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30 secondi prima e dopo
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30 secondi prima e dopo

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About this ebook

30 secondi rappresentano un arco temporale estremamente limitato, corrispondono al tempo di uno spot pubblicitario, ma possono bastare per cambiare il corso della nostra vita.

In 30 secondi ci può crollare il mondo addosso per una delusione, ma si può anche scoprire la felicità, ci si può perfino innamorare di uno sguardo o di un profumo.
Tutto ciò che accade prima e dopo è vita.  

Siamo a metà anni ’90, Baba, giovane laureata in scienze della comunicazione, accantonato il sogno di diventare giornalista, accetta la proposta di lavoro di un’agenzia di pubblicità. 
È un mondo allettante, caotico, dai ritmi serrati, popolato di stravaganti personaggi e la protagonista non può fare a meno di lasciarsi incantare. 
Davide, simpatico ed attraente creativo, affascinato dalla nuova collega di lavoro, non perde occasione per sfoderare le sue tecniche seduttive che, nonostante un’innegabile competenza, cadono nel vuoto.

La narrazione è affidata ai due protagonisti che si alternano ad ogni capitolo. I due autori si calano nei loro panni, ciascuno con il proprio stile e descrivono gli avvenimenti da opposti punti di vista, con sensibilità differenti che convergono alla ricerca di un fulcro per quell’equilibrio precario su cui spesso si reggono i sentimenti.  

Il paziente gioco della seduzione, tra i protagonisti, fa da filo conduttore, ma è solo il pretesto per un’arguta analisi dell’anarchico mondo della pubblicità.
Incuriosiscono la cronaca dissacrante e gli aneddoti gustosi, a tratti sarcastici, in cui trova spazio anche la narrazione coinvolgente di complicati intrecci tra emozione, amicizia e ragione.

È un racconto divertente, ironico, scritto con il sorriso sulle labbra, da leggere con curiosità per chi ha la s-fortuna di essere estraneo al mondo della comunicazione. Coloro che invece hanno avuto l’ardire di entrare nel grande circo della reclame corrono il rischio di riconoscersi nei personaggi descritti con sagacia nel racconto. Come si dice in questi casi: ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale, ma gli autori non possono negare di aver attinto dai ricordi personali per delineare gli interpreti della commedia, loro, che nella pubblicità hanno lavorato per un numero imbarazzante di anni.
 
LanguageItaliano
Release dateNov 30, 2017
ISBN9788827525425
30 secondi prima e dopo

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    30 secondi prima e dopo - Daniela Cardo

    141

    Avvertenze

    Tanto per chiarire

    In 30 secondi, classica durata di uno spot pubblicitario, può succedere di tutto.

    Ciò che accade prima e dopo è vita.

    Beatrice, giovane laureata in scienze della comunicazione, accetta la proposta di lavoro di un’agenzia di pubblicità. È un mondo allettante, dai ritmi serrati, popolato di stravaganti personaggi e lei non può fare a meno di lasciarsi coinvolgere.

    Davide, simpatico e attraente creativo, affascinato dalla nuova collega di lavoro, non perde occasione per sfoderare le sue tecniche seduttive che, nonostante un’innegabile competenza, cadono nel vuoto.

    La narrazione è affidata ai protagonisti che si alternano ad ogni capitolo. I due autori si calano nei loro panni, ciascuno con il proprio stile; descrivono gli avvenimenti dai rispettivi punti di vista, con sensibilità differenti che convergono nella ricerca di un fulcro per quell’equilibrio precario su cui spesso si reggono i sentimenti.

    Il paziente gioco della seduzione fa da filo conduttore ma è solo il sottofondo per un’ironica analisi del caotico mondo della pubblicità.

    (tempo di lettura: 30’’)

    1  Beatrice

    Il mio primo giorno di lavoro

    Mi ero sufficientemente documentata sulle strategie vincenti per affrontare un colloquio di lavoro, sapevo perfettamente il tono di voce che avrei dovuto usare, quale atteggiamento tenere, le domande da porgere e quelle da evitare ad ogni costo. Nonostante questo, ero terribilmente nervosa.

