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Ebook152 pages2 hours

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Thriller - romanzo (116 pagine) - Sopravvivere al crollo delle Twin Towers con una valigetta contenente tre milioni di dollari in contanti: chi non coglierebbe al volo l’opportunità di fingersi morto per impadronirsi del denaro? Ma la strada dell’inferno è lastricata di buone occasioni colte al volo...


New York, 11 settembre 2001. Zac, avvocato d’affari, ha scoperto che la moglie lo tradisce con l’architetto Victor Van, ma ciò non gli impedisce di recarsi al Word Trade Center per recapitare una valigetta contenente tre milioni di dollari. Dopo essere scampato alla distruzione delle torri gemelle, Zac pensa di fingersi morto per impossessarsi del denaro. Costretto ad affidare la valigetta a Victor Van, che lo ha raggiunto a New York nel tentativo di convincerlo a separarsi dalla moglie, Zac rincorre l’architetto nella metropoli sconvolta dall’attentato terroristico. Gli eventi che lo incalzano potrebbero essere reali, ma potrebbero anche essere il delirio di una mente schizofrenica, o il romanzo fantasma di uno scrittore che non riesce a scrivere le sue storie sulla carta e deve viverle nella realtà. La risposta si trova tra le mura di un penitenziario dove si gioca la Partita Perenne, una partita a poker che non può essere interrotta.


Fabio Lombardi, avvocato penalista, vive e lavora a Rimini. Ha pubblicato racconti su Urania, Giallo Mondadori, Febbre gialla, Plot, sul settimanale tedesco Sieben-Tage e nelle antologie Nero italiano 27 racconti metropolitani (Oscar Mondadori), Millemondi Estate (Urania), Estate Gialla (Giallo Mondadori), Noir (Avvenimenti), Anime nere reloaded (Oscar Mondadori), 365 Racconti erotici per un anno (Delos Book), 365 Racconti horror (Delos Book), Sul filo del rasoio (Giallo Mondadori). Un suo racconto inedito, Truman, è stato finalista al premio Grado Giallo 2015.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJul 19, 2016
ISBN9788865307823
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    Zac - Fabio Lombardi

    2015.

    1

    Parcheggiai l’auto nella rimessa. Abitavo in una villa di due piani acquistata l’anno prima per una cifra esorbitante. Era stata arredata dall’architetto danese Victor Van, un balordo acculturato che per qualche motivo era entrato nelle grazie di mia moglie. Nel mezzo della sala Van aveva installato un giardinetto zen di sabbia e pietre bianche, con varie sedie e poltroncine allineate lungo il perimetro, come un’arena domestica per il combattimento dei galli. Ogni giorno della settimana, comprese le domeniche, Cordelia passava un’ora nel giardinetto, gambe incrociate e sguardo fisso nel vuoto, e se le rivolgevo la parola mi pregava seccamente di non interferire, perché stava meditando. Io mi versavo un whisky e mi rintanavo nel mio angolo, uno spicchio di sala contenente un divano, una pila di vecchi giornali, un portacenere e un televisore. Salendo con passo malfermo la scala a chiocciola della rimessa, pensai che il mio nuovo amico avrebbe movimentato la nostra vita coniugale. Sarebbe stato divertente portarlo a spasso, farlo giocare, e non mi sarebbe dispiaciuto se avesse orinato nel giardinetto zen. Fossi stato meno offuscato dal whisky, avrei dovuto accorgermi della presenza di un fantasma: il fantasma del vecchio, araldo della fine del mio piccolo mondo.

    Non avevo bisogno di guardare in camera da letto per sapere che Cordelia stava dormendo. Non mi era mai successo di trovarla sveglia ad aspettarmi quando facevo tardi. Raggiunsi il mio spicchio di sala e mi sedetti sul divano, sforzandomi di mettere a fuoco il profilo sottile di una lampada da tavolo. Vedevo due lampade che si allontanavano e si avvicinavano ondeggiando. Di colpo rammentai gli impegni del giorno dopo. Al mattino avevo un incontro in studio con Norberto Pigna per la vendita all’asta di un satellite pakistano. E poi, nel pomeriggio, avevo un volo diretto per New York. Sarebbe stata una giornata difficile. Mi versai un dito di vodka per schiarirmi le idee, poi accesi il televisore a volume zero e mi addormentai.

    Il comandante del campo di concentramento aveva fatto radunare i prigionieri nel piazzale, sotto il sole a picco. Un uomo era fuggito, e per saldare il conto uno di noi sarebbe stato ucciso. I soldati giapponesi ci guardavano in faccia uno per uno, divertendosi a prolungare la tensione. Infine ordinavano al vecchio di uscire dai ranghi. Il vecchio si lagnava con voce stridula, spiegando che aveva moglie e figli e nipoti e un grosso cane bastardo. Allora io alzavo una mano e dicevo:

    – Prendete me. Io non ho niente da perdere.

