceva che non riusciva a scoprire, pur curiosando in giro, i motivi dell’assenza di Marina.

    Scoraggiato, ho smesso per qualche giorno di andare a trovare papà. Tornai la domenica, ma dovetti aspettare un pò, prima di parlare con il babbo. Era in camera e stava riposando, e non avrei voluto svegliarlo. Così gironzolai brevemente tra le stanze, senza meta. Sarà stato il giorno di festa, forse quel bel caldino di metà primavera, quando il clima non è ancora ammorbato dai frequenti, caldi anticipi d’estate, ma c’era in giro davvero poca gente. Qualche inserviente, nessun dottore e, fuori sul prato, alcuni pazienti a passeggiare pigri, o a leggere seduti sulle panche, all’ombra degli olmi. Stavo per uscirmene anch’io quando qualcosa m’attrasse dentro una camera. C’era una signora sdraiata in un letto, non era anziana, e questo mi colpì. O meglio, non era molto anziana, ma pareva soffrire d’una sofferenza strana, silenziosa, irrecuperabile. Lo sguardo vitreo, inerte, riusciva soltanto a schiudere la bocca di tanto in tanto, lievissivamente. M’avvicinai. Di fianco a lei, una bottiglietta d’acqua quasi piena, con una cannuccia immersa. Non so cosa mi prese, so che afferrai la bottiglietta, mi chinai sulla donna e appoggiai più delicatamente possibile la cannuccia sulle sue labbra. Con fatica, con tante pause, con cautela, quasi con paura, ma dopo cinque minuti la bottiglietta era vuota. La rimisi sul comodino della signora, chiedendomi, un pò impaurito, se avessi fatto bene. Ma poi guardai ancora la donna e mi commossi, mi parve di vedere uno sguardo più dolce, più grato, oserei dire, e quegli occhi forse avrebbero voluto dire tanto, mi pareva di cogliere in loro un’ombra di costernazione per la propria impossibilità di esprimersi. Mi commossi dicevo, era lo stesso sguardo che ritrovavo in mia madre, poco prima della fine. Stavo per lacrimare, quando avvertiì una presenza dietro me.

    Che cosa sta facendo? Lei non può stare qui, chiamo i carabinieri!!

    Non lo fece. Marina era entrata nella stanza con veemenza, per dire il fatto suo a un estraneo che non doveva starci. Era il primo giorno che rientrava, una semplice vacanza, mi avrebbe detto poi. Bel segugio, mio padre! Era così difficile, da scoprire? Ma guardò la signora sdraiata e dovette scorgervi anche lei qualcosa di nuovo, di tristemente bello, se è vero che non chiamò nessun carabiniere. Si mise invece, a partire da quella stessa domenica, a chiamare papà il babbo.

    Al che, compresi che qualcosa era cambiato, e in meglio!

    4) Tarcisio

    Eravamo d’accordo sul nome fin dall’inizio, nel senso che io avrei deciso in caso di femmina e Marina in caso di maschio. Invece di una dolce Sabrina, dunque, fu un prode Tarcisio ad entrarci in casa, e i sintomi del suo carattere s’avvertirono subito, quando decise di uscire allo scoperto con nove settimane d’anticipo. Meno male che quella sera Marina non era al lavoro, il suo turno alla Caduta libera era stato al mattino. Io invece, come detto, sarei dovuto montare all’alba. Quattro chili di Tarcisio, forte, sano e dal faccione contento d’esserci, in effetti era una gran bella soddisfazione. Gli abbiamo fatto subito un servizio infinito di scatti con la digitale, che hanno inondato il mio portatile, quello di Marina e il fisso che abbiamo a casa, nel soggiorno.

    In un attimo di megalomania, sono andato a cercare in un cassetto di detto soggiorno una foto mia da neonato, l’ho confrontata con quella di Tarcisio e mi son quasi messo a piangere. Più io ero spaurito, spaesato, core di mamma m’aveva definito sorridendo, a mezza voce forse un pò incuriosito.., più Tarci nostro appariva fiero, esuberante, determinato.

    La terza sera dopo essere stata dimessa, Marina m’ha preso da parte e mi ha parlato all’orecchio, non voleva far sentire a Tarci, che apparentemente dormiva sereno nella sua culla, una greve considerazione che, mi confessò, andava maturando da quando nostro figlio aveva visto la luce.

    Diventerà un deliquente matricolato.

    Io che ero appena rientrato da un turno supplementare, mattino più pomeriggio causa indisposizione di collega, e non avevo nemmeno la forza di addormentarmi in piedi, compresi tutta un’altra cosa, e opposi il mio essere distrutto al suo bisogno impellente di cioccolato, eppoi le voglie non finivano col termine della gravidanza?