    Avevo già scartato un paio di abiti che in altre occasioni avrei giudicati più che perfetti, optando per uno chemisier di color rosa pallido e una giacca corta in pelle nera. Puntavo sulla probabilità che un look discreto, accurato, ma con un pizzico di grinta sarebbe stato apprezzato.

    L’anticipo con cui presentarmi avrebbe dovuto essere solo di qualche minuto per non tradire la mia ansia, il traffico di Milano contribuì ad ammortizzare la mezz’ora di margine che mi ero concessa per evitare la peggiore delle possibilità, quella di arrivare in ritardo.

    Non era lontana da Porta Ticinese la sede dell’agenzia di pubblicità cui avevo proposto la mia candidatura. Nell’androne di un vecchio palazzo accuratamente restaurato, su una targa d’ottone, riconobbi il logo che avevo memorizzato nelle mie scrupolose consultazioni di quotidiani e riviste, alla ricerca di qualche campagna pubblicitaria firmata dalla OB COM.

    Nel leggere diligentemente tra le pagine di qualche pubblicazione specializzata avevo decodificato l’acronimo sibillino, in cui si celavano le iniziali dei nomi dei due soci fondatori dell’agenzia, Fausto Olivieri e Gigi Bignardi, le altre tre lettere rappresentavano la sintesi dei loro intenti: comunicazione e marketing. Mi sarei risparmiata una delle domande sconsigliate per l’occasione.

    Davanti a un portone austero, al secondo piano, rimasi per qualche attimo a sfidare la mia esitazione. Un respiro profondo, un’aggiustatina alla giacca e un tocco leggero sul campanello di ottone. Tenendo due dita incrociate, mi convinsi di essere pronta per il colloquio.

    Una ragazza piuttosto appariscente con stampato in faccia un sorriso che probabilmente toglieva solo al termine dell’orario di lavoro, mi invitò ad accomodarmi nella piccola sala d’attesa. Il dottor Olivieri mi avrebbe ricevuto, appena possibile. Neppure per il direttore marketing dell’agenzia era opportuno dimostrare troppa fretta di incontrare gli aspiranti account.

    Evitando di manifestare anche il più impercettibile cenno d’impazienza, attesi una decina di minuti durante i quali, la ragazza con il sorriso come da copione, tornò per accertarsi che non mi stessi annoiando o spazientendo e per proporre un caffè che rifiutai con tutto il garbo che la situazione richiedeva.

    - Vuole seguirmi? - annunciò finalmente precedendomi, ancheggiando, lungo il corridoio.

    Cercai di non farmi distrarre dalle gigantografie appese alle pareti che riproponevano alcune campagne pubblicitarie, volevo mantenere la concentrazione su ciò che mentalmente avevo rielaborato durante l’attesa.

    Mi ritrovai in una stanza scarsamente illuminata per un pomeriggio di settembre. Il leggero torpore che l’uomo davanti a me cercava di mimetizzare, suggeriva che il mio arrivo avesse interrotto una siesta.

    - Ci porta un paio di caffè? - chiese alla ragazza che già stava per allontanarsi. Questa volta non osai rifiutare.

    - Dunque, lei è la signorina Beatrice Carpine - proferì con un sorriso di circostanza, tenendo in una mano il mio curriculum, mentre mi porgeva l’altra per una doverosa presentazione.

    Confermai senza aggiungere nulla, per non disturbare l’attenta lettura della striminzita esposizione del mio percorso professionale, su cui qualche riga era stata evidenziata.

    Mi distrassi, per un attimo, osservando le fotografie alle pareti. I soggetti ricorrenti erano barche a vela. Immaginai una passione, probabilmente accantonata, che una targa sul ripiano di una vetrina confermava ampiamente.

