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Una pagina d'amore
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Una pagina d'amore

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About this ebook

Una grave malattia minaccia la vita di Jeanne, una bambina di undici anni e mezzo, dolce e sensibile, molto attaccata alla madre Hélène, una donna molto bella rimasta purtroppo vedova in giovane età. La madre vive isolata, sacrifica la propria esistenza per curare la figlia. Proprio l’improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute spinge Hélène a cercare aiuto durante una notte molto agitata. Henri Deberle, un medico che abita non molto lontano, corre a occuparsi della piccola. L’incontro, inaspettatamente, sarà fatale per entrambi, travolti da una passione esclusiva. Il matrimonio di Henri entra in crisi, mentre le attenzioni riservate dalla madre al giovane dottore inquietano Jeanne. Si sente trascurata da Hélène e non approva la sua nuova relazione amorosa. La bambina diventa sempre più gelosa e una sera, senza un apparente motivo, si allontana da casa. Hélène, sconvolta e sopraffatta dal rimorso, dovrà ripensare la propria vita e fare una scelta dolorosa che cambierà per sempre la sua vita e quella di Henri. Una pagina d'amore, romanzo ambientato nella periferia parigina alla metà dell’Ottocento, è una delle opere più profonde e toccanti di Émile Zola.
 
LanguageItaliano
Release dateFeb 20, 2019
ISBN9788893041430
Una pagina d'amore
Author

Emile Zola

<p><b>Émile Zola</b> nació en París en 1840. Hijo de un ingeniero italiano que murió cuando él apenas tenía siete años, nunca fue muy brillante en los estudios, trabajó durante un tiempo en la administración de aduanas, y a los veintidós años se hizo cargo del departamento de publicidad del editor Hachette. Gracias a este empleo conoció a la sociedad literaria del momento y empezó a escribir. <em>Thérèse Raquin</em> (1867; ALBA CLÁSICA núm. LVIII) fue su primera novela «naturalista», que él gustaba de definir como «un trozo de vida».</p> <p>En 1871, <em>La fortuna de los Rougon</em> y <em>La jauría</em> (editadas conjuntamente en ALBA CLÁSICA MAIOR núm. XXXIV) iniciaron el ciclo de <em>Los Rougon-Macquart</em>, una serie de veinte novelas cuyo propósito era trazar la historia natural y social de una familia bajo el Segundo Imperio; a él pertenecen, entre otras, <em>El vientre de París</em> (1873), <em>La conquista de Plassans</em> (1874) (editadas conjuntamente en AALBA CLÁSICA MAIOR núm. XXXV), <em>La caída del padre Mouret</em> (1875), <em>La taberna</em> (1877), <em>Nana</em> (1880) y <em>El Paraíso de las Damas</em> (1883: ALBA MINUS núm. 29); la última fue <em>El doctor Pascal</em> (1893). Zola seguiría posteriormente con el sistema de ciclos con las novelas que componen <em>Las tres ciudades</em> (1894-1897) y <em>Los cuatro Evangelios</em> (1899-1902). En 1897 su célebre intervención en el caso Dreyfuss le valió un proceso y el exilio.</p> <p>«Digo lo que veo –escribió una vez-, narro sencillamente y dejo al moralista el cuidado de sacar lecciones de ello. Puse al desnudo las llagas de los de abajo. Mi obra no es una obra de partido ni de propaganda; es una obra de verdad.» Murió en Paris en 1902.</p>

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    Una pagina d'amore - Emile Zola

    D'AMORE

    I

    La lampada da comodino bruciava nel suo cartoccio bluastro sul caminetto, dietro un libro la cui ombra pervadeva un’intera metà della camera. A colpire di taglio il tavolino e la sedia a sdraio era un placido lucore, bagnava la grossa piega delle tende di velluto, inazzurrando lo specchio dell’armadio in palissandro situato fra le due finestre. L’armonia borghese dell’appartamento, quel blu dei parati, dei mobili e del tappeto si ammantava a quell’ora notturna di una vaga dolcezza di nuvola. E, di fronte alle finestre, dal lato dell’ombra, il letto, anch’esso rivestito in velluto, dava luogo a una massa nera, illuminata solamente dal pallore delle lenzuola. Hélène, le mani incrociate, nel suo calmo aspetto di madre e di vedova aveva un respiro leggero.

    Immersa nel silenzio la pendola rintoccò l’una. I rumori del quartiere s’eran zittiti. Sulle alture del Trocadero, soltanto Parigi si faceva sentire col suo rombo lontano. Il flebile respiro di Hélène era così dolce che nemmeno ne sollevava il casto profilo del collo. Lei dormiva amabilmente, di un sonno sereno e profondo, il profilo regolare e i capelli castani ben annodati, la testa china come si fosse assopita in ascolto. In fondo alla stanza, la porta spalancata di uno stanzino stagliava nel muro un quadrilatero di tenebre.

    Nessun rumore che salisse. Suonò la mezza. La pendola oscillava con stanchezza, preda del sonno che vinceva su tutta la stanza. Sul comodino, la lampada dormiva, i mobili dormivano; sul tavolino, accanto a una lampada spenta, riposava un lavoro a maglia. Hélène, addormentata, serbava la sua aria grave e buona.

