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Anima Receptiva
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Anima Receptiva

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About this ebook

Ognuno di noi è in attesa di una svolta nella propria vita, che ne sia cosciente o meno, che lo voglia o meno, che si tratti di un lavoro nuovo, di un viaggio inaspettato, di un biglietto della lotteria vincente, di un incontro fortunato. Sophie Altman era proprio quel genere di persona, viveva nell’attesa di qualcosa o qualcuno che le cambiasse la vita. La notte del 9 ottobre del 2015 venne accontentata. Da anonima terrestre Sophie Altman verrà a sapere di essere un’anima receptiva, ovvero un ponte tra le anime dei viventi dei mondi, che permette agli “armori”, cioè le energie sprigionate da ciascun vivente, di convogliare in Anapea, la Bilancia degli Universi, mantenendo così la pace fra le genti di mondi diversi. Solo sulla Terra, inoltre, sono rimaste anime receptive. Da non crederci. Detto così sembra buffo ed incredibile. Di certo, è uno scenario difficile da digerire. Piuttosto che lo scoprire di essere una pedina importante nello sventare un piano cosmico maligno, Sophie avrebbe preferito, se non proprio un biglietto della lotteria vincente, un taglio di capelli omaggio dal parrucchiere, un’estrazione fortunata a quelle pesche al supermercato. Ma si sa, ci si deve arrangiare con ciò che offre la vita. Inoltre, Sophie ha sempre pensato che la propria vita, fatta di turni notturni, bollette indigeste, un gatto che crede di essere un cane e una madre oppressiva, fosse imperfetta, quello che non sapeva, e che avrebbe scoperto col tempo, è che l’imperfezione non è affatto male, ma preziosa, così preziosa da non raccapezzarcisi. Essa infatti consente, anziché di chiudere il cerchio, di continuare il viaggio alla ricerca di altri pezzettini di sé ed è questo l’unico viaggio senza eguali.
LanguageItaliano
Release dateAug 19, 2016
ISBN9788822833808
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    Anima Receptiva - Veronica Rotondo

    ANIMA

    RECEPTIVA

    di Veronica Rotondo

    ANIMA RECEPTIVA

    di Veronica Rotondo

    Napoli, Luglio2011 inizio – Giugno2016 fine

    Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

    A mia madre per le terribili divisioni a due cifre.

    Prefazione

    Mi sentivo perfetta. Dico sul serio. Perfetta. Quanti nella loro vita possono dire di essersi sentiti almeno una volta perfetti? Veleggiavo impettita con il mio nuovissimo acquisto rosa, impreziosito con un fiocco blu, verso il mio posto davanti a tutti, in prima fila. I miei erano fieri di me. Come non esserlo, io stessa lo ero. Mia madre sorrideva radiosa, mio padre mi aveva stretto a sé e mi aveva raccomandato di andare a testa alta. Niente sarebbe potuto accadere, stavo cominciando la mia ascesa in società. Non mi pesava neanche che la mia vicina al mio saluto non mi avesse rivolto la parola. Pensai che fosse timida. Ero davvero indistruttibile. Quel giorno lo serbo nella memoria nei periodi no. Non importa, inoltre, se la metà delle persone a cui lo raccontassi mi dicesse che non vale come giorno perfetto. Per me vale. E non importa neppure che Karen Wlachowski, che supponevo timida, si sia rivelata la più grande arpia dell'universo perché le piaceva attaccarmi cicche nei capelli. E poi, che vuol dire? In prima elementare non ci si può sentire perfetti? Certo, la vera storia riguarda il fatto che in seguito non mi ci sia più sentita così perfetta. E poi, lo scoprire che, se non si può essere perfetti, si può essere molto, ma molto di più.

    Se non puoi essere un’autostrada, sii solo un sentiero,

    se non puoi essere il sole, sii una stella.

    Non è grazie alle dimensioni che vincerai o perderai:

    sii il meglio di qualunque cosa tu sia.

