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Scusa se esisto
Scusa se esisto
Scusa se esisto
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Scusa se esisto

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About this ebook

È la storia di una famiglia dei giorni nostri: adolescenti in crisi e genitori ancor più insicuri e in difficoltà. Ci sono botte, urla e pianti, innamoramenti e droga. Un ritratto amaro e preciso dell’incapacità degli adulti di essere maturi e responsabili. Racconto triste del dolore e dell’amarezza dei figli che si dibattono e si scontrano senza speranza. Sempre sull’orlo della tragedia vivono il loro orrore quotidiano, ma la vera tragedia è proprio nella quotidianità del loro dolore, da cui non vedono via d’uscita. Eppure, pesto e ammaccato, prevale l’accorato "Sorry mom, I still love" you di Eminen: l’amore che non riscatta, che non consola, che non salva... ma che persiste e sopravvive nonostante tutto.
LanguageItaliano
Release dateApr 11, 2013
ISBN9788898017614
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    Book preview

    Scusa se esisto - Francesca Pleuterio

    EDU - Edizioni DrawUp

    www.edizionidrawup.it

    Collana Sentieri

    Scusa se esisto

    di Francesca Pleuterio

    Proprietà letteraria riservata

    ©2012 Edizioni DrawUp

    Latina (LT) Viale Le Corbusier, 421

    Email: redazione@edizionidrawup.it

    Sito: www.edizionidrawup.it

    Progetto editoriale: Edizioni DrawUp

    Direttore editoriale: Alessandro Vizzino

    Grafica di copertina: Roberto Di Mauro per Edizioni DrawUp

    I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.

    Nessuna parte di questo libro può essere utilizzata, riprodotta o diffusa, con qualsiasi mezzo, senza alcuna autorizzazione scritta.

    I nomi delle persone e le vicende narrate non hanno alcun riferimento con la realtà.

    EBOOK: Isbn 978-88-98017-61-4

    Sono nei guai, cazzo!

    Più di un’ora di ritardo.

    Devo trovare subito una buona scusa.

    Merda, perché ho spento il cellulare?

    Si è sicuramente incazzato, chissà quante volte avrà cercato di chiamarmi.

    Adesso è inutile riaccenderlo.

    Posso sempre dirgli che una volta uscito dal cinema l’ho dimenticato spento. Sì, può funzionare, ma non spiega il ritardo. Il film è finito alle dieci e mezza, avrei avuto tutto il tempo per rientrare in orario. No, avrei fatto una figura di merda con Serena, lei può rimanere fuori fino a mezzanotte.

    Io sono l’unico sfigato che deve tornare per le undici.

    Merda! L’unica possibilità è chiedere scusa, aprire la porta e ripetere scusa all’infinito e poi sperare che mi sgridi e basta.

    Daniele già immaginava suo padre urlargli nelle orecchie: Domani c’è scuola!

    Chissà se poteva fargli capire che era stata una serata magica, stratosferica, la più bella in assoluto dei suoi 17 merdosi anni di vita: aveva conosciuto Serena!

    La più carina della scuola, quella più allegra, quella dal magico sorriso. La sua risata così coinvolgente si propagava nei corridoi di quel buco di scuola e dava un senso alla loro reclusione forzata.

    Quando la incrociava aveva sempre l’impressione che lei fosse l’unica a divertirsi, quasi avesse scoperto una formula magica che le permettesse di liberare il suo spirito dalle preoccupazioni quotidiane.

    Peccato non le avesse chiesto il numero di telefono, ma domani a scuola avrebbe risolto il problema. Ora doveva preoccuparsi di un problema più grande.

    Grande e grosso.

    Con due mani grandi e grosse e sicuramente incazzate.

    Che idiota che sono. Mi sono messo nei guai da solo perché sono un idiota. Bastava rispondere al cellulare e inventare una balla.

    Lui era diventato un esperto in scuse credibili. Aveva imparato sulla sua pelle, è proprio il caso di dirlo, che una storia per essere credibile deve essere il più semplice possibile. Meglio poi se la colpa l’addossava a qualcun’altro.

