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Donne in grigioverde
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Donne in grigioverde

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Fabio Righi, sfaccendato studente di Giurisprudenza abbondantemente fuori corso, si vede recapitare la cartolina per il servizio di leva militare dopo aver steccato un esame di Diritto. Sfortuna vuole che il suo sia l’ultimo scaglione di reclutamento obbligatorio, prima dell’avvento dei Volontari. Con la bocca amara, si trova così a lasciare Roma. Dopo il CAR, viene assegnato al glorioso 133° Reggimento di fanteria “Lupi di Liguria”. L’anno che deve allo Stato vola, anche grazie all’agognata sistemazione in fureria e, visto il buon rapporto instauratosi col suo Capitano, decide di raffermarsi come volontario per ulteriori dodici mesi. Lo stipendio è basso ma c’è, e la prospettiva di tornare sui libri non lo alletta poi molto. Ma Fabio ancora non sa a quale cambiamento sta andando incontro l’Esercito: una miriade di donne in grigioverde sta per invadere le forze armate, e proprio il suo Reggimento viene trasformato nel primo R.A.V. (Reggimento Addestramento Volontari) femminile. Tra imbarazzi, ormoni impazziti e incomprensioni grottesche, l’ormai Caporal Maggiore Righi si ritroverà a vivere da protagonista questa trasformazione storica, scoprendo che, in fin dei conti, l’Esercito non è poi tanto male come credeva, e forse può offrirgli un’inaspettata possibilità di futuro.
Un libro incredibilmente divertente, scritto con sagacia e acume ironico senza pari.
LanguageItaliano
Release dateAug 31, 2016
ISBN9788856779387
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    Donne in grigioverde - Gianlorenzo Stopponi

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-7938-7

    I edizione elettronica luglio 2016

    Ai miei figli, che…

    … leggeranno questo libro tra qualche anno.

    Introduzione

    Molti di voi avranno svolto il servizio militare o comunque ne hanno sentito parlare. Un anno perso, per riassumerlo in tre parole. Ora ci sono i volontari, le cose sono cambiate, la coscrizione obbligatoria è stata sospesa a tempo indeterminato. Introdotta con l’esercito italiano, correva l’anno 1861. La caserma poi è un mondo a sé: ha le sue regole, le proprie gerarchie, un linguaggio scarno, ridotto all’essenziale, profondamente maschilista… pecoreccio.

    Al lettore si vuole far vivere il passaggio, ovvero i passaggi. Perché con l’introduzione del sistema professionale, nelle armi si sono affacciate pure loro: la componente femminile. Viene rotto un ordine culturale, viene messo in crisi un mondo ordinato, con i suoi valori codificati e le sue regole non scritte. Gli anfibi non puzzano più come prima, gli istruttori non ruttano né bestemmiano, e compare la parola che un militare non si sarebbe mai sognato di ascoltare tra le mura di una caserma: facoltativo.

    Spariscono i bagni alla turca, compaiono i bidet. Anche i lettini ginecologici in infermeria. Fa il suo ingresso la Rossa, ufficiale medico rigorosamente donna ma che sa tenere la scena meglio di un uomo. La sottotenente psicologa a controllare il loro grado di soddisfazione. Insomma, finisce un’epoca e ne inizia un’altra, sicuramente più a misura d’uomo rispetto alla vecchia naja.

    Ormai ci siamo abituati a vederle in uniforme, ma quando hanno fatto il loro ingresso, la prima volta, hanno portato scompiglio e problemi nella componente maschile: tanti problemi. Perché era risaputo che sarebbero entrate anche loro in caserma, ma non ci si riusciva a pensare. A credere che sarebbe successo davvero. Era nell’aria da anni, ma l’ipotesi era stata relegata ai margini dell’immaginario nell’universo in grigioverde.

    I nostri protagonisti, il narratore, il capitano Fanti e il sottotenente Gaeta, si ritroveranno a fronteggiare varie tipologie di femmine in divisa, ognuna una novità, una sorpresa. Abbiamo le dominanti tipo la Rossa, che non fa sconti a nessuno, altro che il gentil sesso, quelle in cerca di sistemazione, pronte a cacciare nei guai lo sciocco malcapitato, quelle in cerca di avventura o semplicemente di un lavoro, perché nel meridione del nostro Paese, quello del militare è considerato un posto d’oro.

    Coi due sessi che coabitano tra le alte mura con in cima il filo spinato, si creeranno situazioni imbarazzanti, al limite del ridicolo, ingenue ambiguità. Ma si intensificheranno antagonismi infetti e si andranno a formare pericolosi intrecci non regolamentari, a volte dolci e spensierati, a volte frutto di sottili sopraffazioni.

    Un pensiero per l’io narrante, Fabio Righi: uno come tanti, un po’ furbo un po’ sfigato, ridotto a cercare di sfoderare tutto il suo fascino da perdente nella speranza di aizzare la componente crocerossina che alberga in ogni donna di ogni età, che la induce saltuariamente ed in determinati periodi della luna a concedersi a scopo di puro volontariato.

    Un personaggio che si costruisce lungo la narrazione, che cambia fino a sembrare spudoratamente ambiguo. Passa dal denunciare il malcostume a farne parte pure lui, somigliando in tutto a coloro che critica. Finisce per essere rattuso peggio degli altri e, dopo aver criticato aspramente il sistema, si spende per procurarsi una raccomandazione. Un personaggio che vive un voluto bipolarismo strutturale all’interno della trama, indefinibile e talvolta antipatico, non riesce a esimersi dall’essere il tipo di italiano che tanto disprezza.

    Glossario di militarese

    AZZURRINA: sconto militare per il biglietto del treno.

    A.Sa.: Aiutante di Sanità.

    ALBA: giorno del congedo.

    ATTREZZO MULTIPLO: attrezzo per la pulizia e la lubrificazione del fucile.

    AUC: Allievo Ufficiale di Complemento.

    BATTERE LA STECCA: gesto di nonnismo con le dita della mano.

    BILANCIARM: posizione del fucile in mano parallelo al terreno.

