Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Un tranquillo viale alberato
Un tranquillo viale alberato
Un tranquillo viale alberato
Ebook345 pages4 hours

Un tranquillo viale alberato

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Con il romanzo Un tranquillo viale alberato, Nada Gašić (1950) ha esordito nella narrativa. Il romanzo, se a prima vista sembra inserirsi nel filone realistico, si caratterizza in particolare per le sue atmosfere noir. La trama si sviluppa intorno a una tranquilla via di Zagabria, vicino alla piazza Kvaternik, un bel quartiere tra il centro della città e il bellissimo parco di Maksimir, dove i più diversi segreti pullulano dietro le tende attentamente tirate delle case. Il romanzo disegna le vite di numerosi abitanti della città il cui destino è fortemente marchiato degli avvenimenti degli anni novanta, cioè il periodo successivo al disfacimento della ex Jugoslavia e di quella che in Croazia viene chiamata “guerra patriottica”. Il retroscena politico e storico traspare però tra le righe mai in primo piano, e la tranquilla via con il suo filare degli alberi rappresenta il palcoscenico quotidiano di tutti coloro che non sono o non si sentono in linea con lo spirito nazionalistico e reazionario del tempo. Per costoro il calvario della richiesta della cittadinanza, dell’orientamento sessuale “sbagliato” o del rischio di appartenere a un “sangue nazionalmente impuro” sono il frutto delle conseguenze d una guerra i cui primi effetti sono quelli psicologici, se non addirittura psichiatrici, da “trauma postbellico”, anche in conseguenza di elementi concreti come la perdita della propria casa o di leggi promulgate troppo in fretta. La storia si svolge nell’anno 2003, durante una decina di giorni tra i più caldi del secolo, quando l’afa insopportabile ancor di più sottolinea le frustrazioni dei personaggi, spesso manifestate solo nei sogni o attraverso paure trasformatesi ormai in vere e proprie fobie. A queste “ex persone” che vivono sull’orlo della vita reale, tra i sogni e le pasticche di antidepressivi, tra la scrittura dei diari, i travestimenti e la recita di personaggi immaginari si contrappongono i personaggi della piccola borghesia, insopportabili nel loro modo di vivere, pieno dei cibi, di ricette, usanze, pettegolezzi, frasi fatte, cattiverie, falsità e sicurezze sempre gratuite: una crudeltà credibile proprio perché incredibile. La via è un microorganismo del macro livello della città, e gli avvenimenti, colti nella loro atmosfera quotidiana, potrebbero avvenire in qualsiasi altro quartiere. E così questa via apparentemente tranquilla diventata il posto di una successione di delitti in cui ciascun personaggio fa i conti con se stesso.
LanguageItaliano
Release dateDec 19, 2016
ISBN9788897264903
Un tranquillo viale alberato

Related to Un tranquillo viale alberato

Titles in the series (10)

View More

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Un tranquillo viale alberato

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Un tranquillo viale alberato - Nada Gašić

    COLOPHON

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2016 Oltre edizioni

    http://www.oltre.it

    ISBN 9788897264903

    Titolo originale dell’opera:

    Un tranquillo viale alberato

    TITOLO ORIGINALE DELL'OPERA:

    Mirna ulica, drvored

    TRADUZIONE DI

    Zdravka Krpina

    di Nada Gašić

    Collana Oltre confine

    Prima edizione

    Il libro è stato pubblicato con il sostegno del

    Ministero della Cultura della Repubblica di Croazia

    Il cerchio di luce

    Passano

    Gli occhiali

    Le scarpe da ginnastica

    Lei e loro

    I due e i due

    Pioverà

    Solo ubriacarsi

    Quaderno, cartolina

    È il momento di partire

    La finestra del seminterrato

    Le partenze

    Una giornata diversa

    Il sogno incolore

    Il cerchio di luce

    il primo lunedì, 20.8.2003

    – Di ritorno sulla Terra, quando toccò il suolo, Dio urtò pesantemente. La veste gli si strappò di brutto e si sporcò di terra e sangue. In una parola: non assomigliava a nessuno. Figuriamoci a Dio.

