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La Ginestra
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La Ginestra

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About this ebook

Rosetta è nata e cresciuta in un piccolo paese della Sicilia, tra i campi messi a frutto dal duro lavoro di suo padre e suo fratello Giuseppe, vivendo una vita semplice, scandita unicamente dal ciclo delle stagioni. Inconsapevole della bellezza di cui il Cielo le ha fatto dono, è incapace di leggere la bramosia negli occhi di chi la guarda,  ma un giorno, di ritorno dalla fattoria di padron Antonio dove aveva condotto una mucca affinché venisse ingravidata, un tragico evento la strappa al mondo dell’innocenza, costringendola a diventare una donna. La violenza subita ha delle conseguenze devastanti, non sul suo corpo ma sulla sua anima, condannandola al dolce e amaro supplizio del desiderio. Rosetta è ancora un frutto acerbo, colto troppo in fretta; è confusa, spaurita e insieme affascinata da un mondo torbido e sconosciuto e incapace di resistere all’impetuoso succedersi degli eventi, si ritroverà irretita dal fascino di don Nicola, il ricco padrone della campagna in cui abita. Una storia di perdizione e rinascita, di passione, di amore malato, di sopraffazione e dolore, che ci invita a guardare con dolcezza e compassione a un’anima perduta e a confidare nella sua redenzione, facendoci spettatori di un insperato miracolo.

Remo Pacini è nato a Pantelleria il 7 novembre 1939. Ha cominciato a lavorare come maestro elementare appena diciottenne. Nel 1974 si è laureato in Pedagogia. Attualmente in pensione, vive fra Pantelleria e Taormina. Questa è la sua prima pubblicazione.
LanguageItaliano
Release dateNov 18, 2018
ISBN9788856795066
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    La Ginestra - Remo Pacini

    ginestra)

    PREFAZIONE

    La ginestra è un fiore umile, che si accontenta di poco, lieta di spandere il suo profumo e il suo colore giallo dorato a chi gli si avvicina. Vive bene anche sui campi di lava dove di solito la vita stenta ad attecchire. È una pianta con scarse pretese, molto umile. L’umiltà è la sua forza: chi le si avvicina rimane conquistato. Il profumo che emana non ha niente di particolare, ma una volta assaggiatolo, difficilmente si dimentica.

    Così è Rosetta. Vive tutta chiusa nei suoi campi, quasi gelosa della sua rusticità. Più che sua madre sembra l’abbiano partorita quei campi che conoscono le sue fatiche ed i suoi sudori. È una vinta in partenza: neonata viene allontanata da casa per meglio accudire il fratello; alunna viene sacrificata ai lavori domestici e dopo a quelli campestri, piuttosto che istradarla alla scuola verso la quale era molto portata; già donna viene sacrificata al piacere ed al capriccio di un corrotto signore di provincia che non si fa scrupolo di coinvolgerla in un’orgia da bordello.

    Ma è anche una vinta diversa che non sa accettare passivamente quanto gli altri le impongono. Subisce sì imposizioni e soprusi, ma in cuor suo cova una ribellione interna che sfocerà con la più eclatante affermazione di se stessa. Reagisce con sorprendente intraprendenza e maturità ad un ambiente che vuole che una donna stuprata sia una donna finita per sempre, incapace di riscattarsi e ricostruirsi una nuova vita.

    Rosetta vuol rappresentare il nuovo volto della contadina siciliana scaltra, cocciuta, che nonostante il mondo ostile ed opprimente che la circonda, lotta per l’affermazione della propria libertà, riuscendo ad esprimere la propria femminilità e il suo concetto di emancipazione muliebre. La sua è una scelta di vita non scevra dal compromesso, ma è pur sempre una libera scelta.

    Capitolo I

    L’erba, baciata dolcemente sulle punte dal vento di maggio, si piegava quasi con gemito sotto gli zoccoli della mucca e dei piedi scalzi della ragazza. Nel prato che stavano attraversando l’erba medica era molto alta, quasi ad altezza d’uomo, e alla ragazza accarezzava i lunghi capelli biondi, sciolti sulle spalle; più di una foglia verde adornava quella bionda serica cascata. Rosetta si apriva la strada aiutandosi con le mani, spingendo in avanti il suo solido corpo di diciottenne. Con passo pesante, scodinzolando per tener lontane le mosche, la seguiva la mucca.