    Di fronte al plotone d’esecuzione illustravo al comandante i particolari del piano per l’acquisto del satellite. Era stato progettato da Kim Noe, l’enfant prodige dell’intelligenza artificiale. Il governo pakistano lo aveva messo in orbita l’anno prima allo scopo di potenziare le trasmissioni televisive di stato. Per qualche arcana ragione, era sempre rimasto inattivo. Il governo aveva incaricato uno studio legale di New York di metterlo all’asta, e la società Megavon di Milano era disposta a fare carte false pur di portarselo a casa. Norberto Pigna, il boss della Megavon, aveva già provveduto a corrompere le persone giuste. Quanto a me, dovevo semplicemente recapitare le mazzette. Era il genere di lavoro sporco sul quale il mio studio legale aveva costruito la sua solida reputazione.

    La benda sugli occhi era fresca. Mi diede un senso di sollievo. Almeno non c’era più quel sole accecante.

    – Il succo della faccenda è che se vuoi vincere un’asta di questo tipo devi ungere qualche ingranaggio – spiegai mentre mi legavano le mani dietro la schiena. Sorrisi immaginando lo stupore ottuso del comandante, avvezzo a sbarcare il lunario con il suo magro stipendio di ufficiale dell’esercito nipponico. – Stiamo parlando di mazzette da tre milioni di dollari.

    La luce tiepida del giorno filtrava attraverso le imposte socchiuse. Cordelia stava distesa su un fianco, il viso affondato nel cuscino, i piccoli seni che si alzavano e si abbassavano nel sonno. Guardai le travi di legno del soffitto, cercando di ricordare a che ora fossi rincasato la notte prima. Dovevo aver bevuto come al solito, ma niente mal di testa per fortuna, solo i postumi di un brutto sogno troppo vivido. Chissà perché, avevo la strana sensazione di essermi addormentato sul divano della sala. Toccai i fianchi di Cordelia sotto la camicia da notte, facendo scivolare le mani lungo le curve delle sue natiche. Sentivo un peso nauseante alla bocca dello stomaco. Avevo bisogno di bere.

    Mi feci il primo goccio di whisky al tavolo della cucina insieme al caffè della colazione, mentre Cordelia sgranocchiava i suoi biscotti.

    – Ti ricordi – chiesi – a che ora sono tornato stanotte?

    – Molto tardi, tesoro. A un certo punto ho sentito che entravi nel letto. Avevi un odore schifoso, come di cane bagnato. E a proposito – continuò spalancando gli occhi e passandosi una mano tra i capelli, con quell’aria da svampita che mi dava sui nervi perché l’associavo al suo atteggiamento nei confronti del nostro architetto Victor Van, – sai chi ho trovato in casa un momento fa, mentre tu stavi facendo la doccia? Uno stupido cane. Dormiva nel giardinetto zen. Non so come sia entrato, forse stanotte hai lasciato la porta aperta. Comunque non è un randagio, ha il collare e una medaglietta con un numero di telefono. Ho già detto alla cameriera di telefonare.

    Posai la tazza sul tavolo. Adesso ricordavo tutto. C’era un vecchio con un cane al guinzaglio che attraversava la strada sulle strisce pedonali. La sua immagine s’ingrandiva a velocità vertiginosa mentre io premevo disperatamente il pedale del freno. Quasi sicuramente l’avevo ammazzato. E poi, dopo l’impatto, per qualche assurdo motivo ispirato dal whisky, avevo aperto lo sportello e avevo fatto salire il cane nella macchina. Ricordavo pure che cosa mi era passato per la testa mentre il cane valicava la montagna del mio stomaco per accucciarsi sul sedile del passeggero. Avevo pensato: UN BASTARDO IN AUTOMOBILE. Mi presi la testa tra le mani, soffocando un conato di vomito. Non era un incubo. Era tutto vero. Di colpo provai la sensazione di uscire fuori dal mio corpo. Vidi me stesso dall’esterno, un uomo in vestaglia con il ventre gonfio e la faccia arrossata dall’alcool che stava seduto curvo al tavolo della cucina di fronte alla sua bellissima moglie. Pensai che stava arrivando il momento così a lungo rimandato, quello in cui ti presentano il conto e tu non hai i soldi per pagare.

    Indossai il completo nero di seta e presi la borsa di cuoio con i documenti legali della pratica Pigna. Il cane era in giardino, legato a un albero. Gli feci un cenno di saluto con la mano e lui rispose muovendo la coda. Non capivo perché l’avessi portato con me dopo aver investito il vecchio. Era come firmare una confessione. Mi figurai un parente del vecchio che telefonava agli sbirri per chiedere spiegazioni riguardo al fatto che la vittima era stata travolta mentre portava a spasso il suo cane, e adesso quello stesso cane si trovava nella villa di un avvocato dall’altra parte della città. Ma poteva anche non succedere nulla. A volte la gente si limita a farsi trascinare dagli eventi senza porsi troppe domande.