    BRANDA: letto militare, spesso a castello.

    CACCIAMALI: pulmino militare.

    CAGSM: Circuito Addestrativo Ginnico Sportivo Militare.

    C.A.R.: Centro Addestramento Reclute.

    CCS: Compagnia Comando e Servizi.

    CONSEGNA SEMPLICE: forma di punizione erogata dal Capitano che priva di libera uscita.

    CONSEGNA DI RIGORE: forma di punizione più grave con processo.

    CORVÉE: servizio di pulizia mensa.

    CREST: basetta di legno con stemmi vari da appendere al muro.

    CUBO: insieme di lenzuola, coperte e cuscino accatastate in maniera squadrata.

    DECADE: paga militare distribuita ogni dieci giorni.

    ESAF: esenzione attività fisica.

    F.A.L.: fucile automatico leggero

    FOLGORE: brigata di paracadutisti

    FICCARE DENTRO: punire.

    FURERIA: ufficio di segreteria (di compagnia, battaglione, reggimento).

    FURIERE: scritturale che lavora in fureria, segretario.

    GIBERNAGGIO: insieme di cinturone, spallacci e giberne militari.

    JUKE BOX: pratica di nonnismo.

    LIBERA USCITA: periodo orario di libertà fuori dalla caserma.

    LICENZA 48 ORE: tipo di licenza dal venerdì pomeriggio alla domenica sera.

    LISCIVIATURA: sistema di lavaggio della biancheria.

    MARCARE FOGNA: chiedere visita e saltare le attività lavorative.

    NAJA: servizio militare obbligatorio.

    NAJONE: colui che deve svolgere il servizio militare.

    NONNISMO: fenomeno di prevaricazione verso i più giovani.

    NONNO: colui che attua il nonnismo.

    NOTE CARATTERISTICHE: giudizio scritto nei confronti del personale in Spe.

    PADULO: uccello che vola all’altezza del culo. Fregatura.

    PERMESSINO: permesso per uscire qualche ora.

    POLMONE: zona presso il portone d’entrata delimitata da grate in ferro.

    POMPATA: piegamento sulle braccia, flessione.

    RADIO NAJA: sistema interno per cui si veniva avvisati di eventuali pericoli.

    RATTUSO: persona o comportamento morboso, a livello sessuale.

    RAPPORTINO: resoconto delle presenze giornaliere in caserma.

    R.A.V.: Reggimento Addestramento Volontari.

    R.D.M.: Regolamento di Disciplina militare.

    RIGA: consegna di rigore.

    RUOLINO: mini registro tascabile con informazioni base sul plotone.

    SCAGLIONE: aliquota mensile di chiamati alle armi.

    SCOOBY DOO: pezzo di corda color verde oliva con un nodo per ogni mese di servizio militare.

    SINOSSI: libro di testo a livello di compendio.

    SME: Stato Maggiore dell’Esercito.

    SPACCIO: bar e centro ricreativo per la truppa.

    SPACCISTA: colui che lavora allo spaccio.

    SPETTANZE: serie di beni di normale utilizzo, tipo carta igienica, dentifricio, ecc.

    SPINA: recluta appena incorporata, matricola.

    STAMPONE: prestampato da compilare.

    STECCA: modo di segnare il tempo alla rovescia, fino al congedo.

    TARIFFA 1 MEZZO TERZI: sconto di due terzi sul biglietto del treno.

    TRACOLLARM: movimento di mettere il fucile a tracolla piegato a 45 gradi.

    UF. DI PICCHETTO: ufficiale in servizio armato per 24 ore.

    VFA: Volontario a Ferma Annuale.

    VFB: Volontario a Ferma Breve.

    VFP: Volontario a Ferma Prolungata.

    Scala gerarchica semplificata

    GENERALE

    COLONNELLO

    TENENTE COLONNELLO

    MAGGIORE

    CAPITANO

    TENENTE

    SOTTOTENENTE

    MARESCIALLO AIUTANTE

    MARESCIALLO CAPO

    MARESCIALLO ORDINARIO

    MARESCIALLO

    SERGENTE MAGGIORE

    SERGENTE

    CAPORALMAGGIORE

    CAPORALE

    SOLDATO DI TRUPPA/ASPIRANTE CAPORALE

    L’autore, pur essendo militare di professione, non si immedesima con alcuno dei protagonisti della storia, i quali, insieme all’ambientazione, sono puro frutto della sua fantasia. Quindi, ogni riferimento a fatti avvenuti o a personaggi esistenti è puramente casuale.

    Prologo

    «Buonasera Righi, grazie di essere passato. Per questa sera sembra tutto a posto lassù» indicò verso le camerate.

    Lo fissai dritto negli occhi, con rabbia: «No, non è per niente tutto a posto, quaggiù».

    A quel punto mi guardò intensamente e si fece serio.

    In breve gli raccontai tutto, per filo e per segno, anche gli esiti delle indagini della poveretta pestata di botte.

    «Dannazione – esclamò costernato – come sta lei?».

    «Ora sembra stia meglio, ma l’ho raccolta da terra rantolante, come un animale. Non è stata una bella scena, gliel’assicuro».

    «No, è molto grave quello che mi stai raccontando» affermò alzandosi in piedi. Si avvicinò alla finestra e rimase pensieroso guardando attraverso i vetri. Era buio pesto fuori, non c’era neanche la luna.

    «Tu sei l’unico che mi è rimasto, Fabio, di te mi posso fidare. Mi voglio fidare. Ti racconterò come stanno le cose e ti prego di tenertelo per te» mi fissò serio ed io feci segno di assenso col capo. Sentiamo un po’.

    Si schiarì la voce e si fece cupo come non l’avevo mai visto prima: «L’aspirante Manuela Frangi fa parte di un gruppetto di ragazze diciamo un po’ troppo disponibili o… pronte a tutto, dipende da come la vogliamo mettere. Ci siamo capiti?» scossi il capo. «Ufficiali delle altre compagnie, con alcuni sottufficiali, pochi in verità – uno o due – hanno pensato bene di sfruttare la situazione e organizzare dei festini un po’ particolari. Mi comprendi, no?» era visibilmente imbarazzato. Non avrebbe fatto nomi neanche sotto tortura, di questo ne ero certo, però era al corrente di tutto. Poteva fare qualcosa per evitare il peggio?