    – Non leggere più, non serve.

    – Pensavo ti saresti sentito meglio.

    – Non sto così male, credo... Apprezzo il tuo sforzo di tirarmi su il morale, la storia sicuramente non è così malvagia, ma non serve. Veramente, non sto così male.

    Marino mise il broncio, quindi spinse via il foglio. Loro due, Viktor Fedor e Marino Pečinić, stavano seduti al tavolo rotondo nella penombra del bilocale al secondo piano del palazzo a tre piani nella tranquilla via zagabrese con il filare degli alberi, una di quelle che con il lato nord sboccano sulla Martićeva, e con il lato sud confluiscono sulla Zvonimirova. Con queste due strade e con una parallela, il viale forma un quadrilatero all'interno del quale spalanca le fauci un cortile gigantesco, con il verde trascurato, soprattutto piante selvatiche, che alla fine degli anni trenta, quando il quartiere fu progettato e costruito, era stato pensato come un'oasi verde della città, ed invece da tempo, come la maggior parte dei giardini e dei cortili zagabresi, era diventato la discarica di ogni sorta d'immondizia, dando luogo a un'enorme proliferazione di gatti.

    Era la fine dell'agosto 2003, l'estate che nell'Annuario statistico croato viene iscritta come la più calda da quando si è cominciato a misurare la temperatura climatica nella capitale croata, cioè dal 1861. Gli imponenti muri e le tapparelle abbassate su tutte le finestre, ormai da diversi mesi, bloccavano la feroce invasione del calore nell'appartamento. L'aria era pesante sia per strada che in casa. L'arsura, in verità di notte ancora peggiore, rendeva l'aria bollente e tutto quel cambiamento d'aria notturno portava come unico risultato l'effondersi del puzzo della spazzatura che marciva là fuori, insieme al pungente, insopportabile fetore degli escrementi.

    Nel loro appartamento, a tutto ciò si univa l'odore dei disinfettanti, dell'alcool, del deodorante for men e il tenace olezzo di sudore maschile.

    Viktor Fedor si mosse quasi slogandosi le mascelle, il che a Marino Pejčinović parve esagerato, così inclinò il collo e con un movimento femminile strapieno di premura per ciò che stava toccando, ancora una volta gli tastò il turbante di bende fresche in cui era avvolta la testa.

    – Apprezzo lo sforzo di scomodare anche Dio per rallegrarmi, però il tuo rapporto con questa entità superiore, come dire, è troppo serio. Mi spiego: proprio perché rispetto il tuo impegno di sollevarmi l'umore con una storia del genere, mi trovo a disagio. E... veramente, non sto così male.

    Sembrava che Marino avesse capito. Sorrise cautamente.

    – Meglio che la senti. La storia vale.

    Fedor non rispose. Quasi senza sosta toccava la benda sulla sua testa, e poi lo zigomo gonfio e arrossato con una ferita appena visibile.

    – Ti fa tanto male?

    – No, così così...

    – Porco maledetto, picchiare così un uomo. Poteva cavarti l'occhio.

    – Poteva.

    – Come puoi restare così calmo? Anche la polizia fa schifo. Mi fa vomitare. Facevano l'interrogatorio più a te che a lui.

    – È più facile interrogare me, di me non hanno paura. Da lui possono beccarsi botte anche loro.

    – Tu puoi scherzare quanto ti pare, ma questa città è diventata veramente una cloaca nella quale l'ultimo scapestrato può terrorizzare tutta la strada, ammazzare di botte un rispettabile cittadino senza che succeda assolutamente niente. Asso-luta-mente nien-te.

    – Marino, ti prego, la filippica no. Sono già abbastanza stanco senza le tue lamentele. Ti prego...