    Ebbi tutto il tempo per osservare che il dottor Olivieri, Fausto, come si era premurato di aggiungere presentandosi con un inchino impercettibile, aveva un aspetto curato ed elegante. Per una certa classe che traspariva dai dettagli, dimostrava forse più dei suoi cinquant’anni, un’altra delle notizie che avevo catturato nella mia scrupolosa ricerca.

    Scrutavo il suo viso leggermente abbronzato, un lieve tic faceva di tanto in tanto sobbalzare gli occhiali da vista, lui compensava quel movimento involontario con un accenno di sorriso che si intravedeva sotto la folta barba scura che incorniciava labbra sottili.

    Passò una mano tra i capelli corti e ricci, leggermente brizzolati sulle tempie, poi sollevò lo sguardo dal foglio di carta, mentre ci venivano serviti i caffè.

    Mi chiese di parlargli di me, ne fui felice, mi ero preparata a dovere sull’argomento, non avrei calcato troppo la mano sulla delusione che avevo provato nel dover ammettere che la mia giovanile aspirazione per la carriera giornalistica stava sfumando, puntando piuttosto sulla soddisfazione di aver scoperto un altro mondo affascinante nel frequentare un corso di comunicazione.

    - Lei si esprime con molta padronanza di linguaggio - osservò, arguto.

    Avevo provato quel monologo decine di volte, allo specchio, calibrando tonalità e gesti. Ne era valsa la pena.

    La conversazione proseguì in un tono meno formale con l’evidente scopo di carpire le mie possibili lacune, provai a tenere alta la guardia. Non mi risparmiò neppure qualche domanda personale, risposi con garbo e riservatezza. Sembrò apprezzare.

    - Ho già incontrato alcuni candidati, ma direi che la più adatta alle nostre esigenze è proprio lei, il mio socio aveva espresso un parere favorevole già leggendo la sua lettera di presentazione. Oggi purtroppo non è in agenzia.

    Non mi sorprese quell’epilogo lusinghiero, avevo già colto un certo apprezzamento nel corso delle ultime battute del dialogo.

    - Ma lei si chiederà come mai, tra tutti i curricula che ci sono stati inviati, noi abbiamo scelto il suo.

    Le risposte che mi balenavano in mente erano del tutto fuori luogo. Non ritenni opportuno evidenziare l’aspetto economico della faccenda: ad un account con una certa esperienza sarebbe probabilmente spettato un compenso più ragguardevole di quello cui potevo aspirare io. Ancor meno appropriata sarebbe stata l’altra ipotesi secondo la quale la foto allegata al curriculum, scelta con cura tra le migliori dell’archivio personale, poteva aver deposto ampiamente a favore della mia candidatura.

    Non trovando replica adeguata al quesito formulato, mi limitai a sillabare:

    - Infatti!

    Ne ottenni una spiegazione squisitamente diplomatica, ma credibile.

    - La filosofia di questa agenzia consiste nel plasmare i nostri collaboratori, quindi una persona priva di esperienze, ma con una buona preparazione teorica, è ciò che fa al caso nostro.

    Dovevo ammettere che era una giustificazione attendibile. Olivieri si premurò di chiarire che ci sarebbe stato un primo periodo di prova informale.

    - Una settimana durante la quale anche lei potrà fare le sue valutazioni, ma per i dettagli preferisco affidarla a un nostro collaboratore.

    Un minuto più tardi ero già stata presa in custodia da Marcello.

    - Ufficio amministrazione e salari - si era premurato di precisare presentandosi con un sorriso che lasciava presupporre che la scelta del direttore fosse stata influenzata anche dal suo parere.

    Un personaggio dall’aspetto stravagante, non dimostrava più di quarant’anni. Notai quanto stridessero la camicia color prugna e i jeans troppo stretti con un paio di Oxford nere, elegantissime.

    Mi spiegò, con cura, quali sarebbero state le mie mansioni e cosa intendeva Olivieri con il verbo plasmare.

