Ossimoro
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Ossimoro - Fabio Manelli
divertimento
0
Sul soffitto degradato e scheletrico era disegnato un triangolo luminoso. Arancione, un arancione così freddo da sembrare scomodo. Probabilmente era la luce dei lampioni che filtrava da qualche vetro rotto. Non era certo un dettaglio importante in quel momento, ma gli occhi involontariamente continuavano a cercare quella figura casuale. Ne erano attratti. Che fosse l’ultima cosa che l’uomo avrebbe visto? Il pavimento pareva ghiacciato a contatto con la schiena della vittima, che si contorceva in preda agli spasmi del dolore. Ad ogni convulsione le corde si stringevano, emettendo un rumore legnoso, conficcandosi sempre più nella carne dei polsi. Tutto questo era davvero necessario? Forse non ci sarebbe mai stata una risposta. L’uomo aveva paura, cosciente di essere solo e in balia della morte. Non avrebbe mai immaginato di terminare la propria vita in un posto come quello. Isolato, al buio, in mezzo allo sporco. La lama entrò, inesorabile, un altro centimetro nel costato. Uno schizzo di sangue caldo, riversandosi sul pavimento, alzò uno sbuffo di polvere. Finì tutto in un inquietante silenzio.
Aveva ucciso di nuovo. Sperava che quella sarebbe stata l’ultima volta.
1
La luce che filtrava dalle veneziane era un buon segno: almeno era sicuro fosse giorno. Thomas si trascinò giù dal divano senza neppure chiedersi perché avesse dormito lì, già sapendo che non avrebbe trovato nessun ricordo concreto della cosa. Recuperò il cellulare dalla consolle nel corridoio e quando vide che erano già le dieci e un quarto imprecò a denti stretti. Non sarebbe mai arrivato in tempo all'appuntamento col suo cliente. Merda! Perché mi devo sempre ridurre così? Quella era una domanda di cui non voleva ascoltare la risposta. Thomas avrebbe voluto arrabbiarsi di più con se stesso, ma l’appartamento, dalle pareti chiare e dai mobili raffinati, roteava troppo per permetterglielo. Si appoggiò al mobile, tentando di mantenere l’equilibrio. La bocca era intorpidita; pareva piena di cemento a presa rapida. Quel dannato Merlot della sera prima era davvero buono. Devo smettere di bere. Chiuse gli occhi un attimo, per cercare di riallineare il pavimento col soffitto, provando a ricostruire mentalmente gli avvenimenti della notte precedente. Era uscito di casa a piedi, poi c’era stato un bar. Una ragazza, bionda, che sorrideva. Della musica assordante. Un taxi. Poi… nient’altro. Buio assoluto. Devo smettere di bere. Riaprì lentamente le palpebre, per saggiare la stabilità dell’ambiente. Meglio, molto meglio. Si guardò attorno come se si trovasse in casa altrui. I suoi vestiti giacevano sulle piastrelle, disseminati in tutta la casa. Tipico. Deambulando come un invalido raggiunse il bagno. Mentre la luce della primavera riscaldava il suo appartamento di Chicago, si buttò sotto la doccia per lavare via i sensi di colpa e tentare di riprendere il controllo. Era una lotta contro il tempo. Per le undici doveva trovarsi al cantiere o avrebbe perso l’incarico per la costruzione del centro commerciale e non se lo poteva proprio permettere. Stupido, stupido! Stai annegando il tuo futuro in un bicchiere, vecchio mio. La doccia aveva funzionato, si sentiva più efficiente. Accelerò il passo verso la camera da letto per recuperare il suo vestito migliore. Evitò di guardarsi nello specchio; ciò che avrebbe visto lo avrebbe mortificato. Non avrebbe trovato l’immagine del grande Architetto Thomas Hayworth, ma quella di un ubriacone di quarantadue anni che viveva solo. Basta. Non berrò mai più. Mai più! Mai più! Mai più! Forse se lo ripeto abbastanza volte riuscirò a convincermene. Chi voglio prendere in giro? Il nodo della cravatta sembrò di colpo troppo stretto; era come se il cuore pulsasse nelle tempie. Ignorò la sensazione per non farsi prendere dal panico e si infilò la giacca elegante. Uscì dalla stanza, diretto verso il mondo dei non alcolizzati. A metà del corridoio la sua testa oscillò più del solito: era come stare in mezzo al mare. Gli occhi cominciarono a riempirsi di stelle purpuree, una fitta alle tempie fu più violenta delle altre e tutto sembrò muoversi. Appoggiò una mano al muro per sostenersi, ma l’articolazione si tramutò in gelatina: scivolò sul pavimento, con la schiena appoggiata al muro. La vista si oscurò e una scarica elettrica percorse il suo corpo, mentre una scossa luminosa e tagliente spezzò il suo cervello a metà. Ci fu un flash, così bianco da risultare accecante. Poi ne venne un altro. Buio, sconfinato.