Un Suicidio Colposo
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Book preview
Un Suicidio Colposo - Danilo Lucantoni
svanziche
Prefazione
Allora, qui dice: Prefazione = una sezione introduttiva che precede il lavoro, tipicamente non scritta dall'autore del lavoro
Bene.
No, però aspetta, come faccio a fare in modo che qualcuno possa scrivere qualcosa riguardante il mio libro se nessuno l'ha ancora letto perché non l'ho pubblicato e per pubblicarlo sto scrivendo la prefazione?
Vabbè, era tanto per dire. In realtà ho sempre ritenuto del tutto pleonastiche introduzioni, prefazioni, premesse etc perché quando uno vuole leggere il libro vuole leggerlo SUBITO. Quindi tutte quelle cagate che stanno all'inizio, eventualmente, ma proprio eventualmente, se il libro è piaciuto assai, si leggono alla fine, creando un paradosso quasi divertente. E allora uno dovrebbe metterci dei contenuti che non riguardano l'inizio del libro, bensì la fine. E chiamarla postfazione. Tipo un riassunto finale di come è finito il libro. Infatti io libri e film non ricordo mai come finiscono perché mi innamoro del percorso e non del finale, proprio come nella vita.
Riassunto per chi non ha tempo di leggere
Atto I: è un insieme di racconti spensierati, una porta che si apre e mostra un giardino in cui è piacevole stare. Rappresenta l’apertura al mondo, ci sono i viaggi gli amici e bla bla bla il tutto vissuto con una visione ottimista, nel complesso.
Atto II: è invece la scoperta dell’amore, che scombussola il personaggio in profondità, rendendolo insicuro e un po’ sinistro. Le emozioni sono vivide, a tratti amare ma mai immorali o irriverenti.
Atto III: ecco, qui le cose si mettono male. I racconti hanno venature livorose e spaventose. Alcuni hanno derive horror e comunque trasmettono un malessere che rende sgradevole la lettura anche a colui che li ha scritti. E quando le cose sembrano proprio andare a finire male, una botta di culo clamorosa gli salva la vita ed il mostro cattivo involontariamente si suicida nell’atto di ucciderlo.
Il personaggio si salva miracolosamente riabilitando solo nel finale la sua figura, e si candida a riferimento per l’ispirazione di un nuovo libro contenente una nuova raccolta di racconti che sarà pubblicata più avanti. Ecco, questo in una pagina è il riassunto del libro. Però se lo leggete mi fa piacere perché alcuni di questi brevi racconti li ho amati veramente, altri sono un po’ immaturi, ma tutti si lasciano leggere in scioltezza.
Atto I
Tutti stronzi
1.1 Non c'è niente come il Bellyboard!
La seggiovia ci aveva agganciato il sedere con affetto, accompagnandoci in cima alla collina. Scendemmo senza parlare e poi, con gli attrezzi in spalla, ci dirigemmo verso la montagnetta laterale, che non era battuta dal sole.
Gecco aveva le guance che sembravano dei toast, leggermente bruciacchiate da un principio di grandine che per tutto il tragitto gli avevano puntinato la faccia senza rispetto per un uomo della sua età.
Sarà tutto ghiacciato, Gecco
dissi quasi sottovoce, bonariamente e cercando un consenso. Era il momento in cui si dicevano stronzate. Questi fuoripista che facevamo con il bellyboard erano quanto di più pericoloso si potesse immaginare. A parte che era illegale praticarlo in aree non presidiate. Solo che gli spazi adibiti a questa specialità erano di solito delle discesette ridicole, piene di mocciosi che serpentavano a spazzaneve, senza nessun brivido.
Era un po’ come scegliere la donna con cui fare l’amore. Il sogno represso di ogni uomo. E chissà perché, il fuoripista dietro la seggiovia aveva un innegabile appeal, un magnetismo incontrollabile. Forse era il rischio, l’emozione di toccare una ferita aperta, ma quelli come noi si sentivano vivi ormai solo quando facevano queste cose. Tutto il resto, compreso scopare, era annegato nel piattume insensibile della normalità.
Come ti senti, Peppe?
si voltò all’improvviso guardandomi profondamente negli occhi.
Pieno di vita, Gecco. Pieno di vita!
ripetei per dare più forza al concetto, per farlo entrare in testa a me stesso più che altro.
In alto il cielo grigio copriva tutta la montagna come un involucro di metallo, per proteggerla. La linea dell’orizzonte era impossibile da individuare, e sfumava con la neve e qualche albero giù in fondo, come si evinceva dalle macchie scure piantate sul bianco.
Gecco aprì la zip del giaccone e ne estrasse una lattina cilindrica di alluminio. Cristo, Gecco! ancora con quella robaccia!
sbottai.
Figliolo, ormai ho quasi cinquant’anni, ringrazio dio per avermi salvato ogni santa volta, ma da adesso in poi ci devo mettere del mio
sentenziò patriarcale, rigirandosi nella mano il flacone di Inflatol.