    Marina comprese che avevo bisogno di riposare, così mi ribadì il concetto il giorno dopo, quando tornai, fortunatamente, da un turno singolo. Tarci non dormiva certamente, dato che Marina stava allattando, ma compresi in un attimo il significato dell’allarme che mia moglie stava lanciando. Il bambino ciucciava alla velocità del suono, temetti che Marina avrebbe esaurito il latte in un battibaleno. Ed io non ero preoccupato per il fatto che divenisse un deliquente, ma un deliquente obeso, con quattro by pass al cuore e il colesterolo in orbita, proprio non l’avrei sopportato. Naturalmente chiesi a Marina l’origine della sua nefasta previsione. Devo averglielo chiesto con una faccia assolutamente neutra e al limite della presa in giro, dato che mi ha squadrato con disprezzo palese e ha continuato a lasciarsi spremere con altezzosa dignità. Alla fine, Tarcisio aveva una faccia pienotta e felice. M’avvicinai con cautela a carezzarlo e mi sbroffò a lungo con affetto sul viso, non avevo mai ingurgitato tanto latte in vita mia, neanche quando prendevo il latte e miele per il mal di gola. C’era certamente qualcosa che non andava.

    A dieci settimane, il pediatra cambiò per la terza volta la dieta di Tarcisio, che soffriva maledettamente nel dover diminuire le razioni di cibo. Puntualmente ogni notte alle due e quarantasei, scoppiava in un pianto dirotto, e le volte in cui ero a casa, ossia non di turno, e quindi dormivo, m’alzavo io per dare un pò il cambio a Marina. Non appena prendevo in braccio Tarci il pianto quintuplicava, allora lo passavo a Marina e si limitava a raddoppiare, il che per l’ego di mia moglie era una vittoria notevole. A sei mesi, quando Tarci, secondo l’ottimo pediatra, era almeno il 27% sovrappeso rispetto alla media dei suoi coetanei e noi cominciavamo a preoccuparci con più serietà, di colpo smise di mangiare.

    Come un adulto qualsiasi che si fosse svegliato una mattina, avesse avvertito un’insidiosa pesantezza di stomaco, si fosse recato davanti allo specchio, e lì una smorfia di doloroso disappunto avesse preso a colorargli il viso flaccido e doppiomentato.

    Dapprima rifiutò il latte di Marina con le buone, tenendo la boccuccia chiusa. Dietro l’insistenza dell’irrequieta madre, poi, finse di ingollarne e lo sbroffò incurante sul pavimento fresco di cera (sulla quale io comunque non avrei mancato di slittare pochi minuti dopo, rientrando di corsa dal turno, ansioso d’abbracciare il bimbo).

    Qui si fa come dico io, stava cercando di spiegarci Tarcisio. E ciò che diceva lui era che da quel giorno, giro di vite nell’alimentazione. In poche settimane, i valori di Tarcisio rientrarono nei canoni tipici della sua età. Il che costò lacrime e sangue a Marina, disperata per ciò che stava succedendo al suo batuffolino, e per riflesso anche al pediatra, che s’inventava improbabili, astruse giustificazioni medico-scientifiche, ma una sera al bar, di fronte a un whisky doppio, con la cravatta slacciata, i capelli arruffati, occhiaie profonde di chi doveva aver studiato un caso clinico per notti intere senza arrivarne a capo, mi confessò piangente che non aveva la minima idea del fenomeno.

    Lo consolai a pacche sulla spalla e gli pagai il conto, se ne andò asciugandosi gli occhi e borbottando ringraziamenti a mezza voce.

    Io ero tranquillo. Per me era normale, che Tarcisio, accorgendosi che qualcosa non andava, cercasse di modificare il trend.

    Che Tarcisio non sarebbe stato un uomo comune, per me era soltanto ovvio. Non ne avevo mai parlato a Marina perchè non mi andava di allarmarla inutilmente. Lei aveva sempre avuto per il pargolo sogni normali da genitrice del ventunesimo secolo, che so, calciatore, attore, cantante, insomma fare un sacco di soldi con poco sforzo; mal che andasse, almeno di trovare una brava ragazza e un lavoro meno sacrificato del nostro (diceva del mio, in realtà, ma il plurale majestatis in questo caso mi salva l’autostima). Vivaldi ci aveva messo del suo, nel farmi maturare questa ferrea convinzione. Tarcisio aveva forse un paio di mesi quando gli scattai una foto che decisi di piazzare sul cruscotto del pullman, senza quelle scritte vagamente menagramo tipo torna a casa presto, papà!, semplicemente un’inquadratura dei quindici, festosi chilogrammi di Tarci che, dal facciotto alle gambe già robuste e tornite, davano già idea di un vasto, compiaciuto benessere. Anch’io alla sua età ero così, il commento estasiato del Salmoiraghi, Diventerà proprio come me!, e mi sferrò una tremenda, amichevole pacca sulla spalla.