    - È un peccato che oggi non ci sia la signora Fabiola. Sai lei è una dei due account, l’altro è Gigi Bignardi il socio di Olivieri.

    - Ah! - esclamai nell’intento di esprimere una certa soddisfazione per quella precisazione.

    - Fabiola è al quinto mese di gravidanza - bisbigliò come se stesse confidandomi un segreto.

    Sorrisi in attesa di qualcosa che giustificasse quella rivelazione.

    - Tu la dovrai sostituire.

    La spiegazione sollevò un dubbio.

    - Quindi il mio lavoro sarebbe a tempo determinato? - chiesi provando a nascondere un leggero disappunto.

    - No, come ti viene in mente? Con tutto il da fare che c’è? Una persona in più servirà comunque; ma forse sarebbe opportuno chiedersi se Fabiola deciderà di tornare dopo il periodo di maternità.

    Sorrisi all’idea di una giovane mamma che avrebbe sacrificato la carriera al suo bambino, era una visione molto maschilista che francamente strideva con l’atteggiamento gentile di Marcello.

    Continuava a rivolgersi a me con la cordialità di un vecchio amico, cercai di dissimulare un certo imbarazzo per quell’eccessiva confidenza. Lui provò a mostrarsi ancora più benevolo.

    - Carino il tuo vestito, dove l’hai comprato?

    Allungò una mano per sistemare la scollatura che si era accavallata con il girocollo di giada che avevo addosso, mi ritrassi istintivamente. Lui sorrise.

    - Prima che ti faccia strane idee devo dirti che sono gay.

    Provai a mascherare la sorpresa per quella esternazione, il sorriso imbarazzato che riuscii a sfoderare non fece che peggiorare il mio disagio.

    Lui mi tolse d’impaccio con una gran risata.

    - Sto scherzando!

    Non ho mai saputo quale delle due affermazioni fosse veritiera, approfondire l’argomento non rientrava tra le mie priorità e tanto meno nelle mie competenze.

    Ci concentrammo su alcuni dettagli pratici del periodo di prova. Sarebbe cominciato il lunedì, al termine della settimana avremmo potuto formalizzare la cosa, sempre che non fossero intervenuti ripensamenti dall’una o dall’altra parte. Il compenso previsto collimava con una delle deduzioni opportunamente celate poco prima a Olivieri, ma non avevo motivo di preoccuparmi.

    L’assegno mensile di tutto rispetto, che mio padre elargiva, mi consentiva di far fronte alle esigenze primarie e a qualche spesa superflua. Di certo avrei potuto continuare a contare su tanta generosità fino a quando il mio stipendio non avesse raggiunto un importo dignitoso.

    Il sogno che tenevo nel cassetto, a diciotto anni, era di diventare giornalista. Così, quando nel 1991 mi iscrissi a Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo, ero certa di avere già in tasca il passaporto per il successo. Un anno prima, in una prestigiosa Università privata, era stata istituita quella facoltà che sembrava perfetta per i miei progetti. Non sapevo che la strada sarebbe stata molto più tortuosa. Mi attendevano ancora un corso di due anni in una scuola di giornalismo e un esame che definirei arduo, per aggiudicarmi l’iscrizione nell’elenco dei professionisti. Ma neppure queste credenziali bastarono a trasformare i miei programmi in realtà.

    Da un anno collaboravo occasionalmente con la redazione di un quotidiano, ma ciò che avevo immaginato era ben altra cosa. Non ero tipo da lasciarsi deprimere. Decisi di investire buona parte dei miei risparmi, quelli che mio padre contribuiva a rimpinguare a ogni mio incauto sperpero, in un master in comunicazione e media, espressioni che a mia madre spiegai con un vocabolo più comprensibile: pubblicità.

    Non collimava con la mia aspirazione ma, a venticinque anni, volevo dimostrare di poter fare a meno del sostegno economico di mio padre. Non che mi sentissi in colpa nei suoi confronti, ma dover argomentare la mia gestione finanziaria a volte mi infastidiva.

