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Ebook276 pages3 hours

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About this ebook

Due coppie di ragazzi, il sole cocente, una vacanza in Grecia. Non serve altro per creare la giusta atmosfera. Tra un tuffo nell’acqua cristallina di Corfù e una notte piena di passione, è l’apoteosi della meravigliosa giovinezza. In questa magia conosciamo i quattro protagonisti di una storia assurda e spettacolare; se due di loro, Venia e Ruben, sono già una coppia serena e spensierata, gli altri due, Dijana e Orso, sono emotivamente più instabili: lui ha perso la testa per lei, ma lei vive già una storia, sebbene a distanza.

Improvvisamente avviene qualcosa di soprannaturale: uno strano palazzo compare a spezzare la linea dell’orizzonte, ma solo le ragazze riescono a vederlo, in quanto sono sosia delle dee dell’Olimpo! Gli universi paralleli, quello umano e quello degli dèi, si intrecciano in maniera pericolosa quando Diana e Venere scendono in campo per sostituirsi alle loro gemelle mortali. Il velo tra realtà e mitologia viene squarciato, ogni regola crolla, ogni certezza va in frantumi, e sarà compito dei ragazzi accettare questa sconvolgente realtà e trovare un modo per far tornare le loro amiche. Affronteranno un viaggio attraverso l’Europa, in una corsa contro il tempo, fino a scoprire che la chiave per la libertà è incastrata proprio tra i due mondi…
LanguageItaliano
Release dateNov 29, 2016
ISBN9788856780437
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    Book preview

    Dee - Maria Pia Jannibelli

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8043-7

    I edizione elettronica novembre 2016

    A Fiamma, che tanto ha insistito

    perché le raccontassi una storia inedita…

    e ad Alberto, che… non ha insistito affatto…

    Smettila d’impazzire, e quello che vedi perduto,

    convinciti che è perduto… ora lei dice di no,

    e tu devi fare altrettanto anche se sei disperato,

    non devi inseguirla se fugge, non devi vivere infelice,

    ma sopportare con fermezza e tenere duro…

    Addio, ragazza.

    Chi bacerai?

    A chi morderai le labbra?

    CATULLO

    I CUPIDO

    Londra, luglio.

    Quattro ragazzi camminavano velocemente verso il college per seguire il corso di inglese. Pioveva e non ci stavano tutti sotto l’ombrello di Dijana, la ragazza di Cracovia.

    Venia, l’italiana, aveva i sandali infradito e tutti i piedi bagnati mentre gli altri avevano le sneakers di pezza fradicie di acqua. Tutti pensavano che avrebbero potuto prendersi un bel malanno e rovinarsi la vacanza-studio.

    Era già il terzo giorno che cambiava bruscamente il tempo: entravano in metro che era sereno, uscivano e cominciavano i goccioloni che si trasformavano, inevitabilmente, in temporale e… gli ombrelli a volte c’erano e a volte si dimenticavano… come allora.

    Imboccarono Roupell Street quasi correndo e, per fortuna, la strada era semideserta e giù in fondo a essa si scorgeva il college anche se la pioggia era diventata più fitta e insistente.

    Le casette ai lati avevano un’aria triste e imbronciata sotto il cielo cupo e grigio nonostante i loro portoncini colorati tutti con tinte diverse che, nelle giornate di bel tempo, conferivano alla via un sorprendente aspetto allegro e piacevole.

    Capitava, infatti, a tutti gli studenti stranieri che percorrevano Roupell Street per la prima volta, recandosi al college, di rimanere stupiti davanti a quel variegato arcobaleno a piano strada. Ancora più sorpresi e divertiti restavano quando veniva spiegato loro che le casette tutte uguali, basse e con due finestre ai lati del portoncino, potevano facilmente essere scambiate dai loro abitanti che, ubriachi, rientravano a casa nottetempo. Ogni singolo portoncino era stato, quindi, colorato di un colore inedito e diverso dagli altri per far sì che non si sbagliassero.

