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La Fabbrica Dell'Orfano
La Fabbrica Dell'Orfano
La Fabbrica Dell'Orfano
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La Fabbrica Dell'Orfano

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Descrizione del libro:

Una storia fantastica ricca di atmosfera che inizia con ventitré orfani geneticamente superiori cresciuti nell’Orfanotrofio Pedemont di Chicago per diventare delle eccellenti spie e che si conclude con un assassinio politico nella giungla amazzonica.

La Fattoria dell’Orfano è un romanzo di spionaggio, il libro due de La Trilogia dell’Orfano e il prequel de Il Nono Orfano. Partecipate a un altro frenetico viaggio con il nono orfano che evade dall’orfanotrofio clandestino che conosce come la sua casa e fugge attraverso l’America.

Alla fine degli anni ‘70, a Chicago, Illinois, la segreta Omega Agncy inizia il Progetto Pedemont - un esperimento radicale, che utilizza tecnologie di ingegneria genetica - per creare ventitré bambini orfani, con il piano di trasformarli negli assassini più efficaci del mondo.

Uno dei bambini prodigi si ribella: conosci Numero Nove, l’orfano con una mente propria.

Nel 1998, quando Nove raggiunge l'età adulta e si diploma con lode presso l'Orfanotrofio Pedemont, è già un esperto delle mortali arti dello spionaggio. I suoi maestri dell’Omega gli ordinano di assassinare un superstite della tragedia di Jonestown nella foresta amazzonica della Guyana, Nove è costretto ad attingere a tutta il suo addestramento solo per rimanere in vita.


 

LanguageItaliano
Release dateJan 24, 2018
ISBN9781507169605
La Fabbrica Dell'Orfano

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    La Fabbrica Dell'Orfano - James Morcan

    Prologo

    Un senzatetto canticchiava tra sé stonato mentre si scaldava le mani ossute davanti a un falò che aveva acceso poco prima in un bidone annerito dai molti fuochi, certamente molti di più di quelli che lui o qualunque dei suoi compagni di strada potesse ricordare. Smise di canticchiare quando, attraverso la trafficata strada principale, un artista di strada dalla voce ghiaiosa, cominciò a recitare una poesia:

    Tempestosa, aitante, rissosa, tuonò l’artista. "Città delle spalle larghe." Stava recitando versi dalle opere del famoso poeta Carl Sandburg. La poesia si intitolava, ovviamente, Chicago. Venite a mostrarmi un’altra città che a testa alta canti così fiera di essere viva e rozza e forte e astuta.

    L’artista, un veterano del Vietnam con i capelli lunghi, il cui unico riconoscimento al suo passato militare era una medaglia al servizio VSM che ancora indossava con orgoglio, guardò il vecchio senzatetto che gli stava davanti.

    Il vagabondo si immaginò che l’altro gli sorridesse, anche se non poteva esserne sicuro nella fioca luce della sera. Nonostante ciò gli restituì un sorriso sdentato.

    Ben presto al vecchio si unirono una mezza dozzina di compagni di strada; erano tutti senzatetto come lui, apparvero dall'ombra come fantasmi trasandati, in parte attratti dal calore del fuoco e in parte dall'artista. Ascoltarono attentamente le parole che uscivano senza sforzo dalla bocca dell’uomo. Le parole dipingevano immagini così vivide nelle loro menti come se stessero guardando un caleidoscopio della loro gioventù.

    Sotto il fumo, la bocca coperta di polvere, ridere con denti bianchi, continuò. Sotto il peso terribile del destino ridere come ride un giovane uomo.

    Diversi passanti si fermarono ad ascoltare, ma nessuno lasciò una moneta nel cappello ai piedi dell’artista. Alla fine, terminata la recita un dirigente lanciò un quarto di dollaro nel cappello senza rallentare il passo. Incoraggiato, l’artista si lanciò nel declamare un’altra poesia di Sandburg.

    Ascoltando l’uomo che recitava altri versi sulla sua amata Wind City, Città Ventosa, il vecchio senzatetto non poté fare a meno di notare l’ironia: in quella notte a Chicago non tirava un filo di vento.

    I genitori lo avevano sempre rassicurato che il fuorviante nomignolo della città non aveva nulla a che vedere con il tempo. La madre aveva insistito che il nome Wind City veniva dai discorsi prolissi dei politici cittadini del diciannovesimo secolo; mentre il padre affermava che il nomignolo era stato maliziosamente dato dai newyorkesi competitivi nel tentativo di vincere l’Esposizione Universale del 1893.

    Per aumentare le contraddizioni, pur essendo febbraio, era una serata invernale insolitamente mite. In questa occasione i vagabondi si erano riuniti attorno al falò per scaldarsi le mani più per abitudine che per necessità.

    Le strade di Chicago erano trafficate e l’umore in centro era abbastanza ottimista. Il presidente Jimmy Carter aveva in programma di visitare la città e l’Illinois il giorno seguente. Si era sparsa la voce: il presidente presto sarebbe stato qui e fosse venuto giù il mondo avrebbe ricevuto un regale benvenuto in Illinois.

