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Una furia dell'altro mondo
Una furia dell'altro mondo
Una furia dell'altro mondo
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Una furia dell'altro mondo

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"Il Paradiso non conosce furia maggiore dell’amore che volge in odio né l’Inferno una furia pari a quella di una donna ingannata."  William Congreve (1697) 
 
Un thriller divertente, sentimentale, un po’ filosofico e allo stesso tempo ironico, surreale, ma anche un po’ truce. Non potrebbe essere diversamente con la protagonista Julia Redner, un prototipo di donna in carriera stile Il diavolo veste Prada, che si ritrova in un Purgatorio molto simile a un aeroporto, dotato di tutti i comfort che si possano desiderare. Non sa perché sia finita lì, ma quando finalmente comprende chi era sulla Terra e cosa le è successo, le si aprirà una seconda chance di riscatto e di vendetta.   
LanguageItaliano
Release dateMar 20, 2019
ISBN9788894979183
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    Una furia dell'altro mondo - Lisa de Nikolits

    Colophon

    Titolo originale

    No Fury Like That

    ©2017 Inanna Publications and Education Inc. Toronto, Canada

    © Edizioni le Assassine, 2019

    Tutti i diritti riservati

    Traduzione dall’inglese di Tiziana Prina

    Progetto grafico copertina e interni: studioquasar

    Copertina: elaborazione da foto Adobe Stock

    ISBN della versione e-book 978-88-94979-18-3

    www.edizionileassassine.it

    info@edizionileassassine.it

    Lisa de Nikolits

    Una furia

    dell’altro mondo

    Traduzione di Tiziana Prina

    Edizioni le Assassine

    Milano

    A Bradford Dunlop,

    a tutti i miei amici e famigliari,

    in questo mondo e nell’altro

    Il Paradiso non conosce furia maggiore

    dell’amore che volge in odio

    né l’Inferno una furia pari a quella

    di una donna ingannata.

    William Congreve (1697)

    Parte I

    1. Il risveglio

    Mi sveglio, ho dolori da tutte le parti. Sono intrappolata nell’oscurità, come se fossi sott’acqua… Sì… respiro, ma il bruciore mi morde la carne fino alle ossa. Cerco di sollevare la testa, ma è troppo pesante, è come un enorme ceppo d’albero in cui sono piantate le braccia che mi formicolano mentre i gomiti sono rottami in mille pezzi. Ho qualcosa di rotto? Perché non riesco a muovermi? Mi concentro sulla bocca. I denti sono serrati, la mascella è bloccata. Una prigione. La faccia incatenata al collo, che a sua volta si innesta nello stesso ceppo di legno delle braccia. Ma posso respirare, e lo faccio. È bello respirare e, come un pallone, la mia testa si riempie di aria e si fa più leggera, tanto leggera che riesco a immaginare di muoverla, o quasi.

    Mi sembra di essere incastrata. Nell’oscurità respiro l’aria calda che io stessa espiro, e mi chiedo se sto sognando o se fluttuo lentamente verso la luce del risveglio, ritornando alla superficie della coscienza. Aspetto, in attesa di riemergere come chi sta affogando, liberato dopo un tempo interminabile da un masso che lo trattiene sul fondo del mare: ma non c’è alcun sollievo e io non vado da nessuna parte. Anche se ora la mia testa è come un pallone leggero, non ci sono che bruciore, fitte, oscurità, e l’aria che respiro ed espiro. La mascella si rilascia. Con uno schiocco i denti si disincastrano, ma in bocca lo smalto del dente rotto sembra carta vetrata, e la lingua è come un enorme serpente accucciato nella sua tana; vorrei tanto muovere quel pitone gigantesco, ma non ci riesco. Posso soltanto percepire le minuscole schegge dello smalto del dente che si è spezzato durante la notte. La notte? Per questo è così buio? Sì, probabilmente è notte e devo essermi addormentata. Vengo colta dal panico, perché non riesco a svegliarmi?