    Riprese: «Ahò, tutta roba consensuale tra persone maggiorenni, beninteso».

    Beh, pensai, consenzienti sì, ma con pesi diversi nell’ambito della gerarchia militare. Nel senso che quelli erano ufficiali e le altre solo delle reclute, maggiorenni e disinibite quanto vuoi, ma credo potessero essere in un non trascurabile stato di soggezione nei confronti dei primi. E non era particolare di poco conto.

    «Arriviamo al sodo: sembra che a un certo punto la Frangi sia rimasta incinta di uno di questi… diciamo partecipanti ai giochi. Uno ben preciso, sembra. E non sarebbe stato neanche un grosso problema. Un danno collaterale, ipotizzabile e risolvibile. Ragionando col tenente in infermeria, in un’ora tutto si poteva risolvere. La Rossa alla fine si può convincere, è una persona ragionevole. Il guaio grosso sta nel fatto che alla fine questo bambino la Frangi lo vuole tenere. E qui le cose si complicano».

    Ma tutto era cominciato molto prima, da un esame di Diritto all’università. Da quel momento, non avrei mai creduto di poter vivere un’avventura del genere, in un mondo così distante da quello in cui ero stato per quel primo quarto di secolo abbondante della mia vita ordinaria.

    1. Papà-papà-papà-papà Papà-paparapapà…

    «Sveglia, sveglia maledetti pecoroni, sveglia!».

    Stava cominciando un’altra sfigatissima mattinata di naja nel fottutissimo CAR¹ di Albenga. Ogni volta che riaprivo gli occhi al mattino e vedevo la branda sopra di me agitarsi spasmodica prima di rigurgitare il Passoni, fante con cui dividevo quel bel castello, mi tornava in mente l’esame di Diritto amministrativo e quella formula sbagliata di un niente che mi era costata l’ennesima bocciatura. Quante volte l’avevo dato quello stramaledetto esame, non si contavano.

    Ma stavolta la bocciatura mi era costata cara: non avendo raggiunto il quorum minimo di tre esami, quell’infausto anno accademico mi aveva catapultato dritto dritto tra le braccia di mamma repubblica, di cui peraltro pensavo di essere un onorabile cittadino, avendo sempre fatto il mio dovere alle urne in quegli otto anni trascorsi dal compimento della maggiore età, come se bastasse per esserlo mettere di tanto in tanto una crocetta su un simbolo colorato.

    Mi ritornava in mente l’esame di maturità, col mio onestissimo quarantanove (darmi un cinquanta sarebbe stato un vero scandalo) più di furbizia che di preparazione, la mia incontenibile gioia nell’iscrivermi alla facoltà di Giurisprudenza, i miei primi successi tra cui un indimenticabile diciotto al primo appello di Istituzioni di Diritto privato (più un diciassette e due figure, a dire il vero) che mi aveva oltremodo inorgoglito, visto che con quel professore ci si potevano metter su i capelli bianchi prima di passare.

    Successi che andarono via via scemando, tra una canna e una nottata brava, in un inesauribile gorgo di divertimento da lussurioso universitario professionista, che mi aveva inevitabilmente traghettato, alla veneranda età di ventisei anni, ad una quintuplice bocciatura (o sestuplice, chi se lo ricordava) in Diritto amministrativo, due tomi da settecento pagine di formule giuridiche da imparare bovinamente a memoria, che bastava una sillaba fuori posto a far cambiare senso a tutto.

    E come dimenticare la dolce nonnina che mi dava la sveglia a mezzogiorno e la ricca colazione col cappuccino fumante, che sorseggiavo con calma ancora rincoglionito dalla notte brava, trascorsa in chissà quale discoteca con le più infime compagnie, studenti di professione stempiati e coi capelli bianchi e bagasce di quart’ordine, pronte a farti volare in paradiso per una mezza piotta. Se fosse vera la frase il mattino ha l’oro in bocca, io non ero di certo un cercatore d’oro.

    Ora invece, se non stavi ben attento, ti ritrovavi sulla groppa il Passoni, con le sue guance rubiconde da contadinotto dell’alta Padana, felice del ricordo vago dei suoi sogni sconci, che regolarmente popolavano le sue notti e guai se lo si svegliava, che erano cinque minuti buoni di cigolio di letto, quanti bastavano per farti passare il sonno. E non è che ci si poteva accendere una sigaretta per riconciliarlo. Severamente vietato. E comunque, dovevo smettere di fumare, diavolo! Per fortuna le avevo ridotte a tre o quattro al giorno, non sarebbe stato impossibile rinunciarci.

    Però, ringraziando il cielo, quella era l’ultima sveglia che mi toccava ascoltare in questa caserma bastarda. Voi direte: già finita la naja?

    Macché, era appena incominciata.

    Dopo quel mese di CAR mi toccavano gli undici mesi di caserma operativa vera e propria, quella coi nonni che ti rompono i coglioni e lo scooby doo² tra le mani su cui non finivi mai di fare i nodi. E pensare che da decenni si diceva che l’anno di naja andava abolito, che si voleva creare un esercito di volontari e menate del genere. Ormai avevo perso ogni speranza, giacché in Italia le novità epocali si paventavano dieci o venti anni prima di poterle realizzare, e spesso e volentieri i buoni propositi erano destinati a rimanere tali. Comunque, ormai mi trovavo qui rinchiuso tra alte mura con in cima il filo spinato, come se avessi commesso chissà quale crimine.

    Ero stato assegnato, come la maggior parte dei dannati con cui condividevo quel girone infernale, al 133° Reggimento fanteria Lupi di Liguria, di stanza a Novi Ligure, che già a sentirlo nominare ti veniva il mal di testa. Serpeggiava il nomignolo che era stato affibbiato alla città ospitante la caserma: Novi Lager! Roba da mettersi le dita in gola dalla gioia.

