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Quella notte che non ricordi
Quella notte che non ricordi
Quella notte che non ricordi
Ebook800 pages11 hours

Quella notte che non ricordi

By M. X

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About this ebook

Barbara Miccoli ha ucciso il marito molti anni fa. Questo è il verdetto dei tribunali perchè lei di quella sera non ricorda nulla.

E' uscita di prigione pochi mesi fa, poco dopo l'ho incontrata e ho capito che era sola, disperata ed innocente. Perchè ho deciso di iniziare questa inchiesta? Perchè ero altrettanto solo e disperato forse. O forse no.

Ma le mie indagini mi hanno portato a risultati sorprendenti.

Forse Barbara avresti preferito non sapere la verità...
LanguageItaliano
Release dateDec 24, 2016
ISBN9788822881052
Quella notte che non ricordi

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    Quella notte che non ricordi - M. X

    M. X

    Quella notte che non ricordi

    UUID: c9a62cee-c9fe-11e6-89d4-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    2 Maggio

    3 Maggio

    4 Maggio

    5 Maggio

    6 Maggio

    7 Maggio

    8 Maggio

    9 Maggio

    10 Maggio

    11 Maggio

    12 Maggio

    Amanda Lontaro

    13 Maggio

    Persecuzione

    14 Maggio

    15 Maggio

    16 Maggio

    17 Maggio

    18 Maggio

    20 Maggio

    21 Maggio

    22 Maggio

    Il mostro di Albano

    Quella sera

    23 Maggio

    24 Maggio

    25 Maggio

    I due rivali

    26 Maggio

    27 Maggio

    28 Maggio

    29 Maggio

    Quella sera - 2

    30 Maggio

    31 Maggio

    1 Giugno

    2 Giugno

    3 Giugno

    L'Organizzazione

    4 Giugno

    5 Giugno

    Diario di Sara

    6 Giugno

    7 Giugno

    L'Organizzazione - parte seconda

    8 Giugno

    9 Giugno

    In un'altra vita

    10 Giugno

    11 Giugno

    12 Giugno

    Una notte in montagna

    13 Giugno

    14 Giugno

    15 Giugno

    22 Giugno

    23

    Una brutta storia

    23 Giugno

    La confessione

    24 Giugno

    25 Giugno

    Piccoli incidenti

    25 Giugno - continua

    28 Agosto

    Alla cortese attenzione della dottoressa Miccoli

    Quella notte che non ricordi

    2 Maggio

    Una gara ciclistica. Di quelle a tappe. Durano due o tre settimane. Ogni giorno una tappa diversa.

    Stiamo parlando del Giro d’Italia? Potrebbe essere il Giro. Ma evitiamo di definire luoghi o di fare nomi. Almeno per ora.

    La corsa è molto seguita. Ci sono atleti di tutte le nazioni. C’è la Televisione. No, non una Televisione, ci sono le Televisioni. Da tutto il mondo. E’ un evento importante. Definiamolo mediaticamente rilevante. E il bacino potenziale di utenti che questo evento cattura è indeterminabile, potenzialmente infinito.

    Bene, allora, c’è questa tappa importante. Una tappa di montagna. Certamente decisiva per le sorti della corsa. Ci sono tre o quattro salite lunghissime e durissime. Quel giorno tutti si rendono conto che verrà imposto un ritmo estremamente sostenuto. Alcuni corridori si piazzeranno davanti e tireranno forte per evitare fughe di quelli piazzati in classifica a ridosso del leader. Fughe che potrebbero sovvertire l’attuale gerarchia.

    Ne risulterà una gara paurosamente impegnativa. Soprattutto per quelli che nelle salite soffrono e arrancano.

    E’ una giornata forse decisiva per la vittoria finale e lo sforzo sarà massimo da parte di tutti. Il leader della corsa verrà attaccato e dovrà difendersi. Inevitabile. C’è molta aspettativa. Le TV non fanno che parlare di questa giornata. Il tappone decisivo dicono. La tensione è molto alta.

    Poi inizia la corsa e dopo pochi chilometri c’è questo corridore, Simone.

    Simone è un nome di fantasia. Lo continueremo a chiamare Simone ma non è detto che questo sia il suo vero nome. Non approfondiamo oltre, almeno per il momento.

    Simone dopo pochi chilometri parte e stacca il gruppo. E’ uno che non conta per la vittoria finale perché è molto staccato. E’ uno giovane, sconosciuto. Squadra senza ambizioni. Uno da lasciar andare insomma.

    E così lo lasciano partire. Nemmeno si informano sul suo vantaggio. Tanto la sua iniziativa non avrà influenze sulla classifica né con ogni probabilità potrà avere una qualche rilevanza sulla vittoria di tappa.

    Nessuno ritiene minimamente verosimile che un corridore, scarso o campione che sia, possa vincere una tappa correndo quasi duecento chilometri, molti dei quali si inerpicano su salite pazzesche, da solo, senza avere un compagno di fuga cui chiedere il cambio. E nessuno è tanto pazzo da seguirlo e tentare l’impresa insieme a lui.

    Simone però si sente tranquillo, fa la sua corsa, non ha nessun obiettivo particolare, vuole solo pedalare. E pedala. Immaginiamolo con la mente sgombra. Che divaga leggera proiettandosi immagini serene. Ricordi perlopiù. La sua infanzia, le prime gare, la sua ragazza. Immagini che ne tengono lontane altre. Quelle delle salite interminabili e ripidissime che sta affrontando. Dell’asfalto infinito che lo separa dal traguardo. Del vento che a tratti soffia contrario rallentando la sua corsa. Come per magia tutto questo non gli pesa. Niente fatica, niente stress e quello va avanti.

    Va su in salita veloce come se andasse in moto. Dietro lo lasciano fare. Tanto crollerà, dicono. Così Simone accumula vantaggio. La prima salita, poi la seconda. Ha un vantaggio enorme.

    Ad un tratto la fatica arriva. Normale. Inevitabile. Il magico inganno della mente si rivela come tale. La sofferenza poco a poco soppianta l’allegra spensieratezza. E il vigore della pedalata scema.

    Queste azioni in genere vanno a finire sempre nello stesso identico modo: nella prima fase il corridore in fuga accumula un grosso vantaggio, che viene però dilapidato in fretta verso la fine della corsa quando, avendo ormai speso tutte le energie, è costretto a rallentare a tal punto che quando il gruppo lo riprende lui è quasi fermo.

    Finisce quasi sempre male. Ma va bene lo stesso, perché questi sono gregari. Devono movimentare la corsa, non vincerla. Solo che stavolta il vantaggio accumulato da Simone è notevole. E lui mette in mostra una forza residua che nessuno si sarebbe aspettato. Nell’ultima salita viene rimontato, ma non così velocemente come ci si sarebbe immaginato. Arriva in cima e poi scende e mantiene ancora un piccolo vantaggio. Mancano pochissimi chilometri e lui ce la può fare. Può vincere la tappa.

    E la vince? chiedo realmente incuriosito a questo punto del racconto. Ma la donna continua il tuo racconto come se non l’avessi interrotta.

    E’ stremato dalla fatica, quasi non vede più dove deve andare. Per poco non va a sbattere contro le transenne. Ma continua a pedalare. Il gruppo dietro si fa sotto. Ma proprio quando inizia a disperare di potercela fare, Simone vede il traguardo. E’ lì a pochi metri. Lo vede all’improvviso quando già dietro di lui gli pareva di sentire l’alito degli inseguitori. Che invece sono indietro. Lui allora trova le energie per un ultimo allungo e passa quella linea tanto attesa. Nell’istante in cui oltrepassa la linea del traguardo, Simone alza le mani per esultare.

