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Uomo di rispetto
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Uomo di rispetto

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About this ebook

La sconvolgente testimonianza di un anonimo soldato della mafia raccolta e raccontata con fedelissimo realismo. Da contadino a killer della spietata famiglia dei Corleonesi, la vita di un bambino destinato a una vita normale e che invece, passo dopo passo, entra a far parte di una delle più sangui­narie organizzazioni criminali del mondo. Una storia vera più emozionante di un romanzo.

Enzo Russo, scrittore e giornalista siciliano, è l’autore di: Il caso Mon­tecristo, La tana degli ermellini, Il quattrodicesimo zero, Nato in Sici­lia e Nessuno escluso, tutti pubblicati da Mondadori.
LanguageItaliano
Release dateApr 7, 2015
ISBN9788882433680
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    Uomo di rispetto - Enzo Russo

    ENZO RUSSO

    UOMO

    DI RISPETTO

    Edizioni Lussografica

    © Copyright Dicembre 2015

    Edizioni Lussografica

    Caltanissetta

    Tutti i diritti sono riservati

    ISBN 978-88-8243-368-0

    Presentazione

    Uomo di rispetto un quarto di secolo più tardi. Dopo aver esaurito la sua vita naturale durata molti anni, ridotta in un film-tv da Raidue e tradotta in 14 lingue, questa raccapricciante biografia è scomparsa dagli scaffali per molto tempo e oggi, grazie a un piccolo ma attivo editore siciliano, torna in vita per chi abbia voglia di fare qualche paragone.

    A suo tempo, quando il libro venne pubblicato dalla Mondadori, all’apertura dell’anno giudiziario un procuratore generale lo citò come perfetto esempio di formazione della mentalità mafiosa.

    Oggi sarebbe ancora così?

    Dagli otto o dieci incontri notturni che ho avuto con Giovannino, il protagonista di questa vicenda, avevo ricavato la sensazione di una mafia per certi versi ancora legata a una cifra antica di relativa povertà, di violenza annunciata e raramente espressa, di rigide regole di comportamento, ma che si stava velocemente e brutalmente evolvendo verso uno status più sanguinario e moderno in cui droga, grandi appalti e riciclaggio rappresentavano l’unico comandamento osservato da tutti. Oggi, archiviata la lunga e tetra stagione delle bombe e del mitra, catturati tutti i grandi capi, resta un’immensa distesa grigia in cui è arduo distinguere certa ottusa criminalità provinciale dalla criminalità vera, i piccoli affari sporchi degli amministratori locali dagli appalti pilotati da politici e imprenditori in combutta, il racket spicciolo dalla spoliazione sistematica e organizzata ai danni di impresa e commercio.

    Alla fine non ha vinto né lo Stato né l’ideologia corleonese, ma un ibrido incruento e diffuso come la più capillare delle metastasi che continuiamo a chiamare mafia in attesa che un intellettuale particolarmente creativo e autorevole riesca a coniare e a imporre un nome più appropriato. Molte, moltissime cose sono mutate in questo quarto di secolo, ma se la terribile realtà raccontata da Giovannino sia migliore o peggiore di quella attuale, questo davvero non saprei dirlo.

    l’Autore

    I

    Dal mio paese il mare non si vede. L’hanno fabbricato sopra una montagna, come si usava nell’antichità, e intorno ci sono altre montagne. D’estate fa troppo caldo e d’inverno troppo freddo. Oggi con le nuove strade basta mezz’ora di automobile per arrivare alla città di mare più vicina, ma quand’ero bambino non bastavano sei ore di carretto o due ore di postale, e io avevo già quindici anni quando me lo trovai davanti la prima volta.

    Mio zio Bartolo faceva l’ambulante e conosceva tutti i paesi della provincia. Era un tipo particolare, sempre contento. Gli piaceva raccontare le cose che vedeva viaggiando. E raccontava con l’arte di un cantastorie, capace di inventarsi sul momento quello che gli serviva. Mio padre lo chiamava sceccu allegru (spensierato) perché non aveva terreno, non aveva casa, non aveva famiglia e responsabilità non ne voleva. Mia madre, che era sua sorella, diceva che era stato sempre una mezza testa. Ma tutti e due se ne stavano muti muti a sentirlo, quando veniva a trovarci e si metteva a raccontare. E finiva sempre che ridevano pure loro come noi ragazzini.