    Alle urla feroci dei caporali istruttori si doveva schizzare giù dalle brande³ tempo zero per recarsi, dopo una ricca pisciata, che bisognava far la fila pure per quella, davanti ai lavandini con specchio per radersi a dovere, perché una rasatura troppo superficiale poteva costare la libera uscita del pomeriggio, se non addirittura qualche giorno di consegna con l’impossibilità di tornarsene a casa per due settimane. Praticamente a casa non ci aveva messo piede nessuno per tutto il mese di CAR, se non per la licenza premio dopo il giuramento, seguita a un’amnistia generale. Il giuramento: avvenimento da incorniciare negli annali della propria biografia, se non altro per le prove di resistenza sotto il sole di fine luglio all’altezza del miglior John Rambo. E non parlo della cerimonia in sé, durata sì e no tre quarti d’ora, sommersa dai continui applausi commossi dei familiari accorsi da ogni dove per vedere i propri figlioli in uniforme sciogliersi come una grigliata di abbacchio scottadito al fuoco di quella specie di sadico barbecue, ma delle ben due settimane infernali di prove e controprove che l’avevano preceduta.

    Quella mattina la colazione fu particolarmente ricca, forse volevano lasciare un buon ricordo all’atto dell’ultimo addio, oppure era un po’ come l’ultimo pasto del condannato a morte, vista la nostra prossima destinazione: Novi Lager.

    Dopo il lauto pasto, ci furono concessi cinque minuti cinque per raccogliere dalle camerate i nostri zaini belli affardellati, e montare sui pulmini Cacciamali, già rombanti fin dalle prime luci dell’alba, visto che i motori andavano ben scaldati e, comunque, un bel tumore ai polmoni non si nega a nessuno.

    Non si fece in tempo a godere delle note dell’inno di Mameli che già stavamo per strada, carovana triste e silenziosa di deportati alla volta di un nuovo campo di prigionia. Il viaggio non durò più di due ore: il Passoni, instancabilmente appiccicato alle mie chiappe, non aveva fatto altro che sospirare quando non si era fatto sfuggire qualche aria corpulenta, immancabile per lui nei momenti di tensione.

    «Ho tanta paura – mi aveva confessato – bisogna stare attenti, ieri in adunata il tenente ci ha lanciato un monitor».

    Sì, sulla testa te l’ha lanciato, zuccone. Non ci facevo più caso alla chicche del mio compagno di branda che, per fortuna, era di poche parole. Uffa che puzza, ne aveva sparata un’altra.

    Giunti finalmente in caserma, una breve sosta nel polmone,⁴ tanto per permettere all’autista di consegnare il foglio di marcia all’ufficiale di picchetto, ed eccoci scaricati nel piazzale, 120 reclute fresche fresche nel bel mezzo dell’imponente piazza d’armi, con un mese di CAR tutto nello zaino alpino caricato in groppa, ignari del proprio imminente destino e pronti ad essere incorporati nel glorioso 133° Reggimento di fanteria Lupi di Liguria.

    I Cacciamali, come caronti laboriosi, si allontanarono lasciandoci muti e inquadrati davanti alla stele coi lupi in marmo, simbolo del reggimento. Quei canidi marmorei nell’atto di ululare verso il cielo rappresentavano il nostro futuro prossimo, mentre tutta la nostra vita presente giaceva, ben piegata e riposta ordinatamente, all’interno dell’enorme zaino che portavamo sulla schiena e nel borsone militare che trascinavamo con la mano sinistra, poiché la destra doveva necessariamente rimanere libera per un eventuale saluto al copricapo con mano a paletta dovuto, e guai a dimenticarsene, ad ogni superiore di passaggio. E all’interno di quelle mura, a parte gli altri 119 sventurati pari scaglione, erano tutti superiori, bastava soltanto avere un mese di naja in più di te.

    I casermati a destra e a sinistra del piazzale, un quadrato perfetto, dovevano avere almeno un secolo di vita e la stele in prossimità del centro del fabbricato di fronte a noi, che ci si presentava come un imponente muro privo di porte o finestre, era adornata da sprazzi di curatissima vegetazione e qualche alberello verde scolpito. Nel migliore stile piemontese, i palazzi a tre piani della piazza d’armi presentavano al pian terreno un ampio porticato, utile a salvaguardare le normali attività di servizio durante i lunghi periodi di pioggia invernale, frequenti a quelle latitudini. Alle nostre spalle, oltre all’entrata col polmone costituito da grate metalliche, casermati bassi che formavano un tutt’uno con le mura di cinta.

    Non passò un minuto che una turba di caporalacci ci si gettò addosso ringhiandoci contro frasi indicibili, ma non troppo lontane da quelle che ci eravamo abituati ad ascoltare durante il primo mese. Di lì a poco, però, un paio di sottotenenti riportarono l’ordine e cominciarono a dividerci in gruppi seguendo l’ordine alfabetico in cui eravamo ordinati su tabelle che tenevano in mano e che spesso e volentieri utilizzavano per sventolarsi il volto o schiacciare una sventurata mosca che si posava incauta sul loro capo ben rasato. Fummo divisi in gruppi da dodici reclute e ogni gruppo venne affidato alle cure di un caporale istruttore, responsabile dell’acquartieramento. Il primo gruppo si sganciò dagli altri e si avviò verso un tavolinetto posto sotto un gazebo, sistemato nei pressi del vertice alto del piazzale, ove erano seduti un paio di furieri ed un altro sottotenente, intento a ordinare i registri che occorrevano al fine di completare le procedure di incorporamento. Poi, sempre coi nostri bagagli rigorosamente al seguito (ci avevano avvisato che gruppetti di nonni senza scrupoli erano pronti a fotterti l’inverosimile alla prima distrazione – uno dei famosi monitor di Passoni), ci avviammo, muti e rassegnati, appresso ai nostri caporali istruttori alla volta delle camerate.