    Douglas Malloch da "Sii il meglio di qualunque cosa tu sia".

    CAPITOLO 1

    GLI ANGOLI E LE SVOLTE

    Amo la mia vita. Ogni suo infinitesimo secondo. Ogni battito di palpebre che mi ha portato sin qui. Molte persone mi hanno odiato per questo. Almeno, questo è quello che percepivo da loro. Ridicolo, vero? In realtà, credo che da parte loro ci fosse una sorta d’invidia inconscia. Non tutti amano la vita, ma non tutti vogliono disfarsene. Il suicidio è faticoso, senza contare che magari si va pure all'inferno. E così, certa gente vive accanto alla propria vita in attesa che finisca. Io no, io vivevo nella mia vita. Sperando che non finisse o che, quantomeno, durasse ancora per molto.  Mi ero da poco laureata e, nel frattempo, facevo la cameriera. Per sopravvivere, s’intende.  Guadagnavo, tra la paga e le mance, il giusto per campare e pagare le tasse all’università. Per fortuna, avevo smesso con le tasse universitarie. Certo, non con le bollette della luce e del gas. Ogni spesa non prevista mi gettava nel panico più totale. Erano perciò banditi vestiti con grandi firme e ogni tipo di veicolo privato. E, per veicolo privato, intendo anche la bicicletta o un misero triciclo. Odiavo l’autobus. Purtroppo, quando finivo tardi al ristorante, non avevo altra scelta che prendere il notturno. La metro era troppo lontana da dove lavoravo. L’autobus no, e in più, faceva fermata vicino casa. Tuttavia, ogni volta che lo prendevo, mi rimbombavano nelle orecchie le parole sprezzanti di mia madre «Non sai che l’autobus è il luogo a più alto rischio di omicidi e malattie infettive?».

    Mi sedevo sempre tra i posti davanti, vicino al conducente e alla porta. La notte del 9 ottobre feci lo stesso. L’autobus era, come al solito, pressoché vuoto. Da dove ero salita, mancavano tre fermate per arrivare a casa. Avevo anche fatto amicizia con alcune persone che prendevano il bus. Ci conoscevamo tutti. Del resto, chi va in giro alle due di notte con l’autobus? Eravamo una sorta di circolo. Ci chiamavamo i narratori notturni. Tra loro, Dwain, che faceva la guardia giurata e aveva due gemellini di tre mesi che chiamava le sue polpettine, Andrea, che lavorava in una panetteria ed era, a suo dire, alla perenne ricerca dell’anima gemella, ed infine, Jorel. Fu lui a farmi entrare nel circolo dei narratori notturni. Non fu facile, gli altri mi guardavano con sospetto. Forse perché all’inizio origliavo le loro storie. Jorel aveva avuto una moglie. Aveva avuto dei figli. Aveva perso tutto. Incidente stradale. Poi, si era lasciato andare. Tutto qui. Abbandono, solitudine e oblio. La vita ti governa, non sei tu a governare lei. Questo diceva Jorel.  Forse, per il suo modo di vedere le cose, così lontano dal mio, avrei dovuto percepirlo in modo ostile. Invece no. Divenne mio grande amico.

    Mia madre l’avrebbe definito un soggetto poco raccomandabile, una figura losca. Jorel era un clochard. Ma mia madre guardava la vita attraverso un vetro terso e non avrebbe mai visto, né voluto vedere, quello che era Jorel. Vale a dire, un uomo intelligente e saggio che aveva fatto una scelta poco comprensibile per taluni, anche per me, ma una scelta. E chiunque scelga nella propria vita è degno di rispetto.

    «Hey dottoressa…» disse Jorel, vedendomi salire sul bus.

    «Hey… adesso faccio ancora la cameriera però» dissi barcollando, sedendomi poco prima di cadere.

    «Sciocchezze, tu sei un dottore. Fa freddo stanotte, visto?» disse lui chiudendosi ancor più nell’impermeabile.

