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Amedeo, il disegnatore cieco
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Amedeo, il disegnatore cieco

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About this ebook

Diciassette pezzi letterari, il cui genere, assai difficile a definirsi, rientra comunque in quello della narrativa che a volte sconfina nella poesia, si sforzano di condurre il lettore lungo l’affascinante alveo riflessivo del proprio fiume di sensazioni e ragionamenti, nonché intuizioni sui problemi di una più o meno consapevole interiorità, propria e altrui; egli viene chiamato a valutare da sé, e in caso positivo a goderne con piacere, lo sforzo sincero dell’autore nel riproporre un’ormai defunta “letteratura artistica”, con trame originali e quell’uso a volte ricercato, sempre consapevole e voluto, libero e in fin dei conti creativo e personale, del periodare in genere e delle singole parole, così reali e concrete per Oscar Wilde, che del periodo costituiscono i mattoni, cementati dalle idee, come qualcuno scrisse a proposito dello stile di Victor Hugo. Inadatto a chi sceglie un libro sempre e solo per divagamento e distrazione, inutile a chi solo apprezza una più o meno pratica saggistica, il testo piacerà sicuramente molto a chi ama alternare letture amene e poco impegnative a interessanti sfide alla propria intellettualità. Il libro è completato e impreziosito da una collezione di cinquantadue disegni a china e diciassette tavole fuori testo dell’autore, che ha maturato precedenti esperienze nel mondo dell’illustrazione.
LanguageItaliano
Release dateNov 24, 2016
ISBN9788865378021
Amedeo, il disegnatore cieco

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    Book preview

    Amedeo, il disegnatore cieco - Monaldo Svampa

    qualità

    Prefazione

    Un simpatico satanasso che, molto faustianamente, richiede il prezzo più alto in cambio di un pennino dalle proprietà singolarmente magiche a un disegnatore introverso e poetico. Un giovane impiegato, ipersensibile e perseguitato dai fantasmi di una patologia nervosa non del tutto risolta, che si ritrova protagonista di un incubo kafkiano sin troppo realistico, malgrado le sue innegabili e paradossali componenti oniriche.

    Un povero vecchio che, petulante e ossessivo, continua a domandare a sé e agli altri quale senso vi sia per un padre nel possedere la bicicletta del suo figliolo morto, e non viceversa, nell’indifferenza generale, accompagnato dal narratore lungo l’arco ideale di una giornata come altre (ma dalle altre ben diversa!), ora con occhio compassionevole, ora ironico, infine quasi nauseato e pure inconsapevolmente guidato da una poetica figura di evanescente fantasma, in forma di anziana, fine e bella signora, il cui ruolo nel racconto egli stesso scoprirà solo alla battuta finale.

    Un geometra del Comune coinvolto in una trama grottesca, pirandelliana, raggiunto non si sa perché né come da una sorta di indefinibile e indefinita punizione (cos’abbia mai commesso l’autore non lo spiega poiché nemmeno lui, a suo dire, ne è al corrente…), e svogliatamente eseguita da perfetti sconosciuti, aizzati da un altrettanto sconosciuto sobillatore. Un autore in erba che, innamorato perdutamente della bellezza dell’arte letteraria, solo verso la fine di un tragicomico, decadente racconto, con un paradossale e improbabile colpo di scena, si rende conto di esserne involontario e inconsapevole protagonista, alle prese con una realtà gradevole, persino gratificante, ma troppo angusta per contenere le aspirazioni del suo cuore innamorato delle stelle.

    La beffa burocratica, in salsa ironica e mordace, perpetrata ai danni di una emissaria della morte da parte di un ex funzionario comunale, ai suoi tempi raccomandato da un mefistofelico assessore, in cambio di una ben surreale rivelazione.

    E ancora, un triste sacco bianco, destinato a fungere da estremo sudario per il corpo ucciso in guerra del soldato che lo deve custodire, ben ripiegato e lindo, sul fondo dello zaino, affardellato sulle spalle durante una guerra né più né meno folle di tante altre, la cui stoffa, per merito delle alchimie del destino, una volta tanto benigno, se pur contorto, servirà per cucire la camicia da notte di colei che lo renderà felice per tutta la vita.

