Ogni cosa al suo posto
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About this ebook
Antonella, sua moglie, è una donna che vive alla continua ricerca della perfezione, pensando così di poter fuggire dalle proprie fragilità e dalla consapevolezza di un matrimonio che non la rende felice.
Alessio in una calda estate di sedici anni prima ha trovato in Giovanni l’amore, nel presente ne conserva solo l’amaro ricordo.
Una sera, il destino metterà Alessio in pericolo di vita e Giovanni davanti all’unica persona gli abbia mai fatto battere
davvero il cuore.
Il presente porterà ai tre protagonisti un nuovo stato di coscienza e la consapevolezza che il dolore possa essere il mezzo per rimettere ogni cosa al suo posto.
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Aggiornamento 20/04/2020
Fino al 3 Maggio, periodo in cui tutta la popolazione è soggetta a restrizioni per fronteggiare l'emergenza Coronavirus, "Ogni cosa al suo posto" sarà disponibile grauitamente nella versione ebook e a prezzo ridotto nel formato cartaceo. Superiamo le distanze con un libro!
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Book preview
Ogni cosa al suo posto - Dimitri Cocciuti
OGNI COSA
AL SUO POSTO
DIMITRI COCCIUTI
Ogni cosa al suo posto
Prima edizione: settembre 2017
Copyright © Dimitri Cocciuti
Proprietà letteraria riservata.
Ogni Cosa al Suo Posto
è un’opera depositata in SIAE.
Vietata la riproduzione, anche parziale, del testo, senza specifica autorizzazione.
www.ognicosaalsuoposto.it
info@ognicosaalsuoposto.it
Progetto grafico di copertina per la carta stampata: Dimitri Cocciuti
Progetto grafico e-book: Roberta Tiberia
Editing e correzione bozze: Romina Carboni
Foto in quarta di copertina: Simone Arrighi
Sommario
Prefazione
Un’altra estate
Non c’è me senza te
Dopo tanta nebbia
Le nostre differenze
Un’invincibile sicurezza
Caos calmo
Un senso
Tra cielo e mare
Espiazione
Settembre
Solo il cuore conta
La misura dell’amore
Postfazione
Ringraziamenti
A chi cerca il coraggio della verità.
A chi trova la forza di amare incondizionatamente.
A chi sceglie di mettere Ogni Cosa al Suo Posto.
Prefazione
Ci sono molte ragioni per leggere e amare il romanzo.
Per l'appassionata love story di Giovanni che dà corpo a un racconto epifanico: l'irrompere prepotente della verità dei sentimenti, che travolge e spazza via gli argini conformi di una vita inautentica.
Per le piccole irresistibili madeleine di cui è disseminato.
Chi appartiene ai dintorni della generazione X (ma anche i millennials apprezzeranno) si compiacerà di istantanee della propria giovinezza, le canzoni, le mode, i programmi tv, gli oggetti, i primi apparati tecnologici digitali di massa.
Ed è gustoso osservarne la trasformazione, fino a quello che siamo oggi.
Per l'imponente galleria di donne meravigliose.
Guardatele - Antonella, Viola, Marianna, Gina, le mamme, le nonne - mentre nutrono, assistono, provvedono, spiegano, dirigono, comprendono.
Forti, o costrette ad esserlo, per supplire alle debolezze maschili.
Per la tenerezza indulgente verso i suoi uomini: protagonisti, sì, al centro della narrazione, certo, ma piccoli, confusi, spaventati, fragili, assenti.
Fuori posto.
Fabrizio Battocchio
Direttore Responsabile Format e Factual RTI/Mediaset
Un’altra estate
Appena aprì il portone del palazzo, Giovanni pensò che la primavera era arrivata davvero. Poi raggiunse la macchina; un altro lungo turno di notte stava per iniziare.
Un anno prima aveva trovato impiego nel pronto soccorso dell’ospedale; un lavoro impegnativo, dai ritmi frenetici, un ottovolante di emozioni forti e una pazienza, che di default, doveva essere infinita.
Ma per lui tutto questo non era un problema, anzi, la passione che metteva in quello che faceva lo ripagava di tutti gli sforzi e di tutti i giorni passati a lavorare senza un attimo di tregua.
Del resto fare il dottore era sempre stato il suo sogno e l’emozione di quella fatidica telefonata di assunzione era sempre lì, impressa nella sua mente: «Buongiorno dottor Galvani, vorremmo convocarla per un colloquio».
In seguito a quella telefonata, aveva iniziato il percorso ospedaliero, uno dei momenti più stimolanti per lui, così abituato alla monotonia delle sue giornate spesso tutte uguali. Aveva cominciato prima in affiancamento, poi, nel giro di qualche mese, era riuscito a ottenere l’incarico in solitaria.
Il suo talento non era passato inosservato: tutti i colleghi ne apprezzavano la serietà e l’empatia verso i pazienti.
Sempre composto, impeccabile, in qualsiasi condizione o emergenza, Giovanni rappresentava l’affidabilità.