    Zio Bartolo, che in dialetto si dice zu Vàrtulu, mi aveva parlato tante volte del mare e io lo avevo capito che doveva essere grande per davvero. Ma mi ero persuaso pure che era capace di raccontare minchiate per cose vere, e non mi fidavo tanto. E poi quando arrivammo dopo una mattinata di sole forte e di carretto mi ero addormentato per la stanchezza. A un certo punto, alla fine di una salita, zu Vàrtulu mi diede una botta in testa col manico della frusta.

    – Guarda là.

    Fino alla spiaggia non dissi mezza parola: mi sentivo perso. Lui parlava e scherzava, ma io niente. Poi mi raccomandò di non muovermi e di non mettermi in testa di fare il bagno. Dovevo restare lì e aspettarlo mentre lui spicciava certi affari. Era la fine di maggio, ora di mangiare, e non c’era quasi nessuno. Mi ero seduto sulla sabbia, ma me la filai subito quando l’acqua venne verso di me. Poi capii che non c’era pericolo perché dopo un momento si ritirava di nuovo. Ma ero sempre confuso, smaniavo.

    A un certo punto passarono due ragazzi più grandi, coi calzoni corti e le gambe scure scure. Li guardai per vedere se mi guardavano. Volevo domandargli tante cose, dato che dovevano essere pratici di mare. Ma avevo paura di fare brutta figura. Mio padre diceva sempre che la parola migliore è quella che non si dice. E io non l’ho dimenticato mai.

    Quando mio zio tornò gli andai incontro di corsa e spalancai le braccia come Cristo per significare: cose da pazzi! E lui rideva contento e compiaciuto, nemmeno se il mare l’aveva fabbricato con le sue mani, e mi domandava che cosa ne pensavo di tutta quella roba. Per me la cosa più strana era che l’acqua, invece di scorrere di fianco alla riva come fa sempre nei fiumi, scorreva incontro alla spiaggia, saliva saliva e poi non ce la faceva a traboccare. Quando dissi questa cosa si mise a ridere di più.

    Testa vacanti! (Testa vuota)

    Al ritorno la strada veniva quasi tutta di salita. Siccome si stava facendo sera ed ero stanco morto, zu Vàrtulu pensava che mi sarei addormentato subito. Invece io ancora friggevo e continuavo a domandare cose sul mare, sui pesci, sulle tempeste. E siccome certi particolari non li sapeva nemmeno lui, a un certo punto si arrabbiò e mi diede di nuovo il manico della frusta sulla testa.

    – Dormi!

    Ero il più piccolo di cinque figli. Mio padre andava a settimana, ma avevamo anche due tumoli di seminativo. Allora tutti i terreni erano uguali: frumento e mandorle. E qualche orto, dove il Padreterno aveva messo un poco d’acqua. In campagna casa non ce n’era: avevamo un pagghiaru (capanno di canne) e quando veniva il tempo di zappare, di seminare e di mietere io, mio padre e i miei due fratelli dormivamo là dentro. Vita di maschi, senza femmine a lavare la biancheria e a cucinare. Mezzogiorno e sera pane con le olive e le cipolle e alla fine un boccone di vino pure per me.

    Mio padre pareva un’altra persona. A casa con noi non ci parlava quasi mai: era sempre serio, chiacchiere non ne voleva sentire. Si usava mangiare tutti in un solo piatto grande in mezzo alla tavola, con un cucchiaio di stagno perché si cucinava sempre pasta corta: con la salsa, coi piselli, con le fave, secondo la stagione. In campagna invece di sera accendevamo il fuoco e ci sedevamo ad arrostire le olive nere. E allora mio padre ci raccontava cose antiche di quand’era bambino lui, di suo padre, di suo nonno che aveva visto da vicino don Peppino Garibaldi. Ed era sempre allegro, parlava e scherzava con tutti e tre, anche con me che ero il più piccolo.

