Una storia qualunque... la mia
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Una storia qualunque... la mia - Michela Steffani
© 2018 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-567-9226-3
I edizione febbraio 2018
www.gruppoalbatros.com
Libri in uscita, interviste, reading ed eventi.
Una Storia Qualunque... La Mia
Alle donne della mia vita
La mia storia inizia da qui...
C’era una volta, in un castello lontano lontano, un Re e la sua Regina che vivevano e regnavano in pace, amore e armonia...
No no... Non ci siamo. La mia fiaba non inizia così. La mia non è una storia da c’era una volta
ma è più da No Maria io esco
.
Forse dovrei partire dall’inizio, di solito si fa così.
Ok, allora ripartiamo.
Non sarà un viaggio facile per me che scrivo, né per te che leggi. Però ci teniamo compagnia per un po’ di pagine, se ti va.
Dunque, tutto iniziò 36 anni fa, quando i miei genitori ebbero la brillante idea di mettermi al mondo. Il 3 dicembre del 1981. Era un giovedì mattina quando la mia vocina riecheggiò nella sala parto dell’ospedale.
Come tutti i genitori, anche i miei erano ignari di ciò che stava per accadere...
Macché... Sembra un horror così. No no, non ci siamo. Riproviamo.
Sono nata 36 anni fa in un paesino di provincia, immerso tra le colline e il verde del Friuli Venezia Giulia. Un paesino dove ci sono più bar che abitanti. Tremila anime che si conoscono tutte e dove fin da piccoli si è a stretto contatto con i vigneti, le mucche e tutto ciò che ha il profumo della campagna.
Il rumore che accompagnava le giornate era quello dei trattori che andavano avanti e indietro dai campi. L’odore del concime e del fieno si mescolavano molto spesso all’odore delle pietanze preparate in casa da mia mamma o da mia nonna. Era normale, è normale. In campagna è così.
Ricapitolando, ci siamo io, la campagna, il mio paese e la mia vita. Nulla di così esaltante dirai.
Ti starai chiedendo perché scrivere un libro sulla vita monotona di una campagnola. Aspetta... Se ti raccontassi tutto subito, non avresti più voglia di andare oltre, non credi?
Andiamo avanti... La mia vita è trascorsa senza grandi intoppi. Mia mamma era una meravigliosa casalinga che aveva abbandonato la scuola dopo la terza media per andare a lavorare in un caffè pasticceria per poter contribuire alle spese famigliari. Si sta parlando di più di 40 anni fa. Un tempo che sembra così lontano.
Dunque, mia madre aveva appena terminato gli studi che le avrebbero consentito di andare alle scuole superiori. Mio nonno le diede i soldi e le autorizzazioni per potersi iscrivere. Lei prese la corriera e si diresse in città. Quando arrivò però trovò subito chi le diede il lavoro della sua vita. Così tornò a casa e disse a suo padre che aveva trovato lavoro e piano piano mosse i suoi passi verso papà. Il destino è soltanto una strada da percorrere, tutto è già scritto, basta saper leggere.
La conosci la leggenda del filo rosso? Quella in cui si dice che tutti noi abbiamo un filo rosso invisibile annodato al dito di una mano e non importa quanto sia lungo o tortuoso, ti porterà direttamente alla tua metà.
Io non ci credo molto dati i miei trascorsi che leggerai nei prossimi capitoli, ma credo che con i miei genitori abbia funzionato, perlomeno fino a quando il filo si spezzò. Ma arriveremo anche a quel momento.
Mia mamma era una bravissima cuoca e come si può pensare il contrario quando per insegnante si ha la nonna in casa. Poi, lavorando in pasticceria aveva affinato le sue tecniche ed era davvero il top, lasciamelo dire. Mio padre era appena arrivato in Friuli per lavoro. Era un poliziotto ed era stato trasferito qui dopo aver fatto la scuola a Roma e aver girato mezza Italia. È veneto e quindi non gli era andata poi così male trasferirsi a Udine.
Nei tanti suoi giri di pattuglia, capitava spesso da mamma a bere il caffè. Chiacchiera dopo chiacchiera, si sa poi come si va a finire.
A gennaio del 1980 si sposarono e dopo un anno arrivai io per allietare la loro vita.
La mia famiglia era di vecchio stampo
. Vivevo con mio padre, mia madre, mia zia e mio zio, fratelli di mia mamma, mio nonno e la super nonna che era considerata il capofamiglia. Ricordo ancora quando la domenica mattina mi svegliavo e vedevo i teli di cotone bianchi sul tavolo, le uova e la farina pronte per fare la pasta in casa. Adoravo sporcarmi con nonna. Credo di sentire quel magnifico sapore di pasta fresca ancora in bocca se chiudo gli occhi. Sento ancora il borbottio della pentola di ragù sul fuoco, il mio vociare, il rumore del mattarello per tirare la sfoglia, mia madre che chiacchiera, mio padre che non c’era quasi mai.
Purtroppo ci sono dei lavori che non conoscono festività o giorni di riposo. Il poliziotto è uno di quelli. Andava a fare sicurezza allo stadio a domeniche alterne oppure al palazzetto dove giocavano a basket. A volte capitava di servizio a Natale o a Pasqua. Poi c’erano i concerti o eventi che richiedevano l’ordine pubblico. Io ero sempre con mamma, nonna e tutti gli altri. Casa mia non era mai vuota. Mi piaceva stare sulle ginocchia di nonna ad ascoltare le sue storie di vita vissuta. Vita vissuta davvero. Aveva visto con i suoi occhi le due guerre. Sapeva cos’era la fame e la povertà. I cannoni dei tedeschi nel nostro giardino, l’arrivo degli americani, le sue camminate di 20 kilometri per andare al mercato in città per poter vendere quel poco che riusciva a produrre nell’orto. Mia mamma mi raccontava sempre che la mattina si svegliava all’alba e correva nella stalla dalle mucche con il pentolino per mungere il latte ancora caldo per fare colazione con un pezzetto di polenta avanzata la sera prima.
Mio nonno era emigrato in Svizzera, come molti italiani hanno fatto a quel tempo. Dopo anni tornò in Italia e fece rientro a casa. Trovò lavoro in una fabbrica di mobili in legno poco distante casa. Mi accompagnava lui a scuola la mattina prima di andare al lavoro.
Mia mamma aveva smesso di lavorare subito dopo la mia nascita scegliendo di fare la mamma a tempo pieno. Avevamo una casa grande, due piani e il solaio. Andavo lassù dopo che avevano finito di lavare i panni nel tino con l’acqua e la cenere. La scala per andare in solaio era ripida, di legno, sembra di sentire lo scricchiolio sotto le mie mani ancora adesso. C’era un vecchio divano dove mi sedevo a giocare con le bambole, e una giraffa enorme di peluche che cavalcavo spesso. C’erano le canzoni di nonna mentre metteva sul filo le lenzuola bianche ad asciugare. C’erano i gatti, due: Chicca, una femminuccia bianca e nera che si accoccolava sempre sulle spalle di mamma mentre cucinava, e Pepe, un maschietto tigrato grigio dagli occhi verdi. Quando facevo i compiti