Julius: Un inverno ad Arona
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Julius decide di trascorrere quel periodo nella vecchia casa dei genitori ad Arona, sul Lago Maggiore, dove non mette piede da diverso tempo. Nella straordinaria atmosfera di una nevicata come non se ne vedevano da anni, il protagonista si abbandonerà a vecchie passioni e porterà a termine la costruzione di una barca a vela lasciata incompiuta da quando frequentava l’università. Nel frattempo farà la conoscenza di un bizzarro taglialegna italo-tedesco, col quale condividerà ben presto i pasti, discorrendo degli argomenti più variegati: dal lavoro al mondo della scuola, dalla ricerca della serenità al movimento dei corpi nello spazio.
Romanzo non convenzionale, che invita alla riflessione su ciò che è davvero importante nella vita, con un pizzico di garbata ironia.
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Book preview
Julius - Dario Maria Mazzone
figlie.
1
Il blocco chirurgico di qualsiasi ospedale presenta numerose analogie con il palcoscenico di un teatro. In sala c’è un elemento scenografico centrale, il tavolo operatorio, intorno al quale ruota tutta la vicenda. L’occhio di bue che lo inquadra senza sosta è sostituito dalla luce senza ombre delle lampade scialitiche. Ci sono gli attori che via via entrano in scena, ognuno con il proprio ruolo, imparato a memoria da un copione inflessibile. Il protagonista, l’autentico mattatore sul palco, è sempre lo stesso, il chirurgo. È lui, che per le sue capacità e il suo carisma, riesce ad accentrare su di sé l’attenzione di tutti, relegando in secondo piano le parti degli altri.
Prologo rigoroso è la cerimonia intima della vestizione, in sospensione tra scaramanzia e raccoglimento, dove ognuno indossa il proprio costume, abiti talvolta pesantissimi, di piombo, stratificati.
Il paziente non è che una comparsa, sempre diversa, quasi invisibile e per giunta interamente ricoperta da drappi e teli; non partecipa mai direttamente all’esibizione anzi, spesso dorme per tutta la sua durata. Ampio e variegato il catalogo delle rappresentazioni, si va dalla commedia, all’happening, fino alla tragedia.
La notte poi, quando lo spettacolo è finito, compaiono gli inservienti. Devono rimettere tutto a posto, disinfettare, sterilizzare. Per il giorno seguente sono previste altre performance, nuove storie, sotto i riflettori delle algide lampade scialitiche.
9 dicembre
Fermo! Fermatevi tutti un attimo!
esclamò Peter De Groot, l’anestesista olandese, con la solita intonazione cantilenante che molti ritenevano parecchio fastidiosa. C’è qualcosa che non va nell’ ECG. Avete sentito l’allarme? Ci sono state un paio di inversioni delle onde T. La saturimetria è scesa. Adesso è a ottantadue! Tu a che punto sei?
domandò rivolgendosi a Julius.
Ho finito. Sto chiudendo la parete.
Bene. Allora fa’ presto... Io inizio a svegliarlo.
Julius sapeva che da quel momento Peter avrebbe sospeso l’erogazione di Sevoflurane, l’anestetico inalatorio e avrebbe somministrato soltanto ossigeno. I tempi di risveglio del paziente sarebbero stati variabili, ma fino a ora gli erano sempre stati sufficienti per completare procedure semplici come la sutura di un addome. Tuttavia non aveva granché voglia di terminare un intervento tra i sordi lamenti del paziente e inoltre detestava gli anestesisti che gli mettevano fretta. Più nel dettaglio detestava Peter De Groot, il suo aspetto allampanato, quell’aria trasognata, gli stupidi romanzi in inglese che leggeva durante ogni intervento per ostentare tranquillità.
Lui, al contrario, era un tipo metodico, preciso. Ci teneva persino all’estetica delle suture ed era per questo che assai di rado le delegava al suo aiuto o a uno degli specializzandi. Preferiva farle personalmente, perfette certo, però richiedevano il giusto tempo.
Mentre era intento a posizionare le ultime graffette metalliche sulla cute, Julius venne travolto dai toni all’improvviso concitati di Peter. Sopraslivellamento dell’ST! Presto, presto! Alteplase endovena in bolo!
Quanto?
Quindici milligrammi! Subito!
Morfina?
Sì, sì! Otto milligrammi! Ossigeno a quattro litri minuto!
Ma cosa è successo?
Non so. Un infarto forse, credo.
Angelo! Angelo!
Una fiala di Nitroglicerina da dieci milligrammi subito!
In una fisiologica da cento?
Sì. Infusione continua!
Lo stiamo perdendo! Lo stiamo perdendo?
Angelo! Angelo!
Tu incomincia il massaggio cardiaco! Subito il defibrillatore!
Qualcuno chiami la terapia intensiva!
Toglietegli di dosso tutti i teli sterili! Presto, presto!
Ecco il defibrillatore!
Okay, dammi le placche! Via tutti, scarico!
Angelo! Angelo!
Un momento!
