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Orwell
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Ebook306 pages4 hours

Orwell

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About this ebook

Tutti ne parlano, ma nessuno dice tutto. Quella in atto, è la rivoluzione più veloce e incisiva: si sviluppa nella Rete, ma comunicazione e informazione condizionano il mondo reale, determinando il corso delle nostre esistenze. 70 anni fa, con “1984”, George Orwell preconizzò quanto accaduto; oggi, con questo volume, Alessandro Nardone spiega come governare i potenti mezzi a nostra disposizione, per diventare protagonisti del nostro tempo. Un libro alla portata di tutti, per ripercorrere dagli esordi la Rivoluzione Digitale con un’intervista a Ted Dabney, cofondatore di Atari; l'intervento del “padre” di Dagospia, Roberto D'Agostino e prefazione di Gianni Di Giovanni, presidente di Eni Usa. Dai primi videogiochi, che hanno portato l'informatica nelle case di milioni di persone, alle “rivoluzioni” di Steve Jobs, Bill Gates e Gianroberto Casaleggio, passando per la grande questione della privacy sollevata da Edward Snowden, fino ai mezzi concreti attraverso cui ottimizzare da subito la presenza sul Web, personale e aziendale. “Orwell” è la vision per distinguervi dalla massa nel costruire e valorizzare il vostro brand, partendo dalla qualità dei contenuti. Contiene il “Glossario del Digital”.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateOct 8, 2018
ISBN9788827850800
Orwell

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    Orwell - Alessandro Nardone

    CONTENUTI

    Prefazione

    di Gianni Di Giovanni

    Introduzione

    Comunicazione, informazione, rivoluzione

    PRIMA PARTE: La Rivoluzione digitale

    CAPITOLO I - Da Pong all’Atari 2600

    CAPITOLO II - Tutto cominciò così: intervista a Ted Dabney, il fondatore di Atari

    CAPITOLO III - L’era degli Home Computer: dal Commodore 64 all’Amiga 500

    CAPITOLO IV - Il World Wide Web

    CAPITOLO V - Dai siti ai blog

    CAPITOLO VI - La Rivoluzione di Steve Jobs

    CAPITOLO VII - I Social network

    SECONDA PARTE: Siamo tutti intercettati: Snowden e il Datagate

    CAPITOLO VIII - Un uomo solo contro la sorveglianza orwelliana

    CAPITOLO IX - L’obiettivo è condizionare i nostri comportamenti

    CAPITOLO X - Intervista a Edward Snowden

    TERZA PARTE: La verità è una bugia

    CAPITOLO XI - Propaganda

    CAPITOLO XII - La dittatura dei click

    CAPITOLO XIII - Se è gratis, la merce siamo noi

    QUARTA PARTE: La case history di Alex Anderson

    CAPITOLO XIV - Alex e il suo oceano blu

    CAPITOLO XV - Lo schema di Alex

    QUINTA PARTE: Ora tocca a te

    CAPITOLO XVI - Comincia da te stesso

    CAPITOLO XVII - Nessuna idea è stupida

    CAPITOLO XVIII - Prima i Contenuti

    CAPITOLO XIX - Hai una storia: raccontala

    CAPITOLO XX - Impossibile è un’opinione. Sbagliata

    SESTA PARTE: Do it like the mass, Or Well

    CAPITOLO XXI - Usare Facebook

    CAPITOLO XXII - Capire Twitter

    CAPITOLO XXIII - Ognuno di noi è un brand

    Epilogo

    Ringraziamenti

    SETTIMA PARTE: Il Glossario del Digital

    Nota sull'autore

    ALESSANDRO NARDONE

    La rivoluzione digitale ha cambiato il mondo,

    noi rivoluzioneremo il mondo della comunicazione

    Titolo | ORWELL

    Autore | Alessandro Nardone

    ISBN | 9788827850800

    Prima edizione digitale: 2018

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti  dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Editing | Carlo Cattaneo

    Grafica copertina | Nicolò Scorpo

    Fotografia | Emanuele Scilleri

    Stampato in Italia

    A chi non ha creduto in me.

    Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

    «Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?» chiede Kublai Kan.

    «Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra»,

    risponde Marco «ma dalla linea dell’arco che esse formano».

    Kublai Kan rimase silenzioso, riflettendo. Poi soggiunse: «Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che mi importa».

    Polo risponde: «Senza pietre non c’è arco».

    Italo Calvino

    Prefazione

    Lo screen che ci sta cambiando la vita

    di Gianni Di Giovanni ¹

    L ’avvento e l’affermazione della Rivoluzione Digitale ha completamente sovvertito le regole di comunicazione tra gli individui e nelle aziende grandi e piccole e, di conseguenza, la professione di chi è chiamato a informare il mercato e a interagire con esso. E non è solo una questione di strumenti, ma soprattutto di atteggiamento: l'impresa è trasparente, sotto gli occhi di tutti, sottoposta a uno scrutinio continuo delle sue azioni e della sua reputazione e non può sottrarsi alla sfida della credibilità.

    Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, infatti, non ha accresciuto solo il volume delle informazioni trasmesse, ma anche la rete di relazioni che le imprese intrattengono con il mondo esterno e la comunicazione è così diventata una pratica sociale attraverso cui si entra in contatto con i pubblici più disparati, ai quali i comunicatori devono offrire una realtà fatta di credibilità, autorevolezza, competenza. Con approccio ottimistico ma consapevole della sfida, Alessandro Nardone, tra i maggiori esperti italiani di comunicazione digitale, con il suo libro, analizza uno per uno gli elementi e le questioni cruciali del nuovo contesto condividendo riflessioni, strategie e testimonianze per gestire con successo la conversazione in Rete.

    Vorrei soffermare l’attenzione su uno di questi elementi. Secondo Thomas Stearns Eliot, «la televisione è un mezzo di intrattenimento che permette a milioni di persone di ascoltare contemporaneamente la stessa barzelletta, e rimanere ugualmente sole». Una battuta amara, perché maledettamente vera. Ma nell’era dei social network, è ancora così vera? Non più, o forse non come prima. Perché il modo di guardare la televisione è cambiato. In meglio, a voler assumere la prospettiva di Eliot. E lo si deve a quella rivoluzione pervasiva e totalizzante, piena di effetti collaterali inquietanti, ma anche positivi che non ha sconfitto la televisione, non le ha strappato il primato dell’audience, ma l’ha profondamente cambiata. La rivoluzione del second screen. Se ne parla, e non da oggi. Ma non è chiaro a tutti come definirla. Proviamoci. La definizione oggi prevalente di second screen - che viene comunque messa in dubbio e discussa costantemente - descrive l’utilizzo contemporaneo di un altro device, oltre al televisore, mentre si siede davanti al piccolo schermo.

    Poiché la fruizione televisiva è storicamente rimasta distinta (e protetta) da quella del computer, perché la tv la si guarda dal divano e il computer lo si usa alla scrivania. Ma il boom degli smartphone, ancor più di quello dei tablet, ha reso davvero portatile l’utilizzo del Web. E ha permesso a chi guarda la tv dal divano, di usare contemporaneamente il Web. Senza attendere lo sviluppo, ancora in divenire, di quelle smart-tv che alla fin fine altro non fanno che offrirti la possibilità di avere un second e anche un third screen sullo stesso schermo del televisore… Il combinato disposto del boom degli smartphone e di quello dei social network ha fatto esplodere un fenomeno del second screen. Insomma, oggi (e per ora) il second screen è una modalità per integrare le informazioni che arrivano dal teleschermo e condividerle o commentarle con gli amici: smentendo la sacrosanta ma datata maledizione di Eliot. L’esempio tipico è vedere una partita di calcio e contemporaneamente cercare i risultati degli altri incontri che si stanno disputando nello stesso momento. Oppure, sfruttando i social network, chattare con la propria comunità di riferimento per commentare in diretta quanto si sta vedendo in quel momento in televisione: se si segue una partita, ma anche un talk show o una serie televisiva, utilizzare il proprio smartphone per commentare su Twitter o Facebook quanto sta accadendo è una modalità tipica del second screen.