    Io ho taciuto e sofferto in silenzio, ma avevo una fulgida speranza: Dio non l’avrebbe permesso, ne bastava uno sul lavoro.

    5) Pensiero n.1

    Un sabato pomeriggio, avrò avuto una ventina d’anni, ero in camera mia e stavo riassettando. Non che avessi molto da fare, in realtà, ma mi piaceva dare un aiuto in casa. Mi dicevi, un giorno tua moglie lo apprezzerà. A un certo momento ti affacci alla porta della camera:

    Sta iniziando il processo.

    Di uno di quei telefilm americani tanto in voga in quegli anni. Avevamo le nostre trasmissioni comuni, non che ci fermassimo apposta davanti alla tele, e forse sbagliavamo perchè, chissà per quale strano tipo di orgoglio o pudore, non ci sembrava giusto, semplicemente. Davanti alla tele si stava per pranzo e cena, ed al limite nei dopocena, se non c’era di meglio da fare.

    Proseguivamo le nostre occupazioni in casa, con l’orecchio lungo, limitandoci a soffermarci sulle scene cui realmente tenevamo.

    Così io ti seguivo in tinello e mi sedevo sul divano ad assistere alla scena del processo. Non era per la scena, era per il rituale. Uno a fianco dell’altra.

    6) Prove di scuola

    Marina si riprese abbastanza presto, o così almeno mi parve, dallo shock di avere un pupattolo divoratore onnivoro che accatastava record di crescita seguito dallo shock di vederlo rientrare in un batter d’occhio negli standard della sua età. Tutto procedette sui binari di una dolce e irrequieta normalità fino a quando Tarci compì cinque anni e si presentò il problema dell’imminente iscrizione alle scuole elementari. Fino a questo momento, quando i nostri turni erano combaciati, per non lasciare a casa il piccolo da solo Marina aveva ottenuto dalla presidentessa di Caduta Libera di portarselo in casa di riposo, con una minima detrazione sullo stipendio per custodia di minore. Ma adesso doveva andare a scuola, come avremmo potuto assicurargli un quotidiano accompagnamento e ritorno? I genitori di Marina godevano di ottima salute, ma stavano a ottanta chilometri di distanza, in un paesello sul lago, dove Marina era nata. I miei s’erano ridotti a mio padre, che per l’appunto dimorava presso quell’onorevole casa di riposo. Iscrivemmo comunque Tarci all’elementare entro i termini dovuti e con una notevole dose di incoscienza, qualcosa sarebbe successo.

    Un giorno, mentre io e Marina meditavamo disperati che due settimane scarse più tardi, Tarci avrebbe dovuto andare e tornare da scuola in qualche modo, in un negozio di kid clothing (sarebbe abbigliamento per bimbi, ma suona un pò datato. Anch’io però suono un pò datato, preferisco abbigliamento per bimbi), nostro figlio aveva visto e fatto acquistare un completo davvero originale per un uomo della sua età. Giacchettina di tweed a quadretti, cappellino da baseball, che io gli misi al contrario come fanno i ragazzi d’oggi, e lui voltò subito dalla parte dritta guardandomi storto, calzoncini di tela verde scuro, per i quali io mi permisi di obiettare che già in ottobre sarebbero stati pensionati nell’armadio, ma caso strano la mia considerazione non fu nemmeno soppesata per finta da mia moglie e mio figlio. Così Tarci uscì dal kid clothing tutto impettito con quella divisa improponibile, e la prima persona che incontrò fu Luigino. Questi era un coscritto di Tarci, e tra seicento milioni di peculiarità, l’unica in comune tra loro era l’anno di nascita. Non s’erano mai guardati in faccia una volta. E i suoi genitori, coi quali avevamo cementato un rapporto profondo (buongiorno - buonasera con sorrisetto standard) abitavano a pochi passi da casa nostra. Luigino, quel pomeriggio ancora caldo di fine agosto, si fermò impettito davanti a noi. O meglio davanti a Tarci, che al solito procedeva sempre con qualche passo di vantaggio su noi. Un pò intimoriti, ci fermammo, ma non temevamo più di tanto: Tarci era comunque il doppio di Luigino, un seienne che ne dimostrava cinque scarsi, piccolo, rachitico, e pel di carota. Tarcisiuccio nostro si era bloccato un pò perplesso, avrà sicuramente pensato chissà cosa vorrà questa pulce che mi sbarra la strada.

    Voglio il tuo cappellino da baseball!!