    Voglio uscirne, liberarmi da quel dolore che attanaglia il gomito schiacciato sotto di me, compresso e piegato malamente, rotto. Per favore, imploro i miei arti, la lingua, il collo, la mano, vi prego muovetevi, almeno uno di voi. La mia testa si sposta di una frazione di millimetro, facendomi sperare che quel movimento significhi che presto potrò muovermi tutta. Ed è proprio così. Lentamente, molto lentamente, come un’auto che viene ripescata dalle profondità di un lago, la mia testa si solleva grazie a una gru invisibile, riemerge dopo essere stata insaccata tra le mie braccia che bruciano, procurandomi fitte terribili. Ho gli occhi impastati, ma la testa è sollevata e posso distendere le braccia, anche se fanno un male d’inferno, e vorrei gridare, ma per farlo dovrei poter aprire la bocca. La mia lingua pitonesca riesce finalmente a trovare la strada tra i denti, emettendo una specie di sibilo interiore. Quel suono mi dà forza e schiocco le labbra: sembro una cassetta delle lettere senza cardini. Aghi e spilli, come se qualcuno mi gettasse addosso dell’acqua bollente. Dita punte da spine di cactus, un dolore velenoso. Ora apro gli occhi, mi dico, non senza incertezza. Comando alle palpebre di alzarsi e di guardare la fiamma accecante del sole implacabile. Chiudo quei diaframmi schiusi sul mondo e sibilo di nuovo. Dolore bruciante, denti rotti, luce abbagliante, perché non riesco a riemerge da questo sogno orrendo? Perché non riesco a trovare la via di fuga, una spinta capace di proiettarmi di nuovo nel mondo diurno, in quella normalità noiosa e rassicurante?

    Il mio tronco è tutto incurvato, come un croissant a colazione. Sedia! Ah, sono seduta su una sedia. Mi sono addormentata al lavoro? Sono alla scrivania, la bava alla bocca e gli occhi cisposi, tutta scarmigliata, e tutti mi vedono? Mi raddrizzo. Sì, questo è proprio il bracciolo di una sedia. Ordino ai miei occhi di aprirsi di nuovo, ma questa volta lo faccio lentamente, do una sbirciatina attraverso quelle due fessure e percepisco dei movimenti confusi. Gente. C’è gente. Apro un po’ di più le palpebre. Sì, gente. Oddio, sono in un aeroporto. Sulla sinistra dominano dei finestroni che vanno dal soffitto al pavimento, e fuori vedo aeroplani ben allineati, il muso da squalo bianco pronto a inghiottire sardine, trasportarle attraverso i cieli e sputarle da qualche altra parte. Ma noto qualcosa di strano: nessuno degli aeroplani ha una scritta. Non c’è il logo di una compagnia aerea, che so per esempio Air Canada; non ci sono bandiere americane o adesivi della British Airways o della WestJet. Non c’è niente, solo squali bianchi in fila su una pista perfetta che sembra una stringa di liquirizia, tanto invitante da volerla masticare. Prati verdi separano le piste sotto cieli del blu più puro e come accessori nuvole di ovatta, deliziose a vedersi. Fisso il paesaggio attraverso occhi che sembrano impiastricciati di vaselina e li sbatto per alcune volte, sperando che la vista si faccia più nitida e che qualcosa abbia finalmente senso, ma non c’è niente all’esterno che mi sembri familiare. Sono vittima di un incidente aereo? È questo quello che è successo? Forse ero in viaggio per qualche destinazione, ma quale? E l’aereo si è schiantato o ha dovuto fare un atterraggio di emergenza? L’esterno mi ricorda i Caraibi, eppure non mi sembra di aver mai visto qualcosa di simile. Ritorno a guardare l’interno dell’aeroporto e mi ritraggo. È come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco, il mio stomaco già debole. Il rumore, il rumore. Ho l’impressione di essere stata investita in pieno da un camion a rimorchio, tale è l’impatto brusco di questo muro. Un muro di rumore. Come ho fatto a scambiare questo inferno caotico con il mondo fresco e quieto dell’oscurità subacquea? Una folla è radunata davanti a me e sta urlando e spintonandosi, mentre il personale dell’aeroporto fa annunci incomprensibili a voce alta attraverso un altoparlante. Tutti gridano insieme!

