8 racconti oltre il confine della realtà
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8 racconti oltre il confine della realtà - Vincenzo Capuano
633/1941.
Prefazione
Otto racconti oltre confine della realtà, otto racconti che fanno esplorare al lettore un universo speciale, in cui cose assurde, cose misteriose e a volte macabre accadono a persone all’apparenza normali.
Questa raccolta così particolare ricorda moltissimo, come situazioni e suggestioni, una serie televisiva di grande successo degli anni Sessanta, The twilight zone tradotta poi in italiano come Ai confini della realtà, per l’appunto; la cui sigla inconfondibile già preannunciava l’oniricità dell’episodio.
L’atmosfera di cui sono intrise queste storie potrebbe essere quindi definita old fashion, quasi ci trovassimo di fronte a una pellicola in bianco e nero dal fascino intramontabile.
Leggendo questi otto racconti il lettore sarà invitato ad aprire una porta – che l’autore lascia sapientemente socchiusa – per sbirciare cosa si può trovare oltre la sua soglia, oltre quel confine immaginario che divide ciò che percepiamo come reale da ciò che viene classificato come fantastico.
Ecco che allora, se si decidesse di varcare quell’uscio anche solo per dare una sbirciatina dall’altra parte
, si potrebbe incontrare Elia e il suo gruppo di amici, otto giovani brillanti che riceveranno dei doni davvero speciali da parte di due anziane bariste sui generis.
Si potrebbe fare la conoscenza della bellissima Marta, la donna più sensuale che vi potrebbe capitare di incontrare. Tanto bella quanto all’apparenza algida e inaccessibile. Ma quale segreto custodisce Marta?
Se il lettore sarà così intrepido da insinuarsi tra le righe di queste storie cariche di suspense, potrebbe perfino scambiare due parole con lo sfortunato Michele e cercare di capire insieme a lui se la vita sia un sogno o se il sogno sia vivere.
C’è chi si trasferisce in Australia in un modo un po’ particolare e chi gioca una partita a Shangai molto pericolosa e azzardata.
Attraverso questi otto racconti simili a quadri carichi di pennellate piene di colore, si entra in un mondo altro
in cui le certezze non fanno che crollare come castelli di carta al vento.
Non sarà facile trovare punti fermi sui quali ancorarsi, perché gli eventi più tranquilli e gli scenari più innocui saranno pronti a stravolgersi in men che non si dica, senza lasciare al lettore alcuna possibilità di reagire.
Lo stile fresco e gli scenari carichi di macabro fascino rendono Otto racconti al confine con la realtà una raccolta che la notte vi farà tenere accesa la luce sul comodino…
Australia
L’uomo era in piedi con le spalle rivolte alla porta d’ingresso.
Il braccio destro era teso di lato, posizionato a novanta gradi rispetto al corpo.
Con quella mano impugnava una pistola, puntata verso un ragazzo.
Il caparbio sguardo era rivolto in avanti, verso l’uomo seduto dietro la scrivania in fondo alla stanza.
Dopo alcuni interminabili secondi, con gesti lenti abbassò il braccio e lo raccolse con l’altro davanti a sé. Le due braccia erano riunite e distese lungo il corpo. Le due mani impugnavano insieme la pistola. Le gambe erano appena divaricate e la canna dell’arma era rivolta verso terra. L’uomo era determinato ma tranquillo. Cosa che non si poteva dire delle altre due persone presenti in quella stanza.
Quello con la pistola dimostrava poco più di quaranta anni, di statura media, folti capelli neri, lo sguardo ferreo, era vestito con abiti di marca ma molto trasandati.
Probabilmente erano giorni o mesi che non mangiava in maniera adeguata. Il suo viso era scavato, emaciato, tanto che si vedevano molto bene gli spigoli delle sue ossa; nonostante ciò emanava una grande energia e risoluzione.
L’uomo seduto dietro la scrivania dall’altro lato del grande studio, a occhio dimostrava sessanta anni, forse più. Aveva indosso un camice bianco con una targhetta attaccata sul petto.
Non dava a vedere di essere spaventato ma qualche goccia di sudore scendeva dalla sua fronte. Cercava di convincere l’uomo con la pistola a desistere dal suo intento. Diceva che avrebbe potuto ottenere le stesse cose anche senza quella dimostrazione di forza. C’erano dei canali legali per avere ciò che lui chiedeva.