    Uno stravagante inventore, capace di catturare e imbottigliare il tempo perduto da persone inevitabilmente travolte da ritmi di vita forsennati, e poi rivenderlo, ma incapace di trovare tempo per se stesso, con finale romantico (ma non troppo). E poi la dolce poesia di un asinello la cui fantasia e l’amore per la natura rende leggere e sopportabili le fatiche dei duri lavori alla fattoria, e perciò inviso agli altri animali e allo stesso padrone, con quel che segue, e che il lettore avrà il piacere di scoprire.

    La triste, ma romantica storia, scritta in forma di canzone, di una prostituta bella e sola, talmente anonima da non potere essere chiamata con altro nome se non quello di Nessuna, senza richiamo alcuno ad Omeriche imprese, che potrà far sgorgare qualche lacrima in chi ne leggerà il doloroso finale, ma anche scaldarne il cuore con il sorriso regalato dagli ideali di quei poeti che, non senza una punta di rincrescimento, io credo, Kundera scrisse nel suo saggio sul romanzo essere divenuti inutili e non richiesti da un’epoca quale la nostra è divenuta.

    Senza parlare di strane e dilettevoli (si spera…) considerazioni degne del più fantasioso pensatore ludico, quali l’improbabile amore tra un rinoceronte e una farfalla, o il timore misto ad adorazione nei confronti di una sempre ineffabile armonia, intesa come astratto concetto universale ed eterno, nella danza e/o il duello fra le parti in causa.

    Una riflessione dolce, malinconica e piena di nostalgia su un amore finito, criticabile dai più, forse inviso ai benpensanti, ridestata nella mente dell’autore dalla visione di un bianco fiore di carta.

    Non ultima la storia della singolare compulsione ossessiva di uno strano omino, il ragioniere Angeletti, sempre a caccia di umana riconoscenza, che evidenzia ai limiti del paradossale quanto possano essere complessi, imprevedibili e difficilmente interpretabili, secondo la cosiddetta logica, i meccanismi della mente e le conseguenti modalità comportamentali dell’individuo.

    Tutto questo, e forse più, esposto con uno stile che potrà a volte apparire sin troppo ricercato al lettore, ma che si sforza decisamente, a volte forse ingenuamente, di contrapporsi alla scarnificazione stilistica e lessicale, nonché la velocizzazione utilitaristica e compiacente del ritmo di certi romanzi moderni, tanto in voga e lautamente premiati da incassi fiabeschi quanto esecrati da quelle persone che, forse un po’ più anziane, hanno ancora presente il ricordo di quelli che un tempo non erano solo scrittori, ma ben meritavano la più lusinghiera e completa, nonché densa di responsabilità, definizione di Autori con la A maiuscola.

    Tale è il tipo di divagamento intellettuale, impegnativo forse, dal punto di vista di una lettura non sempre facile, ma certo appagante se criticamente affrontata rispetto alla propria individuale capacità di reinterpretare quanto scritto, che l’autore propone ai suoi lettori, sperando anche di divertirli, e intrattenerli piacevolmente, ma non solo.

    E in ogni caso destare in loro, a costo di sconfinare in una moderata quanto affettuosa provocazione, e con il semplice (neanche poi tanto…) ausilio di quella che in altri tempi veniva definita letteratura creativa, quella facoltà preziosa, insostituibile, che molti hanno non per colpa loro perduto, o forse lasciato indietro nell’ossessiva e cogente corsa agli svariati impegni, spesso inutilmente onerosi quanto impietosamente imposti da una esteriorità sociale tendenziosa, interessata e avida, quella facoltà insomma impagabile e salvifica che è da sempre il pensiero, critico e autocritico, libero e consapevole, fonte di piacevoli colloqui con la propria interiorità, troppo spesso temuta in quanto ansiogena, base indispensabile di quella convivenza sociale e reciproca collaborazione, coordinata e finalizzata a risolvere, e non acuire, come di fatto accade, quella nevrosi collettiva che pare avere contagiato il mondo moderno e la sua vana operosità.