    Sbatto di nuovo le palpebre, cercando di vederci meglio, e libero il mio corpo finché riesco a mettermi in posizione eretta sulla sedia, o quasi. Il gomito continua a farmi male e lo tocco con la paura di trovare l’osso vivo che sporge dalla carne, ma la pelle è liscia e intatta come sempre. Il braccio duole come se lo avessi schiacciato sotto di me dormendo e ha bisogno di sgranchirsi gradualmente. Ma fatico ancora a respirare. Sono senza fiato, come dopo una brutta caduta da cavallo o la rottura di un paio di coste. Lascio che le dita esplorino il resto del corpo. Prima mi tocco la faccia, nuovamente spaventata per quel che posso avvertire. Ma i miei capelli sono soffici e setosi e non ci sono tagli o lacerazioni sulla testa; sposto di lato la frangia e controllo la fronte. Nessun danno. Faccio scivolare le dita giù verso il naso, noto un po’ rassicurata che il mio naso è ancora il mio naso, lungo con una minuscola fossetta sulla punta. Gli zigomi sono alti e arrotondati e risultano familiari al tocco, e la bocca non ha tagli anche se sento le labbra screpolate e secche, e questo mi crea confusione. Umetto le labbra con la lingua e di nuovo lo smalto scheggiato mi ricorda la carta vetrata. Esploro allora i denti e l’interno della bocca, ma non sento niente di rotto, niente che possa spiegare quella sensazione. I miei incisivi sono sempre stati un po’ sporgenti, con mia grande seccatura: mi fanno apparire avvicinabile e amichevole, cosa del tutto ingannevole. Insieme alle labbra turgide mi conferiscono un’aria imbronciata alla Marilyn Monroe, e penso proprio che gli uomini mi trovino irresistibile perché do l’impressione di essere disponibile a fargli un servizietto, senza remore da femminista. Gli uomini e i loro desideri, prevedibili per quelli che considero i miei punti di forza, mi hanno reso in fondo la vita molto più facile. Ho sempre provato pena per le donne comuni. Mi morsico il labbro inferiore, un gesto che Martin trova così eccitante, e il suo ricordo mi fa raddrizzare ancora di più sulla sedia.

    Martin! Mio marito! Dov’è? Il panico mi prende il petto e mi alzo in fretta. La stanza gira ed è tutta nera, così ripiombo sulla sedia. Mi tendo in avanti, la testa sulle ginocchia, e faccio dei piccoli respiri superficiali. Mi dico che sto bene e che mi sono alzata troppo di scatto, ecco! Devo trovare Martin, ma ho bisogno di qualche minuto. Mentre appoggio la testa sulle ginocchia, la mano destra cerca la sinistra dove ci sono la fede nuziale e l’anello di fidanzamento e, con orrore, non trovo nessuno dei due. Dove sono i miei anelli? Non li vorrei perdere per tutto l’oro del mondo. Come Martin, rappresentano tutto per me. Rialzo piano la testa e mi siedo. Ora vedo chiaro e riesco a mettere a fuoco per bene. Mi guardo in giro con aria persa, sperando di vedere mio marito tra la folla. Deve essere da qualche parte. Scommetto che sta cercando di capire che cosa sia successo e sarà di ritorno presto, con la soluzione del caso. Posso sempre far conto su di lui. Guardo le sedie accanto a me: sono i soliti sedili profilati di metallo degli aeroporti, divisi gli uni dagli altri dai braccioli e con la seduta ricoperta di plastica nera. Ma non ci sono occupanti accanto a me. Mi chiedo dove sia il nostro bagaglio e anche la mia borsa. Mi sporgo in avanti, prendendomi del tempo, ma sotto il sedile non c’è nulla. Mi giro per dare un’occhiata alla sala d’attesa, alle mie spalle. Sono l’unica persona in mezzo a file infinite di sedili e la folla vociante è ancora davanti a me, ma il rumore ora non dà fastidio. Delle voci strillano nella mia testa: dov’è Martin? Che cos’è successo? Che cosa sta accadendo? E dov’è la mia favolosa borsa bianca di Prada con gli inserti laterali in pitone che ho acquistato solo qualche giorno fa? Dove sono i miei anelli di Cartier, l’enorme smeraldo incastonato in una fila di diamanti e montato in oro rosa che si accoppia così bene con l’anello di matrimonio, su cui è inciso la data delle nostre nozze e Noi, per sempre? Mi concentro sulla folla che mi sta davanti: un’arca di Noè abitata da persone che vengono da tutte le parti del mondo, ma non c’è in loro senso della collettività o atteggiamento amichevole. Giovani sulla ventina, vecchi con il bastone, uomini d’affari, casalinghe, una rock star, un operaio edile, una donna in carriera, una signora di mezza età con la divisa di donna delle pulizie, una top model.