    Dobbiamo a questo punto renderci conto di quanto significhi per lui questo momento. Il suo pensiero corre veloce e disordinato a suo padre che gli diceva che sarebbe stato sempre un fallito, alle umiliazioni subite a scuola, ai fratelli più in gamba di lui, al fatto che lui era sempre stato considerato il fratello meno. Meno bravo. Meno intelligente. Meno furbo. Meno capace.

    Mentre alza il dito al cielo, in quel momento, in quel momento solo, in quel momento eccezionale ed irripetibile, inaspettato e sorprendente, ma soprattutto e purtroppo breve, una voce prende corpo nel suo cervello e trasmette perentoria un messaggio. Un messaggio che risuona mille volte in quel breve attimo e che infonde orgoglio, soddisfazione, rivalsa, ma che risuonerà anche in seguito trasmettendo però al contrario dolore, umiliazione e disperazione (anche se questo Simone ancora non può saperlo). Il messaggio è per suo padre.

    ‘Papà, che dici ora? Capisci quanto ti sei sbagliato? Quanto mi hai sempre sottovalutato?’.

    Mentre ancora il dito è alzato al cielo tra lo stupore generale e mille fiati sospesi che lo guardano sorpresi, forse per una vittoria che pare a tutti incredibile. In questo silenzio irreale, poco adatto a festeggiare la vittoria pazzesca di un outsider. Una vittoria meritata, conquistata con sofferenza e determinazione. E mentre Simone si guarda in giro come alla ricerca di qualche viso noto con cui condividere il suo momento e la sua gioia. Succede. Succede che arrivano e lo superano come dei treni due corridori che stanno sprintando l’uno contro l’altro.

    Simone li vede ma non capisce. Che hanno da correre ancora? Deve essere molto buffa la sua espressione mentre transita dalla gioia sconfinata allo stupore ed infine allo sgomento. Sgomento che certo si materializza sulla sua faccia quando vede uno dei due alzare le braccia al cielo. Non mentre oltrepassa il traguardo che lui ha appena tagliato per primo. No. Mentre oltrepassa un altro traguardo posto circa duecento metri più in là.

    Ci vuole qualche ulteriore secondo per elaborare questa informazione. Poi finalmente capisce.

    E’ così che svanisce il suo momento. Quando capisce perché quelli stavano ancora correndo. Perché le persone sugli spalti lo avevano guardato sbigottiti un secondo prima. Capisce che la sua rivalsa non c’è stata. E che ha perso un’enorme chance. Perché è stato uno stupido. Un idiota. Un imbecille.

    Come ha potuto scambiare quella riga tracciata sull’asfalto per il traguardo, quando c’erano ancora duecento metri da correre? Avrebbe vinto se solo non avesse smesso di pedalare.

    Rimane lì impietrito e perde così qualche ulteriore secondo prezioso. Certo la vittoria è andata, ma ci sarebbe ancora un prestigioso terzo posto da conquistare, solo che il gruppo sta arrivando.

    Finalmente Simone cerca di ridestarsi, riprende a pedalare proprio mentre il gruppo arriva e tutti devono fare scarti improvvisi per evitarlo. E lui, forse il panico o la sfortuna, compie un comico movimento a vuoto e cade. Cerca di rialzarsi, ma un ciclista non riesce a schivarlo, nel pieno della bagarre e gli finisce addosso. Si fanno male entrambi.

    Come fai a essere così coglione? gli dice quel ciclista caduto. E lui si mette a piangere. Piange come un bambino che è caduto e si è sbucciato gomito e ginocchio. E’ brutto da dire ma è un’immagine buffa.

    Tanto è buffa la situazione, che nessuno perde tempo a festeggiare il vincitore o il nuovo leader della corsa. La classifica è cambiata, ci sono stravolgimenti, ci sarebbe una storia sportiva da guardare e raccontare, ma tutti, cronisti, spettatori, telespettatori, telegiornali, internet e il mondo hanno occhi solo per Simone e il suo pianto disperato.

    Il suo manager lo sprona a rialzarsi. E’ molto arrabbiato con lui. Gli dice ‘rialzati almeno, deficiente. Sono solo 50 metri, arriva almeno in fondo. Così domani puoi ripartire e dare una mano’. La parola deficiente gliela ripete tante volte. Forse troppe. Intanto tutti attorno stanno ridendo.

    Quando intervistano il vincitore della tappa questo ride. L’intervistatore ride. Persino le ragazze che consegnano il premio. Non sono mai salite in bicicletta, non hanno probabilmente mai nemmeno avvicinato una cyclette, ma ridono. Lui intanto taglia il traguardo. Ultimo. Portando la bicicletta a mano. Lo intervistano tutti. Come fosse lui il vincitore. C’è pure una giornalista giovane e carina che viene da un paese dell’est. Lei si trattiene, fa una domanda e poi mentre Simone cerca di spiegare come sia mai potuto succedere, questa si mette a ridere.

    Poi c’è chi cerca di consolarlo. Cose del tipo ‘hai fatto comunque una bella gara’. ‘Sfortuna’. ‘Cose che capitano’. ‘La stanchezza ti ha giocato un brutto scherzo’.

    E lui si calma un po’. In fin dei conti dice non potevo vincere una gara come questa. In realtà l’aveva vinta. Ma comunque è già pazzesco essere arrivati qua. Insomma apparentemente digerisce la batosta.

    Poi quella sera guarda la TV e vede il servizio. Vede la sua espressione di gioia mentre passa una striscia che nemmeno un ubriaco avrebbe potuto scambiare per un traguardo. Nell’incredulità generale. Vede la sua espressione diventare sempre più buffa man mano che capisce quello che è veramente successo. Il giornalista intanto con divertita cattiveria afferma ‘e nemmeno qui il corridore si è forse reso conto del suo errore’. E risuonano nella sua mente le parole della gente, di quell’avversario, del trainer, di suo padre: ‘deficiente!’ Dicono tutti così.

    Chiama a casa i suoi genitori. La madre lo consola, ma non riesce a celare la sofferenza. E’ evidente che sta peggio di lui. Suo padre è andato a bere al bar, dice lei.

    Lui non va mai al bar. E’ il suo modo per fargli capire la sua posizione in merito a quanto successo. Questo almeno crede Simone.

    Non è facile da sopportare il peso di una cosa simile. Certo è vero: facciamo tutti nella vita decine di sciocchezze peggiori di queste. E buffe. Di tutti i tipi. Un mio cugino una volta ha distrutto una macchina mentre parcheggiava. La prima cosa che ha fatto dopo è stata guardarsi in giro per accertarsi che nessuno l’avesse visto. So di uno che ha dovuto suonare ai vicini in cerca d’aiuto. Aveva lasciato gli occhiali nell’armadio tra i vestiti e senza indossarli ci vedeva così poco da non poterli trovare. E sebbene potremmo essere tutti d’accordo sul fatto che questo sia un incidente banalissimo, per lui l’umiliazione è stata tremenda.

    Ma in questi, come in altri casi, il numero dei testimoni dei nostri incidenti è molto limitato. A volte anche nullo.

    Se rompo un televisore in casa giocando a fare il salto in alto, non andrò a raccontarlo, inventerò una storia. E anche se qualcuno è a conoscenza di ciò che ho fatto, si tratta di poche persone. E anche nel caso assurdo in cui queste corressero a raccontarlo in giro, con una foga improbabile, a tutte le persone anche sconosciute che incontrano, il messaggio sbiadirebbe di passaggio in passaggio. E non ci sarebbero le immagini.

    Le immagini. Eterna e sempre attuale prova di quanto avvenuto.

    30 milioni di persone nel mondo hanno visto Simone fare la figura dello scemo in diretta. E almeno altri 200 milioni l’hanno vista o la vedranno in differita. Lui ci pensa tutta la notte. Si rende conto che da quel momento in poi, ogni giorno incontrerà una o più persone che l’hanno visto fare quella figuraccia.