    Quando rintoccarono le due la pace fu turbata, e un sospiro giunse dalle tenebre dello stanzino. Poi si avvertì un fruscio di panni, e tornò il silenzio. Ora si poteva sentire un respiro affannoso. Hélène non si era mossa ma, bruscamente, si levò. Un balbettio confuso di bambina sofferente l’aveva svegliata. Portò le mani alle tempie, ancora insonnolita, quand’ecco un grido soffocato e lei che balza sul tappeto.

    - Jeanne!... Jeanne!... cos’hai? Rispondimi! - implorò.

    E, dato che la bambina rimaneva zitta, precipitandosi sulla lampada mormorò:

    - Mio Dio! non stava bene, non avrei dovuto coricarmi.

    Entrò finalmente nella stanza attigua, dove ora regnava un greve silenzio. Ma la lampada, imbevuta d’olio, dava un chiarore tremulo che solo sul soffitto proiettava una macchia tondeggiante. Hélène, china sul letto di ferro, non poté sulle prime distinguere alcunché. Poi, nel barlume bluastro, in mezzo alle lenzuola rovesciate si avvide di Jeanne irrigidita, la testa arrovesciata, i muscoli del collo duri e contratti. Una contrazione che sfigurava quel povero adorato visino, dagli occhi aperti, ora, fissi sulla scanalatura dei tendaggi.

    - Mio Dio! Dio mio! - gridò Hélène - mio Dio! Sta morendo!

    E, posando la lampada, tastò la figlia con mani tremanti. Non le riuscì di sentire il polso. Il cuore pareva arrestarsi, le piccole braccia, le gambe minute si tendevano in uno spasmo. Allora fu sul punto di impazzire e, terrorizzata, balbettando:

    - La mia bambina muore! Qualcuno mi aiuti! La mia bambina! La mia bambina!

    Rientrò nella sua camera, voltando e incespicando e senza sapere dove andasse; poi tornò nello stanzino e nuovamente si gettò ai piedi del letto, senza smettere di invocare soccorso. Aveva preso Jeanne fra le braccia, le baciava i capelli e, mentre le sue mani erravano sul corpicino della bambina, lei la supplicava che le rispondesse.

    Una parola, una parola sola. Dove le faceva male? Voleva forse un po’ della pozione dell’altro giorno? Forse l’aria avrebbe potuto rianimarla? E si intestardiva a volerla sentir parlare.

    - Parlami Jeanne, oh! Parlami, te ne prego!

    Mio Dio! non sapere cosa fare! Così tutt’a un tratto, nel cuore della notte. Per giunta senza luce. I suoi pensieri cominciavano a confondersi. Lei continuava a rivolgersi alla sua figlioletta, interrogandola e rispondendosi al posto suo. Aveva qualcosa allo stomaco; no, in gola. Non sarà nulla di grave. Ci voleva calma, e si sforzò di conservare tutta la sua lucidità. Ma la percezione della figlia così rigida fra le sue braccia la sconvolgeva dalla testa ai piedi. La guardava, era in preda a convulsioni e senza fiato; si provò allora a ragionare, a tener lontano l’impulso a urlare. Ma all’improvviso, come contro la sua volontà esplose in un grido.

    Traversò la sala da pranzo e la cucina chiamando a gran voce:

    - Rosalie! Rosalie!!... Presto, un dottore! La mia bambina sta morendo!

    La domestica dormiva in una stanzetta dietro la cucina e lanciò un grido. Hélène tornò indietro di corsa mentre Rosalie strascicava i piedi in camicia da notte, apparentemente insensibile al gelo di quella glaciale notte di febbraio. La donna di servizio avrebbe dunque lasciato morire la sua bambina! Appena un minuto era passato. Hélène tornò in cucina e poi in camera da letto. Rudemente, a tastoni, si infilò una gonna e si gettò uno scialle sulle spalle. Rovesciando i mobili, inondava con la violenza di quella disperazione la stanza ove regnava una pace tanto raccolta. Poi, calzate le pantofole, dopo aver lasciato le porte aperte scese lei stessa i tre piani, convinta che lei sola potesse procurarsi un medico.

    Non appena la portinaia ebbe tirato il cordoncino, Hélène si ritrovò fuori, le orecchie ronzanti, la testa sperduta. Discesa a passo concitato rue Vineuse, suonò alla porta del dottor Bodin, che in passato aveva già prestato le sue cure alla piccola; dopo un’eternità una domestica le rispose che il dottore si trovava al capezzale di una partoriente. Hélène rimase sul marciapiede, istupidita. Non conosceva altri medici a Passy. In men che non si dica batté le strade e scrutò le case. Soffiava un sottile vento ghiacciato, e lei camminava con quelle sue pantofole nella neve leggera caduta quella sera. Davanti a sé sempre sua figlia, con quel pensiero angoscioso, che se non avesse trovato subito un medico l’avrebbe fatta morire. Allora, risalendo rue Vineuse, si attaccò a un campanello. Chiedeva ovunque, con la speranza che qualcuno le avrebbe dato un nome, un indirizzo. Suonò di nuovo, visto che non si sbrigavano a risponderle. Il vento premeva la sua esile sottana sulle sue gambe, portando scompiglio nella sua capigliatura.