    Un paio d’anni prima, fiutando un ottimo affare, lui aveva acquistato un elegante attico nel cuore di Milano. Attente valutazioni fiscali suggerirono di intestare a me l’investimento, così mi ritrovai, con una sola manovra, proprietaria di un appartamento da far invidia a qualche amica e svincolata dall’amorevole ma assillante controllo di mia madre. Mi piaceva quell’autonomia, ma ero decisa a non approfittare all’infinito della generosità di mio padre.

    Consultando sui quotidiani le rubriche in cui le aziende pubblicano offerte di lavoro, ebbi la spiacevole impressione che la maggior parte delle opportunità fossero riconducibili a qualche contratto a termine per operatrice di call center. Non bastò a darmi per vinta, affinai le ricerche fino a identificare un annuncio in grado di meritare la mia considerazione.

    Un’agenzia di comunicazione stava selezionando neolaureati da formare per un incarico di account, l’allettante offerta garantiva opportunità di crescita professionale in cambio di una spiccata predisposizione a lavorare in team. A voler essere obiettivi poteva rappresentare un’opportunità. Decisi di inviare il mio curriculum che cercai di farcire con tutto ciò che avesse anche la più lontana connessione con le mie presunte attitudini.

    Inspiegabilmente quello scarno elenco di esperienze aveva trovato considerazione e, qualche giorno dopo, con una telefonata venni invitata a presentarmi per un incontro conoscitivo, alle 14,30 del venerdì successivo, il 13 settembre 1996.

    Sospettare che quel colloquio potesse cambiare il corso della mia vita era insperabile, eppure...

    Non era stato poi così difficile, pensai guidando soddisfatta verso casa. Intuivo a malapena di essermi affacciata a un mondo diverso, la cosa mi dava una certa vertigine, era troppo presto per capire quanto sarebbe stato divertente esplorare quella realtà che nell’immaginario collettivo appariva inconsistente. Era quasi una sfida e l’idea mi piaceva. Io ero pronta.

    Il lunedì mattina arrivò in fretta, dopo un fine settimana passato ad aggiornare quanti avessero anche il minimo interesse per quell’insperata svolta professionale che si profilava all’orizzonte.

    Indossai una camicetta bianca su una stretta gonna nera. Poldo, mio fedele amico, scodinzolava eccitato, sicuro di potermi accompagnare in quell’insolita uscita mattutina. Lo consolai con qualche carezza e un paio di biscotti.

    Eleonora, la receptionist, mi accolse con lo stesso sorriso della settimana precedente, ma con qualche smanceria in meno.

    - Marcello ti sta aspettando - puntualizzò indicandomi il corridoio.

    Mi avviai verso l’ufficio amministrazione, dove ero rimasta a lungo a parlare con quello stravagante personaggio tre giorni prima. Con un cenno mi invitò ad entrare, mentre concludeva in fretta una telefonata.

    - Allora, sei pronta per conoscere Fabiola?

    Sembrava una minaccia più che una domanda, ma non mi lasciai impressionare.

    Scattò in piedi allontanando, con una mossa energica, la poltrona su cui era comodamente sprofondato. Mi accompagnò tenendomi amichevolmente sotto braccio fino ad un’altra delle stanze che si affacciavano sul corridoio.

    Spalancò la porta socchiusa dopo aver accennato appena a qualcosa che assomigliava a una richiesta di permesso, senza attendere alcuna conferma.

    - Guarda chi ti ho portato!

    Non era il modo più convenzionale per presentarmi, ma cominciavo ad abituarmi al suo atteggiamento bizzarro e provai ad adeguarmi alla situazione, fantasticando che la donna alla scrivania mi avrebbe porto la mano con altrettanta espansività.

    La mia era solo immaginazione.

    Mi diede il benvenuto con la stessa cordialità con cui avrebbe ignorato un venditore di granite a dicembre su una pista da sci.

    - Tu devi essere Beatrice - borbottò squadrandomi da testa a piedi.