    Realizza che non può più salire su una bicicletta. Si immagina la gente pronto a prenderlo in giro al suo passaggio, magari a distrarlo in salita mimando un suo arrivo trionfale in un punto qualsiasi del percorso. Si immagina gente che scrive per terra frasi tipo: ARRIVO per i DEFICIENTI dietro ad una riga. E la TV a riprendere il tutto. Potrebbe diventare un tormentone perpetuo. Magari un giorno potrebbe venir coniata l’espressione arrivo alla Simone per le cadute rovinose in vista del traguardo. Oppure un servizio, magari fra dieci anni, che racconta le figuracce sportive più bizzarre della storia e si chiude con un ‘nulla in confronto a quanto Simone fece in quel giro’.

    Simone il giorno dopo si alza, fa la valigia e se ne va. Lascia il giro. Non una parola con nessuno. Non un saluto. Nessuna spiegazione. Lascia il giro, torna a casa e si rifugia in camera. Rimane rinchiuso in camera per quarantasette giorni. Permette solo alla madre di entrare, per portargli da mangiare. Il padre o chiunque altro fuori. E in bagno ci va solo di notte o quando non c’è nessuno in casa.

    Ma è solo una figuraccia sportiva! Se uno gli da il giusto peso, è una roba da niente! mi lascio sfuggire a questo punto.

    Appunto, se uno gli dà il giusto peso. Ma i duecento milioni di spettatori alterano la bilancia. Simone non può gestire questa situazione. Non ne esce più.

    Ha detto prima che Simone rimane chiuso in camera per quarantasette giorni. Che succede dopo? chiedo.

    Dopo lo mandano da me.

    Nell’istituto in cui lavorava.

    Esatto. Ci occupavamo di diverse.. situazioni.. diciamo. Io ero specializzata nelle sindromi da fallimento mediatico.

    Esiste una sindrome specifica davvero o è un modo di dire?

    E’ un problema piuttosto nuovo che io chiamo così ma altri specialisti in giro utilizzano una nomenclatura differente. Ad ogni modo ha a che fare con il fatto di essere ripresi in situazioni, diciamo.. imbarazzanti e con il fatto che queste immagini siano accessibili, anche solo potenzialmente, ad un bacino di utenti enorme, potenzialmente infinito. E per sempre.

    Ma a quanta gente può capitare di fare figuracce come questa in TV? Avrete avuto pochi pazienti..

    Ce n’erano invece. Consideri che la TV è senz’altro il meno. C’è internet, youtube, i social networks. C’era per esempio un ragazzo con il problema del pene piccolo, in senso clinico intendo, e questa cosa l’aveva sempre vissuto come un complesso enorme. Poi un giorno al liceo qualcuno lo filma sotto la doccia e le immagini vengono viste dai compagni di classe, di scuola, da tutto il mondo potenzialmente. Quando incontrava qualcuno, questi poteva essere uno a conoscenza del suo segreto. E non c’era posto sufficientemente lontano nel mondo per sentirsi al sicuro, per sentirsi .. vestito. Lo capisce che significa?

    Be’ credo proprio di sì.

    Si sentiva come nudo, esposto alla sua malformazione. Infamante per un maschio alla soglia della maggiore età, e impossibilitato, metaforicamente, a coprirsi.

    E quindi ci sono dei trattamenti specifici per questa sindrome? Intendo diversamente da quanto sarebbe stato fatto in altri casi?

    Vede, le conseguenze di una figuraccia normale si esauriscono prima, sia nel tempo che nello spazio. Intendo dire che, punto primo, solo un numero di persone limitato può avervi assistito e quindi solo con questi la persona prova il massimo imbarazzo. Gli altri possono esserne a conoscenza per via indiretta ma l’effetto comunque diminuisce, come in un telefono senza fili. E poi, punto secondo, nel tempo la cosa tende comunque ad essere dimenticata. Quando invece ci sono delle immagini, potenzialmente tutti i giorni la gente potrebbe accedervi, anche dopo dieci anni.

    Be’ ma non credo che la gente vada veramente tutti i giorni a rivedersi le immagini, soprattutto dopo anni!

    Ma non conta quello che la gente veramente fa. Il punto è quello che potrebbe fare, e il fatto che non ci sia modo per lui di scoprirlo. Immaginiamoci due ragazze che ridano al suo passaggio, per esempio. Probabilmente noi penseremmo che si stiano raccontando qualcosa di buffo. Non ce ne cureremmo, al massimo ne potremmo essere incuriositi. Lui invece, nella sua testa sarebbe convinto di essere stato riconosciuto e che stiano ridendo di lui. Il fatto di non aver nessun tipo di controllo su quello che succede, su chi ha accesso alle informazioni che ci riguardano, è questo che devasta le persone.

    E quali altri casi avevate?

    C’era la ragazza che si era scoperta protagonista di un video hard messo in rete dal suo ex, dopo che lei lo aveva lasciato. Questo poi è un classico. C’era quello che aveva spedito immagini piccanti di sé a quella che credeva un’amica conosciuta in internet per poi scoprire che si trattava di un maniaco che le mandava in giro a tutti i suoi amici, corredandole di storie altrettanto piccanti. Poi un ragazzo che era stato preso in giro in modo molto brutale. E qualche altro ancora. Come le dicevo i casi in giro sono tanti, ma solo poche persone fanno il passo di riconoscere la difficoltà.. a livello psichico, e vanno a farsi curare.

    Potrei avere più informazioni su questi casi?

    Non vedo, mi scusi, come questo possa c’entrare con quello.. che mi è successo.

    Quello che mi è successo ha detto. Ne sono sicuro. Non ha detto ‘quello che ho fatto’ o ‘quello che mi hanno fatto’. O nemmeno ‘quello che hanno fatto agli altri’. Dovrei trarne qualche conseguenza? E’ importante?

    Lo registro, ma per il momento non riesco a dargli un significato.

    Tutto potrebbe essere rilevante. Io credo che l’unica strada per arrivare alla verità sia non tralasciare nulla. Spero che non sia un problema per lei. Dico.

    Credo che a questo punto non possa più prendermi il lusso di avere problemi. Non le nascondo che la prima volta che mi ha contattato ho avuto l’impulso di dire che ho solo voglia di dimenticare. Che ho già pensato e ripensato a tutto. Scavato nei meandri dei miei ricordi. Ho considerato tutto quello che c’era da considerare. E del resto ho avuto tempo per farlo. E’ sconsolata mentre lo dice. Rassegnata. Sconfitta verrebbe da dire.

    Però? chiedo.

    Però è talmente alto il mio desiderio di far luce su quella sera.. che ho deciso di accettare la sua proposta.

    Guardi capisco quanto possa essere doloroso ripercorrere tutto questo, ma farò del mio meglio per renderle giustizia.

    Speriamo bene.

    3 Maggio

    All’improvviso sento un rumore. E’ come se fossi in un tunnel lunghissimo dal quale risalgo più veloce che posso. All’uscita del tunnel la luce. Ma no invece, è solo che ho finalmente aperto gli occhi. Ci metto un po’ ma poi capisco che sono a letto. Dormivo. Sì evidentemente dormivo. Ma avrei detto di essere morta e ritornata alla vita tanto è stato lo sforzo per aprire gli occhi. Mi creda. Una sensazione così forte che ancora ricordo.

    Ci metto un po’ a capire che cosa fosse quel rumore. Sono in camera da letto a casa mia. Primo piano. Suonano di nuovo. E’ il campanello. Mi alzo per andare ad aprire. Non so chi sia, che ora sia, che giorno sia, devo lavorare o no, dove sia mio marito, ma io mi alzo. Subito un mal di testa mi prende fortissimo. Come una bastonata sulla testa. Barcollo. Credo di non vederci. O meglio vedo la porta, il corridoio, le scale, ma non vedo veramente la porta, il corridoio e le scale. Scendo. Ma mi sembra di cadere. Forse pure di volare. Mi trovo davanti alla porta d’ingresso. Non sono caduta. Almeno credo. Ma sospetto che potrei anche avere un braccio fratturato e non me ne renderei conto.