    La gente si occupava dei propri affari, si affrettava verso casa dopo una lunga giornata di lavoro o usciva per assaporare la vita notturna della città, ma nessuno era lontanamente consapevole dell’abominevole esperimento in stile nazista che si stava svolgendo proprio sotto i loro nasi.

    Nonostante il costo dell’esperimento di settantacinque milioni di dollari, solo pochi eletti ne erano a conoscenza. Quei pochi non comprendevano i sindaci o i politici degli stati; a livello federale, non ne era a conoscenza neanche il presidente.

    L’esperimento aveva luogo in un laboratorio in uno scantinato nascosto di un magazzino ristrutturato a pochi passi da North Michigan Avenue. Sette donne a vari stadi di gravidanza erano in un laboratorio che fungeva da ospedale di fortuna.

    Come in un incubo orwelliano, le donne partorirono come degli orologi, quasi all’unisono.

    Piccoli team di dottori e genetisti con camici bianchi assistevano le donne. Uno specialista induceva il travaglio. In un angolo lontano del laboratorio, due uomini in giacca e cravatta osservavano trepidanti.

    Il numeroso personale presente era tutto alle dipendenze dell’Omega Agency, un gruppo di recente formazione e altamente segreto, che un giorno sarebbe diventata l’organizzazione ombra più potente del mondo.

    A supervisionare l’inquietante esperimento era proprio il Dottor Frankenstein dell’Omega, meglio conosciuto come il dottor Pedemont, brillante scienziato biomedico responsabile della scienza radicale dietro a tutto ciò.

    Durante gli ultimi anni, con l’aiuto del suo team di genetisti, il dottor Pedemont aveva scrupolosamente selezionato geni da migliaia di donazioni di sperma combinati con i geni del sesso femminile. Le donazioni provenivano da un altro esperimento medico chiamato la Genius Sperm Bank, la Banca dello Sperma del Genio, fondata più di dieci anni prima, con lo scopo di innalzare il livello di educazione di gente super intelligente. La banca era stracolma di donazioni di sperma avute da molti degli uomini più intelligenti del mondo.

    Beneficiando degli sforzi di alcuni dei migliori agenti dell’Omega, il dottor Pedemont aveva illegalmente ottenuto centinaia di campioni dalla Genius Sperm Bank. Poi, prendendo il meglio dalle donazioni, aveva inseminato artificialmente le molte donne che adesso erano sul punto di partorire. Questo significava che ogni bambino che stava per nascere aveva una madre e numerosi padri.

    La legalità dell’intera operazione non preoccupava l’Omega, sebbene ancora agli inizi l’agenzia era già al di sopra della legge.

    Il nervoso dottor Pedemont e tre genetisti si occuparono di una futura mamma, una giovane dai capelli rossi, che era entrata nella parte finale del travaglio. I due uomini in giacca e cravatta osservavano da lontano ansiosi, mentre i genetisti usavano attrezzature tecnologiche per monitorare il parto.

    La donna dai capelli rossi partorì due gemelle nate a sei minuti l’una dall’altra. Il dottor Pedemont prese la prima gemella, dopo aver tagliato il cordone ombelicale la poggiò su una bilancia. Numero Cinque, annunciò. Nata alle 19:43, peso due chili e settecentottanta grammi.

    Uno dei genetisti registrò i risultati del dottore su un file nominato Numero Cinque, purtroppo questo sarebbe stato quanto di più vicino la ragazza avrebbe avuto come nome.

    Il dottor Pedemont dette la neonata a un altro genetista poi afferrò l’altra gemella e la pesò. Numero Sei, nata alle 19:49, peso tre chili e duecentoventi grammi

    Ovviamente l’arrivo di gemelli non era accidentale. Il loro arrivo era stato pianificato, come qualunque altra cosa che accadesse all’Omega Agency.

    Il bambino che nacque dopo era stato partorito da una donna afro-americana. Era un maschietto di evidenti discendenze africane. Però aveva un colore di pelle molto più chiaro di quello della madre, che indicava che la maggior parte, se non tutto, lo sperma inseminato alla donna proveniva da uomini caucasici.

    Numero Sette, annunciò il dottor Pedemont. Nato alle 19:56, peso esattamente due chili e duecentosessantasette grammi. Nato prematuro di alcune settimane, ma perfettamente in salute.

    Visto che Numero Sette era nato prematuro, un genetista immediatamente lo mise in un’incubatrice. Numero Otto, nata un quarto d’ora più tardi, era una bambina sana di origini orientali.

    Quando nacque Numero Nove, la madre, una bellissima donna con i capelli neri e straordinari occhi verdi, allungò le braccia verso il dottor Pedemont per indicargli il desiderio di voler tenere in braccio il neonato che aveva appena partorito. Il dottore guardò in giro con aria interrogativa i due uomini misteriosi che erano rimasti in un angolo. Dopo aver discusso tra di loro, il più anziano dei due annuì.