    Monaldo Svampa

    Amedeo, il disegnatore cieco

    I

    Oggi viene chiamato, con una neanche troppo lieve punta d’ironia, il quartiere delle torricelle.

    Una volta, invece, in paese si diceva soltanto, più semplicemente e affettuosamente: Andiamo a passeggiare dal noviziato di Sant’Eusebio. Poiché la passeggiata classica, e da molti preferita, consisteva nel salire su per il pendio di una graziosa collinetta, appena fuori dal centro abitato, e percorrere, una volta arrivati in cima, una stretta stradina inghiaiata, ora impreziosita e allargata con un elegante manto di asfalto, nero come un abito scuro signorile, la quale costeggiava un vasto campo incolto, dove i bambini solevano spesso giocare tra di loro e con la loro fantasia; di lì si giungeva, appunto, al noviziato di Sant’Eusebio.

    Come mai poi un santo dal nome così singolare e poco noto fosse stato scelto e utilizzato per dedicare a lui un enorme convento, dove giovani ragazze di una generazione fuori moda e fuori tempo (e fuori di testa, come aggiungerebbero impietosamente e presuntuosamente alcune oltremodo emancipate ragazze moderne, forse) si preparavano con cura diligente al matrimonio ideale con Colui che è solito tutto perdonare, questo risulta poco chiaro. Ma tant’è, così è, e lì finisce il discorso.

    Una costruzione vasta, articolata e piuttosto datata, i cui tetti sono disseminati di comignoli artisticamente costruiti nelle più strane fogge, cinta da un alto, vecchio muro in mattoni di quelli che si adoperavano una volta, sbreccati e rosi in gran numero, e chiusa, quasi sigillata da un austero e antico cancello in ferro battuto, sul davanti, proprio in faccia al campo di cui poc’anzi si parlava.

    Quel muro e quel cancello parevano le ali di una chioccia severa e premurosa che volesse proteggere le fragili novizie dal mondo circostante, dai suoi dolci inviti e dalle sue sirene nostalgiche, più che altro, poiché di male, almeno lì intorno, all’epoca poco o nulla vi era.

    Proprio dietro al convento si allargava un’enorme spianata, dove diversi anni dopo sarebbe stata edificata una imponente e moderna casa di riposo per persone anziane, e spesso anche malate, che però, ai tempi dell’infanzia di Amedeo (tra poco arriveremo anche a lui, abbiate pazienza) non esisteva ancora, neppure in fase di progettazione.

    Così come, diversi anni dopo, a causa della scarsità, diremo quasi mancanza, di quelle delicate fanciulle, sempre allegre e giocose, forse un poco timorose nei confronti della vita, ma lievi e gentili fino al punto di desiderare di indossar quel sacro velo che funge da impalpabile confine tra le loro menti innamorate di Dio, da esso ricoperte, e un mondo o una mondanità esteriori che paiono da tempo averlo abbandonato, ebbene proprio a causa della mancanza di quel genere di ragazze fuori tempo, e che il tempo andava intanto senza pietà né predilezione alcuna segnando e invecchiando, il noviziato di Sant’Eusebio si trasformò, divenendo un pensionato per suore anziane. Cosicché quella famosa ruota, di cui tanto si parla e a cui si ispirano i filosofi e i poeti, solo un poco pareva aver girato su sé stessa, e davvero non si riusciva a scorgere, nemmeno in lontananza, in qual modo la storia avrebbe potuto ripetersi o rinnovarsi.

    Amedeo, dicevamo…

    Allora era un ragazzino, i suoi genitori avevano costruito per primi e a fatica, a prezzo di onerosi sacrifici, una modesta casetta in cima alla collina, a ridosso del pendio, dal quale essa pareva affacciarsi ad ammirare, orgogliosa nella sua umiltà, l’intero paese e le colline retrostanti, in lontananza.

    Amedeo era solito, a quel tempo della sua infanzia, andare a zonzo, spesso in compagnia di sua mamma, intorno al campo, nei pressi del convento e oltre, spingendosi quasi fino a una casa abitata da un uomo, già allora anziano (vi è chi ha la fortuna o la sfortuna di restarlo molto a lungo, sapete?), che potremmo ben definire, con una celia bonaria, triste ma vera, l’uomo dei tre bicchieri.