Via, via! Scarico!
Angelo, Angelo ci sei?
Vai, vai! Massaggia! Massaggia!
Avete chiamato la rianimazione?
Sì, arrivano.
Allontanatevi ancora, scarico!
Niente, non parte.
Angelo! Angelo! Forza!
Vai, vai, massaggia!
Non ce la fa... Lo perdiamo.
Scarico ancora, via tutti!
Lascia! Massaggio io!
Julius arretrò di un passo dal tavolo operatorio e incrociò le mani all’altezza dello sterno nell’atteggiamento assunto abitualmente per evitare la contaminazione dei guanti in lattice e preservarne la sterilità.
Ma di chi cavolo si tratta esattamente? pensò allungando il collo per cercare di riconoscere il paziente. Non mi pare di averlo mai visto... Così, poi, intubato, con la cuffia... E la testa molle strapazzata dalle infermiere.
Sentiva chiamare Angelo da qualcuno. Aveva intravisto dei capelli bianchi spuntare da sotto i teli, forse anche dei baffi sottili, ben curati. Niente. Non lo ricordava. Ma se lo aspettava, ormai era così. Dai nomi si era passati ai numeri, adesso i pazienti erano diventati solo l’incarnato stesso del loro intervento: la colectomia segmentaria delle undici, l’epatoresezione delle sette e trenta, eccetera eccetera.
Pazzesco, non riusciva proprio a visualizzare la faccia dell’uomo che aveva appena finito di operare! Gli aveva parlato solo una volta, forse, prima dell’intervento. Sempre più spesso veniva a conoscenza delle pance ingiallite dal Betadine solo quando erano già sotto forma di campo operatorio.
Nel caso specifico, la raccolta dei dati clinici e anamnestici era stata fatta come di consueto dagli specializzandi del reparto, gli stessi che si sarebbero presi carico anche di tutta la fase post-operatoria.
La chirurgia sta davvero diventando una catena di montaggio,
si disse piano, sotto la mascherina azzurra. Ricoveri sempre più brevi, day hospital. Fuori uno dentro l’altro, fuori uno dentro l’altro. E le facce dei pazienti chi se le ricorda più! Sbagliato? Mah, in fondo della gestione dei ricoverati se ne occupano già infermieri e specializzandi, che motivo c’è che lo faccia anch’io? Il chirurgo? Da me si aspettano un campione di efficienza, non certo di relazioni sociali!
Ricordò di avere partecipato, qualche anno prima, a una conferenza su mindfulness e burn-out nelle cosiddette helping professions, in particolare in medicina. Alcune delle caratteristiche della sindrome del burn-out, provocata dallo stress lavorativo e molto diffusa nelle corsie d’ospedale, erano proprio il distacco emotivo dai pazienti, la non disponibilità verso i loro familiari, fino al totale disinteresse o addirittura al cinismo. Insomma, il contatto diretto e protratto con la sofferenza umana alla lunga porterebbe a una reazione psicologica di difesa con autentici disturbi cognitivi di indifferenza e menefreghismo. Non si può restare troppo a lungo esposti a una tensione emotiva. Non si può.
Per la prima volta nella sua vita professionale in qualche modo si riconobbe in questa sindrome da frustrazione, almeno in parte. Si sforzò di pensare ad altro e si concentrò sulle espressioni corrucciate di Peter. Che fine ha fatto il tuo romanzetto in inglese? Non lo leggi più?
Il beep sempre più lungo e monotonale del monitor multiparametrico, intervallato solo dalla scariche del defibrillatore Philips e dal rumore delle coste che si fratturavano sotto le pressioni del massaggio cardiaco, indicavano inequivocabilmente che il paziente, forse di nome Angelo, era deceduto. Fine.
Julius si strappò di dosso il cappellino e il camice di carta e rimase a osservare gli ostinati, ma inutili tentativi di rianimazione di Peter.
Adesso la sala, prima così armoniosa e asettica, color verde acqua e quieta, si era trasformata in una bolgia frenetica, insensata. Urla, disordine. Le borse e i giubbotti arancioni dei rianimatori accorsi sul posto, ne avevano ormai violato definitivamente l’austera sacralità. Persino il sangue, fino a ora contenuto e celato dai teli impermeabili, adesso gocciolava e veniva strisciato sul pavimento dagli zoccoli in gomma degli operatori, come bava delle lumache. Tutto si stava rapidamente insudiciando. L’armonia celestiale del paradiso veniva piano piano risucchiata dai vortici scuri dell’inferno. L’obiettivo ora poteva essere quello di uscire di scena senza farsi troppo notare.
Nel primo pomeriggio Julius venne convocato nello studio del suo primario, dottor professor Antonio Bezzecca.
Cos’è successo in sala?
chiese quest’ultimo conficcandogli le pupille dentro gli occhi. Dimmelo così, fuori dai denti! Non mi interessano versioni ufficiali o ufficiose... Mi sono spiegato no?
Certo. È successo che il paziente è morto.
