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One Cog Turning: Giro di vite
One Cog Turning: Giro di vite
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One Cog Turning: Giro di vite

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About this ebook

Cosa faresti se avessi una sola possibilità di rimanere in vita, coinvolta tuo malgrado in una guerra devastante?

One Cog Turning è un’avventura steampunk sorprendente e originale, con un cast di personaggi strani, sfacciati, irriverenti e di sicuro indimenticabili.
Bellina Ressa, giovane nobile del ricco e potente impero di Estria, nonché figlia del lord cancelliere, l’uomo più importante della sua nazione dopo l’imperatore, ha sempre condotto una vita serena. Temuta e mal considerata dal resto della nobiltà per le sue misteriose abilità cognopatiche, tenute a bada con particolari oggetti magici, è diventata una giovane donna forte e indipendente, ben conscia delle sue capacità. Ma, in un batter di ciglia, si ritrova promessa all’arrogante, insopportabile Elvgren Lovitz. Poco dopo, suo padre la coinvolgerà in una pericolosa missione diplomatica nell’impenetrabile Burkesh, per salvare l’impero estriano da una minaccia incomprensibile.
Affiancata nel rischioso viaggio dall’incompetente fidanzato e dalla risoluta soldatessa Cirona Bouchard, sua guardia del corpo personale, Bellina sta per scoprire che gli intrighi si celano sempre sotto la superficie, e che il pericolo si nasconde dietro ogni angolo. Per sua fortuna, saranno tanti anche gli alleati insostituibili che l’affiancheranno nella sua ricerca: non solo di risposte che potrebbero evitare una guerra devastante, ma anche di misteri che la riguardano di persona.
LanguageItaliano
Release dateMay 30, 2019
ISBN9788833170701
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    Book preview

    One Cog Turning - Anthony Laken

    forma.

    1

    Il caldo soffocante della giungla faceva aderire la tunica al corpo della giovane donna come un naufrago a uno scoglio. Gocce di sudore le scorrevano sul viso e sulla schiena, imitando le gocce di umidità che scivolavano sulle foglie immense delle piante. La spiaggia non distava molto, ormai, ma lei già stava anticipando quanto sarebbe successo di lì a poco. Con la facilità che veniva dalla pratica, si spostò sul lato di una rete nascosta sul terreno. Sentì un lieve scatto, quando il piede toccò il suolo, e si abbassò mentre una lama le sfiorava la testa, portandosi via qualche ciocca di capelli corvini. Ben fatto, vecchio, pensò. Hai fatto progressi.

    Si fece avanti di qualche altro passo cauto. Poi lo sentì. Una sorta di sibilo, grottesco e fastidioso, accompagnato dal rumore dei rami che si spezzavano. L’idrabasilisco le comparve davanti. Dieci occhi la fissarono da cinque teste collegate a un corpo alto quattro metri e mezzo. Il serpente aveva una circonferenza del doppio di una quercia, ed era coperto di scaglie dure come il diamante.

    Una lancia le comparve all’istante nella mano, con il nero intenso della lama d’onice che scintillava nei pochi raggi di sole che riuscivano a penetrare in mezzo al fogliame della giungla. Sapendo che quella scena sarebbe sembrata assurda a chiunque la vedesse, la ragazza si concesse un sorriso. Sottile, di altezza media e di appena diciott’anni d’età, si bilanciò sulle ginocchia piegate davanti a una delle creature più terrificanti del mondo. Ma sapeva di essere lei ad avere il vantaggio: aveva già affrontato quella creatura, e sapeva dove colpire.

    Veloce come un fulmine, fintò a sinistra e si girò verso destra, mentre una delle teste chiudeva le fauci con ferocia nel punto in cui la ragazza era fino a un attimo prima. Schivò di lato, mentre la testa a sinistra della bestia si incurvava verso di lei.