    Poi la famiglia se n’è andata al vento. Una sera Borino, il fratello più grande, disse che voleva andarsene in Argentina. Erano tempi di partenza: scomparivano famiglie intere. In Argentina dicevano che c’era lavoro e c’era terra per chi la voleva. Mio padre lo avvisò che se usciva da quella porta non doveva arrischiarsi a tornare più. Mia madre piangeva di nascosto e non diceva niente. Poi una domenica venne a bussare quello che raccoglieva la gente e Borino se ne andò. Dato che non sapeva scrivere non scrisse mai e non abbiamo saputo più niente.

    Mia sorella Assuntina è morta piccola di meningite e non me la ricordo. Gina, l’altra sorella, si è sposata con uno del paese che è andato a fare l’operaio a Grugliasco, vicino Torino. Siccome quand’è partita aveva sedici anni e io sette, e poi per dieci anni non ci siamo visti, confidenza tra di noi ce n’era poca. Una volta le ho fatto visita, ma mio cognato è un ignorante presuntuoso di quelli che credono di essere diventati polentoni solo perché abitano al Nord. Così per la sua pace in famiglia, da mia sorella non ci sono andato più, ma ogni tanto spedisco un piccolo presente per lei e per le bambine, anche se nessuna delle due si chiama come nostra madre.

    L’altro fratello era un bravissimo ragazzo. Si chiamava Totò. Pure lui è andato a lavorare lontano, in Belgio. Faceva il minatore, un lavoro pesante ma pagato benissimo. Totò si faceva scrivere le lettere da compagni fidati. Mandava qualche cosa di soldi e ogni estate immancabilmente scendeva in paese due settimane e portava a tutti regali che mia madre conservava nella cassa della biancheria, sotto il suo letto. Per fortuna quando Totò è morto in miniera io già guadagnavo e potevo aiutare in casa, perché mio padre per la malattia e per l’età non poteva più andare a giornata e i due tumoli da soli non bastavano per le necessità.

    A giornata aveva dovuto andare dopo che il Cavaliere, che gli aveva dato lavoro per trent’anni, da un giorno all’altro si era venduto le terre. Io avevo cominciato ad accompagnarlo dopo la scuola. Ho fatto fino alla terza elementare sempre con la stessa maestra, che insegnava a casa sua in una stanza stretta e lunga sopra la cucina. Verso mezzogiorno veniva suo padre, un vecchietto magro magro coi baffi bianchi. La maestra ci dava i compiti e scendeva a friggere le polpette. Ma con quell’odore di paradiso chi ci pensava più al quaderno? E così al ritorno lei ci riempiva le mani di bacchettate e suo padre rideva e tossiva.

    Alla fine della terza elementare una sera incontrò mio padre e gli disse che mi doveva bocciare per forza perché ero intelligente ma non avevo testa a studiare. Si sapeva che con un agnello a Pasqua e una mezza forma di pepato fresco ogni tanto, la maestra chiudeva un occhio e magari faceva qualche lezione particolare. Ma a casa mia già era un lusso se io andavo a scuola invece di lavorare e l’agnello a Pasqua non c’era nemmeno per noialtri.

    – Domani mattina alle quattro si parte. Viene in campagna con me – disse mio padre appena arrivò a casa. Mia madre non parlò e io ero contento di andare con lui. Ancora non l’avevo l’età per capire la vita, ma già mi ero persuaso che la scuola non era una cosa per gente come noi.

    Non ero stato mai al Piano di Maggio, ma mio padre ne aveva parlato a casa per tanti anni e mi pareva di esserci nato. Era una masseria grandissima, con tanti fabbricati e poche finestre, come si usava una volta. Ci volevano due ore di mula dal paese ed era una strada deserta, senza case coloniche perché erano terreni cattivi, quasi tutti di proprietà del governo.

    Il Piano di Maggio apparteneva al Cavaliere, che era un bell’uomo, alto e dritto. Aveva un’automobile Fiat. La prima volta che mi vide domandò a mio padre come mi chiamavo e mi regalò dieci lire. Ancora dopo più di quarant’anni mi ricordo quel biglietto di banca in mano.