    Il dottor Pedemont guardò attentamente la partoriente: Sai che non lo rivedrai più, Annette?

    Annette annuì con aria sconsolata, capiva in pieno le conseguenze del suo accordo con l’Omega Agency. Controvoglia il dottore le mise Numero Nove tra le braccia. Il neonato allungò una manina e prese il rubino che pendeva da una collana d’argento che indossava.

    Sebastian, sussurrò Annette tra le lacrime guardando negli occhi il suo bambino. Ti chiamerò Sebastian, come mio padre.

    Ansioso di evitare ulteriori legami tra madre e figlio, il dottor Pedemont prese Numero Nove dalle braccia di Annette e lo porse a un genetista che, senza cerimonie, pungolò il bimbo con un ago, che ovviamente cominciò a piangere. La madre guardava la scena rassegnata.

    Più tardi quella notte, nacquero altri due maschietti e una femminuccia, che come Numero Nove erano tutti caucasici.

    Non appena Numero Dodici, l’ultimo nato, fu pesato i due uomini in giacca e cravatta si avvicinarono al dottor Pedemont ora sollevato, anche loro sembravano rilassati. L’uomo più anziano, un individuo basso, tarchiato, azzimato e con la pelle pesantemente butterata, prese la mano del medico e la strinse con fermezza. Era Andrew Naylor, il duro direttore conosciuto per il suo brutto temperamento così come per il suo occhio strabico, che non riusciva mai a concentrarsi sulla persona a cui si rivolgeva in quel momento.

    Congratulazioni, dottore, borbottò Naylor senza neanche l’ombra di un sorriso.

    Grazie, rispose raggiante il dottore, evitando il contatto visivo con il direttore poiché trovava l’occhio storto altamente sconcertante.

    Il compagno di Naylor, l’agente speciale Tommy Knetbridge, dette una pacca sulla spalla del dottore per congratularsi. Ben fatto, disse Kentbridge. Alto e di una bellezza selvaggia, fisicamente l’esatto opposto di Naylor, l’agente speciale era una delle stelle nascenti dell’Omega.

    Come operativo sul campo aveva raggiunto dei primati che molti agenti con il doppio dei suoi anni sarebbero stati orgogliosi di avere. Sebbene poco più che ventenne, Kentbridge era stato assegnato alla gestione del prodotto di questo esperimento dell’agenzia. Volente o nolente, sarebbe stato la cosa più vicina a un padre che nessuno di loro avrebbe mai avuto.

    Esperimento a lungo termine, di cui nessuno sapeva con esattezza quale sarebbe stato il risultato, era conosciuto nell’ambiente dell’Omega come Il Progetto Pedemont...

    1

    Lo squallido quartiere di Riverdale, nella parte dì più meridionale di Chicago, all’alba era come una città fantasma. I rifiuti erano disseminati per le strade trascurate e i cortili disordinati delle case fiancheggiavano quelle stesse strade.

    Prati, buche per le lettere e tetti erano stati rivestiti da un pesante gelo e in quel giorno d’inverno del gennaio 1992 c’era un’aria glaciale.

    Una rognosa gatta randagia inseguiva una pagina strappata da un giornale come se fosse portata alla deriva da una leggera brezza soffiata dal vicino Little Calumet River. Il felino si fermò quando il suo acuto udito colse il debole suono di un martellio costante, le orecchie agitate in direzione del rumore che aumentava. Si accucciò e cominciò a soffiare mentre un folto gruppo di corridori si avvicinava.

    I corridori erano bambini, in un età compresa tra i diedi e i dodici anni. Erano guidati da un uomo alto e in forma, che indossava una tuta da ginnastica nera e delle scarpe bianche. Tutti e ventitré i bambini indossavano una maglietta, pantaloncini e scarpe da corsa. Il loro respiro era visibile al freddo, la condensa sospesa nell’aria come una nebbia. Si muovevano come degli atleti, coprendo il terreno nell’efficace andatura dei fondisti.

    La gatta, continuando a soffiare verso la minaccia, ora a cinquanta metri e in rapido avvicinamento, saltò su un albero. Ogni corridore osservò la sua sparizione, proprio come osservavano qualunque altra cosa li circondasse.

    Una macchina della polizia, guidata da una poliziotta di colore, andava verso di loro e l’autista rallentò per salutare, dal finestrino dell’auto, il capo del gruppo. Nonostante fosse presto, fece poco caso ai ragazzi che immaginò fossero membri di un circolo sportivo o studenti di una delle varie scuole che erano nelle vicinanze.

    Fu solo dopo che li ebbe superati che notò che sebbene l’uomo fosse molto sudato, nessuno dei bambini lo era. Li osservò attraverso lo specchietto retrovisore mentre rimpicciolivano. Per abitudine e come da addestramento della polizia, li contò: quindici maschi e otto femmine.

    Se soltanto avesse immaginato quanto unici erano quei bambini, la poliziotta gli avrebbe prestato più attenzione.