    Infine un domestico venne ad aprire e le disse che il dottor Deberle era a letto. Aveva dunque suonato il campanello di un dottore! Il Cielo non l’avrebbe abbandonata. Entrò spingendo il domestico e ripetendo:

    - La mia piccola, la mia piccola muore! Ditegli di correre!

    Era un palazzetto tutto tappezzato. Lottando contro il domestico salì un piano rispondendo a ognuna delle sue domande Mia figlia sta morendo!.

    Finalmente entrata in uno dei locali, si dispose ad attendere. Ma, da che la stanza attigua le inviò i segni del dottore che si riscuoteva, si avvicinò per parlargli attraverso la porta.

    - Presto, signore, la scongiuro! La mia bimba se ne sta andando!

    Apparve finalmente, in giacca e senza cravatta, e lei lo trascinò senza dargli il tempo di perfezionare il suo abbigliamento. Era lui: l’aveva riconosciuto. Lei abitava nella casa accanto e altri non era che la sua locataria. Così, quando gli fece traversare un giardino per sveltire il cammino - sarebbero passati per una porticina comunicante posta fra le due dimore - avvertì come in un soprassalto un’improvvisa reminiscenza.

    - È vero, mormorò, voi siete medico, ben ricordavo… Guardatemi, mi son fatta pazza… Non perdiamo altro tempo.

    Lo obbligò a salire per primo. Nemmeno Dio si sarebbe portata in casa in maniera così devota. In cima, Rosalie era rimasta al fianco di Jeanne e aveva acceso la lampada del tavolino. Appena entrato il dottore prese la lampada e portò la bambina in piena luce, lei che pareva abbarbicata a quel suo rigore doloroso; solo la testolina si era lasciata scivolare, il viso come frettolosamente corrugato. Per un intero minuto lui rimase zitto a labbra serrate. Ansiosa Hélène lo veniva scrutando. Accortosi di quello sguardo di madre implorante, le mormorò:

    - Non è nulla… Ma non bisogna lasciarla qui. Ha bisogno d’aria. Con autorità lei se la caricò sulla spalla; avrebbe baciato le mani del dottore per le sue parole buone, e una grande dolcezza prese a scorrere in lei. Ma, non appena ebbe posato quel povero corpo piccino sul lettone, ecco che Jeanne fu presa da violente convulsioni. Il dottore aveva rimosso il paralume e una clarità bianca soffondeva la stanza. Si accostò a una finestra che volle socchiudere, ordinò a Rosalie di spingere il letto oltre le tende. Nuovamente preda della sua angoscia, Hélène balbettò:

    - Però sta morendo, signore!... Vedete bene, vedete dunque!... Non la riconosco più!

    Lui non rispose, per seguire il nuovo accesso con sguardo vigile. Quindi le si rivolse:

    - Riponetela nell’anfratto, e tenetele le mani, non deve graffiarsi... Così, dolcemente, senza movimenti bruschi… E non v’inquietate, la crisi deve fare il suo corso.

    Come affacciati sul letto entrambi sostenevano Jeanne, le cui piccole membra si distendevano adesso in scosse nervose. Il medico aveva abbottonato la giacca a schermire il collo svestito. Hélène, era rimasta ravvolta nello scialle ancora adagiato sulle sue spalle. Entrambi, colletto e scialle, Jeanne li scompigliò con uno strattone. Ed essi non ne ebbero contezza. Né l’uno né l’altro badava a sé.

    L’accesso si placò finalmente. La piccina parve sprofondata in una grande spossatezza. E, benché avesse appena rassicurato la madre sull’esito della crisi, il dottore rimase apprensivo. Non faceva che guardare la sua paziente e finì per porre due brevi domande a Hélène, rimasta in piedi fra il letto e la parete.

    - Qual è l’età della bambina?

    - Undici anni e mezzo, signore.

    Ci fu allora un silenzio. Egli scosse la testa, si chinò per sollevare alla bimba la palpebra chiusa e osservarne così la mucosa. Quindi proseguì nel suo interrogare, senza guardare negli occhi la sua interlocutrice.

    - Soffriva di convulsioni, da piccola?

    - Sì, ma sono scomparse verso i sei anni... è molto delicata. È già da qualche giorno che non la vedo bene. Aveva dei crampi, come delle assenze.

    - Vi risulta che qualcuno abbia sofferto di malattie nervose, nella vostra famiglia?

    - Non saprei... Mia madre morì di malattia polmonare.

    Esitò, vergognosa, non volendo confessare d’una sua ava rinchiusa in manicomio. Tutto nei suoi progenitori fu tragico.

    - Attenzione, disse lui infine, eccoci con un nuovo accesso.

