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Quinto
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Ebook434 pages5 hours

Quinto

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About this ebook

452 d. C. La profezia degli avvoltoi visti da Romolo sta per compiersi. Dodici avvoltoi, dodici secoli fiorenti per l'impero romano: quel tempo è quasi scaduto. Attila, sconfitto un anno prima dal generale Ezio, brama vendetta. La sua smania di porre fine all'impero lo porta a varcare le Alpi per distruggere Aquileia e le principali città del nord Italia, ma il suo vero obiettivo è rinvenire una delle armi più potenti della storia e usarla contro Roma. Tre orribili omicidi, la comparsa di insolite colonne di fumo e l'arrivo di un misterioso monaco sconvolgeranno la tranquilla e monotona vita della segreta Cesarea Gallica, una città nascosta tra le Alpi, ideata da Caio Giulio Cesare cinque secoli prima per custodire la leggendaria Spada di Marte, tanto agognata dal sovrano unno. Quinto, il custode della spada, dovrà affrontare con gli amici Manlio e Livio un viaggio in cui rischierà la sua stessa vita pur di obbedire a un ordine giunto dal passato. Sin dove si spingerà la crudeltà degli uomini che ambiscono a dominare il mondo? Un affresco storico attorno alla distruzione della città di Aquileia da parte degli unni di Attila, condito da enigmi, superstizioni, cruda prigionia e sanguinose battaglie. Un viaggio appassionante e pericoloso accanto a personaggi che credevano ancor nella potenza di Roma, nonostante il destino già segnato, e che hanno evitato alla città eterna di scomparire per sempre.
LanguageItaliano
PublisherLa Penna Blu
Release dateSep 30, 2018
ISBN9788895974255
Quinto

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    Quinto - Davide Corvaglia

    Attila.

    Prologo

    27 Aprile 452 d.C.

    Foresta, qualche miglio a nord ovest di Aquileia

    Era appena scoccata la mezzanotte, mentre Quinto si rialzava dal fango. Era sporco e stanco, ma doveva correre e allontanarsi da Aquileia il più possibile.

    La testa gli doleva per il colpo ricevuto. Forse la freccia che gli aveva sfiorato la tempia era un avvertimento dei suoi carcerieri. Gli erano stati alle calcagna per tutta la fuga e avevano più volte tentato di colpirlo.

    Cercò di alzarsi, facendo leva sulle braccia; un sottile rivolo di sangue e fango gli sporcò il viso e cadde sul terreno in un impasto filamentoso. Non sapeva più quanta strada avesse percorso per scappare dalla sua prigione, ma aveva ancora in sé abbastanza forza da continuare, sempre che la ferita non decidesse di aprirsi di più.

    Avanzò zoppicando, costringendo le sue gambe a correre, e decise di riprendere la via che portava alla sua città. Non dev’essere poi così lontana sperò.

    Aveva in mano la freccia che gli era caduta accanto e la teneva con sé come arma. Non gli sarebbe stato difficile arrivare alla strada, ma scartò questa soluzione: anche se al buio, lì sarebbe stato facilmente rintracciabile dai suoi inseguitori. Era riuscito a seminarli attraverso un corso d’acqua, cambiando percorso senza essere notato. Ma loro erano a cavallo e non avrebbero faticato a raggiungerlo.

    Trasalì per un rumore sordo alle sue spalle e si voltò di scatto. Sono già arrivati? pensò.

    Si mise ad avanzare carponi nel sottobosco, ferendosi le braccia, ma il pensiero di ciò che lo attendeva, se fosse stato catturato un’altra volta, lo preoccupava maggiormente.

    Giunse a una grotta, si assicurò che non fosse la tana di qualche bestia feroce, quindi oltrepassò la soglia. Si appostò all’ingresso, nascosto da una grossa radice che chiudeva per metà l’entrata del suo nuovo nascondiglio, e appoggiò la mano libera contro la parete fredda, con gli occhi socchiusi per vedere meglio al solo chiarore della luna. Il cuore batteva all’impazzata e sperava di essere l’unico a poterlo sentire.

    Ancora lo stesso rumore sordo lo fece sobbalzare, ma cercò di mantenere la calma anche se i due uomini camminavano a poca distanza: non li vide, ma riconobbe il passo di uno di loro mentre avanzavano.