Il ragazzo era ammanettato a un termosifone; le manette erano state fatte passare in una fessura del termosifone. Sembrava avere al massimo venticinque anni. Un pezzo di nastro era appiccicato sulla sua bocca, malgrado ciò cercava disperatamente di parlare e dava degli strattoni con le braccia per tentare di liberarsi dalle sue catene. Aveva gli occhi spalancati dalla paura ed era fradicio di sudore.
Al di là della porta tutto era silenzio. Non c’era nessuno là fuori che avrebbe potuto soccorrere i due uomini minacciati dal folle con una pistola.
Eppure non era sempre stato così. L’uomo con la pistola, Francesco, solo un paio di anni prima era una persona normale. Anzi, era un individuo amato e rispettato nella sua comunità. Sicuramente a quel tempo non avrebbe mai pensato di impugnare un’arma né, meno che mai, di puntarla contro altri uomini.
Alla fine dell’università, quando avrebbe dovuto assolvere agli obblighi della leva militare, aveva fatto richiesta di servizio civile in quanto obiettore di coscienza. Questa decisione era il logico corollario alla sua passione, iniziata ai primi anni del liceo, per la vita e le opere del Mahatma Gandhi.
Cosa gli era capitato per arrivare a un tale sconvolgimento della propria vita? Come tanti altri al mondo, nel corso della sua vita aveva incontrato delle persone con cui aveva più o meno fatto amicizia. Tanti erano dei semplici conoscenti ma alcuni erano diventati gli amici con cui condivideva sogni, speranze, e buona parte della vita.
La maggior parte li aveva conosciuti al liceo. Con questi condivideva gli ideali non violenti sviluppati proprio in quegli anni. Uno di loro, in particolare, era suo amico ancor prima del liceo.
Erano nati a pochi mesi di distanza nello stesso isolato. I loro genitori erano amici e loro avevano sempre giocato come fratelli. Avevano frequentato sempre insieme tutti i vari gradi scolastici e praticato gli stessi sport. Si erano separati solo all’università, lui aveva studiato alla Facoltà di Ingegneria e il suo amico ad Architettura. Ma allora il loro legame era così forte che tutti li consideravano, o pensavano, che fossero fratelli. Facevano parte della stessa cerchia di amici, quasi tutti conosciuti negli anni del liceo.
Una volta laureati avevano fondato uno studio in cui progettavano insieme la costruzione di edifici. Quando le cose cominciarono ad andare bene decisero di costruire una villa bifamiliare comprensiva di ufficio lavorativo sopra il paese di Massaciuccoli con vista sull’omonimo lago e sulle rovine delle Terme Romane.
Una domenica mattina la sveglia suonò colmando le orecchie con il suo trillo acuto. A sua volta Giovanni, il padre, svegliò tutto il resto della famiglia.
Non ci fu nessun lamento. Nessun urlo tipo: ancora un minuto te ne prego
come invece succedeva tutte le mattine in cui si doveva andare a scuola o al lavoro. Tutti e quattro uscirono all’unisono dal letto, quindi si creò un ingorgo per l’accesso al bagno.
La ragazzina, Adele, vista la situazione se ne tirò fuori e attese che tutti gli altri fossero pronti. Per primo fu lasciato entrare il bambino, Antonio, poi la mamma, Eleonora, infine visto che la ragazza si era accoccolata sul divano a fare qualcos’altro andò il padre, esortato dai mugugni della figlia stessa. Nelle mattine normali non c’era mai questa confusione dato che ognuno si alzava a un orario diverso. Prima il padre che dopo essersi preparato andava a prendere il bambino e lo portava in bagno ancora addormentato. Poi scendeva in cucina a preparare la colazione per tutti. Allora si presentava la madre che finiva di preparare il figlio. Nessuno sapeva quando si alzava la ragazza e cosa facesse in quella mezz’ora in cui gli altri erano in cucina a fare colazione.
Lei arrivava nel momento in cui era ora di uscire per andare a scuola. Prendeva una merendina al volo che consumava in auto in completo silenzio. A quell’ora di mattina nessuno aveva mai sentito la sua voce. Se capitava di doverle fare una domanda, la risposta era sempre un grugnito incomprensibile. Quella domenica mattina i genitori erano in agitazione come bambini, avevano deciso di andare con l’altra famiglia, quella di Francesco – l’uomo con la pistola – all’Acqua Park di Cecina. Anche lui aveva due bambini: una ragazza di quindici anni e un bambino di dodici. Adele aveva quattordici anni e Antonio quasi undici. I loro bambini, oltre che vicini di casa, erano come fratelli.