    Annuii, vagamente intimorita. Marcello rispose per me.

    - Si! Ma mi ha confessato che gli amici la chiamano Baba.

    Un altro sguardo, ancora meno benevolo del precedente, scrutò il mio. Sorrisi, per confermare la precisazione a proposito del soprannome.

    Il mio accompagnatore decise che il suo compito, almeno per quella mattina, fosse giunto al termine e mi lasciò in balia di Fabiola, non mi sentivo molto a mio agio, ma provai a non darlo a vedere. Lei continuava a sfogliare qualche appunto, mentre io impacciata restavo in piedi, tra la porta e la scrivania, a osservarla.

    - Siedi, che ci fai lì come un paralume? - mi invitò, con quello che intuii essere il massimo del suo garbo.

    Non era esattamente la persona che avevo immaginato. Doveva avere già compiuto da un po’ i trent’anni. Gli occhi azzurri ben truccati spiccavano su una carnagione chiarissima e lunghi capelli biondi le scendevano fin sulle spalle. Notai le mani curatissime, le unghie laccate di un rosso amaranto, un anello di diamanti piuttosto ingombrante e la fede d’oro giallo.

    Scarabocchiò nervosamente qualche parola su un’agenda fitta di note e di correzioni.

    Feci un breve calcolo mentale. Secondo le indiscrezioni di Marcello quella simpaticona era al quinto mese di gravidanza, dunque avrei dovuto sopportarla solo per un paio di mesi. Potevo farcela. Volevo quel lavoro e non mi sarei fatta intimorire dal suo atteggiamento arrogante, decisi di provare a giocare la mia prima carta.

    - Il dottor Olivieri mi ha detto che verrò affiancata a lei, credo che per me sia un’ottima opportunità. Non ho alcuna esperienza e imparare da lei...

    La strategia dell’adulazione sembrava perfetta. Mi interruppe.

    - Scusa devo esserti sembrata decisamente scortese, ma questa gravidanza non mi dà tregua.

    Mi sentivo autorizzata a portare avanti la mia tattica, ma non volevo esagerare.

    - No, non si preoccupi, immagino non sia facile conciliare il lavoro con...

    Ancora una volta non mi concesse di terminare la frase, ma questa volta si lasciò sfuggire una smorfia che somigliava ad un sorriso.

    - Qui tutti ci diamo del tu. Vale anche per te. Gli unici che fanno eccezione sono Fausto e Gigi. Solo i creativi si prendono questa libertà anche con loro.

    Accennai a un’espressione di gratitudine. Lei riprese. Aveva fretta che mi togliessi di torno.

    - Quanto a lavorare con me, credo che prima sia meglio tu ti faccia un’idea di cos’è un’agenzia di pubblicità e per questo la persona adatta è Rita. Oggi ti affido a lei. Magari domani cominceremo a parlare di clienti. Che ne dici?

    Non potevo chiedere di meglio, il primo dei sessanta giorni di tortura che ero certa mi sarebbero spettati, mi veniva abbonato. Sperai che la mia trainer temporanea fosse una persona meno scontrosa della bella account incinta che mi stava invitando, senza troppi complimenti, a togliermi dalla sua visuale.

    Rita era l’esatto opposto di Fabiola.

    Mi accolse con un sorriso sincero, quelli di cui non ci si spoglia a fine giornata lavorativa. Mi mostrò l’ufficio dove si occupava, a suo dire, di tutto e di niente.

    Lei rappresentava la memoria storica dell’agenzia. Da quindici anni con una buona dose di adattabilità archiviava documenti, controllava fatture, relazioni e corrispondenza o prenotava modelle, alberghi e sale di posa per servizi fotografici. Dava una mano a chiunque dichiarasse di averne bisogno, era una sorta di jolly da giocare ogni volta che c’era da portare a compimento un incarico urgente o che a nessun altro sarebbe piaciuto svolgere.