    Dopo le prime settimane il soprastante si accorse che me la sapevo cavare e che quando c’era da pigliare l’acqua per gli uomini andavo sempre di corsa senza bisogno di farmelo dire. Allora ogni sabato aggiungeva alla paga di mio padre qualche cosa anche per me. Non so quant’era, ma sentii mio padre che diceva a mia madre: – Giovannino comincia a guadagnarsi il pane.

    La notte dormivamo in una specie di magazzino lungo e alto, con le sbarre alle finestre. Venti, trenta uomini a terra sui sacchi di paglia. Per la mietitura e per la raccolta delle mandorle eravamo anche cinquanta. D’inverno si stava bene, ma d’estate faceva troppo caldo. Allora uscivo di nascosto e dormivo sotto un fico, vicino alla casina del Cavaliere.

    Invece al paese non c’era difesa contro il caldo forte. Al massimo, di notte, mio padre apriva mezza porta perché finestre non ce n’erano e l’aria non bastava per tutti. Mia madre non voleva perché la casa era al pianoterra e ogni tanto entrava un cane affamato o un topo di quelli grossi. Invece d’inverno, mentre i miei genitori, i miei fratelli e le mie sorelle si accucciavano a due a due, io che ero dispari e piccolo me ne andavo a dormire nella mangiatoia, e ci pensava la mula a riscaldarmi. Ogni tanto mi mordeva, ma non per cattiveria. Forse voleva pigliarsi una boccata di paglia e al buio non ci vedeva bene.

    Il Cavaliere non era come gli altri padroni che ho conosciuto al paese. Era un signore di città, sempre elegante. Nemmeno il barone Valente, che ogni domenica vedevo uscire dalla chiesa, andava vestito di bianco. Quando veniva nelle stalle si fermava sempre davanti alla porta. Sua moglie non si faceva vedere mai al Piano di Maggio, ma lui non si preoccupava perché la massara (Moglie del massaru, cioè il responsabile di un’azienda agricola) e la mamma di un campiere pensavano alla casa. Aveva sempre gente a mangiare e a dormire, amici di Palermo e anche di Roma, che dicevano Bello! e Bellissimo! per tutto quello che vedevano, comprese le galline. Si vede che dove abitavano loro galline non ce n’erano.

    Mangiavano polli e salsiccia arrostita sul fuoco coi carciofi, quand’era tempo di carciofi. Ma i polli non se li mangiavano come il Padreterno li aveva fatti, e alla fine il Cavaliere metteva da parte per il soprastante e per mio padre un piatto con la pelle, le teste e le ossa dov’era rimasta attaccata un poco di carne. Io ero pazzo per le teste.

    Anche se mio padre non era impiegato fisso come il soprastante e i campieri, il Cavaliere lo faceva lavorare tutta l’estate e quando serviva pure d’inverno. Posso dire che non ci mancava niente. Ce la passavamo bene per tutto meno che per la casa. Dopo tanti anni penso ancora a tutti i 31 agosto che ho visto quando stavo al paese. A quei tempi a ogni 31 agosto finivano gli affitti vecchi e cominciavano quelli nuovi. Ora ci sono equo canone e tante altre combinazioni. Allora era più semplice: chi se ne doveva andare caricava tutto su un carretto per la sera dell’ultimo di agosto e chi non aveva un carretto se lo faceva prestare.

    Per una notte in paese non si dormiva. Quelli che arrivavano prima dovevano aspettare l’uscita degli altri. Quelli che facevano tardi vedevano arrivare gli inquilini nuovi che si mettevano tutti davanti alla porta aspettando di pigliare possesso. C’erano liti grosse che facevano correre tutto il vicinato. Mio padre però era un uomo di pace, sempre puntuale a consegnare la casa e sempre pronto ad aiutare quelli che dovevano lasciare il posto a noi.