    Tutti là dentro urlavano in continuazione: eppure eravamo sparuti gruppetti di reclute silenziose, non c’era bisogno di farsi sentire in lontananza. I nonni urlavano frasi dialettali, i caporali si sforzavano di urlare in italiano, visto il ruolo che ricoprivano dovevano dare una parvenza di istituzionalità. Sembrava facessero a gara a chi urlava più forte, pareva di essere stati catapultati sul pianeta delle scimmie: scimmie urlatrici. E pensare che solo due mesi prima mi sarei fatto amputare un braccio piuttosto di trovarmi in una situazione del genere, vista la mia scarsa inclinazione a ricevere ordini da chicchessia, per di più in quel modo barbaro. Avevo voglia di fuggire, di nascondermi da qualche parte. Aiuto!

    Eppure, tempo addietro, uno di quegli studenti di professione più che trentenni che ero uso frequentare, me l’aveva dato un suggerimento buono per farmi riformare: Vai a parlare col più alto in grado che trovi e mentre lui dice qualcosa tu pisciati addosso, e se ci riesci mettiti a tremare e a piangere. Vedrai che si caca sotto e ti fa rimandare subito a casa, riformato per profondo stato d’ansia. Ma se avessi fatto una cosa del genere non avrei più avuto il coraggio di guardarmi allo specchio, mi sarei sentito una specie di larva senza spina dorsale, senza dignità. Quindi, come più di una volta era stato suggerito durante il mese di CAR, mutismo e rassegnazione.

    Ormai ero lì per ballare e avrei ballato fino in fondo. Per di più il primo mese era già alle spalle e con l’esperienza maturata mi sarei potuto più agevolmente immedesimare nella parte. Si trattava di recitare la parte del soldato acculturato e disponibile a mettersi al servizio dei superiori, visto che coi miei 26 anni e con parecchi esami di Giurisprudenza alle spalle, potevo diventare il furiere ideale, il segretario e consigliere del comandante di compagnia. Mica niente.

    Era una delle mie doti quella di essere accattivante nei confronti del gruppo, l’avevo dimostrato a scuola e con gli amici. Anche sotto naja ero riuscito a conquistare le simpatie dei miei commilitoni, non per altro ero stato nominato capo camerata. Il mio compagno di branda, il fante Passoni, mentalità semplice e campagnola, mi era devoto come fossi un’icona sacra. Certo, l’altra faccia della medaglia di questa sua inveterata devozione era che ce l’avevo sempre tra le palle, giorno e notte: per lo meno parlava poco.

    Mi ritornava spesso in mente in quel periodo una summa latina che il preside della scuola media aveva inserito all’interno di una lettera-cazziatone che benevolmente mi aveva consegnato al termine di una lezione a causa delle mie frequenti distrazioni in classe: age quo agis, letteralmente fa’ ciò che fai, nel senso di concentrarsi esclusivamente in quello che si sta facendo al momento, senza pensare ad altro. Era il modo giusto per rischiare di fare qualcosa per bene e, ad essere sinceri, questo rischio l’avevo corso ben poche volte nella vita.

    Ma questa volta era diverso: per non finire in manicomio dovevo concentrarmi sulla vita di caserma, con tutte le sue ottuse regole, e sforzarmi di diventare uno di loro. E non doveva poi risultare così complicato, visto che mi vantavo di essere un fine giurista e abile oratore, e che il livello medio là dentro era veramente basso: ufficiali, sottufficiali, graduati e truppa. Anzi, con la truppa si raggiungevano livelli di vero e proprio semi-analfabetismo.

    Il nostro caporale istruttore ci avviò verso le camerate, imboccando un vialetto che partiva dal vertice alto della piazza d’armi, che percorremmo fino ad uno stradone in discesa che, curvando verso destra, ci proiettò nel cortile davanti alla palazzina, in cortina e più recente degli altri fabbricati, che verosimilmente doveva ospitare le nostre camerate. Un bello stabile, ampio e ben tenuto. Scendendo per lo stradone avevo potuto notare sulla sinistra un bel parco con alti pini marittimi e panchine qua e là, ideale per rilassarsi un po’, se mai ce l’avessero concesso.

    In fondo alla discesa, in quella sorta di depressione naturale (depressione geografica naturalmente) il caporale ci fece fermare di fronte ad un portone. La palazzina era veramente grande, con tre entrate, in seguito scoprii che era a forma di U e nascondeva un cortiletto interno dove di solito si faceva la pulizia delle armi. Salimmo i tre scalini ed entrammo nel portone di sinistra. L’ampio androne presentava di fronte una porta che dava alle camerate del piano terra, a destra un’altra porta che dava nel corridoio degli uffici, comandanti e furerie varie, e a sinistra scale che noi prendemmo al seguito dell’istruttore: saremmo stati alloggiati al piano superiore. Figuriamoci se me le risparmiavano tutte quelle scale cinquanta volte al giorno. E poi quante ne erano! Due rampe che sembrava non finissero mai, con quei dannati zaini in spalla e le borse-valigia zeppe di vita che ci scarriolavamo da un’ora buona. Naturalmente i soffitti erano altissimi, almeno quattro metri, e ci sarebbe stato da rompersi il collo per togliere le ragnatele agli angoli. In cima alle scale a doppia rampa un androne sulla destra, mentre a sinistra c’era l’entrata vera e propria per la camerata. Di fianco all’entrata, nell’androne, una piccola scrivania con una sedia in plexiglass, probabilmente postazione del piantone di turno, in quel momento assente. La camerata era vuota, non c’era nulla da piantonare.

    Finalmente entrammo: percorrendo il corridoio notai tre camere a destra e tre a sinistra, naturalmente senza porta, poi la zona lavandini e WC ed infine altre camere, due a destra e due a sinistra e fine del corridoio. Ogni camera era arredata da sei letti a castello e dodici armadietti mono anta, tanto per poter avere tutto a portata di mano, che con un armadietto troppo grande si rischiava di perderci dentro qualcosa, mica no. Come avrei fatto a ficcare in quel poco spazio, largo 60 centimetri, alto 2 metri e profondo altri 60 centimetri, tutta la mia dannata roba?