    Una gamba ferita aveva pensato inizialmente durante la prigionia. Invece poté constatare, non appena entrarono nel suo campo visivo, che non era così: la gamba non esisteva. Al suo posto c’era un lungo bastone di legno, legato a quel che restava della coscia da uno straccio.

    L’uomo senza gamba, il più alto dei due, si fermò. Puntò nella direzione della grotta e affinò lo sguardo.

    Quinto rimase immobile, senza respirare. Sperò che il cuore non si facesse sentire dal gigante.

    L’uomo colpì violentemente un albero con la sua arma come se, con quel rumore, cercasse di stanare la preda. Un altro colpo. E un altro. E un altro.

    Il suo compagno, il grassone, ridacchiò e sputò in un cespuglio. Impugnò anche lui l’arma come se si stesse preparando ad attaccare.

    Quinto strinse il dardo, ferendosi: era pronto a reagire, ma gli tremavano le mani.

    Dovrei essere in grado di ucciderne almeno uno colpendolo alla gola pensò in un istante di lucidità.

    I due uomini si avvicinarono. Li vide meglio, ma restò immobile e, a ogni loro passo, stringeva sempre di più la freccia. Il più basso iniziò a correre, silenzioso e veloce per la sua stazza, e alzò sulla testa la lancia, pronto a scagliarla con tutta la sua forza.

    Quinto chiuse gli occhi. La lancia sibilò e quasi contemporaneamente sentì la fitta.

    Crollò a terra.

    Buio.

    I

    14 dicembre 451 d.C.

    Cesarea Gallica, 120 miglia circa a nord est di Aquileia

    «Eccolo.» «Maledizione, un altro!» L’urlo di Quinto si perse tra gli alberi.

    La foresta offriva un paesaggio senza rumori, celato da una foschia leggera. La notte era stata calma e fresca, ma l’alba aveva riscaldato l’aria molto velocemente facendo salire il vapore dal terreno.

    Quinto e il suo amico Manlio avevano abbandonato la battuta di caccia e stavano correndo a cavallo verso il corpo che giaceva riverso nel fango. Era già la seconda volta, negli ultimi giorni, che assistevano alla stessa scena.

    Leto si era già avvicinato e lo annusava, girandogli intorno incuriosito. Quinto scese da cavallo e si abbassò sul cadavere, portandosi una manica a coprirsi la bocca. L’odore dolciastro di carne in decomposizione aveva saturato l’aria, rendendo difficile il semplice atto di respirare.

    Manlio richiamò il cane, e raggiunse l’amico.

    Rivoltarono delicatamente il corpo, scoprendo il volto pieno di poltiglia. Cercarono di ripulirlo, ma era ugualmente irriconoscibile, con la pelle completamente tumefatta e piena di graffi. Quinto indicò un punto al di sotto del mento, e sospirò: «Hanno tagliato la gola anche a lui.»

    «Già, nello stesso modo» precisò Manlio. «Probabilmente hanno usato un pugnale.»

    «Sì, è possibile» sussurrò, riposizionando il cadavere a terra e permettendo alla camicia di aprirsi sul petto, dove la pelle era stata strappata via. Sembrava che qualcuno avesse scavato in quel punto, lasciando scoperto il cuore.

    Una manciata di insetti uscì dalla ferita e i due si voltarono disgustati.

    «Dai, aiutami a portarlo via. Vediamo di scoprire chi è.»

    Tolsero il telo sistemato sotto la sella, e lo usarono per avvolgere il corpo prima di caricarlo sul cavallo per portarlo in città.

    Manlio non disse una parola per tutto il tragitto, cercando di ignorare la nausea.

    Il suo amico cercava di capire cosa stesse accadendo. Non era la prima volta che si trovava davanti a un cadavere, ma non gli era mai capitato di vedere due uomini uccisi così brutalmente e senza motivo. Il primo era stato identificato senza difficoltà perché il viso era intatto, mentre il secondo era irriconoscibile. Guardandogli le mani e i vestiti pensò a un contadino o a un pastore, anche se non aveva visto nessuna pecora nella zona. Fece spallucce, come per rispondere ai suoi stessi quesiti.

    «Dobbiamo sbrigarci!» esclamò Manlio indicando il telo. «L’odore sta diventando insopportabile.»