    Di tanto in tanto gli portavo dei vecchi vestiti di mio padre. Quell'impermeabile, ricordo, aveva un piccolo strappo vicino la tasca destra, avrei dovuto rammendarglielo, ma…non lo feci, mi ricordava di quando mi ci aggrappavo da piccina.

    «Ascolta Jorel, dove lavoro, cercano nuovo personale, che ne dici di venire a dare un’occhiata, se ti va…» proposi esitante, perché la risposta, da che glielo avevo chiesto la prima volta, era sempre stata la stessa.

    «Grazie anguilla, ma non posso. Vivo così adesso, lo sai bene. Tu, piuttosto, non dovresti andare in giro da sola a quest’ora, quante volte te l’ho detto? S’incontrano soggetti poco raccomandabili.»

    Anguilla, non è che mi piacesse molto quel soprannome. Tuttavia, Jorel lo diceva con affetto. La ragione del soprannome era dovuta alla mia carnagione piuttosto scura. Gli occhi erano neri come la pece. Avrei preferito, piuttosto, possederli di un verde brillante, come mia madre, la quale, per tirarmi su il morale, diceva che avere gli occhi chiari era sintomo di un’irregolarità genetica e che erano più sensibili e meno forti. Avevo invece la carnagione e gli occhi di mio padre e, quando compii dieci anni, fui grata che quell’irregolarità genetica non mi avesse colpita. In questo  modo, conservavo una parte di lui.

    «Be’, oggi ho incontrato te» dissi, distogliendomi  da quei pensieri.

    «Appunto, te l’ho detto, poco raccomandabili…» osservò lui sorridendo.

    «Dove sono Dwain e Andrea?»

    Era davvero strano che non ci fossero entrambi.

    «Dwain lavora fino alle 6 di mattina il venerdì, ricordi? Quanto ad Andrea, credo che faccia gli straordinari ultimamente.»

    «Ha problemi economici? L’ ultima volta non mi ha accennato nulla. Lei odia fare il pane» chiesi scettica.

    «No, infatti, ma mi ha detto che c’è uno nuovo che gestisce la panetteria e lei crede di piacergli»

    «Ah, una potenziale anima gemella?» dissi sorridendo.

    «Hai fatto centro anguilla, preparati, la prossima fermata è la tua»

    «Ok, ci si vede qui mercoledì, allora?» soggiunsi, avvicinandomi all’uscita.

    Mi salutò con un sorriso caloroso. A volte pensavo che Jorel, per quanto un evento struggente avesse attraversato la sua vita, fosse felice. Sì, felice. Viveva alla giornata, il quotidiano. Insomma, quando la mattina apriva gli occhi, aveva davanti a sé la vita, la vita e basta, non le promesse, né quelle fatte a sé stesso, né quelle fatte agli altri, né tanto peggio le aspettative. Sì, le aspettative. Ecco, le aspettative, non tanto le mie, quanto quelle degli altri verso di me, mi tormentavano  a volte. Peraltro, tutte le volte che dicevo a Jorel che alla fine me ne sarei andata via con lui, sì, che avrei abbracciato la sua filosofia di vita, lui rispondeva che non sarebbe mai successo, poiché ero destinata a grandi cose. Ogni volta che scendevo dall'autobus mi diceva sempre la stessa frase «Anguilla, prima o poi, svoltato l'angolo, ci sarà l'occasione»

    Io non rispondevo altro che, in quel caso, avrebbe dovuto dirmi di quale angolo si trattasse, perché, fosse stato in Caucaso, be’, niente mi avrebbe impedito di arrivarci.

    Mi voltai un momento, giusto per vedere l’autobus allontanarsi.

    Mi ritrovai da sola sul ciglio della strada.