    Ruben e Orso, a quel punto, si sfidarono in un rush finale, rischiando anche di scivolare, per arrivare il prima possibile a ripararsi sotto la tettoia della scuola, lasciando indietro le ragazze che avevano l’ombrello.

    «E per Bacco! E anche per Giove!», esclamò Orso, scrollandosi l’acqua da dosso, non appena al riparo. «Non se ne può più! D’accordo che siamo al Nord ma è pur sempre luglio!», ed entrò all’interno, nell’atrio del college, dove c’erano tanti altri come lui fradici di pioggia, chi più chi meno.

    «Ah! Il bel sole cocente del mio Mediterraneo!», rimpianse, in spagnolo, Ruben che era di Barcellona, infilandosi le mani nei bei riccioli castani cercando di ricomporli e asciugarli.

    «Per fortuna, per quanto mi riguarda, dopo Londra mi aspetta la Grecia!», gioì Venia per quanto le era possibile in quel caos, raggiungendo Ruben.

    «Wow! La Grecia! E dove con precisione?», chiese Dijana ammirata e curiosa.

    «Corfù mia cara, Corfù, l’isola di Nausicaa e di Sissi, conosci?». Gli occhi verdi di Venia si illuminarono.

    «No. Non ci sono mai stata ma ne ho sentito parlare e ti confesso che mi sento attratta dalla Grecia e mi piacerebbe tanto andarci», rispose l’altra con aria sognante.

    «Anche tu?! Che strano! Sai, anch’io mi sento attratta irresistibilmente dall’Hellas… forse perché vivo nella Magna Grecia», disse la ragazza italiana.

    Tutti e quattro, poi, dopo essersi riassettati gli abiti e i capelli, si avviarono verso la loro aula.

    Fu allora che a Venia venne l’idea: «Dijana, ascolta, perché non vieni con me a Corfù? Sai, i miei hanno dovuto prenotarmi una stanza doppia poiché non c’erano più singole disponibili. Dai! Vieni tu! Ti prego! C’è già il posto per te! Non devi preoccuparti di altro!».

    Dijana rimase confusa e perplessa a quell’invito così inaspettato quanto piacevole e interessante e, guardando incredula l’amica senza saper rispondere né sì né no, si fermò facendo inciampare Orso che la seguiva e che aveva ascoltato la conversazione. Anche lui sarebbe stato felicissimo di avere una nuova occasione per trascorrere altre vacanze, ancora meglio se al mare, insieme a Dijana di cui era perdutamente innamorato.

    «Cosa sentono, cosa sentono le mie orecchie?», esclamò più che entusiasta. «Stareste organizzando una vacanza a Corfù? Magnifico! Mi accodo anch’io! Rubeeen! Sarai dei nostri?», così dicendo prese sottobraccio da un lato Dijana e dall’altro l’amico spagnolo.

    «Magari!», rispose Ruben sospirando e spostando con un soffio un ricciolo bagnato, ancora fuori posto, sulla fronte.

    Così, sognando il mare e il sole, entrarono nella piccola aula al pianoterra e cominciarono a seguire la lezione di inglese.

    Furono tutti un po’ distratti quella mattina perché il pensiero di un viaggio in Grecia li allettava e così, durante la pausa pranzo, mentre seduti a un tavolo della mensa le ragazze sbocconcellavano dei tramezzini e Orso e Ruben ingurgitavano panini, la vacanza nell’isola greca fu decisa.

    Stabilirono che le ragazze sarebbero state allo Ionian Sun, dove i genitori di Venia avevano già prenotato per lei, mentre i ragazzi, che preferivano essere più liberi, avrebbero cercato una stanza a Kerkira che è nota per la sua movida.

    Rientrati al residence, Dijana, Orso e Ruben sentirono i loro genitori sull’idea della vacanza in Grecia. Incassati i rispettivi permessi, si attaccarono ai computer per cercare una stanza per loro ragazzi. La ricerca si rivelò difficile perché si era troppo a ridosso della data di partenza ma, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, trovarono una stanza con bagno e angolo-cottura a buon prezzo in un vicoletto al lato del McDonald proprio sulla Spianada, a pochi passi dal Liston. Così era scritto nella recensione.