    Mentre apro la porta mi accorgo che non ho neppure fatto caso a quello che indosso. Cerco velocemente di guardarmi ma non riesco a vedere bene.

    Buongiorno signorina siamo della polizia, mi dice uno dei due. Poi silenzio. Io cerco di articolare qualcosa, un saluto. Ma la bocca non si apre. Loro mi fissano. Capisco solo che mi fissano. Sono perplessi. Mentre cerco di ritrovare la voce mi immagino con orrore di essere pressoché nuda. Di vivere una di quelle situazioni imbarazzanti che nel mio lavoro cerco di far superare agli altri. Poi riesco ad uscire con un dignitoso buongiorno. Credo che la mia capacità di mettere a fuoco stia migliorando. Loro sono molto perplessi. Strani.

    Sta bene? Mi chiedono. Comincio a pensare che non sia la vista di una tetta che dia loro da pensare. Dico di sì. Che succede chiedo. Uno di loro intanto guarda dietro di me e fa una faccia.. non glielo so dire.. sorpreso, occhi sbarrati. Non lo so. Fatto sta che mi giro e lo vedo.

    Suo marito? chiedo.

    Sì, mio marito disteso sul pavimento. In una pozza di sangue. Morto.

    E lei scendendo le scale non l’ha notato? non riesco a trattenere una nota di incredulità. Vorrei ma non ci riesco.

    Non l’ho notato, no. La prego non mi dica che è strano perché l’hanno detto tutti. Dalla TV all’edicolante qua sotto. Persino mia madre. La prima cosa che mi ha detto.

    Ma se mi ricordo bene le ricostruzioni, e badi che io non vorrei basarmi su di quelle, il corpo si trovava proprio vicino al percorso che lei deve aver fatto per scendere le scale.

    Sì questo non lo nego, ma io non ero in me quella mattina. Per di più scendendo le scale forse avrò barcollato verso sinistra.. verso il muro, deviando da quello che era il percorso principale che tutti stabilirono io dovetti aver fatto quella mattina.

    Ma anche avesse deviato, stiamo parlando di un metro.. tutto quel sangue. Non capisco.

    Senta, è assurdo lo so. Eppure quel sangue io non lo vidi. Né tantomeno vidi mio marito. Per tutti quanti, questa equivalse ad una prova di colpevolezza. Ma io che interesse avrei avuto nel dire così? Mio marito stava bene quando ho aperto la porta, si stava fumando una sigaretta, qualcuno l’ha ucciso proprio mentre io parlavo con la polizia. Crede forse che volessi sostenere una cosa del genere?

    E che si ricorda della sera prima

    Niente. Non ricordo nulla.

    Qual è l’ultima cosa che ricorda?

    Senta sono anni che rispondo a queste domande. Lo può leggere su internet cos’è che ricordo.

    Lo so, ma io non voglio dare nulla per scontato. Forse qualcuno durante le indagini ha dato qualcosa per scontato e .. qualche possibile spiegazione è stata trascurata.

    Mi ricordo di essere andata a cena con mio marito dai nostri vicini di casa.

    I Righetti?

    Esatto.

    Va bene. Continueremo un altro giorno.

    4 Maggio

    Sono un giornalista. Lavoro per la rivista Italia Oggi. Dieci anni di professione ormai, quasi tutti a Italia, però sono ancora considerato un giovane. Uno che deve farsi. Che avrà le sue possibilità. Un giorno. Più avanti. Non devo avere fretta.

    A dire il vero, ho molto spesso avuto la sensazione incredibile (incredibile?) che il mio entusiasmo, e la mia voglia di fare destino in genere nei capi-redattori maggiore preoccupazione di quanto non ne desti l’assoluta assenza nei miei colleghi più maturi e più svogliati. Né ho mai percepito un timore da parte loro che la mia voglia di emergere possa lasciare spazio all’apatia e all’improduttività.

    Ma tutto questo è probabilmente normale a Italia Oggi.

    Quando il capo mi propose un piccolo servizio su Barbara Miccoli mi sentii subito emozionato. La signora Miccoli era appena uscita di prigione, tredici anni dopo l’omicidio del marito. Chi non conosce il caso della Miccoli e dell’assassinio del marito, Daniele Maccalone? Certo tredici anni sono molti ed il trambusto che aveva suscitato all’epoca è stato nel frattempo quasi interamente dimenticato, tuttavia il caso assumeva, almeno per me, ancora un forte fascino. E, a torto o a ragione, mi è sembrata fin da subito l’occasione che stavo cercando. Ero così emozionato che mentre il capo mi spiegava i dettagli dell’articolo che avrei dovuto scrivere, la mia mente correva avanti e indietro nel tempo. Mi immaginavo di stupire il mondo riaprendo un caso solo apparentemente risolto tredici anni prima e di trovare la prova che scagionava la Miccoli. Avrei saputo guardare dove altri non lo avevano ancora fatto e avrei trovato la spiegazione tanto semplice quanto ingegnosa che avrebbe messo a posto tutti i tasselli del puzzle.

    Mi diede, credo, un sacco di consigli il capo. Ma non lo ascoltai se non in minima parte. Ero già proiettato al lavoro. Non vedevo l’ora di intervistare la Miccoli.

    Chissà a quali incredibili scoperte mi immaginavo di poter arrivare sfruttando un piccolo colloquio di pochi minuti con lei.

    Due giorni dopo (era il 22 di aprile) mi trovavo a Malterna, in provincia di Alessandria, città di origine della famiglia Miccoli. La madre della Miccoli risiede ancora là, dove ha sempre vissuto negli ultimi quarant’anni, e la figlia, appena uscita, ha pensato bene di andare a stare da lei.

    Avevo guidato tre ore di fila attraversando un’interminabile cascata d’acqua per arrivare fin lì. Anziché recarmi subito a casa sua mi ero fermato per un boccone ad una specie di trattoria in paese. Anche perché mancava ancora parecchio tempo alle 2, ora dell’appuntamento che avevo fissato al telefono.

    La trattoria era piuttosto carina. Forse la buona impressione derivava anche dal contrasto con il grigiore esterno. Era composta da tre saloni accoglienti, separati da belle volte bianche, ciascuno dei quali ospitava un numero non eccessivo di tavoli, per la verità piuttosto deserti a quell’ora. Immaginavo tuttavia che a cena vi potessero essere molte più persone, e che l’effetto potesse essere nell’insieme gradevole.

    Mentre fissavo gli incomprensibili dipinti moderni alle pareti, pezzi di cartone dove i colori sembravano aggredirsi l’un l’altro per contendersi il controllo del territorio, ripensavo alla conversazione che avevo avuto con la Miccoli al telefono. L’avevo chiamata subito dopo che il capo mi aveva affidato l’incarico. Mi era parsa da subito infastidita. Sembrava quasi che mi avesse scambiato per il solito rompipalle del call center che vuole propinare un nuovo contratto per qualcosa che non serve a nessuno. Ma quando aveva capito che non ero affatto un call center il suo fastidio non era diminuito, anzi. Probabilmente non ero stato l’unico a cercarla. E questo in parte giustificava il suo atteggiamento.

    Pensavo che avrebbe rifiutato l’incontro da come mi trattava. Le ho detto che credevo in lei e nella sua innocenza, ma la cosa l’ha infastidita ancor di più. Parlare con lei mi spiazzava. Tutto quello che le dicevo e che mi aspettavo dovesse impressionarla positivamente non faceva altro che aumentare il suo distacco.

    Alla fine aveva accettato, ma mi ero reso ben conto che non avevo la più pallida idea di come lei si sentisse nè di come avrei dovuto approcciarla.