    Solo un paio di settimane prima quando doveva rientrare per le 2, ma alle 2 e 20 era ancora dentro la discoteca, suo padre lo aveva chiamato e lui si era scusato dando la colpa agli amici, d'altronde che colpa ne aveva lui se non aveva ancora l’età per la patente. Era in balia dei più grandi che erano sì dei bravi ragazzi, ma che non si rendevano bene conto che lui aveva un orario da rispettare. Giurò che stavano uscendo e, massimo quindici minuti, sarebbe stato a casa. Ci era arrivato dopo le 3 e per mezz’ora suo padre gli aveva fatto una sfuriata. Le solite menate: doveva rispettare gli orari, non poteva fare sempre ciò che voleva, solo gli sballati stavano fuori fino a tardi, lui non stava tranquillo, non è che ti sei drogato? hai bevuto? E poi aveva iniziato con le minacce: la prossima volta non esci, se ti comporterai ancora così te la faccio pagare cara.

    Il bello è che alla fine non lo aveva neanche punito. Lui era rimasto tranquillo in casa tutta la settimana e il sabato successivo era rientrato all’una.

    Ma stasera rischiava che le minacce diventassero fatti. Di sicuro lo avrebbe castigato e chissà per quanto tempo non lo avrebbe fatto uscire. Ora doveva stare calmo. Più si fosse dimostrato dispiaciuto, più avrebbe avuto la possibilità di passarla liscia.

    In sella al suo scooter Daniele rigirava nella mente le parole da usare come scudo all’ira paterna, ma intuiva che era una partita persa in partenza. Inutile angustiarsi troppo, meglio godersi il momento. Correre di notte senza traffico e con i semafori lampeggianti era esaltante. Agli incroci accelerava, ma non era una sfida alla morte, semplicemente l’adrenalina annullava l’ansia del ritorno. Avrebbe potuto volare fino ai confini del mondo. Ma i confini del suo mondo erano già di fronte a lui.

    Arrivato all’inizio della sua strada, spense il motore e spinse il motorino fino al portone. Non si vedevano luci accese nel loro appartamento, forse si era addormentato e, se tutto andava bene, avrebbe avuto la sua sgridata solo l’indomani.

    Ogni speranza svanì quando arrivò al pianerottolo. La porta era

    aperta e suo padre era lì, indossava il giaccone e aveva le chiavi in mano pronto per uscire a cercarlo.

    «Sei qui! Ma dove sei stato? Cosa è successo? È quasi l’una, ti rendi conto che pensavo al peggio?»

    «Scusa, scusami davvero, scusa.»

    Daniele non riusciva a dire altro. Era in un brutto guaio lo aveva capito dalla voce del padre: prima sollevata, poi preoccupata e infine incazzata e con quel tono continuò a fare domande.

    «Ma dove sei andato? Cosa hai fatto? Allora, vuoi parlare?»

    «Al cinema con Marco» riuscì a sussurrare Daniele.

    «Fino a quest’ora?»

    «Dopo siamo andati al pub. Scusa, ma…»

    «Scusa ma che?»

    Il tono di suo padre aveva raggiunto il livello di guardia. Daniele teneva lo sguardo a terra e il capo basso cercando di proteggersi il volto incassando il più possibile la testa fra le spalle. Era nei guai, brutti guai. Suo padre lo prese per un braccio. Strattonandolo lo spostò dalla porta d’ingresso che chiuse con un tonfo. Senza mollarlo lo trascinò in mezzo alla stanza. Daniele sentiva il braccio stritolato, il dolore era forte. Lacrime di paura gli bruciavano gli occhi. Lo stomaco si era accartocciato trasformandosi in un sasso.

    Era nei guai, non riusciva a pensare ad altro e, anche volendo, non ne ebbe più il tempo. Suo padre lo colpì con la mano aperta.