    Jeanne aveva appena riaperto gli occhietti. Fu un attimo, si guardò d’attorno con aria perduta, senza dir nulla. Poi il suo sguardo si fece fisso, il corpo si riversò all’indietro - gli arti allungati e contratti. Era paonazza. Tutt’a un tratto impallidì, d’un pallore livido, e le convulsioni ripresero foga.

    - Non la lasciate, ribadì il dottore, prendetele l’altra mano.

    Corse quindi al tavolino su cui entrando aveva riposto una piccola farmacopea. E tornò con un flacone che fece subito inalare alla piccina. Fu però come un tremendo colpo di frusta, Jeanne diede in un tale singulto da sfuggire di mano alla madre.

    - No no, non l’etere! - gridò lei, insospettita dall’odore. L’etere le dà alla testa.

    E l’uno e l’altra ebbero un bel patire a trattenerla. Aveva violentissime contrazioni che l’inarcavano all’altezza dei talloni e della nuca, piegandola in due. Infine ricadde distesa, scossa da una continua oscillazione che le faceva far la spola fra le due sponde del letto. I pugni serrati, i pollici flessi verso il palmo, a tratti li riapriva e a dita divaricate tentava di afferrare gli oggetti che nel vuoto le venivano a tiro, e che avrebbe voluto torcere. Trovato così lo scialle materno, vi si aggrappò: ma quel che più d’ogni altra cosa torturava colei che dello scialle era la proprietaria, era - come diceva lei stessa - di non riconoscere più la figlia. Il suo povero angioletto! dal viso talmente dolce - aveva i lineamenti trasfigurati, e gli occhi, smarriti nelle loro stesse orbite, esibivano due madreperle bluastre.

    - Fate qualcosa, vi supplico - mormorò Hélène. Ogni forza è svanita in me, signore.

    Si era appena ricordata che la figlia di una delle sue vicine, a Marsiglia, era morta soffocata proprio durante una crisi analoga. Poteva darsi allora che il medico la ingannasse per proteggerla? Ad ogni istante lei si persuadeva di ricevere sul viso l’ultimo alito di Jeanne, la cui sincopata respirazione sembrava arrestarsi. Allora, addolorata e anzi sconvolta dal terrore e dalla pietà ella pianse. Le sue lacrime ricadevano sull’innocente nudità della piccola, che intanto aveva scalciato via le coperte.

    Il dottor Deberle stava esercitando una delicata pressione - con quelle sue soffici dita - sull’attaccatura del collo. L’accesso diminuì di intensità. Dopo aver accennato a qualche pur lentissimo movimento, Jeanne si ritrovò inerte. Era di nuovo in mezzo al letto, il corpo allungato, le braccia distese, la testa sostenuta dal cuscino ma riversa sul petto. La si sarebbe detta un Cristo fanciullo. Hélène si ripiegò su di lei e lungamente le baciò la fronte.

    - È finito? Chiese a mezza voce. Credete che gli accessi torneranno?

    Da parte di lui un ampio gesto evasivo. Dopo di che:

    - In ogni caso, saranno meno violenti.

    Aveva chiesto a Rosalie un bicchiere e una caraffa. Riempì il bicchiere a metà, prese altri due flaconi, contò le gocce e - con l’aiuto di Hélène che intanto teneva levata la testa di Jeanne - versò due cucchiaiate della pozione fra i denti serrati della piccola. La lampada mandava alti bagliori, la sua fiamma era bianca e rischiarava il disordine di quella stanza dove ogni mobile era ormai rovesciato. I vestiti che Hélène prima di coricarsi era solita appoggiare allo schienale di una poltrona erano scivolati sul pavimento e intralciavano il tappeto. Deberle, calpestato un corsetto, lo raccolse per non doverlo più calpestare. Un odor di verbena saliva dal letto disfatto e dalla biancheria sparpagliata. A vedersi così bruscamente sfoggiata era tutta l’intimità di una donna. Il dottore era andato di persona a recuperare la bacinella, e vi intinse un panno da applicare alle tempie di Jeanne.

    - Signora, rischiate d’infreddarvi, disse Rosalie in preda ai brividi. Forse potremmo chiudere la finestra… L’aria è così pungente.

    - Non se ne parla, proruppe Hélène, lasciatela aperta… Non è giusto, signore?

    Timidi spiragli di vento facevano il loro ingresso sommuovendo le tende. Ma lei non li avvertiva. E tuttavia il suo scialle le era scivolato dalle spalle, lasciando in vista la sorgente della gola. Da tergo, lo chignon slacciato, disciolto, abbandonava i suoi boccoli folli sino ai lombi. Aveva liberato le braccia, ora nude, per poter balzare, di tutto immemore, in soccorso della sua amatissima bimba. Davanti a lei, trafelato, il dottore che non aveva smesso di pensare alla sua giacca sbottonata, o al colletto della camicia che Jeanne aveva appena strappato.

    - Sollevatela un po', disse. Ma non così… datemi la mano.

    Le prese la mano e la posò lui stesso sotto la testa della piccola, alla quale meditava di somministrare un’altra cucchiaiata. Quindi la chiamò presso di sé. Si serviva di lei, di Hélène, come di un’assistente, e lei dava prova di un’obbedienza religiosa, constatando che la figlia pareva tranquillizzarsi.