    Inoltre assai spesso un secondo device viene acceso per motivi non necessariamente inerenti a quanto si sta vedendo in tv, ma, semplicemente, per riempire gli spazi durante un intermezzo pubblicitario o per utilizzare i social network senza necessariamente trattare argomenti relativi a quanto proiettato sul televisore. Il multitasking, insomma, incrociato con l’infosnacking, cioè l’abitudine a sbocconcellare superficialmente l’informazione, senza concentrarsi mai e salvando quindi spazi mentali per fare dell’altro… Parlare di second screen, però, sottintendendo una gerarchizzazione dei diversi strumenti che vede la televisione prevalere sugli altri oggetti tecnologici, è rischioso e sempre più lontano dalla realtà. Dati alla mano, infatti, il first screen non è più la tv, ma lo smartphone, con il Pc che incalza l’ex tubo catodico.

    Introduzione

    Comunicazione, informazione, rivoluzione

    L a rivoluzione digitale riguarda tutti, così come le implicazioni dell’assottigliamento del confine tra comunicazione e informazione. Sono elementi divenuti inscindibili l’uno dall’altro, ma dei quali si continua a parlare in termini accademici o tutt’al più filosofici. Ebbene, mi scuso preventivamente se in questo libro tenterò di ridurre all’osso l’utilizzo d’inglesismi e tecnicismi, che pure è utile conoscere, e che per questo ho ritenuto di collocare nel Glossario del digital, che troverete nelle ultime pagine.

    La mia ambizione, quando cominciai a scrivere Orwell, era quella di riuscire a realizzare un testo capace di fornire a chiunque intenda approfondire la propria conoscenza, un quadro quanto più completo possibile della rapidissima evoluzione che ci ha portati sino a qui. Una serie interminabile di accadimenti, tutti concentrati in un lasso di tempo brevissimo. Motivo per cui tendiamo a rimuovere, esattamente come accade con le notizie da quando il Web è arrivato nelle nostre vite: ogni giorno siamo bombardati da un numero d’informazioni elevato a tal punto, da non lasciare praticamente più spazio a quelle del giorno prima. Volete un esempio pratico? Ecco una serie di app, piattaforme e device, nati dopo il 2003: l’iPhone, Android, la rete 4G, il Kindle, la Blockchain, i Bitcoin, l’AppStore, Facebook, Twitter, YouTube, Uber, Airbnb, Instagram, SnapChat, WhatsApp, Messenger, Dropbox, Spotify, Slack e Kickstarter. Considerate che non sono certamente tutte, ma soltanto alcune di quelle che mi sono venute in mente. Si tratta di strumenti divenuti di uso comune per miliardi di esseri umani in tutto il mondo, constatazione che ci dà la misura di come e quanto la tecnologia muti ogni giorno il nostro stile di vita.

    Tra i motivi per cui mi ritengo molto fortunato, c’è la mia data di nascita: 3 maggio 1976. Il perché non ha a che fare con l’astrologia ma bensì con la tecnologia. Molto semplicemente faccio parte della generazione cresciuta vivendo per intero ogni singola tappa di cui si compone la rivoluzione digitale: dalle prime console agli home computer, passando per l’avvento del Web, i telefoni cellulari e, via via, tutto il resto. Siamo abbastanza anziani da aver vissuto il prima, ma anche sufficientemente giovani per comprendere le logiche che governano l’oggi e tentare d’intuire quelle che muoveranno le leve del nostro domani.