    In realtà erano i prodotti dell’Orfanotrofio Pedemont a Riverdale, una struttura dell’Omega Agency e l’uomo che seguivano era il loro maestro.

    L’agente speciale dell’Omega, Tommy Kentbridge, era più che un maestro; era il loro mentore, protettore e tutore. All’età di trentaquattro anni, con un’altezza di un metro e ottantacinque e un fisico muscoloso, aveva la sicurezza e il comportamento di uno molto più vecchio. I suoi capi dell’Omega avevano riconosciuto le sue qualità di leadership anni addietro e non avevano esitato e affidargli gli orfani.

    La maggior parte degli orfani era caucasica, mentre il resto era rappresentativo di varie etnie che comprendevano: i nativi americani, gli asiatici, gli afro-americani, i latini, i polinesiani con diverse razze miste. Solo diciotto mesi separavano il più grande dal più piccolo.

    Kentbridge era seguito subito dietro dal nono orfano, un ragazzino di dodici anni con gli occhi verdi e i capelli neri, che al collo portava una collana d’argento con un rubino pendente. La brillante pietra rossa era calda contro il petto mentre correva.

    Kentbridge allungò il passo, facendo uno sprint verso l’isolato finale. I giovani allievi stettero tutti al passo. Avevano tutti il fiato corto, ma continuarono a correre fino a quando non raggiunsero un edificio cadente in una strada di periferia a circa un chilometro e mezzo dal Little Calumet River.

    L’agente dell’Omega fermò il cronometro e controllò il tempo con aria critica: Non male, annunciò con scarso entusiasmo. I bambini sapevano per esperienza che ce ne voleva per impressionare il maestro e ancora di più per sentire elogi arrivare dalla sua bocca.

    Gli orfani gironzolavano, facendo stretching fuori dall’edificio fatiscente; ufficialmente conosciuto come Orfanotrofio Pedemont, il palazzo di quattro piani era registrato al catasto federale e statale come casa di accoglienza e orfanotrofio. Almeno, questa era la facciata, oltre la quale c’era una struttura segreta dell’Omega usata per ospitare e istruire i suoi bambini prodigio.

    Nove percepì un familiare senso di paura mentre, insieme agli altri orfani, seguiva Kentbridge su per le scale che conducevano all’ingresso sul davanti. Casa. Scosse la testa disgustato. Più simile a una prigione. Guardò un cartello sospeso sul muro d’ingresso, era il disegno di una torcia, l’emblema dell’orfanotrofio. Sotto, incisa in lettere d’oro c’era una frase in latino: Fax Mentis Incendium Gloriae. Poiché conosceva bene il latino il ragazzino sapeva che il significato della frase era: La passione per la gloria è la torcia per la mente.

    #

    Più tardi quella mattina, i bambini praticarono arti marziali in un’austera palestra, che occupava l’intero secondo piano dell’orfanotrofio. Combatterono a coppie, a eccezione di due gemelle dai capelli rossi, Numero Cinque e Numero Sei che si allenarono contro Numero Uno, un ragazzo alto nativo americano.

    Lo scopo di questa sessione era per ogni orfano mettere a tappeto il proprio avversario. Fortunatamente per quelli che erano stati atterrati o che stavano per esserlo, il pavimento era coperto di materassini imbottiti.

    Camminando come un leone in gabbia, Kentbridge controllava i suoi allievi da vicino, in cerca del minimo errore. Restate concentrati, ragazzi! urlò. Questa era un’esercitazione che prendeva sul serio e, sebbene non lo ammettesse neanche con se stesso, provava sempre una certa soddisfazione quando gli orfani davano mostra delle loro abilità con le arti marziali.

    Più precisamente, i ragazzi erano impegnati nel Teleiotes, un’arte marziale mortale che l’agente speciale aveva personalmente sviluppato e insegnato loro sin dal quando avevano iniziato a camminare. Era una combinazione di varie discipline e comprendeva il kung-fu, lo jujitsu, il karate e il wresting e secondo il maestro il Teleiotes era il massimo stile di combattimento. Sapeva che avrebbe fornito ai suoi orfani le capcità per sopravvivere sul campo e per uccidere quando necessario, qualcosa che sicuramente avrebbero prima o poi fatto.

    Kentbridge lanciò un’occhiata all’angolo della palestra dove due dei suoi compagni dell’Omega sedevano impegnati in una discussione seria. Marcia Wilson, una giovane agente afro-americana e il dottor Pedemont, lo scienziato biomedico che aveva creato gli orfani, conversavano mentre guardavano i progressi dei giovani allievi. L’agente sapeva che non erano lì per caso; giorno e notte, almeno due adulti dell’Omega erano sempre di turno all’orfanotrofio. Per mantenere una copertura convincente, gli adulti si vestivano e si comportavano come se fossero dei regolari assistenti degli orfani.

    Curioso di sapere quale fosse l’ultimo gossip tra i suoi colleghi, Kentbridge si avvicinò alla coppia sperando di origliare, ma con l’eco dei brontolii e grida delle lotte nella palestra non riuscì a sentire nulla.