    Mio fratello Borino più di tutti voleva bene a me. Prima della sua partenza per l’Argentina ogni tanto andavamo a lavorare assieme. Era raro, perché mio padre mi voleva sempre per farsi aiutare, anche quando la giornata era pagata solo per lui. Ma quando capitava io ero contento. Borino non me le suonava mai: al massimo una pedata, ma solo per farmi filare. Scherzava con me e mi trattava come uno della sua età. Quando si arrotolava una sigaretta col trinciato forte e la cartina, qualche volta la faceva accendere a me.

    Una sera, per la festa dell’Immacolata, mi portò dall’unica bagascia del paese, che si chiamava Mariannina. Era larga un metro, ma bianca bianca di pelle, truccata e profumata. Dicevano che aveva più di cinquant’anni, ma per quel poco che me la ricordo pareva una bella donna. Al paese era una tradizione antica, per il giorno dell’Immacolata, e davanti alla porta c’era già tanta gente. Io friggevo, ma quando toccò a noialtri Mariannina mi venne a controllare da vicino e poi guardò mio fratello.

    – Questo quanti anni ha?

    – Ha l’età – rispose Borino, che sapeva campare. E le fece una carezza sulla faccia. Ma quale carezza! Quella aveva paura. Il maresciallo aveva parlato chiaro: minorenni niente.

    – E come lo deve venire a sapere il maresciallo, se non glielo dici tu stessa? – le domandò mio fratello. Mariannina si mise a ridere. Si avvicinò alla finestra e spostò di un palmo la tendina. Là davanti ci saranno stati quindici uomini che aspettavano il turno fumando e chiacchierando.

    – Pazienza – disse Borino per consolarmi mentre ce ne tornavamo a casa. – Vuol dire che aspettiamo che viene una di fuori, per la fiera. Sono tutte meglio di Mariannina.

    Ma non ci furono altre occasioni. Borino non trovò lavoro per tutta l’invernata. Era un periodo magro: non si combinava niente nemmeno nella muratura o coi pecorai. E poi successe la tragedia della mula, che morì una notte senza dire Ah. E siccome qualcuno che ci voleva male aveva fatto la spiata, subito subito arrivò l’ufficiale sanitario e disse che l’animale non si poteva dare al macello perché nessuno sapeva di che cos’era morto e poteva essere infetto.

    Così, tra una cosa e l’altra, in primavera Borino se ne andò per sempre. Dopo due anni partì pure Totò, ma era Borino il vero fratello maggiore, quello che mi faceva rispettare da tutti. Attenzione, io ero capace di farmi rispettare lo stesso, ma quelli più grandi del quartiere, che prima non mi dicevano niente, ora capitava che mi mettevano sotto. Io mi difendevo, ma finiva che le buscavo, e poi a casa prendevo il resto perché mio padre non era di quelli che solo perché vedono spuntare il figlio col naso rotto afferrano il manico della zappa e vanno a cercare il padre di quello che gliel’ha rotto.

    Lui, che era troppo galantuomo e infatti è morto per essere troppo galantuomo, invece se la pigliava con me e diceva che ero io ad attaccare lite perché non lavoravo e avevo un brutto carattere, ero un cani rraggiatu (cane rabbioso). Così mi mandò ad aiutare un ortolano; ma senza soldi, per una sacchina (sacchetto da tracolla) di verdura ogni tanto. Zappare l’orto mi piaceva perché si stava sempre coi piedi nell’acqua. L’ortolano però era un miserabile, per il mangiare, e se sbagliavo gridava e mi faceva assaggiare la virciòla (verga). E siccome a un certo punto mi voleva fare assaggiare pure un’altra cosa, non ci andai più. E mi presi un sacco di legnate perché mi vergognavo di dire a mio padre qual era la ragione vera e lui pensò che non avevo voglia di lavorare.

    Intanto non è che zu Vàrtulu non si faceva vedere più. Per venire veniva sempre, ma da quando Borino era partito l’aria non era più quella. Allora stava poco: il tempo di salutare. E siccome capiva che in casa non c’era mezza lira, dava di nascosto qualche cosa a sua sorella. Lo so perché una volta l’ho visto.

    Mia madre era furba a spendere quei pochi soldi. Comprava cose che in casa già c’erano: olio, frumento, fave. Così mio padre non si accorgeva di niente e anzi era contento perché

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