    Ero abituata a quella solitudine. La provavo sempre una volta scesa dall’autobus a quell’ora tarda. Non era piacevole. Era come essere sospesi. No, non sospesi, meglio, direi in attesa. Non so di cosa. Tuttavia, come ogni volta, mi rincuoravo al pensiero che, una volta svoltato l’angolo (che evidentemente non era quello cui Jorel faceva riferimento, perché vivevo lì da più di 2 anni e non aveva dato i suoi frutti), sarei arrivata a casa. Erano esattamente 13 i passi che avrei dovuto fare. Li contavo sempre. Durante il tragitto pensavo a 13 ciambelle alla vaniglia, a 13 barattoli di nutella, a 13 tulipani gialli, a 13 giornate di sole, a 13 giornate di mare.

    Insomma, pensavo alle cose belle.

    Quando svoltavo l’angolo e vedevo l’uscio, ero salva. Mi sentivo così. Quando poi entravo in casa e mi chiudevo la porta alle spalle, sorridevo tra me e me, pensando a quanto fossi stupida nel preoccuparmi ogni singola, maledetta volta per quei tredici passi. Attesa? Ma di che cosa?

    Quella notte, tuttavia, non mi chiusi la porta alle spalle nel solito modo.

    C'era una figura incappucciata appoggiata al portone di casa.

    La figura mi aveva già scorto all'angolo della strada prima che potessi anche solo pensare di ritrarmi.

    Poteva essere con ogni probabilità un malvivente (o una malvivente, volendo essere politically correct) ma, ripensando alle paranoie di mia madre e volendo ad ogni costo tacitarle, avendo fatto del contraddirla un credo, pensai bene di andargli incontro. Di sicuro la figura incappucciata aspettava qualcuno ed era una brava persona. Tuttavia, nell’avvicinarmi, registrai che la figura si era allontanata dal portone cui era appoggiata e aveva incrociato le braccia al petto. Il gesto era un inequivoco segnale di attesa e d’impazienza. Poi, sempre osservando il mio credo, che avrei seguito anche a costo della vita, perché era l’unico modo che avevo trovato per sopravvivere a mia madre, pensai che, di certo, sarebbe stato meglio non mostrarsi deboli e andargli incontro. Del resto, non m'importava cosa volesse. Io non volevo fermarmi. Tutto qui. Erano la mia curiosità, la voglia di vivere un'esperienza potenzialmente pericolosa a impedire al mio corpo di non arrestarsi oppure la sconsideratezza? Tutte queste cose credo, perché andai incontro all'ignoto. C'erano tante voci dentro la mia testa, ognuna diceva cose diverse, ma quella più forte diceva di andare verso casa.

    Provai a fare lo stesso gioco di sempre 13 giornate di sole, 13 tulipani gialli, 13 barattoli alla nutella, 13 ciambelle alla vaniglia.

    Il cuore cominciò a battermi all’impazzata. Mi sentivo sospinta da una forza magnetica, da miriadi di folate di vento. Ecco, a un certo punto, se anche avessi voluto fermarmi, non avrei potuto. Quando arrivai dinanzi casa, la figura mi venne incontro.

    Era proprio così. Aspettava me.

    Avevo l’adrenalina a tremila e mi cadde la borsa.

    «Ok» disse, «prendi la borsa e andiamo.»

    Cacchio!

    «Scusa?» dissi disorientata, ma non volevo darlo a vedere.

    «La borsa…» ripeté la figura che era un giovane, sulla ventina. Era buio tuttavia per poterne identificare bene i tratti.

    «No» ribattei, «non ho la minima idea di chi tu sia e non ho alcuna intenzione di seguirti…Vattene, sennò chiamo la polizia»

    In quel momento, mi maledissi mille volte per la mia assoluta stupidità, non essendomela data a gambe levate, quando era l'unica cosa da fare.

    «Per favore, fa’ come ti dico, prendi la borsa e andiamo.» ripetè.

    Al corso di psicologia inversa ci avevano insegnato che nei momenti di confusione, bisogna cominciare a respirare come le partorienti per impedire che la mente s’annebbi.