    La natura surreale della situazione mi rende perplessa, poi sento di nuovo un colpo allo stomaco quando mi rendo conto di tre cose. Nessuno dei presenti è vestito da vacanza, nessuno ha un compagno di viaggio e nessuno ha bagagli. Mi guardo in giro e mi raggomitolo sulla sedia. Ma a che cosa pensavo quando sono uscita di casa conciata in questo modo? I pantaloni blu della tuta hanno conosciuto giorni migliori e la maglietta rosa doveva essere gettata in pattumiera già parecchio tempo fa. E non indosso nemmeno le scarpe, accidenti! Tiro su i piedi sulla sedia e mi abbraccio le ginocchia, e di nuovo sono sconvolta guardando le mie estremità callose, con lo smalto consumato e sbeccato come quello delle mani. È una fitta acuta quella che mi fa sobbalzare sulla sedia, ma poi mi ripiego su me stessa come un uccello spelacchiato che chiude strette le ali e mi mangiucchio un’unghia, cosa che non faccio da anni. Ma devo raccogliere i pensieri e dare un senso a quel che mi sta succedendo. Dov’è Martin? Perché non viene a cercarmi? Perché sono qui da sola? E cosa diavolo è questo posto? Forse ho deciso di andare a un ritiro yoga, penso che debba trattarsi di una cosa simile. Sì, scommetto che sono andata in una beauty farm e che Martin mi sta venendo a prendere dopo dieci giorni di flessioni e spiluccamenti di frutti esotici. Ma è impossibile che ci sia andata con le unghie conciate a questo modo. La mia spiegazione non ha senso, e poi lo yoga non mi piace nemmeno: è una scusa pietosa di chi non vuole fare vero esercizio fisico. Ancora una volta nascondo la testa tra le braccia e cerco di concentrarmi sul respiro. Perlomeno non sento più dolore. Le punture e gli spilli se ne sono andati e non avverto più bruciori o fitte. Molto bene, ma il mio cuore stressato sta pulsando all’impazzata: metto la mano sotto il seno sinistro per cercare di calmarmi. Rimango un po’ in quella posizione, ma alla fine decido di uscire dal cantuccio oscuro e protettivo e di andare a scoprire cosa cazzo è successo.

    2. Agnes

    Esco dal mio bozzolo e metto i piedi a terra. Il tappeto ruvido mi irrita le dita con le sue fibre sintetiche. Mi alzo piano e la testa non gira più. Mi ergo in tutta la mia altezza, un metro e ottanta, ed esamino il luogo. Mi è sempre piaciuto essere alta e non sono mai stata una che doveva curvarsi per stare al braccio di un tipo più basso, cercando di minimizzare la statura. Martin, fortunatamente, per quanto più piccolo di me, non lo ha mai voluto. Gli piaccio con i tacchi a spillo, che mi permettono di dominare e avere una panoramica sul mondo, così da raccontargli quel che vedo. Il che al momento non è molto. I finestroni sulla sinistra mostrano gli stessi aerei bianchi senza scritte che ho notato prima, verdi distese d’erba verdi e piste di color nero. Niente si muove. Gli aerei non decollano né atterrano, e non vi sono carrelli portabagagli che sfrecciano intorno.