    Con la coda dell’occhio, vide che la testa al centro era scattata con violenza in avanti. Si abbassò e rotolò, sentendo un tonfo soddisfacente quando le due teste cozzarono l’una contro l’altra. Ma non era abbastanza. Finché non fosse morta, la belva l’avrebbe attaccata senza tregua. La pietà era stata la sua rovina, l’ultima volta. Saltò sulla schiena della creatura e piantò la lama in una delle sacche di veleno dell’idrabasilisco, alla base di uno dei suoi colli. La creatura strillò di dolore, mentre un liquido grigio-verde gocciolava fuori. Quel veleno era più corrosivo dell’acido e dissolveva qualsiasi cosa con cui venisse in contatto… be’, quasi tutto; c’era un motivo per cui lei aveva scelto quella lancia d’onice. Scivolò giù lungo la schiena del mostro, lottando per ritrovare l’equilibrio mentre quello si dibatteva per il dolore. Ora che il veleno copriva la punta della sua arma, piantò la lancia nella spina dorsale dell’avversario. Il serpente esplose in un ultimo lampo di energia, e lei fu sbalzata via, rotolando fino alla base di un albero poco lontano. Guardò con un misto di fascino e orrore la carne del mostro ribollire e staccarglisi dalle ossa. Dopo aver contemplato per un attimo la sua vittoria, si girò e si rimise in marcia lungo il sentiero.

    Non molto dopo, uscì dalla giungla raggiungendo lo scintillio argenteo di una spiaggia. Era solo la seconda volta che riusciva ad arrivare così lontana, dopo quasi un anno di sforzi. La brezza fresca che soffiava dall’oceano le sembrò meravigliosa, dopo l’umidità opprimente della foresta. Si concesse un attimo per respirare a pieni polmoni e godersi la sensazione del vento tra i capelli. Poi si girò verso il castello.

    Si sollevava a un’estremità della baia a forma di mezzaluna, incastonato ai piedi delle montagne scure, con i contrafforti leggeri e le guglie gotiche che lo facevano sembrare un’aquila a guardia del nido. Era una vista spettacolare, come i castelli di tanti di quei pacchiani romanzi rosa che tanto andavano di moda nell’Impero estriano. Il vecchio ha un certo gusto per queste cose.

    Lei attraversò in fretta la spiaggia, mentre la fortezza si faceva sempre più grande nel suo campo visivo, finché non si ritrovò a una sessantina di passi dalle sue porte. Pochi attimi dopo, le vide aprirsi, e cinquanta cavalieri in armatura si riversarono all’esterno. I cavalieri cominciarono a schierarsi in formazione da battaglia. Quelli con gli scudi e le lance si posizionarono in prima linea, seguiti dagli spadaccini. Cominciarono a procedere decisi verso di lei. Quando ebbero percorso una distanza di forse sei metri, lei richiamò le sue forze. Un centinaio di cavalieri di sabbia si sollevò dal terreno, e quelli che avevano scudi e lance si posizionarono in uno stretto quadrato di protezione intorno a lei.

    Quando si fece avanti, i cavalieri del castello l’attaccarono con violenza, ma i loro sforzi furono vani. A ogni affondo o fendente che trovava il suo bersaglio, i soldati di sabbia non facevano altro che ricostruirsi e continuare il loro assalto senza rimorsi, finché tutti i difensori non giacquero ai loro piedi. La giovane donna mosse qualche altro passo verso il castello e lasciò che i suoi guerrieri si dissolvessero, tornando al loro elemento.

    Erano appena spariti quando fu il vecchio a comparirle davanti. Era alto, magro e tra i cinquanta e i sessant’anni. Cortissimi capelli grigi gli ricoprivano il cranio, su una testa segnata da molteplici cicatrici. La sua uniforme militare blu era precisa e impeccabile, senza una piega.

    «È un piacere incontrarvi, lady Bellina».

    «Piacere mio, maestro Alcastus».

    «Ci ritiriamo, dunque?», domandò lui.

    «Sì, andiamo».

    *

    Gli occhi di Bellina si aprirono e provò il familiare ronzio alle orecchie che seguiva alla disconnessione cognopatica. Mentre la stanza del mondo reale tornava a fuoco, notò un immacolato servizio da tè accanto a lei, con la teiera d’argento di Narvale, le delicate tazzine di ceramica di Chenta e i frammenti scuri di zucchero cristallizzato, che, come il tè, venivano dalla lontana Mandira; beni di lusso a cui i nobili estriani erano ormai abituati, grazie al dominio dei loro mercanti. Sfiorò con il dorso della mano la teiera e ne avvertì il calore bruciante, che le ricordava che i suoi viaggi psichici, sebbene sembrassero andare avanti per ore, in realtà duravano solo pochi minuti.