    Rigirandosi verso gli orfani, notò un errore, Uno, il primo nato e il ragazzino più grande, stava lottando per atterrare le gemelle Cinque e Sei. Sebbene fosse più grande e forte, le gemelle resistevano a tutti i suoi attacchi. Kentbridge emise un suono acuto dal fischietto che aveva appeso al collo. Gli orfani immediatamente cessarono le loro attività.

    Numero Uno trasalì mentre il capo gli si avvicinava. Trattando il ragazzo come se fosse un uomo adulto, l’agente abilmente gli diede un calcio dal basso alle gambe; Uno cadde pesantemente di schiena sui materassini.

    Usate sempre il peso dell’avversario a vostro vantaggio, gridò Kentbridge affinché tutti gli orfani lo sentissero. Soddisfatto di aver detto la sua, fischiò di nuovo e le attività ripresero.

    Cercando di nascondere l’imbarazzo, di aver fallito miseramente, Uno si alzò in piedi.

    Cercò di fare una prova migliore. Imparata la lezione, Uno immediatamente atterrò Sei è provò a fare lo stesso con Cinque.

    Lì vicino Nove era abbinato con Numero Diciassette, una ragazzina bionda con occhi blu ghiaccio. Sebbene avesse sedici mesi meno di Nove, Diciassette era ben lontana dall’essere intimidita. Le era stato insegnato a non dar mai credito all’età, dimensioni o sesso. Kentbridge aveva inculcato questo principio in tutti i suoi bambini ed era una lezione che l’orfana aveva preso a cuore poiché non aveva mai voluto essere superata da un maschio, e soprattutto non da Nove! Si lanciò su Nove che fece un uso intelligente di un pilastro di cemento, interponendolo fra sé e l’avversaria per evitare i suoi colpi.

    Arrabbiata, la ragazza afferrò una scopa che era appoggiata al pilastro, tirando il manico lo usò come un’arma, agitandolo verso Nove che continuava a fare buon uso del pilastro e rimaneva illeso.

    Usare attrezzi come pilastri o manici di scopa era perfettamente regolare. Come per il Ninjitsu, anche il Teleiotes incoraggiava i combattenti a fare uso totale di qualunque oggetto che poteva diventare un’arma. Per questa ragione Kentbridge, che adesso era completamente concentrato su Nove e Diciassette, non intervenne. Solo se la ragazza avesse rotto il manico in due e tentato di infilzare il suo avversario, allora si sarebbe intromesso.

    L’agente notò la ferocia dell’attacco della ragazzina e le abilità evasive di Nove. Da tempo li aveva dichiarati come due dei suoi studenti più bravi e in questa occasione facevano di tutto per non fargli credere che si fosse sbagliato nel suo giudizio.

    Diciassette agitò il bastone davanti a Nove che si abbassò e l’arma colpì il pilastro spezzandosi in due. La metà che la ragazza teneva aveva la parte finale tremendamente affilata. Totalmente consapevole di avere ora un’arma mortale tra le mani, guardò impassibile il suo avversario.

    2

    Per una frazione di secondo, Nove credette di vedere l’istinto omicida negli occhi di Diciassette, che furtivamente si guardò attorno per vedere se Kentbridge li stesse osservando. Delusa che il maestro li stesse tenendo d’occhio, immediatamente lanciò da una parte il manico di scopa e ricominciò il combattimento contro Nove che non poteva fare a meno di chiedersi quale sarebbe stato il risultato se il loro maestro avesse guardato da un’altra parte.

    Kentbridge stava pensando la stessa cosa. Sapeva che non c’era simpatia tra i due e mentalmente decise di tenerli d’occhio.

    Il capo del Progetto Pedemont rivolse la sua attenzione agli altri orfani. Le assi del pavimento cigolavano mentre camminava in circolo, controllando la palestra a trecentosessanta gradi. Si fermò quando si accorse che il più giovane aveva commesso un errore banale.

    Ventitré, un ragazzino caucasico, aveva fallito la difesa di un semplice calcio da Venti, una ragazzina di colore. Kentbridge si avvicinò ai due e voltò Ventitré verso di sé, poi cominciò a dargli dei calci al torace, non con cattiveria, ma forti abbastanza da farlo gemere ogni volta che sentiva i colpi.

    Venti poteva solo guardare il suo compagno orfano che veniva picchiato. Si sentì dispiaciuta per lui e poteva vedere che delle lacrime cominciavano a bagnare i suoi occhi blu mentre il capo continuava a dargli calci. Gli altri orfani notarono a malapena la scena rimanendo impegnati ognuno nel proprio duello. Tutti l’avevano già vista prima e ognuno, di tanto in tanto, era stato il bersaglio dell’ira del maestro.

    Andiamo, figliolo! gridò Kentbridge mentre sollecitava Ventitré a difendersi correttamente.