    Durante il tragitto per arrivare a Malterna avevo riflettuto molto e mi ero risolto a non mostrare un eccessivo interesse per il caso. Le sarebbe sembrato certamente poco professionale e l’avrebbe insospettita. Mi esercitavo ad apparire il più distaccato possibile. Mi rendevo però conto che non sapevo come indurla ad aprirsi, come fare in modo che mi raccontasse qualcosa che non avrei potuto facilmente trovare su wikipedia.

    Me ne resi conto solo troppo tardi. Avevo suonato alla porta in perfetto orario. La signora Miccoli mi aveva aperto e mi aveva accolto con fredda gentilezza. Mi aveva fatto accomodare sulla poltrona nel soggiorno di casa, mentre lei si era sistemata sul divano. La madre era comparsa per chiedermi se gradivo un caffè, che avevo accettato. Non mi sarebbe stato offerto molto altro, non c’era bisogno di dirlo.

    La casa era tenuta in buono stato, ma doveva avere almeno una cinquantina d’anni.

    Da fuori mi aveva colpito perché la costruzione era abbastanza grande, ma in qualche modo decadente e perfino inquietante. La forma della casa era slanciata, tre piani costruiti su una base piuttosto stretta, che davano l’impressione di imponenza a chi vi si avvicinava. C’erano poche finestre. Non che le avessi contate, ma la sensazione era che il bianco smorto ed irregolare dei muri prevalesse troppo sul trasparente dei vetri. Come se ci fossero dei misteri racchiusi là dentro che la casa non volesse correre il rischio di svelare. Un vialetto laterale, lastricato, ma dove l’erba sembrava sul punto di trionfare sulla pietra, attraversava un paio di piccole baracchette di legno, dove immagino la signora tenesse oggetti per il giardino. Sembrava che nessuno si fosse avvicinato a quelle baracche da almeno un decennio.

    Dall’ingresso avevamo attraversato il disimpegno ed un piccolo corridoio che ci avevano portato in questo soggiorno arredato con mobili piuttosto modesti. Una specie di dispensa, un divano, una poltrona, la TV, un comò e tante foto appese.

    La signora Miccoli appariva nervosa. Non, forse, a causa mia. Si muoveva come a scatti. Le braccia disegnavano archi improvvisi ed innaturali, come alla ricerca di una postura che non riusciva mai a trovare. Accavallava le gambe e le ri-accavallava continuamente con una frenesia che mi lasciava sgomento.

    L’avevo subito ringraziata con una frase di circostanza che le sarà sembrata senz’altro falsa ed inutile. E difatti non mi disse niente, fece un rapido cenno rotatorio con la mano per esortarmi a venire al dunque.

    Il dunque. Venni al dunque ed iniziai con le domande che mi ero preparato.

    Lei mi fissava, alternando momenti di sbigottimento a momenti di indifferenza.

    Entrambi questi suoi atteggiamenti mi turbarono. Mi bloccarono. Ad un certo punto, mentre lei mi fissava in attesa di un’ulteriore domanda, arrossii e mi feci prendere dal panico. Così che rimasi in penoso silenzio per parecchi interminabili secondi, che a me parvero ore, nelle quali lei continuò a fissarmi con la sua faccia inespressiva ed indifferente. Nemmeno il silenzio poteva stupirla o scuoterla, o infastidirla. Non più di quanto già non fosse infastidita, almeno.

    Chissà che cosa stava passando per la sua testa. Che combina questo imbranato? Che razza di impiastro mi hanno mandato? Qualcosa del genere probabilmente.

    Poi recuperai e ripresi a porle le mie domande.

    L’intervista comunque non durò molto. Lei rispose con la solita indifferenza ma in modo abbastanza completo senza farsi particolarmente pregare. Io presi molti appunti (non avevo pensato di registrare la conversazione, e questo fu senz’altro un errore).

    Man mano che l’intervista procedeva mi era sembrato che tutto volgesse per il meglio. Le domande gliele avevo poste nel modo giusto, la conversazione fluiva ed il materiale mi pareva ci fosse.

    Ad un tratto sembrò che ci fossimo detti tutto e mi ritrovai in pochi secondi fuori dalla porta di casa e subito dopo in macchina.

    All’inizio, durante il viaggio di rientro, mi crogiolai al pensiero di come avevo saputo recuperare da quella situazione imbarazzante e di come avevo gestito quell’incontro con un interlocutore tutt’altro che facile, senza andare nel pallone. Mi pareva di aver fatto un ottimo lavoro e ci vedevo un segnale del fatto che stavo crescendo, professionalmente parlando.

    Ma poi, quando mi ero messo a riflettere su quello che effettivamente mi aveva raccontato, avevo incominciato a pensare che la sostanza non fosse poi molta e avevo cominciato a nutrire dei dubbi sul fatto che avessi in mano il materiale giusto per farci un articolo di rilievo. Così mi ero fermato precipitosamente all’autogrill e mi ero messo a rileggere tutto.

    Con orrore avevo subito constatato che le domande che le avevo posto erano scontate e le risposte erano ordinarie. Non c’era nulla di sorprendente, nulla sopra le righe. Nulla che non avrei potuto scrivere nel chiuso del mio ufficietto senza nemmeno il bisogno di farmi sei ore di macchina.

    Potevo andare dal mio capo con questa intervista? Potevo ancora considerare questo pezzo come un trampolino di lancio?

    Mentre il panico montava, cercavo invano, come un topo in trappola, di trovare una scappatoia che mi consentisse di presentarmi con del materiale più interessante. Ma evidentemente non c’era modo, ormai.

    Allora mi risolsi a pensare a qualche scusa. Inventai delle domande più azzeccate (che ora incredibilmente mi venivano in abbondanza) e mi preparai a spiegare come fosse stata lei a non aver voluto rispondere adeguatamente e si fosse limitata a qualche dichiarazione di circostanza.

    Avrei fatto la figura di quello incapace di instaurare un rapporto con l’intervistato, ma almeno non del coglione completo.

    Questa monnezza non la pubblichiamo mi aveva detto il mio capo quando il giorno dopo gli avevo presentato un resoconto ricostruito ad arte.

    Purtroppo non ha detto altro. Se solo... avevo risposto con calcolata esitazione.

    Se solo?

    Se solo potessi richiamarla e spiegarle che il materiale non è sufficiente per costruire un articolo pubblicabile e le chiedessi un’altra intervista..

    Non t’ha risposto ieri. Perché dovrebbe farlo domani?

    Magari potrei inviarle le domande in anticipo e darle il tempo per pensare alle risposte. Gli avevo detto. Avrei in definitiva dovuto ritornare lì e il mio capo non era molto propenso a spendere per un’altra giornata che con ogni probabilità si sarebbe rivelata improduttiva, ma alla fine decise che ormai tanto valeva rischiare.

    Ma solo se ti sembra veramente disposta ad impegnarsi, la stronza. aveva aggiunto.

    Mi ero preparato le domande per bene, ma non gliele avevo spedite. L’avevo chiamata per chiederle un altro incontro, ma le avevo detto che avevo anche delle cose da dirle. Volevo incuriosirla. Mi era sembrato che avesse bisogno di novità in quel breve volgere di tempo in cui l’avevo conosciuta. E pensavo che un pizzico di mistero potesse essere un ingrediente in più. Come sempre lei si era mostrata distaccata, se non aspra. Ma alla fine aveva accettato. Forse dopotutto l’avevo incuriosita.

    M’aveva dato appuntamento per il 2 maggio, in quanto prima era impegnata. Chissà che genere d’impegni poteva mai avere?

    Quando ci eravamo poi incontrati nuovamente, lei mi era sembrata un po’ più sciolta. Non certo affabile, ma priva di quel nervosismo sconcertante della volta precedente. Le avevo chiesto che mi spiegasse meglio il suo lavoro e lei mi aveva raccontato la storia di quel ciclista.