    «Ascolta» aggiunsi, prendendo fiato, «prendi pure la borsa, d’accordo?»

    A quel punto, afferrò la borsa.

    Io continuai, mentre lui mi fissava immobile.

    «Prenditela, davvero, ci sono circa 50 sterline dentro e un cellulare.  La borsa non è uno Chanel originale, ma puoi piazzarla lo stesso…»

    Sapevo che, se avesse voluto la borsa, si sarebbe voltato e sarebbe corso via. Invece, lui continuava a fissarmi curioso.

    «Sai che non voglio la borsa. Se vuoi, la lasciamo qui…» concluse, poggiando la borsa per terra con lentezza, quasi stesse deponendo un’arma.

    «Sono venuto per te» aggiunse.

    Detto questo, si avvicinò e mi afferrò una mano.

    «Senti, ora tu mi lasci andare, ti prendi le tue fottutissime cinquanta sterline e sparisci! Ti è chiaro? Mi stai spaventando!» dissi ritraendomi isterica.

    «Devi venire con me» insistette.

    «Sei ottuso, quale parte non ti è chiara del vattene, sennò chiamo la polizia?»

    «Non voglio farti del male»

    «Allora che vuoi?» aggiunsi stizzita.

    «Sophie…»

    Sapeva il mio nome? Certo, c'era scritto sul citofono. L'avrà letto lì, pensai. Poi, a freddo, ricordai che il citofono mi si era impallato quella settimana e me l'avevano smontato. Raggelai, giungendo in un baleno ad una conclusione: il tizio mi pedinava.

    A quel punto, urlai con tutta la forza che avevo in corpo.

    Non successe nulla. Neanche una luce del quartiere si era accesa. Era come se fossi intrappolata in una bolla gigantesca tale che nessuno potesse sentirmi.

    Non avevo scelta.

    Probabilmente, se mi fossi arrischiata a reagire, mi avrebbe uccisa.

    Forse sarei morta comunque. Forse no.

    Quando sentiamo di storie del genere in tivù, pensiamo tutti poveretta!. Eppure, alla fine, la compassione ci fa stare bene lo stesso.

    Ad un certo punto, però, contrariamente ai miei concitati pensieri, notai che il mio corpo non rispondeva in maniera adeguata. Non tremava più. Anzi. Sentivo ancora l’adrenalina, ma la paura non ne era la fonte.

    Ero già nella fase della rassegnazione?

    Fu così che lo sconosciuto mi tese di nuovo la mano ed io non feci altro che stringerla, seguendolo poi su per il marciapiede e, quando fu sicuro del fatto che non me la sarei data a gambe levate, mi lasciò andare. Rallentò il passo per allinearsi al mio.

    Erano le 2:45. A quell’ora, sarei già stata al caldo sotto le coperte.

    Ripensai di nuovo a mia madre.

    Poi il ragazzo si fermò di colpo. Feci lo stesso sorpresa. Di seguito, mi tirò dentro a un vicolo.

    «Piacere Sophie, io sono Fiorenzo, il tuo protettore.»

    Protettore?! Che significa? Oh, merda!

    «Ascolta» dissi, puntandogli  il dito con fare sprezzante al solo fine di essere più convincente, «avrei accettato anche un’aggressione sessuale, d’accordo? Sì, sarei andata in analisi, avrei superato tutti gli stadi: negazione, rassegnazione, accettazione, ma…diventare una prostituta no, mi spiace. Vuoi uccidermi?» domandai, tentando di mantenere un briciolo di dignità. «Fa’ pure, ma non lavorerò per te!»

    «Prostituta?» disse aggrottando le sopracciglia.

    «Oh, è inutile che fai la parte, sai? So come vanno queste cose, vuoi dirmi che posso farlo per poco e che posso uscirne quando voglio. Faccio ancora la cameriera, d’accordo? Ma, a dirla tutta, non sono ancora così disperata»

    Il tizio, di rimando, mi fissava con espressione indecifrabile, poi ribatté «D’accordo, credo che ci sia un errore»

    «Errore? Senti, non vuoi aggredirmi, non vuoi farmi fare la prostituta, non vuoi la mia borsa, i miei soldi, il mio cellulare... Che cavolo vuoi da me?!» dissi come impazzita.