    Bellina guardò dall’altra parte del tavolo e i suoi occhi verde scuro incontrarono quelli azzurri e velati del maestro. Torniamo a una forma più mondana di comunicazione, le riecheggiò la sua voce nella testa. Quando premette un pulsante nel palmo del guanto, la luce scintillante del rubino e dello smeraldo al centro del suo girocollo d’oro cominciò a diminuire, mostrando che le sue capacità cognopatiche e di proiezione del pensiero non erano più attive. Abbassò lo sguardo sul bracciale di platino decorato che aveva al braccio sinistro. Al centro c’era un’aquila, e la ragazza guardò il rubino al centro e lo smeraldo incastonato tra gli artigli della zampa sinistra spegnersi insieme. Lo zaffiro nell’altra zampa rimase illuminato, permettendole di mantenere attivi i suoi poteri cognocinetici; notò che anche Alcastus li aveva lasciati attivi.

    In tutta la storia estriana, solo a pochi cognopati era permesso di avere accesso ai mezzi di controllo dei loro poteri. Era un’ulteriore prova del potere e del rango che Alcastus deteneva in quanto capo dello Sviluppo cognopatico. Sebbene non potesse mai togliersi quei vincoli magici, cosa che soltanto l’imperatore, in quanto Detentore delle chiavi, poteva fare, era comunque un privilegio, che non si estendeva a Bellina, sebbene lei fosse figlia del lord cancelliere.

    «Posso servire il tè?», domandò Alcastus con gentilezza.

    «Ma certo, maestro, la pausa mi sarà molto gradita».

    La teiera levitò dal tavolo e versò un rivolo di liquido caldo e dorato nella tazza di Bellina.

    «Due zollette vi sono di gradimento, milady?».

    Lei sorrise con dolcezza e annuì. A questa lady sarebbe di gradimento bollirti i bulbi oculari nel cranio, puzzolente capraio. Bellina assaporò il piacere e il sollievo di un pensiero che nessuno poteva sentire. Le tazze si sollevarono a mezz’aria davanti a loro, e Bellina recuperò la propria con delicatezza, con la corretta estensione del mignolo, come madame Matresca le aveva insegnato. Prese un piccolo sorso di tè e posò la tazza, mentre Alcastus assaporava la bevanda, girandosela in bocca con la sicurezza dell’esperienza, prima di schioccare le labbra, soddisfatto.

    «Ah, un vago sentore di limone, tabacco di Varash e teak blu. Se non sbaglio, questo tè non può che essere cresciuto sui pendii del monte Lindris, nel sud della Mandira. Una rara varietà, resa ancora più rara a causa della crescente ostilità del Burkesh».

    «È una delle preferite di mio padre, maestro». La smetterai mai di blaterare, vecchiaccio? Bellina sapeva che la lezione non sarebbe finita finché Alcastus non avesse dato un giudizio e un voto alla sua esercitazione, e poteva continuare a chiacchierare per ore.

    «Ottimo, allora! È un uomo dal gusto eccellente, oltre che molto saggio. Ora, potreste riportarci giù, milady, così che possiamo procedere con il giudizio?».

    Il tavolo e le sedie, che levitavano a tre metri dal pavimento grazie ai poteri di Bellina, scesero con delicatezza. Come sempre, Alcastus si schiarì la gola, prima di offrire il suo verdetto: «La vostra esplorazione della palude è stata impeccabile, come anche l’attraversamento della giungla. Avete evitato ogni mia trappola, perfino quelle nuove che avevo aggiunto!». A quel punto, emise una lieve risatina.

    «Una ha rischiato quasi di rovinarmi».

    «Quasi non è il successo, ma siete riuscita a evitarla comunque. Avete sconfitto l’idrabasilisco in modo efficace, anche se un tantino crudo per i miei gusti. Ma il vostro utilizzo dei guerrieri di sabia per contrastare i miei cavalieri è stato un trucco ispirato e difficile da realizzare. Dovete avere un maestro eccezionale!». E qui rise di nuovo.

    «Sono stata davvero fortunata a essere istruita da un cognopate di chiara fama», replicò Bellina, mentre urlava dentro di sé per la frustrazione.