Il motivo per cui facciamo queste cose è di sentire la corda della vita che si tende fino a produrre una nota acuta, così acuta che nessuno a parte noi potrà mai sentirla
- mi impostai come un professore davanti a un allievo negligente - se ti sbombi prima del lancio, perderai l’ebbrezza e il fascino di tutto questo
- feci un ampio gesto con la mano, per rinforzare il concetto - ...senza contare che ti fa male, quella merda ti mangia il cervello cazzo!
.
Gecco mi guardava senza espressione. Aveva incamerato le mie dure parole come un vecchio pugile suonato, che ormai non distingue più un pugno da una carezza. Guardò giù verso la discesa ghiacciata, si vedeva solo fino a un certo punto perché il sole baciava l’altro lato della montagna. Era tutto grigio, freddo, scuro. E la maledetta grandine continuava a impallinargli la guancia come una mitragliatrice che scarica tutto il tamburo addosso a una lamiera.
Vaffanculo, arrivaci tu alla mia età e poi mi racconti se non hai paura della morte
chiuse, lapidario, quasi caustico.
Svitò il tappo e bevve tutto in un unico sorso, poi chiuse la confezione e la lanciò di sotto. Il contenitore di inflatol rovinò scatolettando giù per la scarpata.
Ma che cazzo fai, butti la roba di metallo?
ruggii al mio amico, che però non mi stava ascoltando. Non avrebbe ascoltato più una mia parola da quel momento fino alla fine della discesa. Non gliene fregava più un cazzo di starmi a sentire.
Il bellyboard aveva un problema, che era anche la cosa più bella, ovvero non si poteva frenare. Si riusciva, quando la pendenza non era troppo elevata, a fare delle piccole modifiche alla traiettoria, ma non era possibile in alcun modo ridurre la velocità di discesa se non a causa della pista stessa, che si appiattiva in alcuni punti.
Era per questo che ci piaceva, era un piacere estremo. La cosa più bella a parte volare. Partire dalla cima e continuare a viaggiare fino a valle, e finire in un posto nuovo, inesplorato.
Estraemmo dallo zaino le grosse piastre da bellyboard, con un certo mestiere arrotondammo i bordi per dare la forma, poi tirammo fuori i lacci. Il suo board era rosso, non ho mai capito se avesse scelto quel colore per essere trovato facilmente in caso di incidente oppure se voleva intimamente essere scoperto dalla forestale, perché non riusciva a smettere questo pericoloso gioco con le sole forze della sua volontà. Il mio era giallastro, era quasi impossibile da scovare se lo si guarda da un elicottero.
Ci sdraiammo per bene a faccia in giù sulla piastra, a cui ci assicurammo con dei nodi robusti. Lo zaino, o quello che rimaneva dopo averne estratto l’attrezzatura, era poi fissato alla nostra schiena e questo aiutava anche a proteggerci dal vento gelido. Tirammo bene le stringhe fino allo scatto, era quello il segnale che tutto era a posto.
Dopo poco, eravamo pronti. In questi casi non si parla, si agisce e basta. Gecco mi guardò con aria sicura, cercò la mia mano per stringerla e darmi un po’ della sua sicurezza. Bella storia, mi dissi, dopo che ti sei sparato un Inflatol intero sono capace anche io a fare quello forte. Provaci tu senza niente, con la piastra gialla, e vaffanculo.
Feci l’urlo più forte possibile, e mi buttai. Eravamo tenuti insieme da un legame di braccia intrecciate che non si volevano separare, che volevano condividere, per poi ricordare. Ma dopo un attimo, alla prima cunetta uno sbalzo ci divise.
Urlavamo, urlavamo forte, con gli occhi di fuori e tutti stretti addosso alla piastra del bellyboard che sembravamo tartarughe rivoltate in balìa della corrente. Muovevamo inutilmente le braccia e le gambe, senza poter modificare la traiettoria né il corso degli eventi.
Dopo pochi metri di strapiombo, la pendenza diminuiva e la pista sgarrupava verso sinistra, in modo quasi naturale, e noi cercavamo di assecondare il movimento piegandoci dal lato opposto. Gecco era più avanti di me, strillava forte. Io cercavo di non prendere la sua scia, mi avrebbe fatto perdere una parte del panorama. Ma la pista si stringeva, si vede che era il letto di un fiume estivo, e convergeva verso il centro.
Era una specie di orgasmo, tanti input provenienti da ognuno dei cinque sensi, la pelle che sembrava infiammarsi e il vento dappertutto. Era fantastico, con l’aria che entrava in tutti gli angoli del mio corpo. Tutta la superficie del mio corpo era un punto erogeno. Vidi Gecco farmi degli strani gesti, e avvicinarsi, approfittando della pendenza che diminuiva prima di entrare nella zona boscosa.
Peppe!
- urlava -