    «Va bene, mi avevano detto che eri un po’ difficile» borbottò parlando tra sé, toccandosi il mento con l’indice della mano destra.

    Si ridestò e poi aggiunse «Ricominciamo, d’accordo? Io sono Fiorenzo, il tuo protettore. Ti proteggerò, anche se mi pare che tu ti difenda bene…» concluse accigliato.

    Psicopatico, era di sicuro uno spione psicopatico. 

    «Ehm… ti sei sbagliato, io non devo essere difesa da nessuno. Sai, la regina Elisabetta, le rock star, gli attivisti politici hanno bisogno di qualcuno che li controlli. Non io, non sono preziosa»

    «Sì, invece. Tu sei preziosa, preziosissima direi»

    Ok, ha sviluppato di sicuro una dipendenza ossessiva da me.

    «E cosa avrei di così prezioso?»

    Assecondarlo era l’unica cosa da fare. Così avrei recuperato del tempo, per poter pensare ad un piano migliore che non fosse  invocare la mamma, piangere a dirotto ed implorare.

    «Tu sei un’anima receptiva, sei preziosa.»

    «Anima che?»

    «Anima receptiva. È un conduttore speciale»

    Chimico-spione psicopatico, sì, sì, torna tutto.

    «Conduttore? Senti, non è che fossi un portento in chimica, ma, se non ricordo male, un conduttore è una specie di trasmettitore da un corpo a un altro…» dissi, tentando di trovare il cellulare nella borsa.

    «Esattamente,» ribattè soddisfatto, «l’anima receptiva, il nucleo della tua coscienza, fa da collante informativo, da ponte»

    Ok, non chimico psicopatico, ma appassionato di  film fantascientifici e psicopatico.

    «Io sarei una specie di radio? Questo è assurdo, ti rendi conto che non ha alcun senso, vero? Senti, ho sentito che pochi giorni fa dal Psychiatric Hospital ci sono state delle fughe. Dì la verità, sei uno dei fuggitivi. D’accordo, so che quelli sono dei postacci, ci sono stata per il tirocinio, per cui non dirò a nessuno di averti incontrato, a patto che tu mi lasci tornare a casa. È ragionevole come accordo mi pare»

    «Senti AR, a parte che non mi piace che tu ti prenda gioco di me, io non sono pazzo» disse con voce alterata.

    «AR?»

    «Sì, noi per far prima vi chiamiamo così»

    «Vi chiamiamo?» scossi il capo confusa e un tremore mi percorse.

    Doveva essersi accorto che ero un tantino fuori di me e assunse un'espressione seccata, ma invece che trascinarmi con sé oppure colpirmi come un degno cattivo, arretrò alzando le mani. Per assurdo, se qualcuno fosse passato in quel momento, avrebbe pensato che quello in ostaggio era lui.

    «Ascolta» disse, continuando a tenere le mani bene in vista. «Mi rendo conto di avere sbagliato approccio, volevo solo presentarmi. Ero curioso di te, tutto qui. Salterò fuori ove ne avessi bisogno»

    Colsi l’occasione al volo.

    «Quindi posso tornare a casa?» dissi incredula e speranzosa, fregandomene di salterò fuori ove ne avessi bisogno.

    L’importante era salvare la pelle.

    «Certo. Sta’ tranquilla, sorveglierò che non ti succeda nulla» disse soddisfatto.

    Il ragazzo non credeva mica che mi avrebbe rivista, vero? Non credeva mica che saremmo diventati in qualche modo amici? A giudicare da come mi guardava, sì, lui ci credeva. Quella sua ingenuità mi fece quasi tenerezza. Poi, ripresi il controllo della situazione. Era pur sempre un pazzo.