    Un bagaglio d’esperienze da cui deriva la convinzione che, per essere in grado di ritagliarci un ruolo da protagonisti in questo mondo sempre più digitale, dobbiamo giocoforza conoscerne la storia, poiché in ognuno dei suoi capitoli vi sono gli strumenti che ci consentiranno di fare la differenza rispetto a chi, questa visione d’insieme non ce l’ha. Quando parlo in pubblico, dico sempre che se mi fosse mancata anche soltanto una parte di questo insieme, non sarei mai riuscito a mettere in pratica l’idea - apparentemente folle - di candidare un fake alle elezioni presidenziali americane. Anzi, con ogni probabilità non mi sarebbe nemmeno venuta in mente, oppure l’avrei scartata a priori. Così, non avrei potuto vivere le esperienze che ne sono conseguite, e oggi non sarei davanti al mio computer a scrivere questo libro. Come dicevo prima, le esperienze degli altri sono fondamentali, poiché solo un aperto confronto d’idee, anche se apparentemente distanti dalle nostre, fornirà i parametri più corretti per capire se la strada percorsa è quella più idonea, o se ce ne sono altre di cui non avevamo mai sentito parlare che fanno più al caso nostro. Motivo per cui, in Orwell, troverete un percorso disseminato di storie dalle quali dovrete lasciarvi contaminare perché, sono sicuro, da ognuna di esse trarrete almeno uno spunto di riflessione o uno strumento che potrete immediatamente mettere a frutto nel vostro lavoro.

    Pensandoci bene, uno dei più grandi vantaggi del digitale è che mette a nostra disposizione una quantità pressoché infinita di opportunità e, paradossalmente, uno dei suoi più grandi svantaggi è che molto spesso sia proprio questa grande abbondanza se non a disorientarci, a metterci in competizione anche con chi non possiede le qualità per poter stare sul mercato e che, quindi, ne abbassa inesorabilmente il livello. In quest’ottica, molti degli strumenti che troverete nelle pagine a seguire vi risulteranno preziosissimi per differenziarvi marcando, così, un confine nettissimo tra voi e chi ne ignora l’esistenza.

    Io stesso, facendone tesoro, nel corso degli ultimi due anni ho sviluppato il progetto di Orwell, di cui questo libro incarna l’identità e lo spirito. Un’altra idea che in molti, probabilmente, riterranno folle e che si basa esattamente sui principi e sulle intuizioni che comincerete a leggere tra poco. Anzi, a voler ben vedere, per molti aspetti ambisce a esserne la continuazione. Come mai proprio Orwell? Il motivo è semplice, si tratta dello pseudonimo che Eric Arthur Blair² scelse per firmare i propri capolavori, tra cui spicca 1984,³ il romanzo che più di ogni altro seppe anticipare i tempi riguardo a molte delle contraddizioni che oggi costituiscono il contesto in cui dobbiamo misurarci, tanto dal punto di vista professionale, quanto nella vita di tutti i giorni. Due sfere che la rivoluzione digitale sembra aver magnetizzato, sovrapponendole sempre più l’una sull’altra. Il trucco sta nello sfruttare le grandissime potenzialità di questa forza, senza lasciare che sia lei a sfruttare noi.

    La rivoluzione digitale ha cambiato il mondo, ora starà a noi rivoluzionare il mondo della comunicazione, a cominciare dalla prossima pagina. Buon viaggio.

    Prima parte

    La Rivoluzione digitale

    CAPITOLO I

    Da Pong all’Atari 2600

    «Il futuro inizia oggi, non domani»

    Papa Giovanni Paolo II

    A lla fine, tutto cominciò così. Correva l’anno 1981 e, una sera come tante di un periodo indefinito, Gregorio - mio padre - tornò a casa con il Pong. «È un videogioco, vedrai, ti piacerà», disse, mentre collegava il cavo alla presa dell’antenna della nostra televisione. Una leggera pressione con il dito, ed ecco che il cassettino con la tastiera uscì, mettendo in mostra le rotelle per la sintonizzazione dei canali. Lo cercammo sullo zero, un classico. Le voci e le immagini si alternavano con il fruscio a volte assordante, in una ricerca che sembrava non finire mai. Finché, improvvisamente, la schermata nera e verde apparì. Eccolo!