    «Cerca di resistere, almeno fino a Cesarea. Poi lo porterò io dal sacerdote.»

    Oltrepassarono la porta della città e si separarono. Quinto superò la piazza, cercando di mantenere un aspetto sereno per non attirare l’attenzione e bussò alla porta del tablinium (1) a casa del vecchio.

    «Maestro, aiutatemi a portare dentro il cavallo» disse, in tono serio. «Dobbiamo fare presto.»

    «Sei turbato, figliolo. Cosa succede?»

    «Vi racconterò tutto appena siamo dentro» e tirò il cavallo all’interno dell’orto. Poi trascinò il telo, posandolo a terra e scoprendo parte del contenuto.

    «Per gli dei, un altro assassinio!» esclamò il vecchio, piegandosi accanto al viso del morto.

    «Allo stesso modo, sembra. Questo però è conciato male» e scoprì anche la ferita sul petto.

    «Non lo riconosco, è difficile con tutto questo sporco e queste ferite» disse, guardandosi attorno per cercare un pezzo di stoffa.

    «Neanche io ci sono riuscito» confessò Quinto, rialzandosi.

    «Lascialo a me, ci penserò io. Va’ pure.»

    Tornò a casa con l’intento di riposare un po’. Voleva dormire, ma lo stomaco sopraffatto dalla tensione glielo impedì. Provò a chiudere gli occhi, ma il sonno non arrivava; allora posò lo sguardo sul muro di fronte, come faceva di solito quando voleva cercare un po’ di tranquillità o aveva bisogno di pensare, fissando il dipinto di sua madre: una musa che suonava l’arpa.

    Era capace di stare in quella posizione per delle ore e concentrarsi tanto da riuscire a immaginarla mentre muoveva le dita per suonare. Perse di vista il camino acceso, al cui interno bolliva lo stufato di cinghiale. Il calore arrivava ad accarezzargli le guance, anche se il letto era dalla parte opposta dell’unica stanza che costituiva la sua casa.

    Pensò a come riordinare le idee, ma vedeva ancora tutto in modo confuso. Gli tornarono in mente i consigli di Lucio, il suo addestratore. Il suo pensiero volò a nove anni prima, al giorno del suo primo combattimento nell’arena di Aquileia. Era disorientato proprio come in quel momento, ma le parole di Lucio lo aiutarono a vedere la difficoltà con occhi diversi. «Non importa chi incontrerai nell’arena» gli aveva detto, mentre gli allacciava lo scudo. «Tutto comincia da qui, dalla tua mente. Sii sicuro delle tue capacità e pensa soltanto a voler vincere, senza soffermarti troppo sulle eventuali difficoltà, e quando hai visto nella tua mente te stesso battere l’avversario, muoviti. Fai il primo passo. Sali il primo gradino che ti porterà là fuori con quel pensiero. Percorri la scalinata con la consapevolezza di volerlo battere e, quando sarai davanti a lui, non indugiare, ma combatti come sai.»

    Ora non riusciva ancora a capire quale sarebbe stato il primo passo da fare, ma sapeva che presto l’avrebbe trovato.

    «Quinto, muoviti, presto!»

    Le grida improvvise giunte dalla strada lo fecero sobbalzare. Ancora assonnato si precipitò dal letto e uscì. Manlio e altri cittadini erano accorsi dalla taverna per chiamarlo e ora fissavano un punto nella vallata. Un’altra colonna di fumo si alzava dritta in cielo.

    «Un accampamento» gridò Manlio, «è di certo un accampamento e sono sempre più vicini!»

    «È possibile, ma chi potrebbe essere?» domandò Quinto.

    «Io vado a dare un’occhiata» incalzò Manlio montando sul suo cavallo. «Sono giorni che le vediamo e stiamo qui senza fare nulla. Bisogna capire cosa sta accadendo, prima che sia troppo tardi.»

    «No, Manlio. Non sappiamo chi siano, potrebbero essere soltanto di passaggio e farci scoprire non farebbe altro che portarli da noi. Il nostro compito è stare nell’ombra. Ricorda cosa stiamo proteggendo. Nessuno deve sapere che siamo qui!»