    - Coraggio… Appoggiate la sua testa sulla vostra spalla, debbo auscultarla.

    Hélène fece quel che le veniva ordinato. Lui si chinò da sopra su di lei, per posare il suo orecchio sul petto della piccola Jeanne. Le aveva sfiorato la nuda spalla con la guancia, e ascoltando il cuore della bambina poteva intuire il battito di quello della madre. E, quando se ne staccò, i due respiri si incontrarono.

    - Non c’è nulla a sentirla così, disse con la massima calma a lei che si felicitava. Coricatela ora, non bisogna esagerare.

    Ma un ennesimo accesso si verificò. Molto meno grave: e Jeanne si lasciava sfuggire qualche parola smozzicata. Ci furono altri due accessi, a breve intervallo l’uno dall’altro. Jeanne era precipitata in uno stato di prostrazione che pareva inquietare nuovamente Deberle. L’aveva adagiata con la testa ben sollevata, la coperta tirata sino al mento - e per quasi un’ora le era rimasto accanto, a vegliarla e come ad aspettare il timbro di una respirazione risanata.

    Dall’altra parte del letto, Hélène pure stava in attesa, immobile.

    Poco a poco una pace profonda discese sul viso di Jeanne. La lampada, la illuminava d’una luce dorata. Il suo viso recuperava allora il suo adorabile ovale, un pochino allungato e con una grazia, una finezza da capra. I suoi begli occhietti chiusi sotto quelle palpebre ampie, diafane e bluastre, a celare e lasciar trapelare l’opaco splendore del suo sguardo. Il suo nasino sottile soffiava delicatamente, e la sua bocca un poco accentuata diede in un sorriso indeterminato. Dormiva così, sui capelli come su un drappo srotolato, nero inchiostro.

    - Con questa abbiamo finito, disse il dottore a mezza voce.

    Si voltò a riordinare i suo flaconcini, apprestandosi poi a congedarsi. Hélène gli si fece accosta con aria supplichevole.

    - Oh! Signore, gli mormorò, non mi lasciate così. Vogliate attendere qualche minuto. Casomai qualche altro accesso avesse a manifestarsi… Siete voi ad averla salvata.

    Ma lui le fece intendere che nulla era più a temersi. E tuttavia restò, cedendo al desiderio di lei. Lei, aveva mandato a letto Rosalie. Ben presto riapparve il giorno, uno dolce e grigio sulle nevi biancheggianti sui tetti. Deberle chiuse le finestre. Si scambiarono parole rarefatte, in mezzo a quel gran silenzio, e a voce tanto bassa.

    - Non ha nulla di grave, vi assicuro. Solo che alla sua età ci vuole molto riguardo. Badate soprattutto a che conduca una vita regolare, lieta, immune da sobbalzi eccessivi.

    Ma Hélène stava già a sua volta replicando:

    - Jeanne è talmente delicata, e così nervosa… Nemmeno potrei più dirmi padrona di lei. Per delle inezie è capace di esultare o invece di intristire in un modo che mi angustia, tanto le sue reazioni sono intense… mi ama con un trasporto, con una gelosia… sino a singhiozzarne, se per caso accarezzo un altro bambino.

    Deberle scosse il capo e ribadì:

    - Sì, certo, delicata, e gelosa… è il dottor Bodin ad averla in cura, vero? Gli parlerò di sua figlia. Insieme stabiliremo una terapia energica. Ha giusto gli anni in cui si decide la salute della donna.

    Sapendolo tanto affezionato, Hélène ebbe un impeto di gratitudine.

    - Ah signor mio, quanto vi sono grata per tutta la pena che vi siete dato!

    Ma, avendo parlato a voce insolitamente alta, subito si sporse da sopra il letto nel timore di averla svegliata. La bambina dormiva, tutta rosa, con quel suo sorriso imprecisato. Nella camera tornata tranquilla aleggiava il languore. Una sonnolenza raccolta, quasi un senso di sollievo si erano reimpossessati delle tappezzerie, dei mobili, degli abiti qua e là sparsi. Ogni cosa si lasciava invadere e si abbandonava all’ancor flebile luce penetrata per le due finestre.

    Nuovamente Hélène si ritrovò in piedi ai bordi del letto. Il dottore si tratteneva presso la sponda opposta. Fra loro, Jeanne dormiente, con il suo respiro leggero.

    - Suo padre era spesso malato, riprese dolcemente Hélène come a voler proseguire. Quanto a me sono sempre stata bene.

    Il medico, che ancora non si era soffermato sulla donna, sollevò gli occhi e non poté trattenere un sorriso, tanto la vedeva sana e forte. Ed ella ricambiò con uno dei suoi sorrisi rasserenanti, a tal punto la rendeva felice la sua ottima salute.