    La contadina portava la bestia da padron Antonio, un suo vicino, per farla montare; faceva quel tragitto alcune volte l’anno da quando, bambina, appena decenne, accompagnata dal fratello, suo gemello, aveva dimostrato ai suoi genitori di saper raggiungere la fattoria di padron Antonio, distante una decina di chilometri, senza smarrirsi. Il che consentiva a suo padre di non perdere una giornata per la monta, quando i campi del loro padrone avevano bisogno delle sue braccia.

    Per alcuni anni l’aveva accompagnata il fratello Giuseppe, ma quando il corpo del ragazzo si era fatto forte e sviluppato abbastanza per tenere in mano la zappa, il padre l’aveva voluto con sé nei campi e lei era rimasta sola. Per la via con Giuseppe si divertiva. Parlavano, ridevano, giocavano e, senza accorgersene, arrivavano alla fattoria freschi e contenti e con tanta fame addosso. Per loro, quello non era un lavoro, ma un gioco. La distanza non li spaventava. Erano abituati a farne il doppio tutti i giorni, per recarsi alla scuola del paese. Per la monta potevano valersi dei tori di padron Nicola, data la vicinanza della fattoria, ma il toro di padron Antonio era il migliore nel giro di cinquanta chilometri.

    Senza la compagnia del fratello Rosetta nei primi tempi si annoiava e molto: solo le sfuriate dei genitori la inducevano a portare la mucca alla monta. Poi si era abituata a quel viaggio scoprendovi un interesse che si faceva sempre più vivo, sempre più presente. Scopriva la bellezza del paesaggio che la circondava, il crinale smussato delle colline in lontananza, coperte di verde, che alla sera la porpora del tramonto rendeva meravigliose: rosso infuocato proiettato contro un cielo coperto in basso da nuvole rosse ineguali a forme bizzarre, ed in alto di altre, via via più sfuocate fino a confondersi con l’infinito turchese. Quell’esplosione di colori aveva affascinato la contadina che, nella sua rusticità, non difettava di senso estetico. Più volte era rimasta estasiata dinanzi al meraviglioso tramonto siciliano, sperdendosi in esso, sentendosi leggera, aerea, quasi incorporea finché un fruscio fra l’erba, una voce in lontananza, l’abbaiare di un cane, o leggeri brividi di freddo non rompevano quell’incanto e la riportavano alla realtà. Aveva fatto tardi, doveva tornare a casa!

    E come era bello il bosco! Le sembrava un amico generoso, che la circondava di doni semplici, naturali, ma tanto graditi. Le piaceva fin nei suoi angoli più remoti, là dove il muschio si allacciava alle felci, un passo, un grido, un improvviso fragoroso batter di ali le rivelava la presenza della beccaccia, e là dove cessava di essere bosco per diventare macchia, coprendosi del giallo caldo dorato delle ginestre. In ogni stagione le riservava una sorpresa: ora le fragole e i mirtilli, ora i funghi, ora le magnifiche rose selvagge che adornavano frequentemente i suoi capelli.

    Camminava lentamente, tanto sapeva che, anche arrivando prima, se ne sarebbe andata ultima. La moglie di padron Antonio l’avrebbe trattenuta a pranzo, come sempre. Le rondini volteggiavano alte nel cielo, librandosi in uno svolio bianco nero rapido, disarticolato, ora scomparendo alla vista, ora sbucando, frecce animate, così basse da sfiorare l’erba.

    Giunta al fiume ebbe voglia di bere. Diede una occhiata alle due sponde cercando un punto dove scendere senza scivolare. Con un colpo deciso sul groppone spinse la mucca in acqua e, mentre l’animale guadagnava l’altra riva, lei, camminando contro corrente, giunse ad un’ansa riparata. Ma l’acqua in quel punto era alta e dovette alzarsi il vestito per non bagnarlo. Non indossava che quello e così espose al sole le sue magnifiche natiche, lisce. Rotonde, piene. Bevette avidamente, piegata in avanti, e, sollevandosi, si sorprese intenta ad ammirare la stupenda concavità del suo ventre e più giù, il sesso, caldo, vivo, circondato da una nube di peli biondo-scuro.

    Era la prima volta che indugiava in tal modo. Non aveva mai attribuito grande importanza al sesso. In lei lo sviluppo era stato un fatto naturale al pari di quello delle sue bestie. Era cresciuta. Era diventata donna, aveva mensilmente il suo bravo sbocco mestruale, né più né meno come l’avevano le sue pecore, con la sola diversità della frequenza. Avrebbe preferito essere come loro piuttosto che soggiacere mensilmente ad un disturbo antipatico, noioso, che la costringeva a prendere speciali precauzioni nel vestiario, lei che era cresciuta libera e si sentiva fasciata, quasi prigioniera se indossava qualche capo in più sotto il liso vestito di cotonina grigia.