    Marino si rattristò.

    Viktor lo fissò, aprì la bocca per dire qualcosa, ma rinunciò facendo un cenno con la mano. Nella camera, dalla porta semichiusa della cucina arrivava il fastidioso rumore del frigorifero.

    – Quanto raglia questo frigo, vorrei staccarlo.

    – Così verseremmo il formaggio nel caffè. Fa così per via di questo caldo disgustoso. È sotto sforzo.

    – Sforzo o tensione?

    – Tutti e due.

    Finalmente sorrisero entrambi, contemporaneamente. La tensione si abbassò.

    Pečinić colse l'occasione al volo.

    – Dai che ti leggo la storia fino alla fine, visto che l'ho già scritta.

    – E vai, altrimenti continuerai a rompere.

    Marino si mise in posizione.

    – Di ritorno sulla Terra, quando toccò il suolo, Dio urtò pesantemente. La veste gli si strappò di brutto e si sporcò di terra e sangue. In una parola, non assomigliava a nessuno. Figuriamoci a Dio. Siccome questo successe a Zagabria, vicino a piazza di Kvaternik, numerosi vicini lo circondarono.

    – Gesù, quanto è sporco! – disse la signora Kišpatić, mentre gli altri lo concordarono schiamazzando.

    Marino lasciò il foglio e fissò Fedor interrogativamente.

    – Tutto qua? È la storia completa?

    – È la storia completa.

    Fedor scosse la testa.

    – Vaffanculo, sei davvero scemo.

    Poi cominciò a ridere veramente. Anche Marino si mise a ridere, cacciò un gridolino, nelle piccole rughe sotto gli occhi apparvero le lacrimucce quando vide che Fedor si teneva la guancia gonfia. Risero fino a sentirsi male.

    La risata pian piano si calmò, prima uno e poi l'altro ricominciarono a ridere cercando di rinnovare il piacevole senso di soffocamento, poi le pause diventarono sempre più lunghe finché la risata finalmente andò a morire.

    Marino si alzò.

    – Vuoi un po' di grappa dal frigo?

    – Non lo so, mi hanno fatto una puntura, ho paura delle controindicazioni.

    – Al diavolo, funzionerà meglio. Vorresti mangiucchiare qualcosa?

    – Non ce la faccio. Dammi un po' di grappa, ma poca poca.

    Marino se ne andò in cucina. Fedor tastò la benda.

    – Portami un analgesico, qua comincia a farmi male seriamente. Sarà per il troppo sghignazzare.

    Marino tornò in camera con due bicchierini di grappa, le pasticche, un bicchiere d'acqua e la faccia preoccupata.

    – Ti fa tanto male? Ti è andata bene che non hai una commozione cerebrale. Questo maiale stavolta non la passerà liscia, te lo garantisco io.

    – Senti, non cominciare. Sono distrutto. Dammi questa pasticca.

    Marino guardava sbalordito Fedor macinare due pasticche con i denti, versarsi la grappa in gola, bere appena un sorso d'acqua, alzarsi e incamminarsi verso la propria camera.

    – Vado a stendermi, forse mi dormirò un po'.

    Poi, più dolcemente, come per sollevare se stesso e l'amico Marino Pečinić:

    – Domani penseremo alla tattica e alla strategia della vendetta.

    Giunto alla porta della camera si voltò e guardò l'orologio a muro. Pečinić guardò nella stessa direzione.

    – Ormai sono le 9 e 20, forse il caldo diminuirà un po'.

    – Vuoi un aiuto?

    – No, faccio da solo.

    Di nuovo toccò il turbante di bende e s'inchinò leggermente.

    – Salam Aleikum.

    Marino sorrise.

    – Salam Aleikum, bei.

    ***

    Quattro ore prima, dallo stesso appartamento era uscito Viktor Fedor, dignitosamente era sceso per le scale dal secondo piano del palazzo nel quale ormai abitava da sei anni in una specie di convivenza con il suo amico di vecchia data, il rispettabile coreografo Marino Pečinić.