    La chiacchierata era durata parecchio e le avevo chiesto se avremmo potuto continuare il giorno dopo. Io mi ero preso una camera d’albergo per la notte e non ci sarebbero stati problemi. Lei aveva accettato senza troppa fatica. Non che si fosse sciolta, ma si era un po’ abituata all’idea di parlare con me.

    Il problema era il mio capo: non avevo concordato con lui di fermarmi un altro giorno e non avevo certo ancora raccolto materiale di gran livello. Perciò gli avevo detto che non me la sentivo di guidare fino a casa perché era tardi e che avrei potuto cogliere l’occasione per approfondire ulteriormente il giorno dopo. La Miccoli si era sciolta, gli avevo detto esagerando, e ne avrei ricavato qualcosa di molto interessante se solo avessi avuto ancora una mezza giornata a disposizione.

    Il suo scetticismo nei confronti della buona riuscita del mio lavoro non avrebbe potuto essere più grande, ma alla fine mi aveva lasciato fare. Probabilmente solo perché era tardi anche per lui e non aveva voluto perdere troppo tempo in discussioni.

    Fu così che mi ero trovato quella sera di due giorni fa in una piccola camera d’albergo a rimuginare su quanto ci eravamo detti nell’incontro del pomeriggio. Scegliere l’hotel non era stato molto difficile, ce n’erano solo tre a Malterna e dintorni. Il Borgo Antico si trova appena fuori dal centro, in una zona tranquilla, è decisamente modesto ed economico. La hall all’ingresso è appena abbozzata. Le camere sono ridotte all’essenziale. Esattamente quello che faceva al caso mio. Non ero infatti del tutto sicuro che il mio capo avrebbe finito per autorizzare la spesa e per convincerlo dovevo assolutamente sottoporgli un conto tutt’altro che salato.

    Quella sera ero andato a mangiare alla stessa trattoria della volta precedente. Le Casate. Chissà perché poi questo nome.

    Come avevo immaginato, la sera il posto è piuttosto animato. Si mangia bene e il personale è piuttosto accogliente.

    Mentre riflettevo sulla situazione mi era venuta l’idea di scrivere. Scrivere quello che la Miccoli mi aveva raccontato quel pomeriggio. Così avevo buttato giù la data di quel giorno (2 maggio) e riportato le sue parole nel modo più fedele possibile tralasciando le parti meno interessanti.

    Il giorno dopo (ieri) ci eravamo rivisti e lei mi aveva raccontato di come l’avessero svegliata quel mattino e come avesse scoperto del marito morto.

    A questo punto io le avevo detto che le credevo. Che avrei voluto fare luce sul mistero. Che il mio giornale era disponibile a finanziarmi per investigare sul caso. Che mi ero già messo d’accordo per fermarmi a Malterna altri dieci giorni per continuare a raccogliere altre informazioni. Che bastava che lei mi dicesse di sì e io avrei avuto carta bianca. Che non avrei mai pubblicato nulla senza il suo consenso. Che il mio giornale sarebbe stato disponibile a firmare un accordo. Che ero sicuro che avrei finito per scoprire la verità.

    Nulla di quanto avevo detto era vero. Ma avevo mentito con grande entusiasmo. Forse una mente lucida mi avrebbe smascherato: non avevo certo l’aria del giornalista esperto cui affidano questo genere di carta bianca. Ma a lei era parso tutto molto plausibile. Era abituata al clamore dei tempi del processo e si aspettava che l’interesse verso il suo caso fosse rimasto invariato.

    Non la entusiasmava l’idea di rivangare quella storia, riaprire le ferite che a stento si erano forse rimarginate. Rivivere l’incubo. Però dietro a quell’ostentata indifferenza, avevo visto giusto, c’era il desiderio di scoprire finalmente cos’era accaduto veramente quella notte. Un desiderio che dopo tanti anni non era ancora morto. E io ero forse la sua ultima speranza. L’ultima speranza quando aveva ormai smesso di avere speranza. E così mi aveva detto di sì. E ci eravamo messi d’accordo sui prossimi incontri. Lei avrebbe dovuto raccontarmi tutto, senza alcuna reticenza. E io avrei dovuto recarmi a Bidoli per iniziare le mie indagini.

    Restava solo un piccolo problema: il mio capo.

    Tutto ieri pomeriggio l’ho trascorso nella mia camera a pensare a che cosa gli avrei detto. E il problema è che non mi veniva in mente niente. Quello si aspettava un articolo bello e pronto e io avevo bisogno di tempo. Ma tempo per che cosa? Per risolvere il caso? Un cold case già chiuso da più di un decennio? Nessuno lo voleva un articolo del genere. E se anche lo avessero voluto non avrebbero certo mandato me. Era impossibile anche solo guadagnare un giorno, figuriamoci dieci o venti. Sono rimasto nel chiuso della mia camera in attesa di un’ispirazione, con il panico che cresceva man mano che l’ispirazione non arrivava e si avvicinava il momento in cui sarebbe stato troppo tardi per chiamare.

    Stamattina mi sono svegliato, senza che avessi ancora deciso nulla. Ma ho dovuto chiamare in redazione ugualmente.

    Ho bisogno di un altro giorno. Dico io quasi sovrappensiero.

    Tutti quelli che vuoi. Mi fa lui con tono indifferente.

    Possibile? Mi sono scervellato per delle ore senza motivo? Improvvisamente mi sembra che tutto si incastri a meraviglia: avrò il tempo per investigare, scoprirò qualcosa, verrà fuori un pezzo da urlo, svolterò.

    Anzi non tornare proprio. Mi fa senza cambiare tono.

    Il quadro idilliaco si incrina in un batter di ciglia.

    Che dici?

    Dico che ieri non ti sei fatto vivo. Dico che stai ancora là a fare non si sa cosa. Dico che il contratto ti scade fra tre settimane e tu non hai mai combinato nulla di buono in tanti anni. Dico che ti diamo il dovuto e tanti saluti. Se vuoi stare ancora lì da questa Miccoli a fare non so cosa, vedi un po’ tu.

    Mi manca il respiro. Non avrei mai creduto sarebbe potuto succedere. Mi sarei immaginato delle avvisaglie prima di questo, degli avvertimenti, guarda che stai imboccando la strada sbagliata, devi fare così invece che cosà. Invece mi licenziano su due piedi. Per punire un mio eccesso di zelo, quasi.

    E il pezzo sulla Miccoli? mi trovo a dire.

    Lui soffoca a stento una risatina e poi con una finta, ridicola gravità dice:

    Che vuoi che ti dica? Correremo il rischio di vedere i nostri più fedeli lettori cambiare testata a seguito della delusione di non aver potuto leggere il tuo brillante pezzo sulla Miccoli.

    Quasi mi chiude il telefono in faccia. A malapena un saluto. Ed è così che mi trovo senza lavoro, all’improvviso, proprio ora che avevo per le mani qualcosa di interessante. Poteva essere la mia occasione. Ed invece questa telefonata manda in fumo tutte le mie speranze e mi sprofonda nella disperazione più cupa.

    Che senso ha continuare allora? Mi dico.

    Ripenso agli anni che ho dato al giornale. All’entusiasmo con cui ho cercato di portare a termine i compitini che mi venivano assegnati. A quanta fatica abbia dovuto fare per non dare peso al modo in cui venivo trattato. Otto anni là dentro. Mica mezz’ora. E mi scaricano così, per telefono.

    Non vedevano l’ora di liberarsi di me, questa è la verità. E perché poi? Non mi stavo impegnando? Non stavo lavorando bene forse? No. E’ solo che non scodinzolavo come gli altri cagnolini. Pensavo con la mia testa. Questo era il problema.

    Rimango a lungo disteso sul letto a fissare il soffitto. Incapace di risolvermi a prendere un qualsiasi tipo di decisione, tanto che riguardi il mio futuro, quanto l’andare a fare colazione. Rimango così per parecchio tempo.