    Decisero, infine, che sarebbero partiti tutti insieme da Roma dove Venia, che era di Matera, aveva in affitto una stanza perché vi frequentava l’università e avrebbe potuto ospitare Dijana. I ragazzi, invece, le avrebbero raggiunte all’aeroporto. Ruben sarebbe arrivato lì da Barcellona e Orso dalla Toscana perché viveva nel Chianti.

    Prenotarono il volo e così, detto fatto, avevano organizzato una vacanza che sarebbe stata memorabile.

    Tornarono, tuttavia, a godersi la loro vacanza-studio e a girare per i pub e le discoteche di Londra, parlando in inglese e studiando la lingua quanto bastava.

    Orso, che in realtà si chiamava in modo più completo Orso Maria e aveva sangue blu nelle vene, non stava più nella pelle al solo pensiero di poter stare più tempo con Dijana che, però, faceva la sostenuta e la preziosa. Il ragazzo era davvero bello e intrigante: alto, dagli occhi scuri e moro di capelli, che portava tagliati cortissimi come i marò.

    Il suo sorriso era smagliante ed era chiacchierone e di una disinvoltura disarmante. Sapeva discorrere di tutto e sapeva anche, in cuor suo, che prima o poi la ragazza polacca avrebbe corrisposto al suo amore.

    Si era innamorato di lei un sabato mattina a Portobello Road. Erano entrati in un bar, che faceva angolo con un’altra strada, per prendere un gelato e si erano seduti a un tavolo posizionato vicino a una delle grandi porte spalancate, nel bel mezzo del mercatino. Lì fuori, sul marciapiede, un musicista suonava i Beatles. Dijana era estasiata e felice e aveva un’espressione sognante. Era particolarmente attraente nel suo leggero abitino rosso corallo. Nulla in lei era stonato… anzi, era perfetta, fantastica! Così parve a Orso che sulle note di Michelle se ne innamorò e, timidamente, osò canticchiare: «I love you, I love you, I love you, that’s all I want to say…».

    Per allora, però, la bella Dijana dai riccioluti capelli scuri con riflessi mogano, che spesso portava raccolti dietro la nuca, e dai grandi occhi neri, tanto dolci da ricordare quelli di una cerbiatta, non sembrò voler cedere alle sue lusinghe e al suo folle amore.

    Nata nella città del Grande Papa, Dijana era naturalmente cattolica praticante e, come tale, tutta d’un pezzo! Non che fosse diversa dagli altri ragazzi della sua età ma aveva semplicemente costumi molto più morigerati rispetto ai suoi coetanei, com’era prevedibile che fosse per una cresciuta ed educata tra casa e chiesa. In più, a Cracovia aveva lasciato il suo amore di sempre: Nicolas.

    Era pur sempre una ragazza, però, e la notte prima di addormentarsi, oltre che pensare a Nicolas, ricordava tutte le attenzioni che Orso le riservava durante il giorno e il cuore le batteva forte. Sentiva un’emozione nuova! Sentiva che stava nascendo un altro amore. La sua etica, tuttavia, le imponeva di dominarsi e di essere molto, ma molto cauta. La loro storia si preannunciava non del tutto semplice e scontata ma sapeva anche lei che ci sarebbe stata.

    Tra Ruben e Venia, invece, tutto era molto meno complicato e più, per così dire, sportivo. Lei era molto bella: lunghi capelli biondo cenere, appena mossi, e occhi verde muschio molto espressivi. Anche il fisico era parecchio espressivo: quando si dice una Venere. Gli antichi dicevano che nel nome c’è il destino e nel suo caso era proprio vero.

    Sua madre avrebbe voluto chiamarla addirittura Venus, ma il padre si era fermamente opposto perché gli sembrava sfacciatamente esagerato e così erano giunti a un compromesso su Venia, diminutivo di Venus.