    Mi dirigo alla finestra e il freddo linoleum sostituisce la ruvida moquette sotto i miei piedi. Premo il viso contro il vetro. Le nuvole di ovatta non si sono mosse da quando le ho notate per la prima volta, ma com’è possibile? Aspetto che si spostino, anche di poco, e scruto alla ricerca del minimo cambiamento di forma ma non succede niente, proprio niente. Mi giro verso la folla che sta al bancone delle informazioni. Mi chiedo dove siano i tabelloni degli arrivi e delle partenze. Il personale di terra dietro al bancone è in uniforme, ma non possiede alcun badge, e l’uniforme è di un blu anonimo e vecchiotto. Persino l’elegante berretto da marinaio mi ricorda quei poster retro degli anni Settanta. Devo assolutamente parlare con qualcuno del personale.

    Mi faccio largo tra la folla sgomitando, ma mi succede una cosa molto strana: non appena raggiungo il bancone un nastro invisibile di gomma mi rigetta in fondo alla fila. Accade così in fretta che non riesco a puntare i piedi per frenarmi. La quarta volta che raggiungo il bancone mi ci afferro con tutte le forze, lo artiglio, ma nonostante tutto mi ritrovo fiondata indietro all’ultima fila. Non fa male, è piuttosto come se mi ritrovassi in uno spezzone di film che viene riavvolto. Dopo una dozzina di volte, perdo la pazienza.

    Ma che cavolo succede? Davvero non capisco! Cos’è questa storia? sto urlando, ma me ne frego. C’è un qualche dannato risucchio o che cosa? Che cos’è?

    È un nuovo arrivo dice qualcuno e io mi giro.

    Chi l’ha detto? ringhio. Qualcuno mi può spiegare che cosa sta succedendo?

    La tua Guida si farà viva a momenti interviene qualcun altro. Devi aspettare.

    La mia che?

    Meglio che non ti capiti Agnes dice una signora un po’ in là negli anni, dall’accento giamaicano e dalla permanente gialla. È una pazza, quella.

    Martin! grido Martin, sono qui! Dove sei finito? Per favore sono qui, qui!

    Vado a chiamare qualcuno interviene una signora ossuta sulla sessantina, battendomi sulla spalla. Agnes? Agneesss! Abbaia e sono esterrefatta dalla potenza dei suoi polmoni, dato che ha un’aria scheletrica. Noto anche la sua barbetta bianca da capretta, che si intona con le sopracciglia e i capelli vaporosi. Faccio un passo indietro. Vorrei dirle che ci sono molti modi per trattare la peluria indesiderata, ma lei sta urlando di nuovo e non mi sentirebbe.

    Agneeess!

    Siii? Una ragazzina dall’aria gotica sbuca fuori da sotto il braccio della giamaicana.

    Aiuta questa donna le dice la mia amica barbuta. Com’è che tocca a noi dirti come devi fare il tuo lavoro? Come pensi di potertene mai andare da qui?

    La ragazza alza le spalle e fa scoppiare un pallone di gomma da masticare. Mi fissa. È lei?

    Ne vedi altri di nuovi?

    Passo lo sguardo da una all’altra, come se seguissi una partita di ping pong.

    La ragazza dall’aspetto gotico mi guarda e sospira. Vieni con me dice alla fine.

    Perché? Sono sospettosa.

    Perché ho le risposte che cerchi. Non fraintendermi, non me ne frega niente, ma è il mio lavoro fare la Guida. Troverai una sala d’attesa e potrai rilassarti; io ti spiegherò il perché e il percome, ma devo essere sincera: tu mi innervosisci, accidenti sei così agitata.

    Per l’amor di Dio, intervengo scordati la fottuta sala d’attesa! Ho bisogno di sapere dove sono, come ci sono arrivata e che cosa succede.

    Julia, dice Agnes con gentilezza prima chiudi quella boccaccia e mi segui, prima sarai illuminata, che ti piaccia o no.

    Il fatto che la ragazza conosca il mio nome mi terrorizza e nello stesso tempo mi zittisce. Decido che la strada migliore sia seguirla via dalla folla e ascoltare ciò che ha da dirmi. Percorriamo un lungo corridoio immacolato e sento uno strano suono, come il segnale acustico di un camion che fa retromarcia. Il suono si fa sempre più forte e io mi giro in tempo per evitare di farmi abbattere da uno di quei piccoli veicoli aeroportuali dalle luci arancione che lampeggiano. Una donna bionda è china in avanti, appesa al volante, con il piede sull’acceleratore. Deve avere una sessantina d’anni e porta una capigliatura alla Maggie Thatcher. I suoi occhi da pechinese sono sporgenti e sgranati, e il suo ghigno spaventerebbe anche i mostri di Halloween.