Quando la confusione fu al massimo si sentì suonare il clacson dell’auto. Subito Antonio si precipitò fuori e vide Francesco vicino al loro furgone a nove posti, comprato apposta per le gite che avrebbero fatto tutti insieme. La figlia di Francesco, Giorgia, con il suo inseparabile zainetto si era già messa seduta sulla solita pietra dell’aiuola di confine tra i due giardini dove si trovava sempre per chiacchierare con Adele. Dopo pochi minuti la sua amica uscì di casa, anche lei con uno zainetto e si avvicinò a Giorgia, alla quale porse una merendina per poi sedersi accanto a lei.
I quattro genitori fecero capannello davanti alla porta d’ingresso salutandosi calorosamente. Poi cominciarono a parlare, proprio come dei bambini, di cosa avrebbero fatto in quella giornata tra piscine e scivoli. Sarebbero andati avanti a spararle sempre più grosse se Antonio non si fosse affacciato dal finestrino urlando: Mamma, papà, andiamo!
.
Richiamati all’ordine, entrarono in casa per uscirne quasi subito con tre grosse borse di cui una frigorifero. Le caricarono nel portabagagli nel quale erano già state sistemate quelle dell’altra famiglia. Poi aprirono lo sportello posteriore e con una riverenza invitarono le due fanciulle a salire. Avevano un’aria tanto scocciata che sembrava volessero fulminare qualcuno con lo sguardo. Ma tutti sapevano che era solo un atteggiamento dovuto all’adolescenza. Anche loro, nonostante quello che volevano dare a intendere, erano contente di andare al parco acquatico, altrimenti non si sarebbero alzate così prontamente dai loro letti.
Con lentezza si avvicinarono allo sportello senza lesinare grandi sbuffi. Quando salirono sul furgone, i fratelli più piccoli le accolsero con urla di gioia ma loro risposero infastidite, spingendo indietro i ragazzi che le volevano abbracciare.
Arrivati al parcheggio del parco, riuscirono a trovare un posto all’ombra, un po’ lontano dall’ingresso ma ne valeva la pena. Il sole di agosto durante il giorno avrebbe fatto diventare il furgone più caldo di una stufa. Decisero che mentre gli uomini portavano le borse fino all’ingresso, le mogli con i bambini sarebbero andate al bar oltre la strada a completare la colazione. I bambini stavano svenendo, a dir loro, dalla fame. Lasciati i bagagli andarono loro incontro. Li videro fermi al semaforo rosso al di là della strada. In quel momento sentirono uno stridio di gomme come quando si fa una curva ad alta velocità. Un SUV nero arrivò sbandando paurosamente da una corsia all’altra della strada. Piombò senza frenare sulle persone che aspettavano sul ciglio della strada, ferme al semaforo.
Quando loro si resero conto di ciò che stava accadendo, urlarono alle mogli e ai figli, ma tutto fu vano. Le donne e i bambini furono falciati insieme ad altre persone. L’auto andò a schiantarsi poco più in là, contro un palo.
Lo spettacolo che si presentò agli occhi dei due uomini fu devastante. La moglie di Francesco era morta per prima nell’estremo tentativo di proteggere i figli mettendosi davanti a mo’ di scudo. Il bambino era morto comunque sul colpo, la ragazza passò due interminabili giorni in rianimazione, ma non riuscì a farcela. Erano morte sul colpo altre tre persone mentre la moglie di Giovanni era rimasta paralizzata dalla vita in giù. Il bambino, fortunatamente, era rimasto indietro e fu protetto da tutte le persone ferme davanti a lui. Se l’era cavata con numerose lievi escoriazioni. La bambina aveva passato molti mesi facendo avanti e indietro dall’ospedale nel tentativo di ridurre le numerose fratture riportate. Per fortuna dopo quel lungo calvario fu in grado di ristabilirsi, anche se rimase leggermente claudicante.
In un attimo la loro vita fu straziata per sempre.
All’inizio Francesco sparì completamente dalla vita se non per quelle rare occasioni in cui si affacciava dalla porta per avere notizie da Giovanni dei suoi cari. Non andava più al lavoro, non mangiava quasi più, non usciva mai di casa. Giovanni riuscì a parlare un poco più a lungo con lui solo nelle occasioni in cui si introdusse a forza in casa.