    Aveva forse qualche anno più di Fabiola. Il trucco leggero non riusciva a nascondere qualche imperfezione di troppo sul suo viso simpatico: un naso lungo e adunco con un sorriso vagamente equino. Non più alta di un metro e mezzo, distoglieva l’attenzione dalle sue abbondanti rotondità con un continuo gesticolare con cui accompagnava la sua prodiga eloquenza.

    Nella piccola stanza che ospitava un paio di scrivanie, in un indescrivibile disordine, trovavano posto pile di giornali e una quantità enorme di oggetti di ogni genere e natura, accanto a cumuli di rotoli di carta, forse manifesti pubblicitari.

    Il mio sgomento doveva essere evidente.

    - Non lasciarti impressionare è solo un po’ di materiale da portare in archivio - precisò, nel tentativo di rassicurarmi. - Magari possiamo cominciare proprio da qui.

    Non sapevo bene cosa avesse in mente. Mi spiegò che il direttore marketing, il signor Fausto, come lo chiamava lei, esigeva venisse conservata una copia di ciascuna rivista in cui era stata pubblicata una pagina di pubblicità realizzata dall’agenzia: i cosiddetti giustificativi. Archiviarli era uno dei compiti che le spettavano, cui riservava qualche ritaglio di tempo ma solo quando nulla di più urgente avesse reclamato il suo prezioso intervento.

    Mostrarmi l’archivio, quello in cui erano ordinatamente riposte le pubblicazioni, sarebbe stato, a suo dire, un ottimo sistema per farmi prendere consapevolezza della tipologia e della mole di lavoro che l’agenzia riusciva a gestire. Molto più efficace di relazioni, cifre o grafici o, più probabilmente, un modo per contare sul mio aiuto per riporre parte dell’arretrato che si era accumulato nel piccolo ufficio.

    - Ti va? – chiese con una smorfia simpatica a cui avrei potuto rispondere solo con un Sì.

    Cariche di quotidiani, settimanali femminili e riviste di arredamento, ci avviammo lungo il corridoio.

    L’archivio era uno stanzone con le pareti rivestite di scaffali dove oggetti di ogni tipo sembravano accatastati senza una logica apparente. Il resto dello spazio era suddiviso in corsie delimitate da librerie su cui un’infinità di giornali era conservata, secondo uno scrupoloso criterio temporale e alfabetico.

    Una scala da biblioteca rappresentava lo strumento con cui si sarebbero potuti raggiungere i ripiani più alti per collocarvi il materiale.

    - Che ne dici di provare a sistemare questi?

    Avrei dovuto prevedere la sua proposta. Lei aveva di meglio da fare, a me stava offrendo l’opportunità di svolgere il mio primo incarico. Naturalmente accettai, non prima di essermi fatta spiegare la logica secondo cui doveva essere riposto ciascun giustificativo.

    Chiarito ogni possibile dubbio, Rita uscì ringraziandomi e gesticolando.

    - Poi, quando avrai finito torna da me.

    - Certo! - risposi salendo sulla scala che lei aveva fatto scorrere accanto allo scaffale, dove collocare alcune riviste di nautica che avevo posato sul gradino finale.

    Rimpiansi di non aver indossato un paio di pantaloni più adatto alla situazione e confidai nell’ipotesi che nessuno sarebbe entrato nella stanza.

    Francamente faticavo a comprendere l’utilità di ammassare una simile quantità di carta, quando un’archiviazione fotografica sarebbe stata meno laboriosa, tuttavia svolsi con scrupolosità il mio incarico poco appagante.

    Un quarto d’ora più tardi mi restavano da sistemare solo una decina di settimanali femminili su cui piccoli evidenziatori di pagina suggerivano una sbirciatina. Fotografie di modelle evanescenti, accanto a frasi sibilline, proponevano abiti eleganti per clienti esigenti, facoltose e con gusti originali.