    Per tutto questo tempo lui non staccò gli occhi da lei. Mai aveva incontrato una bellezza più pura. Alta, splendida, Hélène era una Giunone castana, ma d’un castano dorato e dai riflessi biondi. Girò lentamente la testa e sul suo profilo si disegnò una purezza grave di statua. I suoi occhi grigi e i suoi candidi denti le illuminavano il viso da cima a fondo. Aveva il mento tondeggiante, un poco accentuato, che le conferiva un aspetto saggio e risoluto. Ma quel che più stupiva il dottore era la nudità davvero superba di quella madre. Lo scialle tuttora fuori posto, la sua gola si scopriva e le braccia si snudavano. Una grande treccia color oro scuro le correva di traverso le spalle per perdersi poi fra i suoi seni. Nella sua sottoveste semislacciata, scarmigliata e confusa, conservava una maestà e una vetta di pudore e rettitudine che sotto quello sguardo virile ne assicuravano la castità, mentre in lui cresceva il turbamento. Hélène lo soppesò brevemente. Il dottor Deberle era un uomo di trentacinque anni dal viso rasato e un poco allungato, sguardo penetrante e labbra sottili. Fu proprio osservandolo che a sua volta si accorse del suo collo nudo. Restarono così l’uno di fronte all’altra, la piccola Jeanne addormentata fra loro. E quella distanza sino a un momento prima immensa pareva ora accorciarsi. La bambina respirava troppo esilmente. Lentamente Hélène si riavvolse nello scialle, mentre lui riabbottonava il collo della giacca.

    - Mamma, mamma, balbettò Jeanne nel sonno.

    E si svegliò. Quand’ebbe entrambi gli occhi aperti scorse il medico e ne rimase turbata.

    - Chi è? Chi è?- insisteva.

    La madre le diede un bacio.

    - Dormi, piccola cara, sei stata poco bene… il signore è un amico.

    La bimba parve sorpresa. Non ricordava niente. Il sonno la vinse e lei si addormentò, teneramente bisbigliando:

    - Oh! Che sonno! Buona sera, mammina… se è amico tuo, sarà anche il mio.

    Il dottore aveva provveduto a togliere dalla sua vista la sua borsa delle medicine. Salutò in silenzio e si ritirò. Ma Hélène restò un momento in ascolto del respiro della piccola, seduta in punta al letto. Sperdeva lo sguardo e i pensieri, assorta. Ancora accesa, la lampada impallidiva nella luce del mattino.

    II

    L’indomani pensò che fosse opportuno recarsi dal dottor Deberle per ringraziarlo di persona. Quel modo drastico con cui si era fatta seguire, una intera notte trascorsa al capezzale di Jeanne - tutto ciò la imbarazzava, si trattava in fondo per un medico di una prestazione fuori dall’ordinario. E tuttavia titubò per ben due giorni, recalcitrando dinanzi a quel passo a causa di ragioni a lei stessa ignote. Ma proprio una simile esitazione la fece pensare a lui: e un mattino, incontratolo, gli si nascose come una bambina. In seguito fu contrariata da quel suo moto di timidezza. La sua natura placida e retta levava una voce di protesta per quel turbamento che così improvviso aveva fatto irruzione nella sua vita. Sicché infine si risolse a fare la sua visita di ringraziamento il giorno stesso.

    La crisi della piccola era avvenuta nella notte fra il martedì e il mercoledì, e ora era sabato. Jeanne si era del tutto ristabilita. Il dottor Bodin, accorso poi con premura, aveva parlato del dottor Deberle con il rispetto che un povero vecchio medico di quartiere sente di dovere a un collega più giovane ma ricco e già molto noto. Egli raccontò tuttavia, non senza un fine sorriso, che la sua fortuna la doveva a papà Deberle, uomo che tutta Passy venerava. Il figlio non aveva dovuto darsi altra pena che di ereditare un milione e mezzo, insieme a una clientela di prim’ordine. Un ragazzo assai forte, del resto, come si affrettò ad aggiungere lo stesso Bodin, con il quale si disse onorato di potersi consultare su un tema di tale momento come la salute della sua cara, piccola amica Jeanne.

    Verso le tre Hélène e sua figlia discesero i pochi passi della rue Vineuse che le separavano dal vicino palazzetto e dal suo campanello. Entrambe erano ancora vestite a lutto. Fu un cameriere ad aprire, abito e cravatta bianchi. Hélène, riconobbe l’ampio vestibolo tappezzato con pannelli orientali: una semplice profusione floreale a destra e sinistra guarniva le fioriere. Erano state introdotte in un modesto salotto - parati e mobilio reseda. E, in piedi, il cameriere rimasto in attesa. Hélène si annunciò col suo cognome:

    - Madame Grandjean.

    Il cameriere spinse la porta di una sala nera e gialla e straordinariamente sfavillante. Dileguando ripeté:

    - Madame Grandjean.

    Sulla soglia, lei ebbe un sussulto. Aveva appena intravisto, verso il fondo, a bordo del camino, una giovane signora seduta su un divanetto che l’ampiezza delle sue falde occupavano sino a sommergere. Di fronte lei una persona in là con gli anni che non si era ancora separata dal suo cappello e scialle, e che evidentemente era una visitatrice.

    - Chiedo scusa, mormorò Hélène, desideravo vedere il signore dottor Deberle.