    Mio padre era certamente più entusiasta di me, se non altro perché sapeva perfettamente di cosa si trattasse, mentre per me era tutto nuovo. Non appena comparì la schermata di caricamento rimasi incantato da tutti quei rettangoli colorati che scorrevano senza soluzione di continuità sullo schermo. Quando l’immagine si fissò, mio padre prese la mia mano e la mise su uno dei due pomelli neri dal bordo argentato che stavano sulla console, invitandomi a ruotarlo. «Vedi, la barra sul televisore fa quello che dici tu, esegue i tuoi movimenti. Lo scopo del gioco è prendere la pallina per farla andare dall’altra parte, come nel tennis», mi spiegò, afferrando il pomello sinistro per aiutarmi a capire. Mi sembrò subito una cosa fantastica! Così iniziai a ruotare il mio pomello. Uno, due, tre, quattro tentativi andati a vuoto. Poi cominciai a prendere le misure e, quindi, anche la pallina. Ricordo ancora la sensazione di sentirmi immerso nello schermo del televisore, non passivamente come quando guardavo Mazinga o un altro dei cartoni giapponesi che adoravo, ma attivamente: il comando l’avevo io, e la cosa mi piacque subito da matti. Ovviamente ne ero inconsapevole, ma quello fu il primo, inequivocabile, segnale che tra me e i bit sarebbe scoppiato, di lì a poco, un grande amore.

    L’Atari 2600

    Ricordo come se fosse ieri l’attesa per quel giorno. Infatti, dopo alcuni mesi dall’arrivo del Pong, i miei genitori cedettero alle pressioni di un figlio assillante: volevo assolutamente quella fantastica console più volte ammirata nelle pubblicità, quella fornita di un sacco di videogiochi, tutti diversi tra loro, così innovativi e colorati rispetto alle asticelle verdi cui ormai ero assuefatto.

    Il momento dell’Atari 2600 era finalmente arrivato. Nel frattempo avevamo traslocato in quella che sarebbe stata la nostra casa per diversi lustri, molto grande, con soffitti altissimi, al punto che i primi giorni, ancora sprovvisti di arredamento, potevamo ascoltare l’eco delle nostre parole. A scuola e all’oratorio tutti i miei amici sapevano che avrei ricevuto quel regalo, e non passava giorno senza che facessero a gara per prenotarsi un pomeriggio a casa mia per provare i videogame. Fu così che il tanto agognato momento arrivò: un giorno come tanti tornai da scuola e, come sempre, quando entrai in casa udii il sottofondo musicale della sigla de Il pranzo è servito. Mentre mi portava da mangiare, mia madre Patrizia non riusciva a celare un sorriso. Capii subito che c’era qualcosa di strano, ma feci finta di nulla. Dopo qualche minuto rientrò anche mio padre, e anche lui mi salutò con un inusuale sorriso stampato sulle labbra. A tavola, lui e mia madre continuavano a scambiarsi sguardi d’intesa. Da par mio tentai di tenere duro, resistendo almeno fino alla fine del pranzo, ma fu impossibile. «Va bene, ho capito, dov’è?», domandai loro di punto in bianco. Evidentemente togliendogli un peso, tant’è che senza battere ciglio mio padre si pulì la bocca con il tovagliolo scambiando per l’ennesima volta uno sguardo d’intesa con mia madre. «Sì, hai indovinato, però prima finiamo il pranzo», disse lei, condannandomi a interminabili minuti d’attesa.

    Quando tutti, finalmente, finimmo di mangiare, ci alzammo dalle sedie e seguimmo mio padre fino all’armadio a muro che stava all’inizio della rampa delle scale. Lo aprì e tirò fuori quella bellissima scatola color argento su cui campeggiava la scritta Atari 2600 in rosso fuoco e, appena sotto la dicitura video computer system, una foto della console. Come con Pong, collegò l’Atari 2600 alla televisione e, nel frattempo, mi diede la cartuccia del videogioco che comprò insieme alla console: era Defender, uno sparatutto spaziale. La inserimmo nello slot, accendemmo la console e, dopo pochi secondi, il gioco partì. Non mi sembrava vero: lo sfondo scrollava sullo schermo a una velocità supersonica, e sia gli sprite che gli effetti sonori mi sembrarono subito semplicemente grandiosi.