    Se qualcuno gli avesse chiesto quando, in realtà, fosse andato ad abitare nell'appartamento di Marino, Viktor Fedor non avrebbe potuto rispondere. Un intero e lungo periodo della sua vita, il periodo dello sfratto dal proprio legittimo appartamento dall'altra parte della città, il burrascoso e drammatico trasferimento da Marino, tutto era rimasto caoticamente intrecciato con le storie degli altri e a Fedor sembrava che tutto fosse successo a un'altra persona, assolutamente estranea, in una città completamente sconosciuta, su parallele geografiche assenti dalla sua realtà. Poteva naturalmente raccontare come, senza alcuna colpa, all'età di 44 anni, si fosse ritrovato nell'appartamento natale con un pezzo di carta tra le mani, con il quale gli si notificava la nazionalizzazione del suo appartamento e la restituzione ai legittimi proprietari. Adempiendo a determinate condizioni poteva diventare un inquilino protetto. Invece, alla fine, non avendo letto bene tutte le condizioni e gli adempimenti necessari, svolazzò con Pečinić ad Amsterdam per quindici giorni, rimanendo assente più del tempo concesso per adempiere agli obblighi di legge e... questo non avrebbe potuto spiegarlo. Rivide se stesso ritornare nel cortile di casa sua, come aveva appreso dai discorsi altrui, riconoscendo le sue cose ben disposte nel cortile; si rivide incapace di accettare la nuova situazione, si rivide salire le scale verso il suo appartamento con la gambe pesanti, come di chi cammina nell'acqua. Un po' meglio si ricordava del proprio respiro e del sordo silenzio dei vicini dietro le porte chiuse. Così come ricordava di aver fissato la targhetta con il cognome sconosciuto sulla sua porta e che, intollerabilmente stupido, aveva provato, prima con la chiave e poi suonando il campanello, a entrare nell'appartamento. Non si ricordava di aver chiamato Marino Pečinić, né se lo avesse chiamato lui, o qualcun altro per lui... né come finì quell'orribile giornata.

    Sapeva che, poi, per lungo tempo si era perso nell'alcol ed era rimasto sdraiato da solo nell'appartamento di Marino, che aveva liberato una stanza per stivare tutte le cose di Viktor che avevano portato, tutto qua.

    Questo era tutto.

    Il resto che seguì: gli interminabili processi in tribunale, gli avvocati, le accuse, i ricorsi, i comitati di Helsinki per i diritti umani, le direttive comunali, le minacce e le promesse, lui non li legò direttamente al giorno in cui perse definitivamente casa sua.

    L'unica cosa che ricordava chiaramente, di quel periodo, erano le sue ginocchia che, giacendo in posizione fetale per giorni e giorni, avvicinava agli occhi e, ogni tanto tastava con le mani. La dottoressa poi gli spiegò che aveva avuto i classici sintomi della depressione, scomparsi poi, grazie a Dio, senza lasciare segni evidenti nella sua psiche.

    Quando, dopo le 5 del pomeriggio, uscì dall'appartamento di Marino, lui già da tempo non era più un ospite 'temporaneo' in quella casa. Da tanto tempo, ormai, l'appartamento, la casa e il vicinato erano il nido della sua vita, e non un luogo di soggiorno saltuario.

    Uscì di casa perché non poteva più sopportare se stesso, né tantomeno Marino, per quel litigio durato mezza giornata e iniziato la mattina, sullo zucchero di canna nel caffè, per colpa del quale, secondo Viktor, il caffè puzzava, mentre secondo Marino aveva un aroma particolare. Questo all'inizio. Alla fine, minacce di andar via e offese spicciole.