    Sì, perché, vedete, quell’uomo, che si chiama Anselmo, viveva e tuttora vive da solo in un casolare, le cui terre aveva da tempo venduto poiché non più in grado di coltivarle per conto proprio, e aveva, la sera, una strana e singolare abitudine, della quale, in un’oziosa diversione, ora vi dirò.

    Abitava da solo, come dicevamo, perché sua moglie era morta anni prima e il figlio, divenuto adulto, assai di rado si faceva vedere nel paese, ormai forse troppo abituato e quasi assuefatto alle frenetiche necessità, che alcuni riescono persino a trovare piacevoli, della grande città nella quale era andato a lavorare.

    Così Anselmo, la sera, sotto la pergola, posava sopra un tavolino rotondo circondato da tre seggiole, fiocamente illuminato da un paio di fanali emananti una luce giallognola e malaticcia, come la pelle di un vecchio colto da una febbre insana, tre bicchieri, piuttosto grandi. Quindi li colmava di vino rosso, pastoso e liquoroso, e fingeva di avere con sé, a fargli compagnia, la moglie e il figliolo.

    Egli si sedeva al posto della moglie dapprima e, lentamente, pensando di lei cose belle, sorseggiava il contenuto del bicchiere a lei destinato; poi si alzava, si sedeva al posto del figlio lontano, e di nuovo, pensando di lui cose altrettanto belle e piacevoli, vuotava il contenuto del secondo bicchiere. Infine si sedeva al proprio posto, e lì, ahimè, cominciavano a tormentarlo pensieri assai meno gradevoli, cosicché, a un certo punto, tracannava d’un fiato il contenuto del terzo bicchiere colmo, riponeva i tre bicchieri vuoti in una vecchia credenza, e se ne andava a letto, ebbro abbastanza per addormentarsi quasi subito, e non pensare più, almeno per quella notte; anche se, invero, son spesso i nostri sogni a farlo, assai inopportunamente, per noi.

    Che volete che vi dica? Così era.

    E ancora adesso, che il quartiere viene definito, appunto, delle torricelle, quel vecchio puntualmente esegue quel suo ripetitivo, e in certo qual senso necessario rito serale.

    Delle torricelle, voi direte, perché?

    Poiché quell’enorme campo in cima alla collina, antistante il convento di Sant’Eusebio, un tempo terreno non edificabile, cosparso di papaveri e fiori selvatici, e in fin dei conti proprio bello nella sua imbronciata riservatezza, con la compiacenza di qualche assessore e del sindaco di un’ormai dimenticata giunta comunale del paese, ai fini dell’illecito introito, frutto di connivenze e interessi comuni a pochi, e letali per la bellezza naturale della collina, che prima ispirava quiete e serenità a molti, quel campo appunto fu reso edificabile, e venne così cosparso di villette.

    E poiché i costruttori e futuri padroni di quelle villette, non paghi di ergere le loro dimore sul livello moderatamente elevato di quella collina, in parte per meglio godersi il paesaggio che loro stessi andavano così deturpando, o fors’anche per lusingare una sorta di vana quanto meschina personale ambizione, decisero quasi tutti di innalzare una piccola torre accanto alla propria abitazione, e ognuno faceva a gara per averla più alta e di più elegante foggia degli altri e… beh, così quel luogo un tempo incantevole e solitario venne ribattezzato appunto, essendo poi di fatto quelle torri miserelle assai, come l’animo borghese di coloro che le avevano concepite, il quartiere delle torricelle.

    La casa di Amedeo era invece sempre la stessa, incurante delle sue vicine, ma ora egli vi abitava da solo, e da solo lavorava in quello che da sempre era stato il suo studio, al piano alto della modesta costruzione, fin dai tempi in cui frequentava le scuole elementari; poiché i suoi genitori, dato che il tempo è galantuomo, e forse anche un pochino impietoso, erano dapprima invecchiati in pace nella loro casetta, fortunatamente evitando il dispiacere di divenire ospiti a pagamento della bella, quasi lussuosa, ma per forza di cose mortificante e assai poco confortevole, per la mente e l’anima, quanto comoda per il corpo, casa di riposo recentemente in quei pressi edificata, e di cui abbiamo parlato, e quindi, da qualche anno, avevano lasciato il nostro Amedeo alla sua vita interiore.