    Una ragazza perbene, senza dubbio, ma moderna e disinibita al punto giusto: non avrebbe mai rifiutato la corte di uno come Ruben al quale bastava soltanto parlare in spagnolo per fare strage di cuori! Il suo sguardo dorato e il fascino latino contribuivano ancor di più a renderlo irresistibile.

    Entrambi, Venia e Ruben, sapevano che potevano essere pericolosi l’uno per l’altra e che avrebbero scherzato col fuoco se avessero fatto troppo seriamente… quindi… erano più che amici ma, consapevolmente, senza troppo impegno!

    In un pomeriggio libero, mentre erano a Piccadilly Circus, tutti e quattro vollero immortalarsi in una foto sotto il Cupido e girarono e rigirarono sotto la gradinata per studiare bene l’inquadratura. Finalmente trovarono il punto giusto e chiesero a un passante la cortesia di scattarla: nell’attimo del clic, però, Ruben e Venia furono coperti dai palloncini multicolore di un bambino che scorrazzava felice in fondo ai gradini e nella foto, sovrastati da Cupido, emozionati e sorridenti, rimasero soltanto Orso e Dijana.

    II SEGNO PREMONITORE

    Corfù, agosto.

    L’aereo volava basso sul mare azzurro e scintillante della Grecia mentre si infilava tra il cielo di Corfù e il cielo del continente greco.

    I ragazzi, incollati agli oblò, ammiravano estasiati l’isola verde che si avvicinava sempre di più.

    La hostess li pregò di stare seduti correttamente con le cinture ben allacciate perché stavano per atterrare all’aeroporto di Kerkira.

    Erano emozionati. Alle ragazze, soprattutto, batteva forte il cuore e nel toccare il suolo greco si commossero a tal punto da avere gli occhi umidi di lacrime. Nessuna delle due, però, lo disse all’altra per quel pudore che, intimamente, si accompagna sempre a questo genere di sentimenti. Entrambe seppero ben dissimulare il turbamento e si mostrarono ai ragazzi semplicemente entusiaste e contente di essere finalmente lì.

    Si avviarono nella sala del piccolo aeroporto per prelevare i bagagli ma a Dijana, mentre camminava, si spezzò a metà la suola del sandalo e, imprecando in polacco, fu costretta ad andare a piedi nudi.

    «Dijana! Via! Non prendertela!», la rincuorò Orso, «Diamine! Avrai un altro paio di sandali in valigia!», continuò.

    «Sì, li ho, ma… con i tacchi alti!», rispose avvilita.

    «Però!», intervenne Ruben.

    «Però, cosa?», gli chiese Dijana.

    «Beh! Sei così alta e hai le gambe tanto lunghe e i piedi così belli che stai divinamente bene anche scalza!», la lusingò lui.

    Ruben, nonostante la giovane età, era un promettente Casanova e sapeva già come adulare le ragazze.

    «Ma dai!», gli replicò Dijana, «a ogni modo, qui fa così tanto caldo e tutto mi sembra così lindo che, ecco, camminerò volentieri scalza!», concluse. E così fece.

    «Oh no! Ma sei matta!», esclamò Venia che era tanto precisina e non avrebbe mai osato insozzarsi i piedi.

    Tra l’altro, lei aveva anche l’aria di essere un po’ confusa e intontita… chissà, forse per il volo o forse per il caldo. Sembrava, tuttavia, più seducente.

    «Ho deciso così e poi a te che importa!?», chiosò Dijana.

    Ritirarono i rispettivi trolley e, zaini in spalla, si avviarono all’uscita dell’aeroporto verso i tassì.

    Le ragazze dovevano andare verso Sud. Lo Ionian Sun si trovava poco dopo Benitses, uno dei tanti caratteristici villaggi che popolano la costa orientale dell’isola.

    I ragazzi dovevano dirigersi, invece, verso il centro della città.

    Caricarono i bagagli su due diversi tassì.

    Orso abbracciò forte Dijana promettendole che il prima possibile sarebbero andati da loro.