    L’acqua limpida, calma come uno specchio, le restituiva fedelmente la propria immagine. Le cosce solide immerse nell’acqua, le anche floride che sfiorivano sui fianchi, dandole un vitino da vespa, i seni sodi pieni sotto il sottile vestito, il viso dall’ovale perfetto con quel nasino volto all’insù, che aveva così poco di contadinesco, svegliarono la sua femminilità. Si scoprì bella, come non lo era mai stata. Un sorriso di soddisfazione le increspò le labbra, ma durò poco. Nel suo cervello la bellezza andava sempre a braccetto con la felicità e lei non era felice. Se, come in un tempo lontano le aveva detto la sua maestra, la felicità completa dura attimi, le erano mancati anche quelli. Era stata contenta, a volte soddisfatta; ma quando avrebbe assaporato quella pienezza, quella serena calma che solo la felicità sa dare? Le avrebbe mai raggiunte?

    Turbata, raggiunse la mucca.

    Come sono sciocca stamattina pensò avviandosi. Mi passano per la testa certe idee! Adesso cerco qualcosa di meno intimo da pensare!.

    Un senso di commiserazione che non voleva ammettere a se stessa le attanagliava il cuore. Perché si commiserava? Per aver capito di essersi fossilizzata in quella vita grama, senza via di uscita? Doveva considerarsi una vinta come i suoi genitori, o ribellarsi come aveva sempre pensato all’accettazione passiva degli eventi?

    Il senso della fatalità, dell’inerte rassegnazione era talmente radicato nei suoi che erano presi come in una gabbia. Incapaci di ribellione, avrebbero tirato la loro vita, a testa china, fino a che la morte non li avrebbe stroncati. La morte sarebbe stata per loro la sola liberazione; non erano capaci di trovarne un’altra. Ma questo senso ancestrale, atavico, della fatalità, per generazioni e generazioni aveva annullato, distrutto, vinto ogni cosa. La ragazza sentiva di dover lottare con fermezza contro tale senso: non doveva lasciarsi trascinare come gli altri, non sarebbe stata una sua vittima. Aveva validi alleati su cui contare per rompere i ponti con esso: buonsenso, insofferenza, una discreta intelligenza. Dove andarsene, lasciare i suoi, piantarla con quella vita da rudere. Di questo passo avrebbe fatto la fine della madre, non aveva altra scelta. Avrebbe sposato un contadino, si sarebbe riempita di figli, avrebbe lavorato come una bestia in casa e nei campi e, a quaranta anni, sarebbe stata pressoché finita, come la madre. La tratteneva la devozione per i suoi e l’amore per i fratelli più piccoli che avevano tanto bisogno di lei. Sarebbe stata un’ingrata se avesse abbandonato quelle creature alla cecità dei genitori. Ma il suo sacrificio sarebbe valso ad illuminare quelle giovani menti, ad inculcare loro nuove idee, visioni di vita serena dove l’uomo lavora, si esplica, esprime se stesso e non tira la zappa dodici ore su dodici per poi giungere a casa stanco morto, incapace anche di prendere gusto al cibo. I suoi fratelli avrebbero avuto una vita migliore della sua: questo era l’impegno che la ragazza si era assunto sin dalla loro nascita.

    Camminava ora sul crinale della collina ai piedi della quale, sul versante opposto, sorgeva la fattoria di padron Antonio. La vedeva laggiù, fra il verde dei campi, solida costruzione in legno e mattoni, con le finestre spalancate al sole di maggio.

    Un denso rivolo di fumo azzurro usciva dal comignolo.

    Mamma Teresa sta preparando il pranzo pensò lei accelerando il passo per porre fine alla sua solitudine, ai suoi tristi pensieri e stordirsi nella compagnia, nella conversazione.

    Giunta alla staccionata che circondava la fattoria, abbaiando, le venne incontro Fox, un magnifico boxer puro, orgoglio del padrone. Contrariamente alle sue abitudini si era affezionato a lei e tutte le volte che veniva da quelle parti, voleva essere il primo a darle il benvenuto.

    «Ehi Fox, come va?» esclamò la ragazza lisciando il collo del cane che, esauriti i salti ed i latrati di gioia le camminava accanto con la testa inclinata verso lei e fiutando l’aria con il suo caratteristico naso.

    Dalla fattoria mamma Teresa, vedendola avanzare, piantò i fornelli e le corse incontro.