    Ma chi diavolo è? chiedo, ancora pressata contro la parete.

    Shirley l’Autista. Nessuno sa che cosa fa in realtà. Non l’ho mai vista dare un passaggio a qualcuno. Su, vieni, eccoci.

    Agnes mi porta in una sala dalle pareti rosse. Lampade dalle forme e dalle dimensioni più svariate creano morbide figure di luce nella stanza. Sembra di essere dentro una lanterna di lava rossa, solo che niente si muove. La stanza è piena di poltrone a sacco dello stesso colore e ci sono delle sedie di vimini appese a mo’ di amaca con cuscini pelosi ugualmente rossi; il pavimento è coperto da soffici rettangoli di gomma piuma, che non possono essere altro che rossi.

    È una stanza da gioco per bambini? chiedo, ma Agnes scuote la testa.

    Non ci sono quasi bambini qui. E poi loro hanno scivoli, reti e robe per arrampicarsi e rompersi l’osso del collo, se fosse possibile, ma non lo è. In ogni caso, loro sono da un’altra parte, non sono in questo buco.

    Buco?

    Dove la gente come noi passa il tempo. I bambini procedono comunque più velocemente, è un caso diverso.

    La ragazza fa discorsi senza senso. Mi fa cenno di sedermi e sprofondo in una poltrona a sacco, incrociando le braccia e pensando che prima lei mi spiega, prima esco da qui.

    Quando sei pronta commento con una certa dose di sarcasmo, e vedo con orrore che tira fuori un pacchetto di sigarette.

    Ma è proibito fumare in un aeroporto! protesto, ma lei accende ed esala una nuvola di fumo verso di me.

    Ma certo che si può dice. Ne vuoi una?

    Scuoto la testa. Che cos’è questo posto, Agnes?

    Che fretta hai, carina? Tanto per cominciare ti dico che hai tutto il tempo del mondo, lo abbiamo entrambe.

    Scoppia a ridere e mi viene voglia di picchiarla. La fisso, odiando la sua pancia budinosa che straborda dai jeans neri attillati. Odio i tatuaggi che le fanno da maniche, i capelli rossi e viola, ma soprattutto odio i suoi piercing che hanno tutti l’aria di essere infetti. Naso, mento, orecchie, sopracciglia: sono disgustosi.

    Ti dico una cosa, ragazzina noiosa e rompipalle, le rispondo dopo un po’ parla adesso o me ne vado.

    Non puoi andartene risponde, emettendo un anello di fumo.

    Mi fiondo su di lei e la butto giù dalla poltrona a sacco, immobilizzandola a terra. I suoi occhi sono spalancati come una bestiola in preda al panico e la brace della sigaretta fa un buco nel tappeto, ma non mi interessa. Agnes smette di muoversi. Giace sotto di me, mi guarda e sogghigna senza il minimo accenno di calore o simpatia. Tu sei morta, Julia, morta, morta, morta.

    Come fai a sapere il mio nome? Affondo le ginocchia nelle sue braccia mollicce, con l’idea di farle male per le stupidaggini che ha detto.

    Lo so perché sono la tua Guida. Sono qui per farti conoscere i pro e i contro di questa vita, sebbene non sia la vita reale nel modo che tu l’hai conosciuta. È una terra di nessuno, fatta di attesa, di presa di coscienza dei propri peccati e di ricerca della maniera giusta per espiarli e andar via da qui.

    Salto su di lei un paio di volte nel modo più pesante che posso, e guardo la sua faccia in attesa di una reazione. Sto cercando di farle dire la verità, ma lei non parla né si muove, e allora incrocio le braccia e aspetto.

    Non mi puoi far male dice, e allunga la mano per prendere la sigaretta e poter continuare a fumare mentre la tengo inchiodata al suolo.

    Noto che la bruciatura sul tappeto è sparita e fisso il punto in cui si trovava. Sto per chiedere ad Agnes una spiegazione, ma lei comincia a parlare.