    Sceso dalle scale, aprì il portone d'ingresso e lo chiuse precipitosamente, come si fanno quando in cucina si apre il forno con imprudenza. Sorrise del suo gesto infantile e, deciso, tirò la maniglia. Era già pronto al colpo di calore, ma il fetore della strada lo sorprese e aggrottò le sopracciglia.

    Mise il piede sull'asfalto surriscaldato e morbido e la porta, dietro di lui, sbatté. Aspettò che passasse l'abbaglio improvviso e si sbrigò a cercare nelle tasche gli occhiali da sole, li tirò fuori e se li mise sul naso. Un secondo dopo già vedeva meglio e, attraversata coraggiosamente la strada, entrò nell'ombra del filare degli alberi. Lì il calore era già più sopportabile.

    Aveva fatto una decina di metri e quasi si sorprese quando sentì le voci di parecchie persone. Come se il suo corpo non fosse preparato ad alcun tipo di stimolo, come fosse diventato refrattario alla calura, come se avesse rifiutato ogni contatto con lo spazio attraverso il quale passava.

    – Marsc, spazzatura bosniaca!

    Si meravigliò di aver sentito proprio queste parole, letteralmente queste.

    Stava di fronte al cortile del palazzo a due piani, più precisamente davanti alla porta semichiusa all'interno della recinzione verde di fil di ferro del cortile, giusto all'ingresso del cortile nel quale il vicino Pongračić, malato di nervi, da anni trascinava qualsiasi specie di rifiuto, fregandosene di tutte le petizioni sulla necessità di tenere gli spazi puliti. Dalla vibratile ombra delle catalpe vide l'anziano signore Alija con una busta di plastica in mano e il vicino Pongračić, l'uomo più giovane, che, incurante di Alija e Fedor, frettolosamente versava rimanenze di cibo da un pentolino. Vide anche i gatti avvicinarsi, aspettare che le persone si allontanassero e poi, furbescamente, ispezionare le proposte per il pasto pomeridiano.

    Poi vide il pentolino volare verso l'anziano Alija, sentì il rumore del colpo, forse sulla spalla, e le gocce marroni che volavano da quel pentolino si fissarono nella sua memoria. Vide chiaramente cadere la busta contenente il pane dalle mani dell'anziano.

    Non ricordava nient'altro. Non aveva la minima idea del perché tutto era iniziato, di come era iniziato, né che cosa in verità lo avesse spinto a reagire, per la prima volta in cinquant'anni, a immischiarsi nelle beghe di qualcun altro. Non ricordava come con quattro passi precisi era arrivato là da Pongračić, cosa aveva detto, se aveva detto qualcosa, né quanto tutto fosse durato. Le grida in lontananza spazzatura bosniaca, tu a me, furono l'unica cosa sentita chiaramente... Lo avrebbe ricordato sicuramente per tutta la vita, fino al suo ultimo respiro, un'onda di vergogna per il suono del proprio palmo sul viso di un uomo. Poi il buio, Viktor Fedor non aveva potuto raccontarlo a nessuno, nemmeno alla polizia, quando, come e con cosa aveva colpito il vicino, il trentaseienne Emanuel Pongračić, sofferente di 'disturbi post-traumatici da stress'.

    Né avrebbe saputo dire in quale momento la strada si fosse popolata di gente, quando fosse arrivata la polizia, chi l'avesse chiamata, quando fosse apparso Marino inorridito. Ricordava solo che qualcuno gli aveva portato una sedia, che lo avevano messo seduto, che si sventolava con la mano mentre Marino cercava di avvicinare alla sua testa qualcosa di bianco, si ricordava di un leggero, agro-dolciastro sapore nella bocca che intuiva essere sangue, malgrado non vedesse niente. E, più intensamente di tutto, si ricordava del rumore, il rumore del proprio cuore.

    Che cosa avesse detto alla polizia, in verità, l'aveva letto dopo nel rapporto. E cosa avesse detto all'infermiere mentre lo rasava e al dottore mentre gli cuciva la testa, meglio che non sia stato registrato da nessuna parte.