    Poi però mi riprendo. Non mi lascerò tramortire da quel coglione, mi dico. Gli dimostrerò quanto valgo.

    Ho qualche soldo da parte. Posso permettermi qualche mese senza entrate. Parlo con il gestore dell’albergo. Gli chiedo se posso spuntare un prezzo di favore, visto che credo di fermarmi qua per un mesetto. Mi fanno un buon prezzo.

    Passo anche in trattoria e mi metto d’accordo pure con loro.

    Torno in camera e mi metto a scrivere.

    La mia sarà una storia sulla Miccoli, sull’indagine che svolgerò e su come farò ad individuare il vero assassino di quella notte. Scriverò un bestseller. Questo libro che stai leggendo sarà un bestseller. Anche perché più avanti, verso la fine, troverai il nome dell’assassino.

    Nome che oggi non conosco ancora. Ma che, sono sicuro, finirò per conoscere molto presto.

    5 Maggio

    Stamattina sono partito per Bidoli. La città dove la Miccoli ed il marito vivevano e dove si svolsero i tremendi fatti di quella notte. La Miccoli mi ha messo in contatto con il suo avvocato, che è anche un amico di famiglia e che mi ha fornito qualche preziosa informazione. E’ stato molto gentile e praticamente non ha mi posto nessuna delle tante domande che mi avrebbero potuto mettere in difficoltà. Mi chiedo se abbia davvero creduto anche lui alla storia della rivista così tanto interessata alla Miccoli da finanziare un’indagine ad ampio respiro.

    Ad ogni modo mi ha fatto il nome di un poliziotto, Loris Piatti che fu uno dei due a suonare il campanello della Miccoli quel mattino.

    Lo troverà nel piccolo commissariato di Bidoli. Mi ha detto l’avvocato.

    Il commissariato incute un certo timore. Una costruzione che sembra disegnata per reggere all’invasione dei barbari. Massiccia, praticamente priva di vetrate verso l’esterno o quasi. Ti aspetteresti, avvicinandoti, che qualcuno da una feritoia in alto ti versi dell’olio bollente. Almeno a me ha dato questa inquietante sensazione. All’ingresso una telecamera ti scruta e poi devi passare un controllo di sicurezza prima di essere all’interno.

    Il tipo all’accettazione, ha continuato a chiedermi innumerevoli volte quale fosse lo scopo della mia visita.

    Vorrei parlare con l’attendente Piatti.

    In merito a?

    Ad un’indagine di molti anni fa.

    Spiacente, lui non si occupa di indagini.

    Sì, ma io ho bisogno di parlare con lui.

    Vi conoscete forse?

    No. Ma lui.. io sono un giornalista e devo parlare con lui..

    Non credo che questa cosa sia consentita dal regolamento.

    Ascolti, io ci devo solo parlare. Non è che chieda altro..

    Avevamo continuato così per un pezzo prima che lui mi dicesse che Piatti era fuori e che sarebbe tornato due ore dopo. Potevo scegliere se tornare o aspettarlo lì. Scelsi la seconda, non mi andava di dover magari ripetere la stessa scena più tardi con un altro fenomeno.

    Piatti è arrivato molto prima delle due ore pronosticate. E’ stato molto disponibile. Mi ha fatto accomodare in una saletta e abbiamo parlato.

    Lavora sempre lì e si ricorda di tutto. Immagino non sia avvenuto molto né prima nè dopo quella notte in questa piccola cittadina sul mar ligure.

    Pensavo avrei trovato un sacco di difficoltà a convincerlo a parlare con me, invece sembra che tutti non vedano l’ora di parlare con un giornalista. Certo, se controllassero in redazione scoprirebbero che sono stato licenziato e passerei un brutto quarto d’ora, ma ho già pensato pure a questa evenienza. Direi che me ne sono andato io per poter seguire questo caso come freelance e vendere poi il mio libro al miglior offerente.

    Lui è un uomo sulla cinquantina che credo svolga più o meno lo stesso tipo di mansione che svolgeva nello stesso paese tredici anni fa. Un uomo tranquillo, non sembra neanche un poliziotto. Non che ne conosca poi così tanti. Una leggera pancetta, un modo di parlare cortese e calmo. Affabile persino. Sicuramente preciso e pignolo.

    Ci hanno chiamato alle 8:23.

    Si ricorda persino il minuto? Dopo tredici anni? Chiedo stupito. Maniaco della precisione. Me ne intendo io.

    L’ho ripetuto tante di quelle volte che ricordo tutto.

    Quindi lei non .. diciamo ricorda .. come dire.. i fatti. Lei ricorda la storia che ha raccontato tante volte. Se questa storia fosse basata su qualche errore commesso le prime volte, lei oggi la racconterebbe convinto che sia corretta. Mi affascina questo concetto ma osservando la sua faccia ho ragione di ritenere che la mia passione non sia condivisa.

    Quando scrissi il verbale, all’epoca, erano passate poche ore e ricordavo tutto molto bene. E il mio collega ricordava tutto allo stesso modo. Non credo ci siano grosse possibilità di errore.

    Va bene. Mi scusi l’interruzione. Continui.

    Ci hanno detto della macchina e che dalla targa erano risaliti alla signora Barbara Miccoli. E ci hanno dato l’indirizzo.

    E voi andaste quindi a casa sua.

    Esatto. Arrivammo alle 8:45. E suonammo alla porta.

    Per quanto tempo suonaste?

    Suonammo un sacco di volte. Passarono almeno cinque minuti prima che lei aprisse. Poi sentimmo dei movimenti e lei aprì.

    Come vi si presentò?

    Indossava un capo di maglieria intima sopra e sotto aveva solo le mutande. Ma il capo che indossava era lacerato o strappato. Non si capiva esattamente cosa fosse e poi c’era del sangue.

    Dove?

    Su di lei.

    Sul corpo o su quello che indossava? La prego non pensi a quello che ha letto o visto in TV. Si basi sui suoi ricordi.

    Sicuramente su quello che indossava. Credo anche sul corpo. Le mani magari. Ma non ricordo esattamente.

    E lei come appariva?

    Sembrava in stato confusionale. Le abbiamo chiesto come stava ma lei non ci ha risposto subito. Ci ha risposto dopo un po’. Poi io ho visto il corpo dietro la signora.

    Quanto dietro?

    Mah.. saranno stati sei metri.

    E’ possibile che la signora scendendo non l’avesse visto?

    In condizioni normali non è possibile. Ma lei non sembrava in condizioni normali.

    E che avete fatto quindi?

    Le abbiamo chiesto di chi fosse quel corpo là.

    Sì me lo immagino tipo .. signora, ma che bel cadavere sul tappeto! L’ha messo lì di recente? Il rosso del sangue s’intona con il quadro sopra il divano. Soffoco un mezzo sorriso e cerco di scollegare quella parte del mio cervello in vena di macabro e stupido umorismo.

    Come glielo avete chiesto, mi scusi? Le parole esatte.

    Signora c’è un corpo sul pavimento del soggiorno.

    La Miccoli mi aveva detto che loro non dissero nulla e lei si girò seguendo il loro sguardo. Un’incongruenza? Si è sbagliata? Ha mentito? Forse sto esagerando a dare troppo peso a questo dettaglio insignificante. O forse tutto ha un peso. La realtà è che non ho mai condotto un’attività investigativa. Ho letto qualche giallo. Tutta lì la mia esperienza. Com’è che ieri mi sentivo così sicuro di scoprire qualcosa?

    E lei?

    Si è girata. Ed è rimasta lì immobile.

    Non ha urlato? Non ha avuto una qualche reazione? Nulla?

    Nulla. Noi abbiamo chiesto se potevamo entrare.

    E’ stato lei a chiedere o il suo collega?

    Sono stato io. Ma lei non ha risposto. Così siamo entrati. Date le circostanze.