    Senza fiato e dolorante, Ventitré cominciava a sentirsi affranto mentre i calci continuavano a piovergli addosso da ogni parte. Sapeva cosa doveva fare per difendersi, tale era il vasto addestramento che lui e gli altri orfani avevano ricevuto, ma gli mancava la sicurezza per mettere in pratica quello che aveva imparato.

    Kenbridge non era contrario a spingere gli orfani al limite e a stressarli in questo modo. Credeva fermamente nel detto che la pressione crea i diamanti. Faccio questo per il tuo bene, disse a Ventitré. Un giorno sarai un operativo sul campo e questo vorrà dire vivere o morire. Dovrai attingere a ogni minima risorsa solo per sopravvivere. L’agente speciale cambiò il suo bersaglio: dal torace alla testa del ragazzo.

    Ventitré vide il colpo arrivare e alla fine utilizzò la giusta tecnica difensiva per bloccarlo, fermare la scarpa del suo maestro prima che gli colpisse l’orecchio destro.

    Giusto, Ventitré! disse Kentbridge. C’era più che una debole approvazione nel tono. Ricorda, per ogni problema, c’è sempre una soluzione. Scompigliò i capelli del ragazzo poi continuò a passeggiare per la palestra per osservare gli altri orfani in azione.

    Il direttore dell’Omega Andrew Naylor entrò in quel momento. Aveva l’abitudine di arrivare senza essere annunciato, Knetbridge immaginava fosse intenzionale per tenere lui e i suoi colleghi all’erta. Il basso e tarchiato direttore indossava un abito alla moda, portava spesso gli occhiali scuri anche quando era all’interno, per nascondere lo strabismo, ma non potevano celare il volto butterato o il piglio acido. Eppure nonostante le inadeguatezze fisiche, Naylor non dimostrava il minimo imbarazzo. Fece un brusco cenno a Kentbridge che fece un altro fischio facendo cessare di nuovo le attività e gli orfani, accorgendosi di Naylor, gli fecero tutti insieme un inchino.  Il direttore agitò una mano altezzoso e si unì al dottor Pedemont e a Marcia Wilson, all’angolo della palestra.

    Come Cesare, fece segno a Kentbridge come a dire, che i giochi abbiano inizio.

    Kentbridge fischiò ancora e gli orfani ripresero i loro combattimenti.

    L’agente speciale mise nuovamente in dubbio il suo ruolo nell’agenzia, fare da balia a un branco di poppanti, come chiamava affettuosamente i suoi allievi, non era mai stato parte del suo piano generale. Era stato destinato a onori più grandi e non molto tempo prima.

    Eppure sono qui a gestire un dannatissimo asilo!

    Nonostante tutto, era un professionista, e come tale aveva deciso fin dall'inizio che avrebbe svolto il suo ruolo al meglio delle sue capacità.

    Inoltre, nessuno potrebbe fare questo lavoro bene quanto me.

    Naylor, per primo, avrebbe sicuramente concordato con Kentbridge che era stato in grado di leggere nella mente del suo subordinato. L’agente speciale era senza dubbio l’uomo perfetto per questo lavoro. Toglierlo dal campo per metterlo nel ruolo attuale non era stata una decisione facile per il direttore; dopo tutto a quel tempo Kentbridge era diventato il suo migliore operativo. Però l’agenzia aveva un lavoro più importante per lui, anche se al momento non riusciva a vederlo, ma fortunatamente Naylor riusciva a vedere il quadro generale.

    Guardandosi attorno nella palestra, il direttore non fu minimamente turbato che avesse visto giorni migliori e aveva chiaramente bisogno di una rinfrescata. Lo stesso poteva essere detto dell’edificio stesso e, per la verità, dell’intero quartiere. Ripensando alla fine degli anni settanta, quando aveva acquistato il palazzo a nome di un’organizzazione benefica privata, Naylor ricordò che avrebbe potuto facilmente scegliere delle strutture più eleganti e in luoghi più attraenti per l’Orfanotrofio Pedemont, però aveva voluto che i suoi orfani sviluppassero certe qualità: le qualità degli uomini comuni, le aveva definite.

    Riverdale faceva perfettamente al caso di Naylor; era in un quartiere a basso reddito con una predominanza di popolazione afroamericana e ispanica; era il luogo ideale per il progetto dell’Omega Agency affinché gli orfani avessero le capacità per mischiarsi con chiunque e assimilare qualsiasi cultura nel mondo.

    Forza, veloci, gente! gridò Kentbridge dall’altro lato della palestra, riportando Naylor al presente.

    Gli orfani aumentarono i loro sforzi per atterrare i loro avversari. Diciassette era in movimento continuo poiché puntava a un calcio circolare alla testa di Nove, che facilmente evitò.

    Naylor osservava Nove, sapendo che c’era qualcosa nel ragazzino dagli occhi verdi che lo differenziava dagli altri. Si mosse verso Kentbridge, avvicinandolo.

    Nove è troppo perfetto, disse il direttore osservando come il ragazzo respingeva l’ultimo attacco di Diciassette.