    Entrammo tutti e dodici, su indicazione del caporale, in quella subito a sinistra dopo la zona WC. Il Passoni me lo sentivo naturalmente col fiato sul collo e non si era distanziato da me più di un metro da quando avevamo messo piede in quella valle di lacrime. Potete immaginare con chi divisi il letto a castello, che scelsi strategicamente vicino alla finestra, occupandolo subito abilmente, perché con l’esperienza che mi ero fatto al CAR sapevo che stare vicino all’aria ti avrebbe aiutato a prendere sonno con quella puzza insopportabile che si creava la sera quando ci si toglieva gli anfibi. Buttai sul letto di sotto il mio zaino valigia e il buon Passoni mi lanciò un’occhiata languida da bambino felice, per ringraziarmi che gli avevo lasciato il posto di sopra. Non sapeva che la mia scelta derivava da una vaga conoscenza delle leggi della fisica, per cui sapevo bene che la puzza, di ogni genere, viaggia dal basso verso l’alto e non il contrario. Toccava ingegnarsi e tirar fuori tutte le conoscenze possibili in ogni campo per riuscire a sopravvivere altri undici fottutissimi mesi di naja.

    «Quale vuoi? Scegli tu» mi propose il Passoni indicando i due armadietti adiacenti al nostro castello, verso la finestra. A questa sua spontanea offerta, carica di stima e rispetto nei miei confronti, non potei di certo sottrarmi, per cui mi misi ad osservare da vicino quei due capolavori metallici: non erano ridotti male e sembravano pure abbastanza puliti. Ci tenevano alla compagnia gli ufficiali, si vedeva. Dopo scrupoloso controllo dello stato di conservazione, scelsi con un mezzo sorriso quello più vicino al letto: era più agevole buttarci dentro qualcosa da nascondere nel caso di un’eventuale ispezione improvvisa. Passoni, soddisfatto di avermi lasciato la scelta, cominciò a buttare la sua roba dentro l’altro.

    Lasciai tutto negli zaini e provai il materasso, stendendomici sopra, al che gli altri compagni di stanza cominciarono a guardarmi preoccupati, come se stessi facendo qualcosa di decisamente sbagliato e mi potesse capitare una sventura di lì a poco.

    Uno di loro cautamente mi si avvicinò sussurrando: «Se ti pizzicano sul letto a quest’ora è capace che ti ficcano dentro, occhio!».

    Gli feci un sorriso per ringraziarlo ma rimasi steso, pronto a scattare all’occorrenza.

    Intanto osservavo il fante Passoni che svuotava lo zaino alpino e lo zaino valigia cercando di sistemare la sua roba in quel bugigattolo di armadietto mono anta. Aveva sempre le guance rosse, sia col caldo che col freddo. Capelli non più lunghi di due centimetri ma foltissimi e nerissimi, sopracciglia anch’esse nere e folte e quasi attaccate, occhi grandi e marroni, mento un po’ schiacciato. Tutto sommato un bel ragazzo, alto più di uno e ottanta. Con me si sforzava di parlare nel suo miglior italiano, dopo la terza media aveva cominciato a lavorare i campi con suo padre e per lui quest’esperienza del servizio militare rappresentava la prima avventura lontano da casa: era qualcosa di straordinario. Spesso sembrava stupito che esistesse un mondo così grande intorno a lui e gente così diversa proveniente da altre regioni. Una volta lo sentii parlare coi suoi al telefono non so in quale misterioso dialetto nordico e davvero non si capiva una parola: arabo. Parlare con me e farsi comprendere doveva essere per lui uno sforzo sovrumano. Con gli altri non apriva bocca e ai superiori rispondeva sempre e solo signorsì, con un sorriso ingenuo.

    Comunque, decisi di seguire il consiglio del mio avveduto commilitone e mi alzai dalla branda. La nostra stanza, pur dovendo viverci in dodici, sembrava abbastanza ampia e aveva soffitti alti come tutti gli altri locali, circa quattro metri. Due ampi finestroni con vetri scorrevoli a ghigliottina davano su quel favoloso parco che avevo notato prima scendendo: un bel prato curato, siepi, panchine e pini ad alto fusto. In fondo il muro di cinta della caserma, cinque generosi metri con in cima l’immancabile filo spinato.

    Dopo esserci sistemati, il caporale ci diede libertà fino all’ora di pranzo alle dodici in punto, con adunata alle 11.45 nel cortile comando di fronte alle camerate. Avevamo più di un’ora di libertà e subito pensai di far visita allo spaccio truppa che avevo adocchiato prima del discesone.

    Mi diedi una bella sciacquatina alla faccia, poi una ricca pisciata nei cessetti rigorosamente alla turca, infine col basco ben calzato mi avviai per il corridoio delle camerate. Dietro di me, a non più di un metro di distanza, mi seguiva sornione e silenzioso sempre lui, con le sue guanciotte rosse. Prendemmo le scale a destra e fuori dal portone ci dirigemmo ancora verso destra. Sospirai guardando quel bel parco, immeritatamente inutilizzato, quindi c’incamminammo in salita alla volta dello spaccio.

    Lo spaccio truppa non si presentò come un luogo ben illuminato, ma comunque era grande e ben tenuto. Sarà stato un dodici metri per dieci, un bel locale ampio. Subito sulla destra erano appoggiati alla parete una fila di giochetti elettronici a gettone mentre verso la parete lunga erano sistemati tre tavoli da bar con sedie metalliche. In fondo al locale, nel vertice destro una teca di vetro piena di cazzate militari da poter acquistare, tipo borracce, baschi, mostrine, coltellacci da Rambo, mini torce. Appoggiato alla parete corta in fondo, campeggiava un grosso bancone con ogni ben di Dio: cornetti, tramezzini e via discorrendo. Dietro al bancone l’immancabile macchina per il caffè e il frigo coi gelati. Finestroni alti e supplemento d’illuminazione con ricchi neon appesi per aria. In fondo al bancone, sulla sinistra entrando, la cassa. Mi misi in fila per prendere un caffè insieme al Passoni.