    Io e Marina ci siam guardati in faccia e quasi siam scoppiati a ridere. Mia moglie era certa che un attimo dopo nostro figlio avrebbe scalciato il piccolo insolente lasciandolo mezzo morto sulla soglia di casa sua; io ritenevo che invece gli avrebbe spiegato con gentilezza che l’aveva appena comprato per sè e dunque non poteva darlo a lui, nè tantomeno voleva farlo, ma avrebbero potuto comunque mantenere rapporti civili e all’insegna del fair-play.

    Parliamone.

    Annichiliti. Incapaci di muovere un muscolo per la sorpresa, abbiamo visto Tarci fare un sorriso, stendere il suo lungo braccio e cingere il coetaneo, poi andarsene con lui chiacchierando fitto, mentre l’altro, quasi scomparso dietro la sagoma possente del nostro erede, ci pareva restare in ascolto molto interessato. Quando un’oretta più tardi se ne tornò a casa (Io avrei in realtà voluto seguirlo, ma Marina obiettò che nostro figlio aveva diritto alla sua privacy, e che era già tardi per me che dovevo fare il serale e dovevo ancora sbarbarmi e lavarmi, perchè allo Sparviero l’immagine è tutto, come nei network moderni) non disse nulla di particolare. Io lo guardai di soppiatto e lui mi sorrise augurandomi buon lavoro, e infatti uscii dopo pochi minuti. La mattina dopo, quando Marina mi svegliò per dirmi che andava al lavoro, le chiesi se Tarci avesse rivelato qualcosa del pomeriggio precedente. Nulla, rispose, poi si preparò e partì alla volta della Caduta libera, portando a mio padre qualche rivista di bigliardo, le sue preferite. E io riflettevo sgomento che, dieci giorni dopo, un autista per mio figlio che affrontava la prima elementare si sarebbe dovuto materializzare a tutti i costi. Dieci ore più tardi, dopo che lei era tornata e prima che io uscissi, sfolgorante nella mia divisa lavata e stirata (perfino Vivaldi l’avrebbe notata, quella notte, e si sarebbe complimentato con me con leggeri schiaffettini sulle guance, che mi avrebbero fatto dondolare i denti), Tarcisio ci convocò in salotto, aveva qualcosa da comunicarci. Incuriositi lo seguimmo. Cercai debolmente di far notare che rischiavo il ritardo, ma la mia segnalazione rimase, guarda un pò, ignorata. Si schiarì la voce e ci comunicò che il problema del passaggio a scuola era risolto.

    Andrò e tornerò tutti i giorni con Luigino e i suoi genitori.

    Non ci guardammo in faccia perchè tanto avevamo già capito. Aveva barattato un cappellino da baseball con un servizio. Tarcisio avrebbe concesso a un raggiante Luigino l’onore d’indossare il suo cappellino da baseball (a giorni alterni), in cambio di un passaggio avanti e indietro da scuola (a giorni fissi = tutti).

    La cosa incredibile fu che i genitori di Luigino non trovarono niente da obiettare, nel passare tutti i giorni a casa nostra, fermarsi davanti alla soglia e un secondo più tardi raccattare un Tarci che, bisogna dire, si trovava sempre in perfetto orario, ben pettinato con la riga in mezzo (aveva una bella faccia rettangolare, con mascella leggermente pronunciata), la cartella sulla destra e il sacchettino con la brioche sulla sinistra.

    Il lunedì, mercoledì e venerdì mattina aveva anche il cappellino da baseball.

    Marina e io, nei primi mesi della prima elementare di nostro figlio, ci chiedevamo quanto sarebbe continuato il giochetto. Mia moglie aveva contattato i genitori di Luigino ed oltre ai dovuti ringraziamenti, s’era offerta di contribuire per la benzina. Ma i due ottimi proprietari del piccolo quasi s’offesero, dicendo che tanto loro dovevano passare da casa nostra per andare a scuola, e che loro figlio era tutto contento

    di avere un amico come Tarci e un cappellino a mezzo servizio come quello.

    La madre di Luigino s’era fatta sfuggire che loro stessi avrebbero potuto comprare lo stesso cappellino al figlio. Naturalmente Luigino s’era disperato e tra lacrime amare e acuti singhiozzi dichiarava che mai avrebbe rinunciato al part time di QUEL cappellino e, urlando inconsolabile, si chiudeva nella sua stanza.

    Signora, le disse poi accorata, faccia si che quel cappellino sia mantenuto in salute a lungo!!.

    Marina capì presto (io no; troppo irresponsabile), che la nostra serena conduzione familiare dipendeva da quello sventuratissimo berretto da baseball da cinque euro. Ogni sabato pomeriggio, o al primo momento utile post-Caduta libera, Marina lo lavava e smacchiava e riponeva in

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