    Ferma. Dura. Un colpo secco, la sua testa roteò e il resto del corpo l’avrebbe seguita se suo padre non lo avesse trattenuto. Daniele cercò di alzare le braccia per evitare altri colpi, ma suo padre gliele abbassò e lo sbatté contro il muro. Lo agguantò con forza. Troppa.

    Daniele sentiva le sue mani schiacciargli le braccia tanto che aveva voglia di urlare, ma non riusciva a respirare dalla paura, le gambe non lo reggevano più. Avrebbe voluto gettarsi a terra, ma quelle tenaglie non mollavano la presa. Sentiva suo padre alitargli in faccia, ma non osava aprire gli occhi.

    «Dove sei stato? Cosa hai fatto, si può sapere? Perché il telefonino era spento? Dovevi essere a casa alle 11, domani c’è scuola, lo sai che ti voglio a casa per le 11.»

    Una domanda, una scrollata. Una scrollata e veniva sbattuto contro il muro.

    Riuscì a sussurrare: «Scusa.»

    La pressione alle braccia aumentò, lui cacciò un urlo e fu risbattuto contro il muro. Finalmente lo mollò e Daniele cadde scomposto a terra. Si affrettò a raggomitolarsi, un istintivo quanto inutile tentativo di difesa. Il calcio gli arrivò comunque. Rimase immobile singhiozzando in attesa degli altri. Sopra di lui suo padre ansimava dalla rabbia. Per qualche istante nessuno dei due si mosse, poi il padre lo afferrò per un braccio e lo sollevò bruscamente.

    Senza mollare la presa lo trascinò fino alla sua camera. I piedi di Daniele sfioravano appena il pavimento. Con furia spalancò la porta e lo spinse sul letto.

    «Domani faremo i conti.»

    Daniele sentì sbattere la porta e riprese a respirare. Gli dolevano le braccia e la faccia gli bruciava. Si abbandonò al pianto. Domani facciamo i conti? E questi cosa erano stati? Solo l’anticipo, lo sapeva. Se gli andava bene gli avrebbe urlato contro per almeno un’ora, se perdeva ancora la pazienza ci sarebbero stati altri ceffoni.

    Merda! Ho ritardato solo di un’ora e poco più. Perché cazzo deve picchiare così forte? Lo odio. Se ci fosse stata la mamma non mi avrebbe trattato così. Forse un ceffone me lo sarei beccato comunque, ma lei gli avrebbe impedito di sbattermi in quel modo contro il muro o di prendermi a calci.

    Ma lei non c’era.

    Non c’era più.

    Se ne era andata.

    Se ne era fregata di loro.

    Fanculo a tutti.

    ****

    Sandro Taiana stava in piedi in mezzo alla sua stanza. Gli tremavano le mani. Per calmarsi le apriva e le chiudeva con forza.

    Cercava di ritrovare un respiro più regolare, ma la rabbia non gli dava tregua. Quando se lo era trovato davanti alla porta, nel momento esatto in cui non sapeva più dove sbattere la testa, avrebbe voluto abbracciarlo e non mollarlo più. Poi, la furia lo aveva travolto. Il suo primo istinto era stato quello di colpire Daniele più e più volte, giusto per fargli entrare in quella testa vuota almeno metà della paura che aveva avuto quando non era rientrato in orario. Gli aveva dato solo una sberla, bella forte, ma poi s’era fermato. Anche quando si era lasciato cadere a terra avrebbe voluto assestargli un paio di calci, ma dopo il primo, il suo pianto lo aveva trattenuto.

    Non avrebbe dovuto frenarsi, ma dargli un altro paio di ceffoni. Gli sarebbero serviti da lezione. Non si può fare sempre ciò che si vuole fregandosene degli altri. Domani. Domani glieli avrebbe dati, eccome. Non al mattino perché doveva andare a scuola, ma quando tornava non ci sarebbero state ragioni. Due belle sberle, dritto e rovescio e poi in camera a calci in culo.