    Ruben batté felice il cinque con Venia e, gasatissimo, le promise che avrebbe noleggiato una moto e l’avrebbe fatta scorrazzare su e giù per l’isola già nel pomeriggio.

    «Prima si sta un po’ sulla spiaggia, però!», disse Venia.

    Salirono sui tassì e partirono per le loro destinazioni.

    Viaggiando verso il loro albergo, Venia e Dijana ebbero modo di ammirare il bel litorale corfiota.

    A sinistra, per alcuni tratti, la strada passava giusto qualche metro più su delle spiaggette di sassi e ghiaia e le ragazze, con gioia, constatarono che i bagnanti nuotavano in acque cristalline.

    Aprendo il finestrino e respirando a pieni polmoni l’aria calda e satura di profumi mediterranei, Venia esclamò: «Meraviglioso! Semplicemente meraviglioso!».

    A monte della litoranea, sfilavano ville e alberghi e giganteschi ulivi e cipressi e tutto era immensamente solare e pieno di vita.

    Si incrociavano e si superavano pedoni che in fila indiana, ai bordi della carreggiata, facevano jogging o camminavano con enormi zaini sulle spalle diretti verso le loro mete, oppure che semplicemente passeggiavano nonostante la calura.

    Il tassista, poi, rallentò la corsa e indicò alle due turiste un molo che si spingeva nel mare e, in un inglese incerto ma abbastanza comprensibile, spiegò loro che quello era stato il pontile dove approdava l’Imperatrice Sissi quando arrivava a Corfù. L’Achilleion, la sua villa, era proprio lì sopra la collina e dominava l’isola.

    Bastò questo per mandare in visibilio le ragazze che erano cresciute, come quasi tutte le adolescenti, con il mito della bellissima principessa e avevano visto e rivisto i film che la riguardavano. Si ripromisero che tra le prime cose da fare ci sarebbe stata la visita a quella villa.

    La corsa in taxi durò all’incirca un quarto d’ora.

    Erano arrivate.

    L’auto imboccò, a destra, il vialetto dello Ionian e si fermò davanti all’ingresso principale.

    Le ragazze raccattarono le loro cose dal sedile posteriore e scesero.

    Il tassista scaricò i bagagli e, dopo che gli ebbero saldato il conto, ripartì prendendo la direzione opposta a quella da cui erano arrivati.

    Orso e Ruben giunsero quasi subito a destinazione.

    La loro macchina aveva imboccato la strada per la Spianada e li aveva portati in cima alla rada di Kerkira, così avevano potuto osservare i numerosi yacht e le grandi barche a vela che vi erano ormeggiate.

    Il tassista li lasciò davanti al museo e spiegò loro la strada per arrivare alla pensione. Avrebbero dovuto camminare lungo tutto il Liston e alla fine di questo, non potevano sbagliare, avrebbero trovato il McDonald.

    A destra c’era il vicolo della pensione.

    I ragazzi si avviarono dove era stato loro indicato e si trovarono in un luogo incantato, speciale.

    Erano nel Liston.

    La pavimentazione del viale era chiara e lucida per l’usura del tempo. Il sole vi si specchiava dentro. Da un lato v’erano i portici veneziani con una lunga teoria di archi da ciascuno dei quali pendevano enormi eleganti lanterne. Sotto di essi le vetrine dei negozi e dei bar erano tutte riparate da tende a capote. Dall’altro lato, per tutta la sua lunghezza, c’erano file ordinate di folti alberi e, al di sotto di quelli, all’ombra, c’erano centinaia di poltroncine e divanetti di vimini: estensioni naturali dei bar dei portici. Il canto fragoroso e assordante delle cicale completava l’incanto.

    Orso non si aspettava che sarebbe stato così.

    «Dio bono!», esclamò in toscano, stupefatto, «è magnifico!».

    Non immaginavano, né lui né Ruben, quanto ancora più incantevole sarebbe stato quel posto di sera con tutte le lanterne accese.

    Trovarono facilmente la palazzina della pensione, sebbene quella stradina fosse piena di negozi che vendevano oggetti di ogni tipo per i turisti e i portoni dei palazzi fossero, a volte, coperti dalle merci esposte.