    «Queste montagne non ci nasconderanno ancora per molto. Qualcuno è già arrivato a noi. Pensa alle persone uccise in questi giorni. C’è qualcosa che non va, e io devo scoprirlo. Dì a Giulia di tenere Leto chiuso in casa e di non farlo uscire prima che io sia tornato. Non voglio che venga a cercarmi» e, senza dire altro, Manlio era già al galoppo verso la colonna di fumo.

    Quinto non cercò di ostacolarlo. Benché lo ritenesse troppo istintivo nelle decisioni che prendeva, a volte incapace di valutare i possibili intoppi, si fidava di lui ed era consapevole delle sue abilità con le armi e nella caccia. Inoltre conosceva la sua capacità di muoversi di nascosto: se il suo obiettivo era spiare senza farsi scoprire, allora lo raggiungeva perfettamente. Lo guardò allontanarsi di corsa e si voltò verso il sacerdote che, uscendo dalla sua stanza, si sbrigò a raggiungerli.

    «L’uomo è pronto per essere portato dalla sua famiglia» disse toccandosi la lunga barba bianca.

    «Non sappiamo ancora chi è o come si chiama. Il viso è irriconoscibile» rispose.

    «Aveva una frattura al braccio destro e una alla gamba sinistra» precisò il vecchio.

    «E con questo?»

    «Le fratture non erano comuni e soltanto un uomo le aveva in quel modo; ero stato io stesso a curarle. Quell’uomo era Marzio.»

    «Marzio come il contadino ucciso due giorni fa?»

    «Sì» riprese il vecchio. «Due giorni fa è morto Marzio Equo. Quello di stamattina era Marzio Gallo.»

    «Marzio Gallo, l’allevatore?»

    «Proprio lui» confermò il Maestro, annuendo lievemente.

    Quinto si accigliò, preoccupato. «Due uomini uccisi in pochi giorni, ed entrambi con lo stesso nome. Mi sembra strano che si tratti di pura coincidenza.»

    «È il caso di scoprirlo» rispose il sacerdote. «Vieni appena puoi a casa mia, devo mostrarti qualcosa che potrebbe interessarti. Ora, però, va’ a dirlo alla famiglia.»

    «Sarà dura, come lo è stato con gli Equo» considerò e, salutando il suo Maestro, si voltò per avviarsi verso la casa del defunto. Ebbe un brivido che dal collo gli scese lungo la schiena, quando una folata fredda gli accarezzò la nuca. Si mise le mani in tasca e sollevò le spalle, rivolgendo lo sguardo verso il sole, che stava già scendendo oltre le montagne. Pensò a Manlio che non era ancora rientrato, poi guardò verso sud: la colonna di fumo era ancora lì.

    Manlio aveva galoppato tutto il pomeriggio, rischiando più volte di azzoppare il cavallo. Era la prima volta che percorreva la discesa con tanta foga e aveva dovuto attraversare tutta la foresta per potersi avvicinare alle colonne di fumo.

    Arrivò nei pressi dell’accampamento, ma decise che sarebbe stato meglio continuare a piedi. Legò il cavallo in un posto sicuro vicino a un corso d’acqua e si avvicinò cercando di stare il più basso possibile. Si nascose tra la vegetazione, ai piedi dei grandi alberi che fiancheggiavano l’accampamento.

    Ansioso di scoprire chi avrebbe trovato là dentro, gli sembrò che il sole stesse tramontando troppo velocemente. Avvertì delle voci. Gli parve di sentire alcune persone che urlavano e ridevano in direzione della radura di fronte. Non poteva più proseguire perché avrebbe perso la copertura delle piante. Si tolse quindi la cintura e le armi e iniziò a salire su un albero.

    L’arrampicata fu dura: l’agitazione gli impediva di afferrare bene il tronco e salire comodamente. Scivolò un paio di volte, imprecando a bassa voce. Ogni volta dovette fermarsi ad ascoltare per capire se qualcuno si fosse accorto della sua presenza.

    Nessuno.

    Arrivò finalmente in cima quando il sole era ormai tramontato e l’oscurità gli concedeva un’altra garanzia di protezione. Finalmente vide il campo circondato da alcuni uomini in posizione di guardia. Poté quasi guardarli in faccia e notare che erano vestiti di stracci e pelli di animali. Parlavano tra loro in una lingua incomprensibile, e non capì subito chi fossero. A un tratto trasalì e non ebbe più dubbi.

    Barbari.

    Erano arrivati.