    Ma dove diavolo era stato? Altre volte aveva ritardato, ma mai più di 20 minuti, mezz’ora al massimo. Sempre con la scusa pronta: la strada bloccata per un tamponamento, il film era durato più del previsto, era rimasto a secco. Non che lui ci avesse creduto. Lo aveva sgridato e basta, era finita lì. L’ultima volta era stato più severo, ma anche perché il ritardo era stato di un’ora. Lo aveva chiamato, ma lui non aveva risposto subito, colpa della musica troppo alta era stata la scusa. Non doveva preoccuparsi stava tornando, ma il ritardo di 20 minuti era raddoppiato. Lo aveva sgridato e gli era anche scappato uno scappellotto, non troppo forte, solo per fargli capire che doveva ubbidire. Altro che ubbidire. Se ne era stato buono per po’ ed ecco che se ne tornava a casa alle 12 e 30

    come se niente fosse. Doveva punirlo. Un mese in punizione.

    Niente più uscite. Casa e scuola. Doveva fargli imparare la lezione.

    ****

    Daniele aveva dormito vestito.

    Era infuriato con suo padre, con sua madre, con la sua vita.

    Appena sveglio andò in bagno per farsi una doccia, aveva gli occhi un po’ gonfi per le lacrime e quando si spogliò notò che sulle sue braccia doloranti erano apparsi i lividi frutto della presa rabbiosa del padre, ma quello che gli scocciava di più era il segno rosso sullo zigomo.

    Non si notava molto, ma c’era.

    C’era anche una gran rabbia.

    E che cazzo! Non ho fatto nulla di male. Sono stato con gli amici e ho fatto tardi, mica mi sono drogato né sono andato a rubare. Non può continuare a trattarmi così. Merda!

    Il peggio è che sarà ancora furioso.

    E se alza di nuovo le mani?

    Daniele non aveva voglia di trovarsi faccia a faccia con lui, ma se non andava a fare colazione rischiava di farlo imbestialire.

    Manuela iniziò a tempestare la porta. «Allora, ti muovi o no? Mi fai fare tardi.»

    Daniele spalancò velocemente la porta coprendosi solo con l’asciugamano, se papà la sentiva aveva un’altra scusa per prendersela con lui.

    «Non urlare, cretina.»

    Manuela rimase a bocca aperta con gli occhi fissi sulle sue braccia.

    «Che hai combinato? Hai fatto a botte?»

    «No, le ho solo prese.»

    «Da papà?»

    «E da chi se no?» Daniele la spintonò e si infilò in camera sua a vestirsi.

    Sul tavolo in cucina la colazione era pronta. Suo padre beveva il caffè in piedi vicino al lavandino, aveva già mangiato perché usciva prima di loro. Daniele si sedette davanti alla sua tazza di caffelatte senza dire una parola. Sentiva lo sguardo di suo padre su di sé, ma non aveva il coraggio di guardarlo in faccia.

    Manuela entrò di corsa in cucina e lasciò cadere i suoi libri sul tavolo.

    «Ho la verifica di matematica. Non sono sicura di farcela, è troppo difficile.»

    «Se hai studiato, ce la farai» la rassicurò il padre.

    «Certo che ho studiato, ma la professoressa… bla, bla, bla…»

    Daniele non ascoltava mai il cicaleccio della sorella, la trovava noiosa. Oggi sperava che tacesse così papà se ne sarebbe andato al lavoro e lui sarebbe riuscito a fare colazione in santa pace. Invece no, eccola che ricominciava con la storia del motorino.

    «…tutte le mie amiche ce l’hanno.»

    «Ora è tardi, devo correre al negozio, ne riparliamo stasera.

    Quanto a te» Daniele sorpreso alzò il volto e incrociò lo sguardo incattivito del padre, «sei in punizione. Finita la scuola torni subito a casa e non ti muovi, chiaro?» Daniele fece solo un cenno con la testa, ma a suo padre non bastò e ripeté con un tono più alto e più duro: «È

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