Per questo avevano deciso di inserirlo nell’organico del pronto soccorso, dove, quelle caratteristiche, ben si addicevano alle condizioni estreme che un reparto d’urgenza inevitabilmente portava con sé. Quella sera, come ogni giorno, dopo aver salutato sua moglie Antonella con un bacio veloce sulle labbra, si era messo in macchina, direzione lavoro.
Non c’erano nuvole in cielo, l’aria fredda dei mesi precedenti aveva lasciato spazio a un tepore che non dava dubbi sulla bella stagione che sarebbe arrivata.
Giovanni amava la primavera: la luce del giorno che sembrava non finire mai, l’odore dei gelsomini che invadeva le strade, i finestrini dell’auto finalmente abbassati, la gente che camminava tranquilla all’aperto per godersi il nuovo clima. Erano tutte sensazioni che lo facevano stare davvero bene, come se la primavera non fosse per lui solamente una stagione, ma più uno stato d’animo.
Parcheggiò, prese la borsa con il camice pulito, lo smartphone sul sedile del passeggero e si avviò.
Entrato in ospedale, salutò i ragazzi dell’accettazione e si diresse verso gli spogliatoi, nel mentre incrociò Antonio, il suo collega.
«Ehi, my friend, come stai? Pronto per la serata?».
Si salutavano sempre così, con quel ‘my friend’ all’inglese per affettuosa goliardia. Avevano fatto la specializzazione in reparti diversi, Antonio in neurologia, Giovanni in chirurgia, poi gli eventi li avevano portati entrambi a dividersi le ore al pronto soccorso; col tempo avevano costruito un buon rapporto professionale e una grande stima reciproca. Il collega aveva messo su un fisico invidiabile, frutto di lunghe ore in palestra dove si recava terminato l’orario di lavoro.
«Dovresti allenarti anche tu qualche ora a settimana, ti farebbe bene», gli suggeriva spesso Antonio.
Ma Giovanni aveva un rapporto diverso con lo sport, non che non gli piacesse, preferiva dare però priorità ad altro.
A unire i due colleghi, un altro simpatico dettaglio su cui scherzavano spesso: erano nati lo stesso giorno, lo stesso mese e lo stesso anno. Negli ultimi tempi si ripetevano che quello sarebbe stato il primo compleanno che avrebbero con ogni probabilità festeggiato entrambi a lavoro.
Quella sera Giovanni aveva notato che il collega non era devastato come al solito, nonostante fosse alla fine del turno.
«Oggi ti vedo particolarmente arzillo per essere quasi le dieci. Niente codici rossi? Nessuno in fin di vita?».
«Tu sogni amico mio. Però sì, hai ragione, oggi meno del solito; con il caldo avranno avuto meno voglia di sentirsi male. In ogni caso, mi ha scritto un amico che mi sta raggiungendo da queste parti ed è bloccato sulla Laurentina all’altezza del Grande Raccordo Anulare; dice che c’è stato un incidente e c’è molta fila. Visto che sta qua dietro, secondo me porteranno i feriti da noi».
«Ok, quindi sono i miei ultimi cinque minuti di pace prima del delirio?».
«Può essere, goditeli!».
«Sfotti sfotti. Oggi a me, domani turno massacrante a te!».
Giovanni intanto si era fatto anticipare da Antonio la situazione dei pazienti fino a quel momento, poi l’aveva salutato ed era entrato nello spogliatoio; si era cambiato e aveva indossato il camice.
Nonostante le parole del collega, non si buttava giù d’animo, era pronto con entusiasmo e pazienza a sopportare il peso di un altro lungo turno che lo avrebbe fatto lavorare fino all’alba.
Certo, guardare le serie preferite comodamente seduto sulla poltrona relax del suo soggiorno, sarebbe stata un’ottima alternativa in quel momento, ma alla fine si era fatto coraggio e aveva timbrato il badge buttando un occhio verso Caterina, l’infermiera che lo affiancava sempre.
«Buonasera dottore, tutto bene?».
«Ciao Caterina, sì, alla grande come sempre. Chi dobbiamo visitare?».
«Guardi, se può andare un attimo in sala d’attesa magari mi dà una mano, c’è un tizio che sbraita da dieci minuti lamentandosi in ogni modo».
«Vado subito. Che cos’ha?».
«Veda lei, secondo me niente, qualche malattia immaginaria».
Così si era avviato a verificare lo stato del paziente indicato da Caterina.
«Sto aspettando troppo, ma può essere che qui devono passare ore prima di farsi vedere da un medico? Io sto morendo!».
Giovanni, con la dovuta calma, si era messo ad ascoltare le imprecazioni di quell’uomo sulla sessantina, accompagnato dal figlio che cercava in ogni modo di sedarlo a parole, senza riuscirci.
Ci aveva pensato Giovanni: dopo averlo prima tranquillizzato e poi visitato, si era reso conto che era semplicemente agitato e aveva scambiato una banale gastrite per un attacco di cuore imminente.
Di ipocondriaci ne vedeva parecchi e di ogni tipo: quelli che correvano al pronto soccorso anche per un raffreddore, quelli che facevano testamento per 38 di febbre, ma soprattutto, quelli che vivevano con lo spauracchio dell’infarto.