    «Oh figlia mia, che piacere vederti» esclamò abbracciandola. «Sei venuta per Caterina?» chiese guardando la mucca.

    «Già» rispose lei, «speriamo che non mi prenda in giro come la volta precedente. Papà ha detto che se non ingravida la vendiamo».

    «Ma tu devi aver fame» riprese l’altra sicura che Rosetta non avesse mangiato altro che un tozzo di pane nero con un po’ di latte. I suoi non potevano darle di più. «Vieni che ti preparo una buona colazione. Però devi rimanere a pranzo con noi».

    «Devo sistemare la mucca» osservò la ragazza come per scusarsi. Tutta quella gentilezza la confondeva e le faceva toccare con mano la sua povertà.

    «Non pensarci, ci penserà Fox a portarla da mio marito. Andiamo, neanche io ho fatto colazione, ti terrò compagnia». Rosetta capì che mentiva.

    Mamma Teresa la prese per mano ed entrarono. Era una donna enorme, giunonica, con la cinquantina da poco superata, voleva un gran bene alla ragazza. Da quando i suoi due figli erano andati al nord, attratti dal miracolo industriale, era rimasta sola.

    Nella vasta casa si sentiva il bisogno di gente. Lei era un tipo ciarliero, spettegolava su tutto e tutti avvertiva la mancanza di qualcuno con cui sfogarsi. Il marito, taciturno, di poche parole, era il tipo meno adatto: e poi stava sempre fuori casa nella vigna, o nella stalla. Aveva accarezzato l’idea di prendersi in casa Rosetta, facendo un regalo alla sua solitudine ed anche un’opera di carità. La ragazza le piaceva moltissimo, era furba, sveglia, fatta apposta per lei. Avrebbe accettato senz’altro, si sarebbe lasciata alle spalle sacrifici, stenti, lavori interminabili, notti passate in bianco per il poco mangiare. Avrebbe lasciato quel tugurio dove tutti vivevano con una promiscuità da bestie, per una stanza tutta sua, bella, confortevole, con un letto morbido come non se lo era mai sognato. Avrebbe avuto dei vestiti nuovi, fatti apposta per lei, non quelli lisi, smessi, che la carità della madrina di tanto in tanto le elargiva e che, data la stazza, non le stavano bene. Per tutto questo, in fondo, lei non chiedeva che un po’ di compagnia. Ma, con sua somma delusione, la ragazza rifiutò. Non se la sentiva di abbandonare i suoi, anche se era attratta dal miraggio di quella vita più facile. Era come rinnegare una parte preponderante di se stessa. Mamma Teresa capì quel rifiuto; ammirò il buon senso della ragazza, ammettendo, con rammarico, che quel fiorellino era troppo fine per lei e per i suoi.

    «Guarda un po’ chi è baciato alla fortuna!» aveva brontolato. «Quel minchione di Filippo. Non se la merita una figliola come questa. Tra loro c’è una differenza abissale!».

    Ora, mentre Rosetta consumava la colazione con sano appetito, il donnone, vedendo con quale voracità si gettava sul burro, sulla marmellata, sui biscotti, si sentiva investire dalla rabbia contro suo padre. Era più forte di lei, non poteva farci niente. Ancora non si era rassegnata all’idea che la ragazza, alle sue comodità, avesse preferito la propria povertà.

    «Ti piace questa marmellata?» le chiese, «l’ho fatta con le pesche che due anni fa abbiamo innestato insieme, ricordi?».

    «È molto buona».

    «Ti darò un vasetto da portare a casa».

    «Grazie! La farò assaggiare ai miei fratellini».

    Finita la colazione, Rosetta aiutò mamma Teresa per il pranzo. Avevano tacchino al forno, una vera specialità per lei che solo a Natale o a Pasqua lo assaggiava.

    Stava sbucciando le patate quando l’abbaiare di Fox la spinse ad affacciarsi alla finestra della cucina.

    «Arrivano tre sconosciuti!» annunziò.

    «Saranno quei tre che hanno lasciato le mucche» spiegò mamma Teresa. «Era ora che si facessero vivi. Vengono a riprenderle».

    I tre avanzavano chiacchierando e ridendo. Due erano giovani, forse sulla trentina, il terzo, più vecchio, grasso e grosso come un barile. Rosetta osservò a lungo quei volti: non le dicevano niente, era la prima volta che li vedeva.

    «Da dove vengono?» chiese. Era stata sempre curiosa, e le novità le mettevano sempre addosso una eccitazione febbrile.