    Non avevo ancora iniziato a riporre nessuna di quelle riviste, quando un improvviso blackout lasciò la stanza al buio completo e me a un metro e mezzo da terra. Mi era sfuggito che non ci fossero finestre alle pareti, dal corridoio non giungeva neppure uno spiraglio di luce, evidentemente Rita aveva richiuso la porta uscendo.

    Era difficile mantenere l’equilibrio in quella situazione, provai inutilmente a trattenere il plico di giornali, ma tra la probabilità che a cadere fossi io e quella di lasciar andare i giustificativi, scelsi la seconda.

    Il rumore attirò l’attenzione di qualcuno oltre la porta.

    - Tutto bene lì dentro? - la voce di un uomo mi fece trasalire.

    - Non proprio - risposi sperando in qualche aiuto.

    2 Davide

    Ma non divaghiamo

    L’aria festaiola del venerdì pomeriggio era palpabile anche nelle chiacchiere di corridoio che riguardavano la scelta fra i vari candidati per il posto di account. Qualche indiscrezione venne fatta trapelare dal buon Marcello, al quale bastava porre il quesito con la dovuta deferenza e il segreto sarebbe stato di dominio pubblico.

    Di ciò ci facemmo carico io e il Giuliano.

    Intercettammo, nell’angolo del distributore di schifose bevande, il custode ufficiale dell’arcano, con il dito puntato sul pulsante del caffè senza zucchero. Io puntai lui incalzandolo di spalle.

    - Com’è? Uomo o donna? - e senza attendere risposta insinuai maliziosamente - Uomo, donna o, o ...?

    Su questa subdola allusione il Marcello, stizzito, senza voltarsi, con uno gesto delle dita mi spruzzò via come fossi aria infetta.

    - Falla finita Davide. È una donna, ma non sono autorizzato a dirti nient’altro! Lunedì vedrai.

    Era già un buon punto di partenza, e doveroso insistere.

    - Giovane, carina? - azzardai sperando che il suo giudizio tenesse conto del mio punto di vista e non del suo.

    Come risposta alzò le spalle indispettito e sbuffando prelevò il caffè dal distributore.

    Quel gesto sprezzante preludeva a un cambio di umore, da lunatico zitellone qual era alternava momenti di euforia a vere e proprie crisi isteriche. Burrasca in arrivo. Cambiai rotta e, con una strizzatina d’occhio, passai il timone al Giuliano che continuò a punzecchiare la vittima prescelta con un ricamo di parole intrise di misericordia e compassione fino a farlo confessare che sulla scrivania di Fausto, forse, forse c’era ancora il curriculum con l’icona della prescelta.

    A metà pomeriggio di ogni fine settimana il nostro zelante direttore marketing sarebbe salpato dallo studio con grande anticipo rispetto alle canoniche diciotto.

    Faccende private le sue. Ma in agenzia si cianciava, anche quel venerdì, si cianciava su quanto, quando e come (il perché si dava per scontato) quella storia potesse continuare e qualcuno azzardava ipotesi e anche scommesse. A) Quanto ancora sarebbe durato il presupposto capriccio extraconiugale con una moglie altrui. B) Quando la sua consorte avrebbe smontato l’alibi costituito dall’impegno settimanale con la commercialista. C) Come avrebbe reagito la Franca, moglie e vigile sulla fedeltà del Fausto, che con casuali incursioni in agenzia, aveva da tempo fiutato la scia dell’escursionista del fuori orario.

    Il Giuliano annotava le indiscrezioni e teneva la cassa.

    Ma non divaghiamo.

    Alle sedici e trenta il dottor Olivieri, puntualmente, si affacciò sulla soglia del reparto creativo estendendo il suo rituale saluto a tutti i presenti: a me, al Giuliano, a Lucia e Simone.

    - Se non avete bisogno di me… - cui seguì la nostra corale litania - … ci vediamo lunedìììì.

    Sorridendo compiaciuto levò l’ormeggio, sfidando la sorte e la consorte.

    Era giunto il momento di passare ai fatti per appagare la nostra innata curiosità e spinti da un preciso interesse. Questa prerogativa

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