Al di là di loro, però, Giovanni aveva a che fare soprattutto con le emergenze vere, quelle che lo motivavano ogni giorno spingendolo a lavorare sempre al massimo delle possibilità.
Caterina era tornata da lui dopo essersi attardata per qualche minuto all’accettazione del pronto soccorso.
«Dottor Galvani, mi dispiace farle cominciare il turno in questo modo ma ci hanno appena allertato sull’arrivo di un’emergenza»..
«Forse sarà quella che mi anticipava Antonio. Ormai siamo abituati Caterina, dopotutto è un pronto soccorso, mica un villaggio vacanze».
Il sangue freddo nei momenti più difficili era il suo punto forte, anche se poi lo stress, puntuale, presentava sempre il conto. Mentre attendevano l’emergenza in arrivo, Caterina aveva cominciato a illustrare a Giovanni gli altri codici gialli da visitare una volta terminate le cure a quel rosso per cui erano stati preallertati.
«Fammi vedere: una sospetta appendicite, quest’altra signora ha la diverticolite, stasera ci va di lusso!».
Non aveva fatto in tempo a finire la frase che il suono delle sirene dell’ambulanza si era fatto sentire da lontano. Il rumore, gradualmente più forte, era riuscito a soffocare il perenne brusio dei lamenti di chi era in sala d’attesa.
Giovanni aveva attraversato il lungo atrio e si era diretto verso l’ingresso del pronto soccorso. La vettura d’emergenza si era fermata lì; gli operatori scesero, salutarono velocemente Giovanni e con grande rapidità sistemarono il paziente, incosciente, su un’altra barella.
«Codice rosso, dottore. Pedone vittima di incidente stradale, non era alla guida di nessun mezzo, è stato investito da una moto che si è data alla fuga. Evidente trauma cranico, i testimoni hanno riferito di averlo visto battere violentemente la testa, lamentarsi per poi perdere coscienza. Respiro regolare, battito leggermente tachicardico. Il paziente ha trentasei anni, nome riportato sui documenti: Alessio Caputo».
Al suono di quel nome lo stomaco di Giovanni si contorse. Rimase come paralizzato, un fischio forte nell’orecchio destro. Lo seguì con lo sguardo mentre lo trasportavano nella stanza e appena intravisto il volto, cominciò a sudare freddo.
«Dottore, sta bene?», gli aveva chiesto Caterina che, avendo quotidianamente a che fare con Giovanni, aveva notato subito qualcosa di diverso nel suo sguardo.
«Sì, certo, tutto sotto controllo».
L’etica professionale lo spingeva a mantenere sempre il sangue freddo, perché la lucidità che il momento richiedeva veniva prima di tutto e non c’era posto per altro.
Aveva prestato le prime cure all’uomo: per ridurre il vasto ematoma dovuto all’impatto violento con l’asfalto, era indispensabile indurre il coma farmacologico e aveva ordinato, quindi, che venisse trasferito in terapia intensiva. Caterina aveva assistito Giovanni come al solito.
I colleghi avevano preso la barella per portarlo via e l’infermiera, come sempre, aveva cominciato a commentare l’accaduto: «Certo, poverino, un uomo così bello. E poi una botta del genere… speriamo sopravviva, dottore». Sospirando aveva scosso la testa, «queste moto sono maledette, prima ci si lamenta che i motociclisti si fanno tutti male, ora si mettono pure a investire la gente e a scappare! Che mondo di incivili. Faccio bene io che non ho neanche la patente, non le voglio avere queste responsabilità».
Mentre l’infermiera disquisiva per interminabili minuti, Giovanni ripensò al corpo di Alessio, immobile, mentre veniva trasportato verso i grandi ascensori. Restò in silenzio, senza prestare ascolto alle parole della collega.
Caterina se ne era accorta.
«Dottore, ma mi sta ascoltando?».
«Sì, certo. Un brutto incidente davvero».
«Mi scusi dottore ma da quando è entrato quel paziente lei ha l’aria stralunata. È sicuro di sentirsi bene?».
«Ma certo che sto bene, cosa ti salta in mente?».
«Allora mi scusi, dalla sua espressione ho pensato per un attimo che lo conoscesse e fosse scosso per quello».
«No, ero solo sovrappensiero».
La collega non se l’era sentita di fare ulteriori domande, e si era tenuta i suoi dubbi.
Passati pochi minuti, Giovanni aveva preso le cartelle cliniche per guardare gli altri casi e, con la solita dedizione, aveva iniziato a visitare tutti, cercando di smaltire l’afflusso di pazienti che nonostante l’ora tarda, avevano cominciato a riempire la sala. Il resto della notte lo aveva passato così, come sempre, travolto dalla routine.
Le ore passavano e, distratto dall’enorme mole di lavoro, non si era minimamente accorto che le prime luci dell’alba stavano per fare capolino.
Di lì a poco sarebbe arrivata l’ora di staccare e tornare a casa.
Mentre attendeva il collega della mattina, aveva illustrato all’altro dottore il lavoro da fare nelle ore successive.
Poi aveva timbrato il