    Si controllò per non cadere dall’albero e si rimise disteso, stringendo le braccia attorno al grosso ramo sotto di lui. Voleva vedere ancora un po’ cosa facevano. Constatò che c’era un clima lieto tra loro, quasi di festa, e scorse una grande tavola imbandita con enormi pezzi di carne e fiumi di vino. Non c’era frutta, niente acqua. Mangiavano con le mani e strappavano con i denti la carne come animali selvatici.

    Alcuni dormivano stramazzati mentre altri, ubriachi, urlavano canti insopportabili e ridevano, insultando un gruppo di cinque persone che stava invece in disparte a giocare. Intorno a loro si stendeva l’accampamento. Tende sparse, non allineate, che sembravano quasi messe a caso ma lasciavano intuire una logica precisa. Manlio riconobbe quella del comandante al centro.

    A un tratto sentì le risa isteriche di una donna dall’aspetto mascolino e vestita di stracci che, barcollando, seguiva un barbaro dentro la sua tenda. L’uomo l’aveva sollevata quasi di peso, traendola da un gruppo di una ventina di donne, e l’aveva spinta dentro. Rideva anche lui.

    Il giovane rimase a guardare la scena dall’alto, poi fu attratto da un movimento brusco quasi sotto di lui. La guardia vista poco prima si era mossa e stringeva nel pugno una spada lunga e larga. Teneva la lama curva appoggiata contro il petto e, con sguardo vitreo, fissava nel vuoto. Non era l’unico. A distanza regolare c’erano gli altri, disposti a cerchio attorno all’accampamento, e davano tutti le spalle alle tende. Sputavano spesso per terra.

    Qualche minuto più tardi la donna uscì da sola e, sistemandosi i capelli arruffati, tornò al suo posto. Le altre risero al suo arrivo.

    Manlio ritenne di essere rimasto lì abbastanza. Doveva scendere, raggiungere il suo cavallo e tornare a casa prima dell’alba per avvertire Quinto. Com’era arrivato lì, scivolò giù e, muovendosi tra l’erba, s’incamminò nella direzione contraria. Fece a malapena qualche passo cercando di sbrigarsi, ma quello che vide lo immobilizzò.

    Due occhi, come due torce nel buio, erano proprio davanti a lui e lo fissavano. Qualche istante e il loro proprietario si mosse, attaccandolo con un pugnale, e gli sfiorò il braccio.

    Emise un gemito di dolore, e rotolò di lato per schivare un secondo colpo diretto al viso. Sono stato scoperto, maledizione! pensò mentre si affrettava ad allontanarsi.

    L’uomo, che stava ormai a qualche metro da lui, si alzò in piedi e si portò un corno alla bocca, tenendolo premuto contro le labbra. Prese un lungo respiro per suonarlo con tutta la sua forza.

    Manlio, senza pensare, estrasse il suo pugnale e lo scagliò con tanta energia da conficcarglielo dritto nel collo.

    Il barbaro non riuscì a suonare. Guardando Manlio con aria di sfida, fece per lanciarsi contro di lui, iniziando a correre, ma ogni movimento era soltanto frutto della sua immaginazione perché, già da qualche istante, giaceva bocconi per terra sanguinando e sbavando. Si contorse per il dolore senza emettere alcun grido.

    Manlio cercò di rialzarsi scivolando più volte nel fango e si dileguò prima che qualcuno, non vedendo la guardia rientrare, potesse allarmarsi. Trovò il cavallo e partì di corsa verso Cesarea. Il suo unico pensiero era allontanarsi il più possibile e mettersi in salvo. Si voltò a guardare il campo, ma ormai gli alberi lo nascondevano alla sua vista.

    La notte era silenziosa e l’aria frizzante annunciava un imminente temporale. La pioggia avrebbe cancellato le sue tracce, ma nessuna goccia cadde quella notte se non quelle che uscivano dalla ferita al braccio. Il dolore atroce stava per farlo svenire, ma doveva resistere fino al villaggio: doveva avvisare Quinto e raccontargli tutto. Spinse il suo cavallo come non aveva mai fatto.

    Tre suoni di corno alle sue spalle.

    Era stato scoperto.

    II

    15 dicembre 451 d.C.

    Cesarea Gallica

    Dopo una notte passata quasi senza chiudere occhio per i pensieri che lo tormentavano, Quinto fu svegliato all’alba da un forte rumore di zoccoli in avvicinamento.