    E così loro due, Viktor Fedor con la testa fasciata e Marino Pečinić con la sua storia per migliorare l'umore in casa, si ritrovarono a tavola nella penombra della camera, tra grandi risate, per poi andare via, ciascuno per fatti suoi.

    Marino Pečinić in una camera.

    E Viktor Fedor nell'altra.

    Fedor non vedeva l'ora di chiudere la porta dietro di sé. Si mise seduto vestito com'era e aspettò che gli passassero le fitte alla nuca. Si rilassò completamente, cercando con respiri profondi di calmare il dolore. Invano. Rimanendo seduto, si levò la camicia ancora fresca, che Marino aveva aiutato a mettere ancor prima che l'ambulanza lo portasse a fare la fasciatura. Poi si alzò e si sorprese vedendo tremare le sue gambe. Si sbottonò i pantaloni, li calò fino alle ginocchia... non vedeva l'ora di potersi risedere e, da quella posizione, li levò completamente. Non aveva la forza di piegare gli abiti. Lasciò che rotolassero per terra. Tenendosi quella specie di turbante con la mano sinistra, appoggiò il gomito destro sul divano, piegò le gambe e si stese con cautela. D'improvviso si sentì male. Trattenne il respiro, tossì due, tre volte con forza, bloccando così lo stimolo di vomitare. Si calmò. Si sentiva un pochino meglio.

    Il dolore alla testa pian piano scemava e, invece, lentamente andava aumentando la depressione mista alla sensazione di smisurata vergogna. Aprì gli occhi e fissò il lampadario, desiderando che gli ritornassero sia il dolore che la nausea. Semplicemente non poteva sopportare l'irrompere senza tregua della vergogna.

    Si rizzò, tese la mano verso l'interruttore della lampada da tavolo, strinse gli occhi per l'improvviso lampo di luce, prese dal comodino una confezione di calmanti, premette due volte sul film protettivo, afferrò il bicchiere d'acqua e bevve due piccole pilloline verdi.

    – Mie piccoli amiche verdi, mie piccoli amiche verdi – negli ultimi anni si era abituato a parlare amorevolmente coi suoi sedativi.

    Si mise di nuovo in posizione distesa, la testa sistemata con tanta, tanta cautela sul cuscino e aspettò di addormentarsi.

    Viktor Fedor aveva imparato a gestire i propri sogni.

    ***

    Tutto era tornato tranquillo. La polizia, che si era presentata sul luogo dell'accaduto stranamente numerosa e abbastanza ben equipaggiata, se n'era andata. Avevano raccolto le dichiarazioni dei partecipanti al tafferuglio, Alija Seferović, Viktor Fedor e Emanuel Pongračić. Sebbene almeno una decina di vicini affermasse, dopo, di aver visto tutto, i poliziotti non avevano trovato dei testimoni veri, e poco o niente avevano potuto registrare sull'avvenimento. Avevano annotato che il settantanovenne vedovo Alija Seferović aveva un domicilio provvisorio e documenti incompleti, che una volta abitava nell'appartamento nel quale adesso abitava Pongračić, che era andato ad abitare nello scantinato e se lo aveva sistemato da solo perché non poteva andare da nessun'altra parte, che il conflitto era di lunga data, che Pongračić, che viveva da solo, non era la prima volta che faceva una sfuriata, che di Fedor si sapeva poco, ma che viveva di fronte e che non risultava residente a quell'indirizzo ma a un altro, dall'altra parte della città. Aggiustato il verbale come meglio avevano saputo e potuto, raccolsero le dichiarazioni incompiute, segnarono i cognomi e per un po' di tempo gironzolarono semplicemente lì intorno. Dopodiché, una macchina della polizia se ne andò, poi un'altra, e poi rimasero due poliziotti... poi solo uno, e alla fine se ne andò via anche lui.