    Dopo due minuti l’immancabile nonno, spalleggiato da altri due gentiluomini come lui, mi si posizionò davanti spostandomi dalla fila. Era una chiara prevaricazione o atto di nonnismo, come volete, e a me queste cose mi mandavano in bestia, rischiavo di perdere il lume della ragione. Per di più mi guardava con aria di sfida mentre i suoi compari sogghignavano: gli altri della fila muti e rassegnati. ‘Sto cretino avrà avuto sì e no vent’anni. Senza pensarci troppo gli assestai un bel calcio tra lo stinco e il ginocchio che con gli anfibi dovette essere particolarmente doloroso. Questi cacciò un urlo disperato, fece due passi indietro rantolando e cacciando una serie di bestemmioni convinti. Gli altri due, che tra l’altro erano due bei pezzi di marcantoni, senza grosse difficoltà mi bloccarono prendendomi sotto le ascelle. Il nonno, ripresosi dal dolore, mi mollò un bel pugno nello stomaco che ancora me lo ricordo. Nel frattempo lo spaccista, viste le brutte, era uscito alla ricerca di un qualche graduato disposto a sedare la rissa. Per mia fortuna entrò subito un sergentemaggiore ex Folgore⁵ largo come un armadio a quattro ante che, prendendo per il collo i due energumeni che mi tenevano bloccato, mi liberò dalla presa in modo tale che andai ad accasciarmi liberamente al suolo come un sacco di patate, emettendo un dignitoso e soffocato mugolio. Il nonno si stava dileguando: «Vieni un po’ qua, ehi dico a te» urlò deciso il sergente maggiore che in un secondo aveva capito la dinamica degli eventi.

    «Forza, voglio i nomi di tutti e quattro, spaccista, scrivi» e tra i quattro naturalmente c’ero pure io. Prese i nomi, scrisse a fianco la compagnia di appartenenza, per me la prima mentre per loro, manco a dirlo, la CCS,⁶ poi ci ingiunse con voce stentorea: «Oggi pomeriggio a rapporto dai vostri comandanti di compagnia, chiaro?».

    «Signorsì» rispondemmo tristemente in coro.

    I nonni uscirono dallo spaccio incazzati neri ed io ebbi paura di guardarli in faccia. Pensavo di averla fatta grossa e invece era chiaro che con quella sparata mi stavo guadagnando il rispetto dei miei commilitoni.

    Gabriele Passoni aveva seguito gli accadimenti in silenzio e rimanendo in fila ordinatamente: era letteralmente attonito, ma io sapevo che in cuor suo sarebbe voluto intervenire per difendermi, gli era solo mancato lo spunto, lo scatto di energia per affrontare quei nonni cattivi. Insomma, era rimasto a guardare la scena ma con estrema partecipazione emotiva, e per questo c’era da volergli bene. Ad ogni modo, da quel giorno, visto il mio comportamento da hombre verticale e la conseguente impennata di stima nei miei riguardi, la distanza che normalmente intercorreva tra me e lui quando camminavamo, si ridusse drasticamente fino a meno di mezzo metro, sicché più di una volta, fermandomi improvvisamente da qualche parte, me lo trovavo dentro il culo: «A Gabrié, per favore!».

    «Scusa, scusa» rispondeva lui, diventando piccolo piccolo.

    Alle 11.45 eravamo tutti in adunata nel cortile del comando di battaglione. Basco ben calzato, fummo suddivisi in plotoni seguendo la sistemazione nelle camere: il mio sarebbe stato il primo, 45 reclute al comando del sottotenente Alfredo Gaeta, un ragazzetto a prima vista tosto ma anche spiritoso, che aveva già più di un anno di esperienza di naja ed era appena stato raffermato per altri due. Il secondo plotone composto da 35 uomini era al comando del sottotenente Ceccarelli, raffermato pure lui come il Gaeta, con una faccia da ragazzino per bene, un tipo bonario e comprensivo. Il terzo plotone era comandato dal sottotenente Mazzetti, più giovane di naja in quanto di prima nomina ma più vecchio degli altri di età perché laureando in Scienze Politiche; prima di discutere la tesi, aveva deciso di togliersi il peso della naja ma in veste di ufficiale di complemento: si trattava di qualche mese in più ma vuoi mettere a confronto del troglomiles come me, che quando i compagni di camerata discutevano in chissà quale cazzo di dialetto strano non ci si capiva un accidente, come fossi capitato nella torre di Babele.

    In fila per tre, rispettando un sommario ordine d’altezza ci avviammo per plotoni, in testa i sottotenenti, alla volta della mensa. Mi era venuto pure un certo languorino. Non capivo perché i militari dovevano andare a mangiare così presto ma poi, dopo un’ora di fila per prendere il vassoio da riempire di ogni meraviglia alla distribuzione, capii che ci si adunava alle 12.00 davanti alla mensa, ma con molta probabilità il primo boccone lo si consumava dopo le 13.00 o più tardi ancora. Mensa che era illuminata da finestroni altissimi lungo tutto il lato che dava sulla strada e da immancabili luci al neon perennemente accese, forse nel progettare l’impianto avevano dimenticato gli interruttori.

    Mangiai seduto ad un tavolo da dodici posti senza scambiare una parola con nessuno: pensavo che ero stato messo a rapporto dal capitano e ai conseguenti giorni di punizione che mi sarei buscato per la storia dello spaccio. Che sfiga, era solo il primo giorno e finivo pure per passare per un rissoso.

    Alle 14.00 ci adunammo in un cortile adiacente a quello del comando battaglione, dal quale si intravedevano un campo da calcetto e uno da tennis, non molto curati a prima vista ma apparentemente efficienti.

    Dopo dieci minuti che aspettavamo immobili, i caporali più anziani diedero l’attenti: «Squadre del primo plotone at-tenti» e via discorrendo per le squadre degli altri due plotoni. Poi, certi che tutti avessero assunto la posizione corretta e fossero ben immobili, girarono i tacchi e presentarono la forza ai tre comandanti di plotone.