    L’agente speciale seguì lo sguardo del suo superiore. È davvero un problema, signore? prima che Naylor potesse rispondere, Kentbridge guardò il cronometro e poi urlò, Due minuti! Fateli valere. Gli orfani reagirono di conseguenza.

    Naylor si tolse gli occhiali da sole e scrutò il suo subordinato. Come al solito quando il suo capo cercava di osservarlo, Kentbridge doveva fare una grande fatica per evitare di scoppiargli a ridere in faccia; inevitabilmente, l’occhio storto di Naylor finiva per fissare un punto a diversi metri di distanza da chiunque stesse guardando in quel momento. Mentre il direttore si innervosiva, l’agente speciale lo trovava divertente.

    Ho sentito dire che la sua genialità sta portando delle gelosie, disse Naylor parlando di Nove e rivolgendo lo sguardo a Marcia Wilson, o almeno nella sua direzione sbagliando di un paio di metri. Marcia finse di essere preoccupata guardando gli orfani.

    Leggendo tra le righe, l’agente speciale immaginò che la sua giovane collega dovesse aver detto qualcosa a Naylor in privato visto che il direttore non conosceva così a fondo i bambini. Kentbridge dentro di sé maledisse Marcia. Odiava dover spiegare i suoi metodi. Dopo tutto, lui conosceva gli orfani meglio di chiunque altro, incluso il loro creatore, il dottor Pedemont. Allora, cosa vorrebbe che faccia? scattò Kentbridge. Questo non è il posto in cui premiamo la mediocrità, giusto signore?

    Incapace di resistere, Marcia li interruppe. Nove li sta dividendo. È il migliore in tutto. Gli altri cominciano a sentirsi inadeguati.

    Kentbridge non la degnò di uno sguardo; rispondeva a Naylor e a nessun altro. Controllando di nuovo il cronometro. Ancora un minuto!

    Gli adulti guardavano gli orfani mentre combattevano, senza regole. Come a un segnale, Nove quasi impercettibilmente passò dalla difesa all’attacco. Spostò le gambe di Diciassette e poi la bloccò al tappeto. Era la stessa identica mossa che Kentbridge aveva dimostrato pochi minuti prima.

    Naylor e Marcia guardarono l’agente speciale come a dire Te l’avevo detto.

    Diciassette cercò invano di liberarsi dalla morsa di ferro del ragazzo. Furente, lo prese a parolacce, gli sputò in faccia e tentò di mordergli le mani.

    Kentbridge fischiò per annunciare la fine della sessione. Nove liberò la sua avversaria e si pulì il viso. Diciassette lo fissava, l’odio negli occhi, mentre l’orfano si avvicinava alla finestra più vicina per allontanarsi da lei.

    Guardando in lontananza il Little Calumet River, Nove sentì che gli occhi di Diciassette non erano gli unici a osservarlo in quel momento. Sospettava che i supeiori dell’Omega lo stessero esaminando e con tutta probabilità, parlavano di lui.

    Naylor si alzò e si preparò per andarsene; girandosi verso Kentbridge, borbottò: Come dicevo, il ragazzino è troppo perfetto. Infilandosi gli occhiali da sole, guardò in direzione di Nove. Fai in modo che fallisca in qualche cosa e assicurati che tutti gli altri siano presenti.

    Kentbridge ammutolito poté solo guardare il direttore che si dirigeva verso l’uscita, seguito da vicino dal dottor Pedemont e da una compiaciuta Marcia Wilson.

    3

    Nove giocherellava impaziente con il rubino appeso alla collana e controllò l’orologio per la quinta volta in meno di cinque minuti. Era preoccupato sapendo che la notte si avvicinava. Dove diavolo è?

    In ginocchio nella casa sull’albero che Kentbridge aveva costruito per i bambini anni addietro, il ragazzino scrutò attraverso la stretta fessura nel muro mentre malinconicamente studiava un condominio distante oltre la recinzione sul retro dell’orfanotrofio.

    Era felice di avere la casa sull’albero tutta per sé. Ora che i suoi compagni erano, come lui, quasi tutti adolescenti, nessuno si scomodava più a salire sul vecchio platano. Però, apprezzava la solitudine che la casa sull’albero gli offriva; era uno dei pochi posti dove poteva sentirsi veramente solo.

    In realtà in questa occasione non era veramente solo; ai suoi piedi c’era uno spitz giapponese anche lui residente all’Orfanotrofio Pedemont che gli mordicchiava uno degli stivali mentre il ragazzino pensieroso accarezzava il manto bianco.

    Tu sei il mio unico amico Cavell.

    Come se ascoltasse i pensieri di Nove, Cavell smise di mangiucchiare lo stivale e alzò lo sguardo negli occhi dell’orfano.

    Una luce dal vicino condominio catturò l’attenzione di Nove. Seduta a una finestra del secondo piano c’era la ragazza che stava aspettando. Osservando l’ignara ragazza, involontariamente trattenne il respiro.

    Sei bella come una dea.