    Emanuel Pongračić non si era nemmeno cambiato, aveva solo infilato quattro gomme da masticare in bocca e con una masticazione rabbiosa aveva avuto ragione della loro resistenza; sbatté così rumorosamente la porta dell'appartamento, al secondo piano del palazzo a due piani, che Alija Seferović, nella sua casa nello scantinato, rabbrividì: incredibilmente svelto per la sua età, controllò sia la serratura che il chiavistello e poi anche l'armadietto su ruote col quale ogni sera bloccava la porta d'ingresso. Solo quando tutto si fu calmato, si mise a tavola, prese un coltello e accuratamente tolse la crosta del pane che, finito quello strano scontro, aveva raccolto dall'asfalto.

    Nel cortile i gatti giravano intorno ai resti calpestati rimanendo a bocca asciutta.

    La strada era tornata tranquilla. Il triste pomeriggio si concluse, surriscaldato, colorato di ocra pastello dai baccelli secchi del filare delle catalpe, che spietatamente si riversavano sull'asfalto. La sera era ovattata, non un movimento. Nulla cambiò con l'arrivo della notte.

    Le buste di plastica gonfie di spazzatura, ravvivate dal surriscaldamento continuo, respiravano di vita propria. La strada ansimava.

    Alle ore 23 e 11 minuti la strada era un gran vuoto sordo, come estrapolata dal quartiere e dalla città. Un numero ancora maggiore di finestre rimaneva chiuso e, dietro a quelle aperte, le luci erano spente per evitare l'avanzata delle orde di zanzare. Dal caffè a Martićeva arrivava la musica e tra le voci spiccava un aaa, pronunciato da qualcuno che aveva aperto la bocca per dire ooo e aveva cambiato idea all'ultimo momento. Si sentiva uno scroscio di risa, poi le femmine ridacchiare e il cane ti fotta la madre, ma che cazzo, non sfottermi, ripetuto per tre volte e accompagnato dello sghignazzo maschile. Ma la strada in sé era tranquilla e disinteressata del mondo che di notte si rianima, magari proprio dietro il prossimo angolo.

    Passò l'ombra di un gatto e poi quella d'un uomo. Si sentì una breve risata maschile, una parola corta incomprensibile, il rumore di qualcosa caduto, si accesero le luci. Alle finestre di due palazzi, qualcuno guardò fuori ma poi si ritrasse. Le luci si spensero di nuovo e tutto si calmò.

    Davvero si calmò. A Zagabria c'erano 29 gradi Celsius.

    Di fronte, al numero 10, dietro gli avvolgibili di legno delle finestre dell'appartamento al piano rialzato, non si mosse niente. La signora Daša Zelina non dormiva, non guardava la televisione, non leggeva. Vestita col sotto del pigiama e una canottiera leggera, esterrefatta dal caldo della giornata, stava seduta in poltrona accanto alla finestra. Aspettava che l'afa allentasse la presa. La sua attenzione era stata attirata dalle voci di fuori. Una conversazione incomprensibile, breve. Come se i personaggi avessero detto due o tre parole e d'improvviso avessero abbandonato il dialogo. Le diede fastidio un breve sghignazzo. Si alzò e cautamente si avvicinò alla finestra. L'occhio non si abituò subito al buio, né al cerchio di luce formato dal lampione per strada. Eppure le sembrò di vedere nel cortile del palazzo a due piani due magliettine bianche agitarsi. Si sentì un rumore ottuso, come fosse caduto qualcosa di pesante. Fece il possibile per non muovere la tenda. Smise di respirare.

    Vide allora chiaramente un uomo giacere per terra e qualcuno piegarsi su di lui. Spostò la testa e si appoggiò al muro. Quando trovò la forza di guardare di nuovo dalla finestra, il cortile appariva vuoto. Ma con terrore comprese che qualcuno stava in mezzo alla carreggiata e guardava la sua finestra. Sebbene sapesse essere impossibile per il buio, gli avvolgibili e le tende, la signora Daša Zelina ebbe l'impressione che l'uomo la stesse guardando dritto negli occhi. E lei lui. Aprì e chiuse la bocca, respirò e fermò il respiro. Smise completamente di respirare finché non sentì la pressione nelle tempie.