    Anch’io sono morta dice. Penso di essere qui da un po’, ma non so da quanto. Il tempo è un fenomeno curioso: è come quando ti è successo di andare al bancone e sei stata rimbalzata indietro. Accade un sacco di volte. Si ricomincia ogni volta da capo.

    Tu-sei-un-sacco-di-merda dico lentamente, rotolo da parte e mi siedo a gambe incrociate sul pavimento.

    Ma qualcosa di quel che ha detto suona maledettamente vero. Dov’è mio marito? Come mai non è qui?

    Mi lancia un’occhiata imperscrutabile.

    Lo capirai da sola. Io sono qui solo per accompagnarti in un giro guidato: il Purgatorio per principianti.

    Questo è il Purgatorio?

    Non è una crociera tra le isole, questo te lo garantisco.

    Perché non sono andata in Paradiso? sembro infantile e persa, e Agnes ride come se avessi detto una spiritosaggine.

    Perché sei stata una ragazza cattiva! Noi, tutti quelli che sono qui, siamo stati individui di merda. Si alza. Su, dai, è ora di fare il giro; ti faccio vedere.

    Mi alzo, tutta intontita, e annuisco. Mi dico che quando arriveremo alla fine del tour, mi sarò svegliata e mi renderò conto che si è trattato solo di un incubo. E mio marito mi sarà accanto e la mia vita ritornerà a essere la solita. Oh, Martin, riesco a vederti così chiaramente. Tutto quello che voglio da te è che tu mi venga a prendere.

    3. Versace

    Camminiamo lungo un corridoio. Pareti bianche da ospedale che sembrano pitturate con uno smalto brillante. Il pavimento è di linoleum immacolato come la neve e ogni cosa luccica. Travi in acciaio sostengono un soffitto che ricorda quello dei centri commerciali e lassù grandi tubi argentati si intersecano come grassi serpenti, uniti da raccordi a fisarmonica.

    Questo è la Stanza Guardaroba spiega Agnes e apre una porta. Entriamo e io ho un mancamento: ho messo piede nel reparto di lusso di un negozio che dal pavimento al soffitto è pieno di abiti di alta moda. Gli scaffali si estendono infiniti verso l’alto e una dozzina di specchi interi non fanno che rimandare un’immagine di opulenza.

    Ma è fantastico! esclamo. Ommioddio, guarda, è un Dior vintage! Da non credere. Ma sai quanto vale un vestito così? Che ci fa qui?

    La stessa cosa che ci fa tutto il resto di questi stracci risponde Agnes accendendosi un’altra sigaretta. Niente.

    E questo, misericordia, è un Versace. Con le perline! Non è possibile, è un capo unico, nessuno sapeva che fine avesse fatto e ora eccolo qui!

    Lo puoi indossare, se ti piace dice Agnes. Ha l’aria annoiata e si appoggia alla parete, prendendosela con lo smalto di un’unghia e lasciando cadere a terra la cenere della sigaretta.

    Posso? Ma non è di qualcuno?

    Non interessa a nessuno. Le regole dicono che puoi metterti addosso quel che vuoi, ma che non puoi portare fuori di qui qualcosa in più di ciò che indossi.

    Chi si occupa dei vestiti? chiedo, e Agnes si stringe nelle spalle.

    Non ho idea, ma vengono puliti e riappesi.

    Come faccio a scegliere? mi lamento, tenendo in mano il Versace con le perline che è un abito da cocktail e il Dior che è un abito da sera. Guarda, due tesori! Non so scegliere. Li terrò entrambi mentre finiamo la visita guidata, e poi deciderò più tardi.

    Julia dice Agnes paziente, capisci il labiale: non puoi portare fuori niente da qui. Ti puoi cambiare qui i vestiti e uscire solo con quello che hai addosso. È tutto.

    Mi guardo in giro. Non c’è nessuno qui a cui posso lasciare in custodia uno dei due, come si fa nei negozi?

    Agnes scuote la testa. No, scordatelo. Su, mettitene uno addosso o entrambi se proprio non sai resistere, e muoviamoci. Presto ti libererai di questo interesse per i vestiti alla moda lasciati dai morti.

    Guardo le due creazioni. "Li

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