Guarda, non mi prendere in giro che non è giornata o ti butto fuori a calci nel sedere!
Bezzecca era un pezzo d’uomo di quasi due metri. Portava con disinvoltura i suoi quasi settant’anni, forse grazie a quel suo casco di capelli ricci e grigi che gli conferivano un aria giovanile, un po’ bohémien. Julius aveva sempre avuto con lui un buon rapporto. Era stato il suo vero mentore sotto il profilo professionale. Certo il carattere umorale e le sue proverbiali arrabbiature in sala operatoria erano note in tutto l’ospedale. In più di un’occasione, all’inizio, Julius aveva temuto che il suo primario gli mettesse persino le mani addosso, per qualche stupidaggine, magari per un’inesattezza commessa durante un intervento, cose così. Ma nella realtà questo non era mai successo e comunque si trattava di episodi capitati diversi anni prima. Da molto tempo infatti Julius si era ritagliato un ruolo decisamente autonomo. Seguiva la sua scaletta giornaliera degli interventi, copriva i turni degli ambulatori e del pronto soccorso. Il tutto in maniera autosufficiente, senza troppo entusiasmo per le inevitabili interazioni con i suoi colleghi e per l’appunto col primario, ma le cose stavano così. Partecipava malvolentieri alle riunioni di reparto del venerdì e quando lo faceva si dimostrava spesso assente, poco coinvolto dai casi clinici esposti, a meno che non si trattasse dei suoi. Bezzecca lo lasciava fare. Julius era un buon chirurgo, lavorava sodo, forse con un po’ di passione in meno rispetto agli anni passati certo, ma questo era il fisiologico calo di tensione che si osserva in tutte le professioni dopo qualche tempo di attività.
Mah, cosa vuoi che ti dica...
sospirò Julius togliendosi gli occhiali per stropicciarsi meglio gli occhi con le mani. È successo tutto così in fretta. A intervento praticamente finito. Lo sai, era una colectomia segmentaria del trasverso, per un carcinoma. Non c’era stato nessun problema. Non aveva perso troppo sangue, le anastomosi erano venute bene. Quando è andato in arresto io stavo finendo di suturare l’addome.
Hai compilato il verbale?
Sì, certo. Ma il mio verbale operatorio è normale fino alla sutura esterna. Se c’è qualcosa di importante forse è sul verbale infermieristico o su quello dell’anestesista.
Il primario si sporse un po’ in avanti sulla scrivania come per sentire meglio. Detto tra me e te... Peter poteva fare di meglio?
Questo non sono nelle condizioni di dirlo, non ho le adeguate conoscenze in anestesiologia. Ma per quello che ho visto, francamente Peter ha fatto l’impossibile per recuperarlo. Semmai, posso pensare che sia stato sottostimato il rischio in fase preoperatoria. È tutto quello che mi viene in mente. Se proprio devo trovare una spiegazione a quanto è successo.
Di preciso cosa intendi dire?
Beh, non so se hai letto la sua cartella, ma il paziente era anziano, neoplastico, prendeva un po’ di farmaci, per il cuore, la pressione: Norvasc, Cordarone, Sevikar. Aveva due e otto di creatinina. Probabilmente il suo stato clinico era meno stabile di quello che si era pensato. D’altra parte Antonio, diciamoci la verità, se è vero che gli è venuto un infarto, cosa si poteva fare?
Julius estrasse un fazzoletto di carta dalla tasca del camice e si soffiò il naso, mentre il suo primario giochicchiava nervosamente con il cappuccio d’argento della sua inseparabile Montblanc Meisterstück.
Comunque,
riprese Julius, riguardo a Peter, mi sembra che abbia fatto quello che doveva.
Hai parlato con i parenti? Che cosa hanno detto?
Erano disperati, senza parole. Non se l’aspettavano. Non erano arrabbiati se è questo che vuoi sapere, ma lo sai che la fase di arrabbiatura viene dopo.
Va beh dai...
disse il primario, comunque noi dovremmo essere a posto, no? Voglio dire, se c’è una responsabilità mi sembra che sia quella degli anestesisti, dico una stupidaggine?
Sì, no, non lo so, non lo so di cosa è morto. Certo che di solito in questi casi riescono a tirarli fuori per i capelli e a rianimarli, poi magari muoiono dopo quattro giorni in terapia intensiva, ma in effetti è strano che sia morto in sala, così in fretta. Non mi era mai capitato.
Un trombo?
domandò il professor Bezzecca.
Dove? Alle mesenteriche? No, troppo veloce. Coronarico? Boh, sì, possibile. Pensi che gli faranno l’autopsia?
Credo dipenda dai parenti. Stiamo a vedere. Piuttosto tu come stai? Vuoi prenderti qualche giorno di riposo?
No, no. Sto bene grazie.
Va beh, se cambi idea fammi sapere. Adesso lasciami andare che devo vedere il direttore sanitario. Mi porto dietro tutti i verbali. Ma mi sembra che noi ne usciamo puliti, no?
"Sì Antonio, mi sembra di sì.