    L'uomo incurvò la schiena e si avvicinò al palazzo così che lei non poteva più vederlo.

    Nascondendosi dietro alla parete, prima spostò lentamente la testa, poi il corpo e soltanto allora si arrischiò a fare un passo. Con le braccia incrociate, dolorosamente stringendosi gli avambracci con le mani, chiudeva gli occhi e poi li riapriva bruscamente, e andò avanti così ancora per un po', aspettando che gli oggetti di casa si ripresentassero amichevoli e benevoli. Fece un passo e si fermò finché non smise lo scricchiolio del parquet. Giunta alla porta della camera si sentiva già più libera. Si avvicinò all'ingresso, mise la sicura e controllò la chiave nella serratura. Appoggiò l'orecchio sulla porta fredda e, sebbene sapesse bene trattarsi della sua immaginazione, le sembrò che qualcuno stesse respirando dall'altra parte della porta.

    Con un balzo si allontanò dalla porta, respirò e, facendosi forza, a passo normale, andò verso la finestra del bagno e la chiuse. Fece la stessa cosa anche nel ripostiglio. Girò la chiave un'altra volta nella serratura del balcone della cucina, si guardò attorno e, con un afflusso inspiegabile di energia, spinse il tavolo contro la porta, bloccandola.

    Eh, non ce la fai, si disse.

    Accese la luce.

    D'improvviso prese coraggio. Afferrò la scatola di sigarette e i fiammiferi e tornò in camera. Si mise seduta nella poltrona accanto al tavolino basso, accese una sigaretta, fece un tiro e provò sollievo.

    Stava seduta e fumava. Sigaretta dopo sigaretta. Sigaretta dopo sigaretta. Non sapeva quanto tempo fosse passato, ma d'improvviso sentì un insopportabile dolore ai muscoli delle gambe piegate. Le distese aspettando che cessasse il formicolio.

    L'onda della paura era passata, però sapeva che il sonno per quella notte era da dimenticare. Si alzò, si avvicinò alla scrivania sulla quale stavano le gonne da accorciare e due camicette trafitte dagli spilli. Le arrotolò in un mucchio e le mise per terra. Aprì il cassetto e tirò fuori alcuni quaderni. Ne scelse uno che, dal colore della copertina, sembrava mai usato, lo aprì e fece pressione sul dorso, prima con il gomito, poi col palmo della mano. Provò a scrivere sulla prima pagina, tirando fuori una dopo altra, le penne usate, attingendo al vasetto colmo di matite, penne e pennarelli. Indispettita le gettava per terra, sul mucchio di camicette e gonne arrotolate. Finalmente si decise per una che scriveva e non macchiava.

    Annotò:

    lunedì, 20 agosto 2003

    Mia cara Elida,

    sarebbe stato meglio se avessi iniziato a scrivere queste note nel diario che dedico e indirizzo a Te, senza un motivo, spinta dal solo fatto che negli ultimi quindici anni ho dimenticato tante cose, e quelle che non ho dimenticato si sono confuse, diventando un gomitolo ingarbugliato contenente di tutto, di più. Sarebbe stato meglio se avessi messo qualcosa sulla carta per poi trovarla sistemata al posto giusto nella vecchiaia, e non per tenermi solo una sensazione non chiara, uno stato, un resoconto, una trama, inseparabilmente mischiata con annotazioni altrui e specialmente con ricordi altrui.

    Ma tant'è. Per cominciare dovrei spiegare a me stessa cosa mi aspetto da questo diario e perché proprio oggi inizio a scrivere, nonostante a questo stia pensando da anni.

    Fondamentale,

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1