Vaneggiava sul fatto che i suoi cari in realtà erano andati ad abitare lontano da lì. Gli aveva detto che doveva restare sempre vicino al telefono perché avrebbero chiamato, ma non sapeva quando. Dal giorno dell’incidente, gli riferì di aver parlato con loro almeno una volta al giorno. Aveva più volte chiesto loro di tornare a casa ma gli avevano sempre detto che sarebbe stato lui a dover andare da loro. Gli avevano detto che non c’era fretta e che loro lo avrebbero aspettato fino a che non fosse stato pronto.
Non era neppure andato al processo del ragazzo che guidava l’auto. Solo Giovanni andò in tribunale e fu lui a riferirgli l’esito sul quale non fece nessun commento.
L’assassino la notte tra sabato e domenica era a una festa di amici durante la quale aveva consumato alcool e droga. Fu ritenuto colpevole e condannato con le attenuanti a soli due anni di carcere. Solo quando disse: Due anni di carcere
, Giovanni vide negli occhi dell’amico una luce sconosciuta e inquietante che non gli aveva mai visto prima ma che perlomeno gli dimostrò che fosse ancora vivo.
Erano passati quasi sette mesi e ogni tanto, da quel giorno, cominciò a uscire e a relazionarsi con alcune persone. Nessuno, però, riuscì mai a capire cosa pensasse. Non tornò mai più al suo vecchio lavoro ma iniziò a rendersi utile in casa del suo amico, visto che la moglie era impossibilitata a svolgere molte mansioni. Nel corso dei mesi successivi si comportò come se la famiglia dell’amico fosse anche la sua senza però mai diventare troppo invadente. Anzi, per alcune ore al giorno spariva e nessuno sapeva dove andasse. Capitò che si assentasse anche per diversi giorni. Passati altri sette mesi un’altra tegola cascò sulla loro testa. Giovanni cominciò a non sentirsi molto bene. Il medico gli disse di fare alcuni accertamenti, per allontanare un suo sospetto, che purtroppo confermarono che era affetto da una grave malattia. Questa in breve tempo gli avrebbe bloccato i reni, rendendolo schiavo di una macchina che periodicamente gli avrebbe depurato il sangue.
Passarono solo pochi mesi e Giovanni si trasformò nell’ombra di se stesso. Tutti gli esperti gli avevano detto che la sua sola speranza sarebbe stata un trapianto.
Francesco, in privato, si trovò numerose volte a piangere per il suo amico come aveva fatto nei primi tempi dopo l’incidente. Non poteva rassegnarsi a quella sorte iniqua. L’incidente gli aveva portato via tutta la famiglia ma perlomeno quella dell’amico, anche se con la moglie invalida per sempre, era rimasta intera.
Era più che sufficiente il suo dolore in quella casa. Ma ora gli avevano detto che se non avesse fatto il trapianto, il suo amico non avrebbe potuto sopravvivere a lungo. Quindi decise di dedicare tutte le sue energie alla risoluzione di quella insopportabile situazione.
Nel frattempo arrivò anche il momento per quel ragazzo di uscire di prigione. Gli era stata concessa la libertà condizionale qualche mese prima del termine. Gli fu elargito quel premio per buona condotta e, dissero, anche per buone intenzioni.
Da allora Francesco sparì quasi di circolazione. Riappariva solo quando doveva portare Giovanni a qualche nuova visita o per andare a pregare qualcuno di fare quel trapianto tanto agognato. Nell’occasione rassicurava gli amici che si domandavano cosa stesse facendo, visto che non rispondeva più neppure alle telefonate sul cellulare. Tutte le volte, i medici gli assicuravano che Giovanni era stato messo in lista ma non arrivava mai il suo turno per mancanza di un donatore compatibile.
Francesco aveva cercato di fare anche di più. Aveva trovato su internet molti altri centri sparsi per il mondo che effettuavano quel tipo di trapianto, inviando i dati dell’amico a tutti quelli che gli avevano dato un filo di speranza. Giovanni peggiorava e nessuno chiamava.
Il risultato fu la decisione di agire. Questa sua risoluzione portò Francesco in quella stanza armato di una pistola.
Il professore cercava di convincerlo: "Deve desistere poiché prima o poi arriverà il momento anche per il suo amico attraverso i canali legali. Perché si vuole rovinare per forzare la conclusione di una cosa che non può in ogni caso avvenire? Come vi è