    Dijana spinse la grande porta di vetro dell’albergo ed entrò trascinando il suo trolley. I sandali rotti in una mano e, sulle spalle, lo zaino. L’aria condizionata la rinfrescò piacevolmente ma i piedi nudi avvertirono fin troppo il freddo del pavimento di marmo.

    Entrò anche Venia che aveva indugiato un po’ sull’ingresso per osservare l’esterno dell’albergo e aveva deciso che quella prima parte le piaceva.

    Alla reception c’era un po’ di fila. Mentre aspettavano il loro turno per dichiarare le loro generalità e avere la chiave della stanza, furono attirate da un enorme dipinto che stava all’inizio della scalinata che portava a un’altra hall. Si avvicinarono per osservarlo più da vicino. In un paesaggio silvestre erano raffigurate, vicino a una fonte, due dee.

    La targa alla base del dipinto riportava in greco: «AFRODITE e ARTEMIDE».

    «Afrodite e Artemide», lesse Venia che aveva fatto il liceo classico e aveva studiato il greco, «in latino sarebbero Venere e Diana», spiegò all’amica. «Lo sai, vero, che una è la dea dell’amore e della bellezza e l’altra è la dea della caccia?». Sembrava una maestrina.

    «Certo che lo so», ribatté Dijana un po’ seccata. «Forse dimentichi che mi chiamo anch’io Dijana e non potrei non conoscere un po’ di mitologia!».

    «Ma tu guarda!», esclamò Venia. «Chi ti troviamo in questo quadro? Proprio loro, le due dee di cui io e te portiamo i nomi!», ridacchiò, sorpresa.

    Incuriosite, le ragazze cominciarono a osservarlo con più attenzione.

    Le figure delle dee erano enigmatiche.

    I loro visi non si scorgevano.

    Diana era ritratta di spalle, con veste corta, gambe e piedi nudi, i capelli scuri annodati dietro la testa, arco e frecce nelle mani.

    Ai suoi piedi, un cervo.

    Venere le stava accanto, di profilo, con una mano allungata sul braccio dell’altra, come a volerla fermare. Sotto la sua lunga chioma bionda si poteva percepire un dolce sorriso. Era vestita di una lunga tunica bianca fermata sotto il seno da un cintura. Sul capo aveva una coroncina sottile, strana, quasi luminosa.

    Venia, inconsapevolmente, si toccò e aggiustò la treccina colorata che d’estate amava legarsi sulla fronte per vanità.

    La signora della reception le chiamò perché aveva finito con gli altri ospiti e le stava aspettando per registrarle.

    «Kalimera!», disse, rivolgendosi alle ragazze, sorridendo cordialmente. Assegnò loro una stanza al quinto piano con vista mare e spiegò che l’ascensore al -1 fermava in un tunnel che arrivava direttamente sulla spiaggia dell’hotel.

    I greci hanno grande simpatia per gli italiani e, sforzandosi di parlare la loro lingua, la signora augurò a Venia e a Dijana delle buone vacanze.

    Nell’ascensore, Venia ripensò al dipinto. Le rammentava qualcosa! Cercò nei cassetti della memoria per provare a capirne il significato. Pensò e ripensò. Ecco che c’era. Aveva ricordato. Una versione di greco ai tempi del liceo, il Pascoli a Matera, poco distante dai Sassi. Rabbrividì ricordando il suo professore di greco e latino: severo e implacabile. Nelle interrogazioni pretendeva che si imparassero quasi a memoria le versioni che dava da tradurre a casa e… quella del giovane che Diana aveva trasformato in cervo soltanto perché l’aveva vista mentre si immergeva in una fonte… era stata una versione da imparare! Il nome del giovane, però, non riuscì proprio a ricordarlo.

    Mentre cercavano la loro stanza, che era tra le ultime in fondo al lungo corridoio dell’hotel, raccontò la storia all’amica che anche se un po’ distrattamente la ascoltò volentieri.

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