    Spero sia lui pensò mentre si alzava dal letto.

    Uscì e percorse velocemente la strada che portava in piazza, ma fu anticipato da Manlio che si avvicinava a gran velocità, una maschera di inquietudine dipinta sul volto. Giunto a un centinaio di piedi dall’amico, smontò velocemente da cavallo e corse verso di lui, urlando a gran voce come se avesse perso la ragione: «Sono arrivati, Quinto!»

    «Aspetta, calmati!» Quinto lo afferrò per un braccio, trascinandolo in casa del sacerdote, poco distante dal piazzale.

    «Scusate l’intrusione, Maestro, ma abbiamo un problema» esordì dopo aver picchiato sulla porta innumerevoli colpi. Voleva evitare il coinvolgimento dei concittadini fino a che non avesse parlato con lui. Spinse Manlio oltre l’ingresso ed entrò chiudendosi la porta alle spalle.

    «Adesso ti calmi e mi racconti tutto. Prendi questa intanto» si limitò a dire nel modo più tranquillo possibile, e gli porse una coppa piena d’acqua.

    «Sono arrivati… tanti. Sono delle bestie» ansimò Manlio, che ancora non aveva smesso di tremare per il nervosismo. Si guardava le mani che s’intrecciavano intorno alla coppa, stringendola.

    «Chi è arrivato?» chiese il sacerdote.

    «Bestie, sì… tante bestie» ripeté meccanicamente, respirando a fatica.

    «Procediamo con calma. Intanto, dove sono di preciso?» riprese Quinto, sempre cercando di mantenere la lucidità. «Hai scoperto perché ci sono quelle colonne di fumo?» chiese poi.

    «Ho cavalcato tutto il pomeriggio» prese quindi a raccontare Manlio. «Ho quasi azzoppato Baldius pur di fare in fretta e sono arrivato alla radura a sud ovest, oltre il bosco, prima di sera.»

    «E poi?»

    «Ho lasciato al sicuro il cavallo e mi sono avvicinato a piedi, strisciando nell’erba per non farmi notare. Poi mi sono arrampicato su un albero e li ho visti.»

    «Chi hai visto?» chiese ancora.

    «I barbari, non ci sono dubbi. Sono delle bestie, mangiano come i lupi, vestono con stracci e pelli d’animale e sono armati fino ai denti: dovresti vedere il loro sguardo.» Dopo aver detto questa frase, Manlio si fermò e fissò il vuoto.

    «Continua» disse Quinto appena gli ebbe posato una mano sulla spalla per rincuorarlo, meravigliandosi di quanto fosse agitato.

    «Ho visto la tenda del loro comandante, ma non ho visto lui»

    «Quanti sono?»

    «Non lo so. Qualche centinaio, forse addirittura un migliaio. C’erano soltanto venti uomini di guardia intorno all’accampamento. Enormi, spaventosi. Il loro sguardo è di ghiaccio. Uno di loro mi ha scoperto mentre fuggivo e ha cercato di uccidermi, ma mi ha soltanto ferito al braccio» e mostrò al vecchio il sangue rappreso attorno al taglio. «Poi l’ho fatto fuori con un colpo alla gola prima che potesse dare l’allarme, ma qualcuno l’ha scoperto lo stesso e ha suonato il corno. Ho temuto che mi prendessero, ma sono riuscito a essere più veloce di loro. Non mi ha visto nessuno.»

    «Ne sei sicuro?» disse Quinto alzandosi. Scrutò fuori dalla finestra nella direzione da cui era arrivato Manlio, trattenendo qualche istante lo sguardo verso l’ingresso della città.

    «Il ragazzo ha ragione, non è stato seguito» comunicò al vecchio, «ma i barbari si sono comunque avvicinati troppo. Devo pensare a qualcosa» e uscì, lasciando Manlio con il sacerdote.

    Durante il breve tragitto fino a casa sua decise che era arrivato il momento di riflettere su come organizzare meglio la guardia della città. Forse dovrei ricontrollare le mura, trovare gli uomini adatti a difenderle, riaprire il piccolo corpo di guardia…. La paura di non essere all’altezza iniziò a confondergli la mente, facendo capitolare i pensieri senza un ordine preciso. Sentì una stretta allo stomaco. Cercò di allentarla respirando profondamente.