    Sollevai il portello della rimessa e mi chinai per esaminare il cofano della Jaguar. C’era una grossa ammaccatura sul radiatore, e chiazze scure che potevano anche essere di sangue rappreso. Bastava raschiare un po’ di quel sangue secco e farlo analizzare per avere la prova della mia colpevolezza. Mi ero comportato come un idiota. Mentre guidavo nel traffico cercai a tastoni la fiaschetta tascabile nel vano portaoggetti del cruscotto. Parcheggiai a lato del marciapiede. Buttai giù un sorso di vodka, poi uscii dalla macchina e mi asciugai il sudore sulla nuca. Era settembre, ma il clima era ancora afoso come in piena estate, e tutto l’alcool che tracannavo senza sosta traspirava gocciolando lungo il dorso e inzuppandomi la camicia. Mancavano solo pochi passi all’ingresso dello stabile, avvolto in una bolla di aria condizionata. Quando varcai il portone, fu come entrare in una fresca giornata di fine ottobre.

    Lo studio aveva sede in un palazzo di sei piani. Dava lavoro a sedici civilisti, due penalisti e una dozzina di segretarie. Erano tutti in subbuglio. Norberto Pigna mi stava aspettando già da quindici minuti, e lui non era il tipo che può fare anticamera. Pigna stava seduto sul divano del mio ufficio, gambe accavallate e sigaretta tra le dita. La usò per indicare una ventiquattrore nera sul ripiano della scrivania.

    – Sono tutti pezzi da mille – disse. – Spero che lei abbia chiaro l’uso che deve farne.

    Era irritato, e non a torto. Nessuno può permettersi di arrivare in ritardo a un appuntamento con tre milioni di dollari. Ma scusarsi non era nel mio stile. Meglio bluffare. – Se lei ha dei dubbi può riprendere la valigetta e andarsene. Lo studio le manderà la nota per l’attività svolta fino a questo momento.

    Pigna fece un sorriso gelido da giocatore d’azzardo. – Non ho tempo per le schermaglie. Le ho affidato questo incarico perché ho fiducia in lei. In base alla sua esperienza, quante probabilità ci sono che i pakistani si tengano le tangenti e vendano il satellite di Kim Noe a un altro offerente?

    Finsi di valutare l’imponderabile pericolo di una fregatura. – Direi una percentuale del due per cento per ciascun funzionario.

    – I funzionari sono tre, quindi il rischio è di due alla terza, che corrisponde all’otto per cento. – Pigna schiacciò la sigaretta nel portacenere accanto al divano e annuì. – Un rischio accettabile. – Si alzò e prese a camminare avanti e indietro. – Mi ripeta ancora una volta le sue istruzioni.

    Mi strinsi nelle spalle. – Appuntamento domani, otto e venti del mattino, bar panoramico al sessantesimo piano del WTC, torre nord. Darò le buste ai tre pakistani che devono aggiudicare l’asta. Dopo aver fatto colazione al bar, i tre scenderanno al settimo piano, negli uffici dello studio legale Schneider, Hirsch, Tatenbaum & Cohen, che ha organizzato l’asta sul mercato internazionale. Comunicheranno ufficialmente al loro avvocato, Todd Tatenbaum, che il governo del Pakistan ha deciso di accettare l’offerta della società Megavon di Milano.

    – Secondo lei, a che ora devo aspettarmi la telefonata di Tatenbaum?

    – Direi verso le dieci, ora di New York.

    Ci congedammo con una stretta di mano. Buttai giù un altro sorso di vodka, poi feci scattare la serratura della ventiquattrore. Guardai le mazzette, resistendo alla tentazione di toccarle. Stavo infilando il biglietto aereo nel portafoglio, insieme al passaporto, quando squillò il telefono interno. Era Riccardo Rocchi, uno dei due penalisti dello studio.

    – Scusa, Zac. È tua la Jaguar parcheggiata qui sotto?

    – Perché?

    – Affacciati alla finestra.

    Lo feci. Vidi due agenti di polizia in divisa. Uno era inginocchiato davanti al radiatore, l’altro stava armeggiando con una Polaroid. Presi un foglio bianco da un cassetto dello schedario e vi apposi la mia firma. Lo chiusi in una busta e scrissi: Per Riccardo Rocchi. Lasciai la busta in evidenza sulla scrivania. Dovevo riuscire a salire sull’aereo prima che mi arrestassero, altrimenti l’intera operazione sarebbe andata in fumo. Uscii dall’edificio, borsa di cuoio in una mano e ventiquattrore nell’altra. Attesi che i due agenti si fossero allontanati, poi misi in moto la Jaguar e mi diressi verso casa. L’orologio del cruscotto segnava le undici e trenta. Avevo tutto il tempo per fare i bagagli e raggiungere l’aeroporto.

    Percorsi il sentiero di pietra del giardino fino all’ingresso della villa, guardandomi attorno per cercare il cane. Mi dispiaceva

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