    Chiaramente di origini mediterranee, sembrava essere nella prima adolescenza, al massimo uno o due anni più grande di Nove. Tuttavia aveva già l’atteggiamento di una donna. Indossava un abito blu a pois bianchi e i capelli corvini, che Nove sapeva essere lunghi fino alla vita, erano legati in uno chignon.

    Era accovacciato nella casa sull’albero in modo da non poter essere visto. Copiando il padrone anche Cavell si appiattì sul pavimento.

    Eccitato il ragazzino usava la fessura per spiare la ragazza dai capelli corvini ora seduta alla scrivania accanto alla finestra.

    Sebbene non si fossero mai incontrati, Nove sentiva di conoscerla bene. L’aveva vista per la prima volta, sempre dallo stesso posto di osservazione, alcune settimane prima quando lei e suo padre avevano traslocato nell’appartamento. Aveva anche imparato il suo nome avendo sentito il padre chiamarla: Helen.

    Da quel momento, più o meno al tramonto, Helen religiosamente si sedeva alla scrivania accanto alla finestra per fare i compiti. Quando possibile, Nove faceva in modo a quell’ora di essere nella casa sull’albero; alcune volte disegnava dei suoi ritratti, altre volte rimaneva ipnotizzato, fissandola a lungo senza battere ciglio.

    Era così assorto che per un momento si dimenticò del cannocchiale che aveva portato con sé e che ora giaceva sul pavimento di assi. Lo aveva preso in prestito dall’ufficio incustodito del dottor Pedemont. Ricordandosi all’improvviso del cannocchiale lo prese e lo portò al viso e mise a fuoco sull’oggetto del suo interesse, che immediatamente riempì la visuale.

    Sembrava molto concentrata sullo studio, distrattamente si morse il labbro inferiore mentre scriveva qualcosa.

    Adorava i suoi lineamenti esotici, le labbra piene, gli zigomi alti e la splendente pelle olivastra, ma quello che amava di più in lei erano gli occhi scuri, che ricordavano dei diamanti splendenti.

    L’altra cosa che affascinava Nove era il suo portamento apparentemente così sicuro che era facile scordarsi che non era ancora un’adulta. La postura, il modo in cui si vestiva e si muoveva, sembravano regale come se fosse una principessa di una monarchia europea.

    Però l’orfano sapeva che come residenti a Riverdale, Helen e il padre erano probabilmente dei poveri immigrati.

    Nessun altro sceglierebbe di vivere in questo schifo di quartiere a meno che di non avere un soldo.

    Continuando a stupirsi della bellezza di Helen, non poteva fare a meno di paragonarla alle sue compagne all’orfanotrofio. Sebbene alcune fossero senza dubbio belle, non avevano nulla a che vedere con Helen. Beh, forse, erano belle nel senso più stretto del termine; dopo tutto gli orfani avevano dei geni eccellenti e perciò si presupponeva che in loro fosse tutto perfetto, compresi i volti. Troppo perfetti, secondo Nove.

    D’altro canto, Helen aveva alcune imperfezioni: aveva, per esempio, i denti storti, ma questo la rendeva più attraente agli occhi dell’orfano. Il fatto di osservandola di nascosto ogni giorno gli aveva fatto capire che nelle imperfezioni c’era della bellezza.

    C’era anche un’aura di libertà e purezza che la circondava e che nessuno degli orfani, maschi o femmine, possedeva. Era incantato dell’innocente femminilità della ragazzina. Quanto avrebbe desiderato sedersi accanto a lei e aiutarla con lo studio, oppure tenerle una mano e perdersi dentro a quegli occhi scintillanti.

    Nove smise di sognare a occhi aperti quando Helen improvvisamente alzò lo sguardo dalla scrivania. Sembrò guardare direttamente dalla sua parte. Sentendosi colpevole  si abbassò ancora di più, anche Cavell seguendo le mosse del suo padrone si accucciò sul pavimento. Percependo il pericolo il cane ringhiò.

    Shhh. Nove accarezzò il cane per rassicurarlo. Lanciando un’occhiata dalla fessura, fu sollevato nel constatare che Helen non lo aveva visto. Era nuovamente assorta nei suoi compiti.

    Il sollievo del ragazzino non aveva solo a che vedere con il rimanere nascosto, ma non voleva far incuriosire la ragazza circa l’orfanotrofio sapendo che poteva metterla in pericolo.

    Nonostante tutto, una parte di lui desiderava che lo avesse visto. Voleva disperatamente che i loro occhi si fissassero così avrebbe potuto finalmente avere un legame con il mondo reale, ma sapeva che questo tipo di legame era altamente improbabile lo riempì di tristezza.

    #

    Kentbridge infilò la testa negli alloggi dell’orfanotrofio che occupavano tutto il primo piano dell’edificio. Fece un rapido conto per assicurarsi che tutti e ventitré i bambini fossero presenti e pronti per andare a dormire.

    Non appena videro il loro maestro, gli orfani si inginocchiarono accanto ai letti come se pregassero, ma invece recitavano all’unisono un mantra:

    Sono un Omegano e

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