    Nel dir ciò aveva ripreso la mano di Jeanne, che aveva fatto entrare per prima. L’aveva sorpresa e l’imbarazzava ora di imbattersi in quella giovane signora.

    Eppure sapeva che era sposato.

    La signora Deberle stava giusto terminando un racconto con voce rapida e un poco acuta:

    - Oh! È meraviglioso, semplicemente! Lei muore con un realismo! Guardate, impugna la sua camicetta in quel certo modo, arretra la testa e si fa tutta verde… Vi giuro che bisogna andare a vederla, signorina Aurélie…

    Quindi si alzò e con un chiassoso sbuffo di stoffe si accostò alla porta, dicendo con grazia vezzosa:

    - Vogliate accomodarvi, signora, prego… Mio marito non è in casa… ma sarei molto lieta, credetemi, molto lieta… e lei dev’essere la bella signorina che solo l’altra notte soffriva tanto… Vi prego, sedete un istante.

    Hélène dovette accettare la poltrona che le veniva offerta, mentre Jeanne, vergognosetta, si appoggiava sul bracciolo di una sedia. Madame Deberle s’era nuovamente infossata nel suo angusto divano, e con un risolino aveva aggiunto:

    - È il mio giorno. Ebbene, io ricevo di sabato… in quell’occasione Pierre accoglie chiunque. La settimana passata mi ha portato un colonnello con la gotta.

    - Vi sentite bene, Juliette?! - disse piano mademoiselle Aurélie, quella signora attempata, vecchia amica povera che l’aveva vista nascere.

    Ci fu un breve silenzio. Hélène gettò uno sguardo sulla ricchezza della sala, ai tendaggi e alle seggiole nere e oro onde veniva quello splendore d’astri. Sul caminetto sbocciavano fiori - e sul piano, sui tavoli. Dai vetri delle finestre entrava la luce chiara del giardino - di cui si potevano scorgere gli alberi e la terra, spogli. Faceva un gran caldo ed era una calura costante, come di calorifero. Nel camino, un solo ceppo inceneriva. Ancora guardando, Hélène capì come quello scintillio proveniente dalla sala fosse una scena assai felicemente congegnata. Madame Deberle aveva capelli nero inchiostro e una pelle bianco latte. Era minuta e un tantino paffuta, lenta, aggraziata. In mezzo a tutto quell’oro e sotto la fitta e cupa acconciatura, il suo pallido incarnito si dorava in riflessi vermigli. Hélène, la trovava semplicemente adorabile.

    - È terribile, quelle convulsioni - aveva ripreso madame Deberle. Lucien, il mio piccino, ne ha avute, ma nei primissimi anni… Quanto dovete esservi spaventata, signora! Ma ora la piccola cara ha tutta l’aria di star bene.

    Strascicando un po’ le parole osservava Hélène, anzi ne ricambiava gli sguardi, sorpresa, anzi rapita da tanta bellezza. Mai aveva veduto donna tanto regale. In quegli abiti neri che ne drappeggiavano l’alta la severa figura di vedova. La sua ammirazione si manifestò in un sorriso involontario, e intanto scambiava sguardi con mademoiselle Aurelie. Le due donne la studiavano entrambe in modo tanto candidamente incantato che Hélène si trovò come a rispecchiarle con un sorriso appena accennato.

    Madame Deberle si distese dolcemente sul suo canapè, prese il ventaglio dalla cintura e:

    - Per caso ieri sera eravate alla prima del Vaudeville, signora?

    - Non vado mai a teatro.

    - Oh! La piccola Noemi è stata incantevole, semplicemente! Muore con un tale realismo! Afferra il corpetto, reclina la testa in un modo - e diventa verde! L’effetto era prodigioso.

    Discusse poi brevemente l’interpretazione dell’attrice, di cui prese le parti. Quindi passò alle altre notizie parigine, un’esposizione di dipinti dove aveva visto tele inaudite, uno sciocco romanzo del quale si faceva però un gran parlare. E un’avventura osé, di cui disse qualcosa a voce velata e quasi nell’orecchio di mademoiselle Aurelie. Trascorreva così da un argomento all’altro, senza fatica e con voce sempre a tempo, respirando, quasi, le cose di cui parlava e che le erano tutte familiari. Estranea a quel mondo, Hélène si contentava di ascoltare e di insinuare di quando in quando una modesta osservazione, una succinta risposta.

    La porta si aprì e il cameriere annunciò due signore:

    - Madame de Chermette… Madame Tissot…

    Due dame fecero il loro ingresso in gran pompa. La padrona di casa si fece avanti con calore, e lo strascico del suo abito di seta nera, così appesantito dalle finiture, era così lungo che doveva farsi ala con un colpo di tacco a ogni cambio di direzione. Per un attimo si fece avvertire un mormorio di voci flautate.

    - Ma siete un incanto! E non vi vedo mai…

    - Veniamo per quella lotteria, sapete?

    - Perfettamente, signora.

    - Nemmeno possiamo sederci. Abbiamo altre venti case da fare.

    - Vedremo! Non avrete modo di scamparla.