    «Non lo so. Sono venuti giorni fa per farsi ingravidare le mucche. Hanno pagato e le hanno lasciate qui».

    «Non sembrano dei dintorni» osservò con curiosità crescente.

    «Che vuoi che mi importi! Speriamo che padron Antonio non li inviti a pranzo. Ci tenevo ad essere noi tre soli»

    In quel mentre comparve sulla soglia padron Antonio. Salutò calorosamente la ragazza e stava per sedersi.

    «Arriva gente» disse la moglie, «ti prego, non tirarmeli dentro con la scusa di bere un bicchiere. Sbrigatevela fuori».

    Massiccio, imponente, per niente preoccupato dei suoi sessanta anni, l’uomo si portò sul pianerottolo esclamando: «Ah, sono loro! Mi daranno una mano per la tua mucca, Rosetta. Oggi fa la schizzinosa, non vuol farsi montare. Per due volte mi ha preso a calci il toro».

    «Non l’ha mai fatto; che le è successo? Vengo a dare una occhiata».

    «Sbucciati le patate, è meglio; non è roba da donne. Ci penso io e quelli che arrivano».

    «Vengo lo stesso. Vedendomi, può darsi che stia calma».

    Al braccio di padron Antonio raggiunse i tre e andarono nell’enorme stalla che, in tempi buoni, aveva accolto fino a venti mucche. Ve ne erano solo sei. I tre presero le loro lasciandole nel recinto antistante la stalla.

    Rosetta carezzò la sua dicendole: «Caterina cara, perché fai i capricci? Fatti prendere! E non sbagliare perché sono guai. Non posso aspettare i tuoi comodi; lo sai che stasera dobbiamo tornare a casa».

    I tre sorrisero divertiti e la ragazza a stento si trattenne dal riprenderli. Impiccioni! Sempre con le orecchie in ascolto!. Si diresse con la mucca al convegno di amore bovino (così lo chiamava), uno spazio recintato con un’alta palizzata.

    I tre la seguirono. Padron Antonio sarebbe giunto al momento opportuno col toro pronto per la monta.

    «Di dove sei?» chiese alla ragazza lo sconosciuto basso e grosso.

    «Dalle parti di Catenanuova. Voi?».

    «Qui vicino, oltre quelle colline». La risposta vaga non piacque alla ragazza.

    L’uomo lo notò ed aggiunse: «Non stiamo mai fermi, oggi qui domani là, dovunque c’è ottimo bestiame. Lo compriamo».

    «Quanto vale la mia mucca?» chiese lei. «Se non ingravida, la vendiamo».

    «Beh, non ha l’aria di stare molto bene» disse osservandola. «Deve avere qualche annetto sulle spalle».

    «Dieci».

    «Sono molti. Falla ingravidare, partorire e poi vendila».

    «Sono qui per questo» concluse lei.

    «Ti piace badare alle bestie?» le chiese uno dei giovani che nel frattempo l’aveva guardata con eccessivo interesse, ammirando la sua bellezza.

    «Non ho di meglio» gli rispose sorridendogli.

    Le piaceva che le facessero delle domande: aveva tanta voglia di chiacchierare.

    «Come contadina mi sembri sprecata! Sei troppo carina, femminile per questi lavori. Non hai mai pensato che sono più adatti ad un uomo che a una bella ragazza?» continuò quello.

    Dove vuole arrivare pensò lei, rotola complimenti su complimenti come un insensato.

    «Non l’ho scelta io questa vita, è nata con me» rispose.

    «E non pensi di cambiarla?».

    «Ancora non ci ho pensato! Sono troppo legata ai miei». Stava scoprendosi troppo; in fondo era uno sconosciuto, ne ignorava persino il nome. Era un po’ azzardato rivelare ad estranei i suoi progetti, le sue intimità.

    «Non pensi di sposarti? Chiunque ti vorrebbe, bella come sei» incalzò l’altro.

    «È un consiglio o una proposta? Ne terrò conto» rispose secca. La conversazione stava prendendo un tono che avrebbe voluto evitare.

    «Da come parli non sembri una contadina…» azzardò lui.

    «Ma dall’aspetto sì, è vero?».

    «Non volevo dire questo» si scusò.

    «Non importa quello che sembro agli altri, ma quello che sono per me stessa» sibilò lei indignata.

    «E sarebbe?».

    «Sono maledettissimi affari miei. Mai visto un uomo più indiscreto».

    «Non è indiscrezione la mia, è interesse» si scoprì il giovane.

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