    Era consapevole dell’atteggiamento dei barbari nei confronti dell’Impero e dava ragione a Manlio: erano delle bestie. Le voci che circolavano sul loro conto erano sempre le stesse. Alcune raccontavano di intere città saccheggiate e distrutte, altre del modo in cui torturavano i loro prigionieri.

    Rabbrividì al pensiero ed entrò in casa.

    Il fumo continuò a salire dalla valle per i due giorni successivi e nell’ultima mattina apparve più distante. I barbari erano ancora nei dintorni, ma sembrava si stessero allontanando gradualmente. Poteva essere una buona notizia.

    Quinto era all’esterno delle mura e passeggiava avanti e indietro, osservandole in ogni particolare. Erano ancora intatte, nonostante fossero passati cinque secoli dalla loro edificazione: ogni pietra trasudava l’esperienza di chi le aveva costruite. Era quindi arrivato il momento di provare la loro efficacia.

    Un uomo tarchiato e pesante, che dondolava leggermente la testa nel camminare, lo raggiunse poco più tardi.

    «Buongiorno, Claudio» lo salutò.

    Il funzionario edile rispose con un gesto rapido della mano, poi si asciugò la fronte. «Il tuo messaggio sembrava urgente, mi sono precipitato appena ho potuto» disse con una certa premura, stringendo la borsa sotto il braccio.

    «Hai ragione. E per questo sarò diretto: dobbiamo riconsiderare le mura.»

    «E per quale motivo?» chiese, mentre estraeva gli incartamenti che aveva portato con sé su richiesta di Quinto, tra cui la pianta della città aggiornata all’ultima disposizione degli spazi e delle abitazioni.

    «Hai presente il fumo che si vede da qualche giorno?»

    «Ebbene?»

    «Un accampamento di barbari si è avvicinato troppo. Non so se sono a conoscenza della nostra posizione, né se stiano esattamente cercando noi o se si trovano qui per caso, ma dobbiamo essere prudenti e non farci cogliere impreparati.»

    «Cosa vuoi che faccia, dunque?»

    «Utilizzeremo per la prima volta queste mura per difenderci da qualcuno. Per prima cosa, vorrei che tu facessi ispezionare il loro perimetro. Non sono mai state usate in questo modo e vorrei verificare il loro stato. Credi sia possibile entro sera?»

    «Certamente, manderò una squadra appena possibile. Tieni conto che le controlliamo già ogni anno, prima della festa.»

    «Perfetto, meglio così, e poi vorrei controllare anche quelle» aggiunse, indicando le quattro torri che si intervallavano a distanza regolare sulla cinta muraria sul lato sud e ovest. «Lassù dovrà starci chiunque sia in grado di maneggiare un arco.»

    «Nessun problema. Con che cosa attaccano di solito?»

    «So che utilizzano macchine d’assedio mobili e fisse, oltre agli archi e alle spade.»

    «Possiamo escludere le macchine» specificò Claudio, facendosi aria con la mano. «Non riuscirebbero mai a portarle quassù.»

    «Proprio così, ma non per questo dobbiamo sottovalutarli. Vorrei anche che tu facessi venire qui il fabbro per rinforzare i cardini della porta» aggiunse indicando le parti in metallo che la reggevano, fissati nella dura pietra.

    «Perfetto» annuì.

    «Dimenticavo: verifica anche il lato nord e nord est.»

    «Certamente, anche se pensavo non fosse necessario. Da lì nessuno può attaccare. Non è accessibile.»

    «Non bisogna escludere nessun varco. Potrebbero incendiare i rovi attorno alle mura e circondarci.»

    Claudio assentì pensieroso, tracciando dei segni sulla pianta, e prese alcuni appunti.

    «Tutto questo dev’essere completato entro sera; potrebbero arrivare a noi in qualsiasi momento» spiegò infine, cercando di apparire freddo e lucido anche se in realtà era molto preoccupato. Questa gente non è abituata a combattere era il suo pensiero fisso. E io non sono altro che un custode. So combattere con un singolo avversario, ma non sono pronto a sostenere un assedio.

    Il sacerdote gli aveva affidato il compito di proteggere l’altare e la città quando era rientrato da Aquileia per la morte del padre. Da allora erano passati sette anni ed era la prima volta che si trovava a doverlo fare davvero.