    II

    Una vita interiore, abbiamo detto. Sì. Una vita interiore, quella di Amedeo, assai più ricca e variegata di quella normale ed esteriore, in relazione con pochissimi amici e invariabilmente schivo nei confronti della maggior parte delle persone, timido e ritroso da sempre nei confronti di qualsiasi sentimento, specialmente verso esponenti del sesso femminile, che egli aveva trovato modo di sublimare e godere pienamente e poeticamente nel modo di cui più avanti vi dirò.

    Perché in verità tanti e tanti problemi, per l’appunto di natura interiore (no. A dire il vero più che altro intima, se vogliamo adoperare il termine più adatto), erano sorti, si erano annidati e annodati, contorti e aggrovigliati nel gomitolo spesso, incardato e confuso della povera mente di Amedeo, sin da adolescente, così tanti da farlo ripetutamente soffrire di quel male oscuro e ingiusto che turba i sentimenti e annichilisce la volontà di chi ne cade vittima, e di cui in tale sede l’autore non vuole neppure scrivere il nome, tenendolo celato con cura nella propria penna scaramantica e timorosa.

    Negli ultimi tempi, mentre il paesaggio intorno alla propria casetta andava evolvendosi e mutando aspetto, nella maniera che all’inizio di questo racconto vi ho descritta, pian pianino le condizioni di Amedeo, riguardo a questo eccesso di sensibilità e predisposizione a una sorta di fragile tisi mentale, andavano anch’esse evolvendo e, accolta con una forza d’animo che in lui nessuno avrebbe mai sospettato la perdita di quei genitori che tanto lo avevano sorretto, confortato, accompagnato e aiutato nel suo difficile e doloroso percorso di malattia, era riuscito a trasformare quella malinconica, insondabile e triste follia in una sua strana, ineffabile e dolce poesia, canalizzando positivamente quelle energie che lo spietato malanno aveva fagocitato e vomitato poi, senza ritegno né rispetto alcuno, nella fogna maleodorante del dolore.

    E questa poesia egli la esprimeva, ore e ore al giorno, chiuso nello studiolo di quella sua casetta, all’ultimo piano, disegnando. Disegnando sempre e solo, ossessivamente e continuativamente lei.

    Lei chi? si chiederà il lettore. Pazienza, amico caro, pazienza! Vi arriveremo tra poco.

    Abbiamo parlato di poesia… riguardo ad Amedeo. È poesia il termine giusto? Di cosa era fatta, di che sostanza era composta la poesia di Amedeo? Come era nata? Quale forma aveva preso? Si era finalmente riappacificato con sé stesso?

    Provando, impacciati e malaccorti, a rispondere a queste domande, diremo che la poesia di Amedeo fu composta di lacrime grondanti impotenza e senso di inferiorità disperata; di desideri inesauditi o repressi; di rabbia inerme, insana e furibonda, spesso contro sé medesimo volutamente quanto follemente rivolta; di livore torbido, malevolo e vanamente diretto contro tutto e tutti, contro l’acre terrore della vita stessa; di dolore perfido, inesprimibile a parole, ma profondamente sentito in un lacerarsi interiore di ogni senso di identità e dignità; di problemi irrisolti e spesso insolubili, spietatamente conficcati nella carne e nell’anima. E poi di invidia, quel genere di invidia malsana, ingrommata di lercia stolidaggine, che cosparge di triboli e sterco della mente i più profondi recessi e anditi della fragile psiche umana; di umori alterni, imprevedibili, esasperati fino ai più spietati e spinti eccessi autolesionisti, corrotti da una patologia complessa, fitta e contorta come le spire di una serpe crudele, il cui veleno sia concepito non per uccidere, perché troppo malvagia per saziarsi della semplice morte della

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