    Il joystick era già quello in versione deluxe: di forma rettangolare con i due pulsanti rossi sui lati, una vera meraviglia. Rispetto a Pong ci misi pochissimo a familiarizzare con i controlli, intuendo subito, ad esempio, che per capire da dove sarebbero arrivati i miei nemici dovevo sempre tenere d’occhio il radar nella parte superiore dello schermo. Quella fu, di fatto, la prima volta che smanettai sul serio davanti a un videogame. Nel giro di pochi giorni il joystick ed io eravamo diventati una sorta di tutt’uno, lo padroneggiavo con una naturalezza tale da sentirlo parte di me, come se fosse una sorta di arto aggiuntivo.

    CAPITOLO II

    Tutto cominciò così:

    intervista a Ted Dabney, il fondatore di Atari

    «Praticamente a tutti, mentre si stanno facendo una doccia,

    viene in mente un’idea. È la persona che esce dalla doccia,

    si asciuga e fa qualcosa a riguardo che fa la differenza»

    Nolan Bushnell

    C orreva l’anno 1972 quando Ted Dabney4 e Nolan Bushnell5 fondarono la Atari.6 Ted è mancato il 26 maggio del 2018 dopo una vita trascorsa lontano dai riflettori, fatta eccezione per una lunga intervista radiofonica rilasciata il 24 ottobre 2010 ai conduttori del programma inglese Retro Gaming Roundup,7 un vero e proprio must per i cosiddetti retrogamers, ovvero gli appassionati dei videogame di prima generazione.

    Ho trovato casualmente il podcast: la morte di Dabney fu dunque l’occasione per cercare il materiale necessario alla redazione di un post utile a tratteggiarne la figura, ai più sconosciuta, ma centrale per la diffusione dell’informatica su larga scala. Così, senza perdere tempo, attraverso Facebook, ho stabilito un contatto con gli autori del programma chiedendo l’autorizzazione a tradurre alcuni brani dell’intervista da utilizzare per la stesura del mio nuovo libro. La loro risposta arrivò subito, e fu affermativa.

    Li ringrazio moltissimo per la loro disponibilità, non soltanto per aver condiviso col sottoscritto un contenuto che impreziosisce il volume che avete tra le mani, ma anche e soprattutto perché leggendo le prossime pagine potrete rivivere per intero un passaggio cruciale per la digitalizzazione della nostra società, raccontato da uno dei protagonisti assoluti di un periodo indiscutibilmente rivoluzionario, decisivo per portare un device elettronico in ogni casa quando ancora, è bene ricordarlo, i computer erano apparecchiature che occupavano interi uffici.

    Scott: «Bene ascoltatori, è un piacere dare il benvenuto al Retrogaming Roundup Show, a uno dei padri fondatori di Atari e del settore dei videogiochi a gettoni, Ted Dabney.

    Ted lavorava alla Ampex,⁴ una società d’ingegneria, insieme ad alcune delle altre persone che in seguito sarebbero diventate vere e proprie star del mondo dei videogame. Molti oggi non hanno la minima idea di cosa fosse Ampex, anche se è stata una delle più grandi aziende d’ingegneria della sua epoca. Tutto ebbe inizio durante la Seconda guerra mondiale: loro realizzarono i motori per i radar che volavano sugli F4 Corsair, e credo che abbiano anche fatto dei dinamotori: un motore accoppiato a un generatore per creare una tensione più alta azionando direttamente l'altro motore. Negli anni successivi, Ampex è stata fortemente coinvolta nel programma spaziale, e ha creato alcuni dei primi videoregistratori. In effetti, Ted potrebbe interessarci anche per questo: durante il primo sbarco sulla Luna, il video fu trasmesso dal lander lunare a una stazione di monitoraggio in Australia, venne convertito in un altro formato in bassa risoluzione dall'apparecchiatura Ampex, per poi essere trasmesso negli Stati Uniti e da lì alle televisioni di tutto il mondo. Tutti ricorderanno che quelle immagini erano in una risoluzione molto bassa: allora furono in molti, soprattutto tra gli addetti ai lavori, a pensare che la bassa qualità del video fosse colpa delle apparecchiature Ampex. Ebbene, in realtà la qualità del video arrivato dalla Luna era molto buona:

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