    Salutò Claudio al termine del loro incontro e rimase lì, mentre l’altro rientrava in città, infilando con estrema cura le sue carte nella borsa.

    Il dominio della Città Eterna stava decadendo; i popoli del nord si stavano ribellando a Roma e sarebbero arrivati, alla fine, anche da loro. La profezia degli avvoltoi visti da Romolo stava per compiersi. Dodici avvoltoi, dodici secoli fiorenti: il tempo era scaduto. Il contenuto delle ultime lettere del loro contatto a Roma era incentrato proprio su quest’argomento.

    Passò tutto il giorno sulle mura, controllando l’intero percorso, e si fece un’idea dei punti strategici offerti. Salutò i muratori che completavano le ultime riparazioni che aveva chiesto, poi passò sul lato ovest e si accorse che era il lato del bosco da cui i nemici sarebbero arrivati fino alle mura senza essere visti. I due omicidi erano proprio stati commessi in quell’area, a qualche miglio di distanza dalla città. Decise di concentrare lì i suoi uomini.

    Il temporale, previsto sin dal giorno prima, si fece annunciare da un paio di tuoni e lo costrinse a rifugiarsi nel vecchio corpo di guardia.

    Riuscì a dormire fino all’alba.

    Si svegliò guardando la finestra impolverata da cui entravano i primi raggi di sole. Le nuvole erano sparite. Una volta fuori si accorse che anche il vento aveva smesso di soffiare forte.

    Si diresse, come ogni mattina, nell’orto dietro casa. Raggiunse il piccolo altare che si trovava in fondo, sul lato est. Era una costruzione di granito, alta fino alla sua cintura e larga il doppio, sulla cui sommità aveva la statua di un’aquila con le ali aperte, simbolo della forza dell’Impero che negli ultimi anni stava abbandonando la città eterna.

    Si avvicinò e mise una gamba a terra. Poi, premendo la fronte contro le braccia incrociate e appoggiate sull’altro ginocchio, pronunciò tre frasi in etrusco antico. Spesso, durante il rituale, gli era sembrato di sentire una voce di un uomo che, come un’eco, le ripeteva sussurrandole. Una lieve folata di vento accompagnava l’ignota presenza e poi si placava.

    Si era agitato soltanto la prima volta, ma in seguito, senza conoscere il motivo, la voce iniziò a trasmettergli forza e sicurezza.

    Quella mattina la udì nuovamente e si sentì meglio.

    Riprese il suo giro di perlustrazione ed esplorò il lato sud della città, quello che offriva il percorso migliore per un eventuale attacco, anche se le dimensioni del sentiero, che si inerpicava lungo il pendio, non erano abbastanza grandi da contenere un intero esercito.

    Alla fine si ritenne soddisfatto nell’appurare che la struttura fosse già efficace così com’era e che le modifiche erano state leggere e velocemente attuabili. Non gli restava altro da fare che riferire il piano ai suoi concittadini e prepararli a un eventuale attacco, nonostante il rischio di spaventarli.

    Organizzò quindi un incontro al centro della città, nel piccolo anfiteatro, un’ora prima del calar del sole, a fine giornata lavorativa, in modo da coinvolgere tutti senza che nessuno dovesse interrompere la propria attività.

    Anche i boscaioli, che ogni giorno raccoglievano legna lontano dalla città, avrebbero avuto il tempo necessario per tornare e assistere al suo discorso.

    C’era già chi immaginava quale potesse essere l’argomento dell’incontro. Si sarebbe discusso delle morti dei due uomini e ci sarebbe stato qualcuno da incolpare perché, da secoli, nessun forestiero s’imbatteva nella loro zona; se c’era un assassino, doveva trovarsi in mezzo a loro.

    La convocazione aveva avuto successo. I cittadini stavano entrando ordinatamente nell’anfiteatro per partecipare all’assemblea. Scendevano gli scalini ricavati nella pietra e ognuno salutava Quinto, seduto sul palco. C’era anche la moglie del suo vicino Marzio, morto due giorni prima, e il loro figlioletto che giocava con un animale di legno. Sembrava ci fossero quasi tutti, mancavano soltanto i dieci taglialegna che sarebbero tornati indietro a coppie.

    Quinto li attese

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