    Finché le due dame non si sedettero in punta a un canapè. E ancora quelle voci di flauto, ma più acute:

    - Eh? Ieri, al Vaudeville.

    - Oh! Magnifico.

    - Sapete vero che lei si slaccia il fermacapelli e li lascia ricadere? Tutto l’effetto è lì.

    - Si dice che ingerisca qualcosa per diventare verde.

    - Ma no, ma no… i movimenti sono tutti calcolati… certo innanzitutto bisognava inventarli…

    - Prodigioso.

    Le due dame, alzatesi, disparvero. La sala ritrovò la sua calda calma. Dai giacinti posti sul caminetto spiravano profumi penetranti. Un attimo e in giardino esplose la rissosa disputa di un nugolo di merli che si fiondavano sul prato. Prima di risedersi Madame Deberle riavvolse la tapparella in tulle ricamata alla finestra che sembrava guardarla: sino a che riprese posto nell’oro più dolce della sala.

    - Chiedo scusa, disse, ma siamo invasi.

    In modo affettuoso e rilassato conversò con Hélène. Sembrava conoscere almeno in parte la sua vicenda, senza dubbio attraverso le dicerie che circolavano sulla casa di Hélène, che apparteneva a madame Deberle. Coraggiosamente e con un tatto che pareva annunciare l’amicizia le parlò allora del marito, e della sua terribile morte all’hotel du Var, in via Richelieu.

    - Ma voi non eravate mai stata a Parigi, non è vero? Dev’essere terribile, un lutto fra estranei, e all’indomani di un lungo viaggio senza nemmeno sapere dove, e su chi poi, fare affidamento.

    Lentamente Hélène scosse il capo. Ebbene, aveva passato ore spaventose. La malattia che le avrebbe rapito il marito si era manifestata all’improvviso, il giorno successivo al loro arrivo, proprio mentre si apprestavano a uscire insieme. Non conosceva una strada che fosse una, non sapeva nemmeno in quale quartiere si trovasse. E per otto lunghi giorni era rimasta al capezzale del moribondo, con il rombo di tutta Parigi che le giungeva dalla finestra, lei così sola, desolata, sperduta e perduta come al fondo di ogni solitudine. E quando per la prima volta aveva rimesso piede sul marciapiede, era già vedova. L’immagine di quella grande stanza desolata, ingombra di flaconi e pozioni d’ogni sorta, con i bauli nemmeno disfatti, ancora la faceva rabbrividire.

    - Suo marito: mi dicono che avesse su per giù il doppio dei vostri anni - domandò madame Deberle con aria di profondo interesse e con Aurelie che tendeva entrambe le orecchie per non perdersi una parola.

    - Ma no, rispose Hélène, non aveva che sei anni di più.

    Si lasciò andare in un pur succinto racconto del suo matrimonio: del grande amore che il marito nutriva per lei quando lei abitava con il padre, il cappellaio Mouret, in rue des Patites-Maries, a Marsiglia. E la caparbia ostilità della famiglia Grandjean, ricchi petrolieri irritati dalla povertà di quella fanciulla. E, dopo gli annunci matrimoniali, le nozze tristi e furtive e quella vita precaria sino al giorno in cui uno zio aveva loro accordato in punto di morte una rendita di circa mille franchi. Fu allora che Grandjean, mai amata Marsiglia, tutt’altro, aveva deciso che si sarebbero trasferiti a Parigi.

    - Quanti anni avevate quando vi siete sposata?

    - Diciassette.

    - Dovevate essere davvero bella.

    La conversazione si spense: forse Hélène non aveva capito.

    - Madame Manguelin, annunciò il cameriere.

    Una giovane riservata e come contrariata fece la sua comparsa. Madame Deberle si alzò senza premura. Si trattava di una delle sue protette venuta a ringraziarla per un favore ricevuto. Non si trattenne che pochi minuti, e con un inchino prese congedo.

    Madame Deberle poté riprendere la conversazione e parlò dell’abate Jouve, che entrambe conoscevano. Era un umile vicario di Notre-Dame-de-Grâce, la parrocchia di Passy: un animo caritatevole faceva di lui il sacerdote più amato e ascoltato in quel distretto.

    - Oh! Una vera benedizione! - mormorò con fare devoto la padrona di casa.

    - È stato molto buono con noi, confermò Hélène. Mio marito l’aveva conosciuto in altre circostanze, a Marsiglia… Da quando venne a sapere della sua malattia si è fatto carico di tutto. Fu lui a trovarci una sistemazione a Passy.

    - Non ha un fratello? Chiese Juliette.

    - Sì, sua madre si è risposata… Il signor Rambaud conosceva anch’egli mio marito… Ha avviato in rue Rambuteau una prospera attività con i prodotti del Mezzogiorno, e credo guadagni assai bene.

    Aggiunse poi con gaiezza:

    - L’abate e suo fratello esauriscono tutte le mie conoscenze.

    Jeanne, annoiata sul bracciolo della sua sedia, inviò alla madre sguardi impazienti. Il suo aggraziato viso di capretta pativa come se avesse deplorato ogni parola di quei colloqui: a tratti sembrava fiutare i profumi intensi

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