    Gaeta, che doveva essere il più anziano dei sottotenenti, si rivolse alla compagnia con voce stentorea: «Plotoni della prima compagnia ri-poso». Poi attaccò il discorso di rito: «Signori, benvenuti al 133° Reggimento; dovete considerarvi fortunati perché siete stati assegnati ad uno dei reparti più gloriosi dell’Esercito Italiano, vittorioso in mille battaglie in tutte le guerre combattute dall’Italia dai tempi dell’unità nazionale». Ti dovevi sentire baciato dalla fortuna a stare là dentro, c’era da non crederci. Parlava come se conoscesse la storia quel ragazzo, avrà avuto poco più di vent’anni e doveva essere fresco di liceo. Quindi lo potevo considerare uno dei nostri, uno con cui magari scambiare due parole di senso compiuto.

    C’illustrò la vita all’interno del reparto e gli orari che avremmo dovuto rispettare durante la giornata: per il resto ci avrebbe pensato il Capitano quando l’avesse ritenuto opportuno. Mi stava già sulle palle ‘sto Capitano che non si faceva vedere ma che presto avrei conosciuto, perché mi doveva ficcare dentro con un po’ di consegna.

    Alle quattro giustappunto, la fila dei chiedenti o messi a rapporto davanti all’ufficio del rispettivo capitano. Alle 17.30 era fissata la libera uscita, ma non era affar mio. Sarei rimasto chiuso in caserma per la felicità dei nonni imbestialiti che mi stavano aspettando al varco. Eravamo una ventina, dieci davanti alla prima e dieci davanti agli uffici della seconda compagnia. Poi venni a sapere che i tre nonni della CCS, in quanto recidivi, erano stati proposti per la consegna di rigore, provvedimento disciplinare che necessitava di un iter più lungo, in quanto non poteva essere inferto dal capitano ma, dopo un articolato processo, dal comandante di corpo, cioè dal colonnello comandante del reggimento.

    Era una rogna la consegna di rigore, o riga come veniva chiamata in gergo, perché i giorni che si accumulavano si dovevano scontare in caserma dopo la data del congedo, nel senso che se accumulavi trenta giorni di riga ti dovevi fare un mese in più di servizio militare dopo che i tuoi pari scaglione si erano congedati. Una vera iattura.

    Arrivò il mio turno. Assunsi un’aria contrita e ipocritamente colpevole cercando di sembrare pentito, sperando così in uno sconto di pena. Entrai direttamente nell’ufficio del Capitano dal corridoio, senza passare per la fureria. Ordinato, pulito e sobrio, con la mobilia strettamente necessaria. Sulla destra una scrivania ed una poltrona da ufficio in pelle con le rotelle: l’ufficiale vi era sprofondato completamente e sembrava assorto nei suoi pensieri. Di fronte alla scrivania una bella teca di vetro con libri ben ordinati in basso e bottiglie di liquori più su, poi un divanetto e due poltroncine attorno a un tavolino basso nella zona vicino alla finestra. Appesa al muro dietro la poltrona, una flotta di diplomi, crest, calendari ed una bella sciabola ornata con la sciarpa blu da ufficiale. Una porta, in quel momento chiusa, collegava l’ufficio alla fureria. Io me ne stavo sull’attenti, in silenzio davanti alla scrivania. Dopo un minuto buono, il Capitano alzò lo sguardo verso di me: «Che cos’hai combinato tu?» lo sapeva benissimo, glielo avevano scritto.

    Di risposta urlai con finta convinzione: «Comandi, fante Fabio Righi, prima compagnia primo plotone, comandi signore!».

    Quello mi guardò attonito: «Vabbé, comando, ma dimmi come sono andati i fatti e perché sei stato mandato qui, forza».

    Raccontai l’accaduto esagerando un po’ sulla violenza della spinta che avevo ricevuto stando in fila, assicurai che ero caduto a terra rischiando di rompermi un braccio. Poi aggiunsi, da giurista qual ero, che il mio atto poteva ben configurarsi come legittima difesa e che rientrava nella diuturna lotta per riuscire a sopravvivere in qualche modo.

    Il Capitano mi guardava con attenzione, non perdendo una parola: aveva i capelli neri e rasati a spazzola, stesso taglio di Gaeta, occhi verdi e profondi, pizzetto ben curato.

    «Sopravvivere hai detto?».

    Feci sì con la testa.

    «Ricordati che dovrebbe essere un onore per te stare qui a servire la tua Patria, non si tratta di mera sopravvivenza, ma di un’opera importante. E poi, se hai qualche problema coi tuoi commilitoni, rivolgiti ai caporali istruttori o in subordine ai comandanti di plotone, chiaro?» alzò la voce alla fine, e io feci finta d’impallidire, non so come ci riuscissi ma dopo tanti anni di scuola e professori arroganti avevo imparato bene la parte. Speravo nella sua magnanimità, visto che sembravo pentito e spaventato.

    «Sei fortunato che non ti buschi un po’ di consegna di rigore, ma giusto perché sei appena arrivato. Sette giorni di consegna semplice, passa in fureria che te la segnano sulla scheda personale e ti spiegano tutto». Lo guardai attonito, alla faccia della magnanimità.

    «Coraggio, che fai lì impalato, e manda dentro un altro, su».

    Battei forte la pianta dell’anfibio a terra, in maniera cazzuta come piace a loro, e gridai forte un bel comandi signorsì.

    «Non da quella parte, bello, fai il giro fuori» mi apostrofò sorridendo, visto che stavo prendendo la scorciatoia interna per la fureria, ma forse in quel momento non era il caso.

    La mia vita finora era sempre stata un’abile e continua ricerca di scorciatoie: a scuola, con gli amici, con le ragazze. Ora, di fronte a questo muro di ottusità e ignoranza, c’era poco da fare: bisognava seguire alla lettera tutte le loro regole e fare finta, nei

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