    E vi siete avvicinati al corpo.

    Sì. Tanto per capire che era già morto. Il polso non batteva. Ma questo l’ha visto il mio collega. Io comunque stavo chiamando il 118 ovviamente.

    E la signora?

    Lei aveva gli occhi sbarrati. Non diceva nulla.

    Né urla, né lacrime.. né che ne so, nulla?

    Non lo so come stia bene reagire con un morto in casa mentre la polizia ti osserva in effetti.

    Nessuna reazione. Il corpo era a pancia in giù. Ma si vedeva il viso. Io ho chiesto alla signora che intanto si era avvicinata un po’ di chi fosse quel corpo. E lei mi ha detto che era suo marito.

    Sì lo trovo spesso così in una pozza di sangue la mattina. Poi tra un po’ si rialza come nuovo e va a fare jogging. Scusi come le ha detto che era suo marito?

    Ha detto: è mio marito.

    Con freddezza e distacco o che ne so atterrita, spaventata, diciamo dispiaciuta almeno? Dovrebbero insegnarti come reagire, la giusta dose di sconcerto, un po’ di teatro ma non troppo che sembra simulato. Devo mettermi un post-it sul frigo casomai sul momento non mi venisse: se mi trovo da solo in casa con un cadavere e un sacco di sangue sulla mia maglietta e suona la polizia.. prima cambiare maglietta e poi aprire.

    Era pallida. Sconvolta. Ma la voce sembrava sicura, fredda.

    E poi?

    Poi lei è rimasta lì ferma per un sacco di tempo a guardare quel cadavere. E io non sapevo che dire. Sono rimasto lì ad aspettare il 118.

    Non le ha chiesto cosa fosse successo? O che ne so: che belle tende, dove le ha prese? Forse anche i poliziotti andrebbero preparati. Sennò sul momento le domande giuste non ti vengono mai.

    Sì credo di sì. Ma lei si è chiusa in un mutismo assoluto. E non ha più detto nulla.

    E il 118?

    Sono arrivati. Constatato il decesso. Abbiamo chiamato l’investigativa. Hanno chiesto alla signora di seguirli in questura. E poi basta.

    Quanto si era avvicinata?

    Scusi?

    Mi ha detto prima che lei si è avvicinata un po’ al corpo poco dopo che siete entrati. Di quanto? Un metro? Due?

    Ma circa metà strada. Diciamo tre metri, la butto là.

    Immagino quanto possa essere apparso strano il comportamento della Miccoli. Ma quanti di noi hanno esperienza di cose come questa? Forse non riusciva a correre dal marito. Forse doveva starne lontana per un meccanismo di autodifesa. Come se non avvicinandosi al marito morto avesse voluto nascondere a sé stessa la realtà.

    Chi può dirlo? Non sono uno psicologo e non ho mai visto un cadavere.

    Mi chiedo se l’impulso di trovare una giustificazione alla Miccoli sia legato al fatto che dentro di me io abbia già deciso che lei sia innocente. E allora la mia indagine parte da una posizione pregiudizievole. D’altro canto, l’unico modo per scoprire qualcosa di nuovo, mi dico, è quello di vedere tutto secondo una prospettiva diversa. Lei sembrava a tutti colpevole e nessuno si affannò particolarmente a cercare delle ipotesi alternative.

    Perché io invece la ritengo innocente? E’ difficile da spiegare. Ci proverò nei prossimi giorni.

    Rileggendo il mio racconto e confrontandolo con gli appunti, mi sono reso conto che ho dimenticato l’altro giorno di trascrivere questo pezzo della mia intervista alla Miccoli.

    Che ha provato signora Miccoli quando ha visto suo marito morto? Le chiedo mentre la fisso. Appare così sicura di sé ora. Così diversa da solo pochi giorni fa quando ci vedemmo per la prima volta. E’ calma, ma anche dura. Non sono certo sia la parola più adatta, ma non me ne viene una migliore. Il carcere l’ha resa così immagino. Ha uno sguardo impenetrabile. Non sorride. Verrebbe da dire che non conosca nemmeno il sorriso.

    Tredici anni fa era una bella giovane donna. Ho ancora in mente le foto. Alta, slanciata, un bel fisico. Occhi azzurri e capelli lunghi e mori. Un sorriso ironico. Uno sguardo solare. Sono foto ovviamente di prima di quella sera.

    Ora il sorriso ironico ha lasciato il posto ad uno sguardo sprezzante. Forse anche cattivo. Ma è sempre bella. Fisicamente in forma. Sul viso qualche segno del tempo trascorso. Ma è sempre lei.

    Credo mi sia mancato il sangue al cervello. Un senso di irrealtà. Come fosse un brutto sogno. Mi sembrava di osservare la scena da fuori del mio corpo e che per questo non mi fosse possibile muovere le gambe né articolare la voce. Mi sono pure chiesta, per un attimo credo, se fossi morta io e mio marito fosse in piedi ad osservarmi o viceversa.

    E che spiegazione si è data quando è tornata in sé? Della morte intendo.

    Ho dato per scontato che fosse caduto. Prima delle scale sul pianerottolo c’è un parapetto. Sufficiente per proteggere una persona, ma magari al buio, di notte, uno si alza in stato di semi-coscienza e..

    Perché quando l’hanno portata in questura lei si è messa a dire ‘sono stata io, sono stata io’?

    Questo non l’ho mai detto. Non dia credito alla TV. Quelli sposano una causa e ci costruiscono sopra un romanzo.

    Esattamente quello che sto cercando di fare io, meglio non dirlo però!

    E cos’è che ha detto invece a riguardo?

    Il fatto è che mio marito era fortemente contrario a quella casa. In generale diceva che i due piani sono pericolosi, per via delle scale, di notte.. Ma io avevo insistito.

    E così quando lei ha pensato che fosse caduto di notte proprio come lui aveva paventato..

    Mi sono sentita in colpa e ho detto ‘è tutta colpa mia’. Chi se l’aspettava che mi avrebbero accusata di omicidio? Non intendevo certo dire che l’avevo ammazzato.

    La solita voce spiritosa nel mio cervello mi suggerisce un altro post-it sul frigo: se sei vicino alla polizia e ad un cadavere mai frasi con dentro ‘colpa mia’, ‘stato io’, ‘se non fosse stato per me’..

    Domani avrò la possibilità di visionare il video dell’interrogatorio. L’ho chiesto all’avvocato e lui mi ha detto che non c’era problema, potevo passare da lui. Ha lo studio a Malterna. E’ un amico di famiglia.

    Passi pure da me per le dieci. Mi ha detto.

    Ancora non riesco a crederci! Si fidano tutti di me. Com’è possibile? Devo sfruttare il momento e scoprire qualcosa prima che le cosse si mettano meno bene.

    6 Maggio

    Signora Miccoli che è successo? chiede un signore in borghese. Un ispettore. Esistono davvero gli ispettori? Lui comunque è uno che fa le domande. Sono in due. Saletta asettica. Non certo come quelle dei film americani, ma una sua discreta imitazione diciamo.

    Non ne ho idea. Io mi sono svegliata. Mi hanno svegliato i poliziotti. Sono scesa e poi l’ho scoperto.

    Stanotte non ha sentito nulla? Uno dei due fuma. Si può fumare? Non mi sembra. Perché la Miccoli non glielo fa notare? ‘Se non la smette chiamo la polizia’ potrebbe dire. Non fa ridere. Ma quella voce dentro di me continua a distrarmi con queste sciocchezze.

    No. Dormivo profondamente.

    Intende dire che lei ha il sonno pesante oppure c’era qualche motivo speciale per dormire più profondamente del solito?

    No, no. Niente di speciale. Io dormivo normalmente. Siamo sinceri: la Miccoli qui sembra, come dire, composta. Certo non euforica come se avesse vinto qualche cento al gratta e

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