    «Ehm… sì, grazie… vado… ciao…» dissi retrocedendo come i gamberi per non dargli le spalle, finché non fossi stata abbastanza lontana.

    Uscii da quel vicolo. Ero viva. E corsi, corsi come una matta nella paura che potesse cambiare idea e riacciuffarmi.

    Quando tornai a casa, mi resi conto dell’esperienza del tutto singolare che mi era successa.

    Quel tizio non sarà stato un reclutatore pappone, ma era di sicuro un pazzo sfrenato.

    Mi accasciai sul letto, ma prima controllai ben quattro volte consecutive che avessi fatto tutte le mandate alla porta.

    Pensai alla follia, a quello che può far fare alla gente.

    Mia madre, per esempio, era un po’ pazza anche lei.

    A prima vista, sembrava uscita dal telefilm La casa nella prateria.

    Ma anche mia madre aveva dei lati oscuri. Per esempio, uccideva il cappone con le sue stesse mani. Ditemi voi se questo non è sadismo.

    A sua discolpa, lei diceva che il cappone con un taglio netto non soffriva nulla.

    «Forza Razzo, salta su …»

    Avevo un gatto. Be’, forse chiamarlo gatto era inesatto. Era piuttosto un procione obeso bianco. E dire che quando me l’ero portato a casa, era poco più di una palla di pelo innocua.

    Mi aveva intenerito, a tal punto, che lo raccolsi dal marciapiede dinanzi al ristorante e me lo portai a casa.

    Comunque, pensai che in quanto gatto sarebbe stato del tutto indipendente e che non mi avrebbe voluto più di tanto fra i piedi.

    Mai pensiero fu più ingenuo di quello.

    Il mio gatto era un cane. Cioè, non nel senso proprio del termine, ma si comportava da tale.

    Non usciva di casa se non gli mettevo il guinzaglio e dormiva sempre e solo sul letto accanto a me.

    «Forza Razzo, guarda che sto per spegnere la luce… Dico sul serio, se non salti su adesso, mi metto a dormire. Per favore, che fai lì sotto la porta? Vieni qui…»

    Mentre mi accingevo a spegnere il lumino sul comò, andò via la luce.

    «Diamine, è la quarta volta questo mese»

    Di malavoglia, Razzo fece dietrofront e si appollaiò sul lato estremo del letto.

    Guardai fuori dalla finestra. In strada c’era quell’unico lampione acceso.

    D’accordo, avevo pagato le bollette? Certo, certo.

    La prima bolletta che pagavo era quella della luce, a costo di andare avanti a scatolette di tonno a vita.

    Mi piaceva la luce. Odiavo il buio.

    Forse, c’era un problema col quadro elettrico.

    Dovevo riferirlo a mr. Figg, il proprietario. O a chi per lui. Non che servisse a granché. Viveva a Richmond e non si faceva mai vivo. Mandava un corriere per l’affitto. Insomma, non l’avevo mai visto.

    Il mio gatto emise un suono simile a un sibilo acuto. Anche lui odiava il buio.

    «D’accordo, non ci resta altro che dormire, vero Razzo?»

    Tastai sul letto, ma non lo trovai.

    «Razzo, Razzo dove sei?»

    Capii che era di nuovo sotto la porta immobile, perché la luce filtrando dalla finestra ne delineava la sagoma.

    Decisi di dormire.

    Avrei pensato al resto domani.

    Come feci per chiudere le palpebre, udii uno scricchiolio.

    Riaprii immediatamente gli occhi, stringendo la coperta fra le mani.

    Attesi per un minuto che si ripresentasse il rumore, ma inutilmente.

    Scricchiolii, una cosa comune in una casa silenziosa, ma da quando avevo avuto quell’incontro, ero diventata, come dire, un po’ paranoica.

    CRAC, CRAC, CRAC.

    Passi.

    Gli scricchiolii erano

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