    «E tutto questo mentre ci tenevate in sospensione, ed evitando i miei tentativi di raggiungere il vostro centro psichico. Il labirinto, a questo proposito, è stata un’aggiunta meravigliosa. Questo ha significato lasciarmi l’energia sufficiente a evocare soltanto cinquanta cavalieri». Alcastus fece una pausa a effetto. «Siete la prima studentessa che raggiunge le porte del mio castello da molti anni, e devo ammettere che la vostra è stata una performance di rara bellezza!».

    «Voi siete troppo buono, maestro». Bellina abbassò gli occhi con modestia. Ma, dentro di sé, si godette appieno quelle sue lodi. Questo giudizio è molto diverso dal primo che mi hai dato quando ci siamo conosciuti, pensò, mentre il risentimento dei primi anni di addestramento le ribollivano dentro.

    «Tuttavia, non vi montate la testa: è quello il momento in cui rischiereste di perderla. Potete ancora migliorare, perciò esaminiamo i dettagli».

    Qualcuno bussò esitante alla porta. Siano lodati gli dèi.

    «Avanti!», esclamò Alcastus.

    La porta si aprì, e una giovane cameriera coetanea di Bellina si fermò sulla soglia. «Perdonate, maestro Alcastus, ma il lord cancelliere ha richiesto la presenza di lady Bellina».

    «Ah, molto bene, a quanto pare la nostra lezione termina qui. Alla prossima, milady».

    «Non vedo l’ora, maestro. Forse la prossima volta potremo abbassare ancora i controlli?»

    «Forse potremo farlo. Sono anni che non provo il fremito di una vera sfida!».

    Si inchinò, teatrale, e Bellina gli rispose con una riverenza. Oh, avrai la sfida che cerchi, pozza di vomito e autocompiacimento che non sei altro. Avrai una sfida che non dimenticherai.

    *

    Bellina era all’esterno della grande porta scura di frassino dello studio del padre. Allungò una mano e bussò tre volte sul legno.

    «Avanti», venne l’imperiosa risposta, che emanava potenza nonostante i venti centimetri di legno da attraversare.

    Mentre entrava, Bellina vide un giovane minuto, con i capelli color topo, che tentava di ficcare una moltitudine di mappe e carte geografiche all’interno di una sacca consunta.

    «Interrompo forse qualcosa, padre?», domandò la ragazza.

    «No, no, l’erudito Fontaine, qui, stava giusto andando via. Mi ha donato questo bellissimo vaso che risale a circa duecento anni prima delle Guerre dei maghi. Un eccellente reperto", rispose il lord cancelliere.

    «Sono lieto che sia di vostro gradimento, mio signore. Questo sito archeologico promette di offrire delle importanti scoperte», affermò lo studioso, con la voce stridula per l’entusiasmo.

    «Molto bene. Non vedo l’ora di sentire il vostro prossimo rapporto. Potete andare».

    L’erudito raccolse gli ultimi oggetti sul tavolo, offrì un goffo inchino a Bellina e a suo padre e si affrettò a uscire.

    Bellina si accomodò sulla sedia fino a poco prima occupata dallo studioso.

    «Oh, prego, mia cara, accomodati».

    «Mio potente signore, perdona il gesto inappropriato di questa umile fanciulla, che si è seduta senza attendere l’ordine di farlo. Mi prostro ai tuoi piedi e ti imploro di scusarmi!», risorse Bellina, portando una mano alla fronte e fingendo di svenire.

    «Sì, sì, ora basta con le tue pantomime. Temo che tu trascorra troppo tempo con Alcastus. Come è andata la lezione di oggi?».

    «È stata soddisfacente. Sono riuscita a raggiungere il suo centro psichico».

    Il lord cancelliere si lasciò cadere con un gesto stanco sulla sua sedia, dietro alla grande scrivania di mogano. «Eccellente!».

    Bellina osservò l’antico vaso sul tavolo. Era alto circa due spanne, per la circonferenza di una, ed era nero come il giaietto, decorato da una complessa intersezione di cerchi di un azzurro argenteo che sembrava pulsare davanti ai suoi occhi. «Di quanti ancora di questi tesori pensi di avere bisogno?», domandò, allargando le braccia a indicare l’ampia stanza. Era piena di scaffali di antichi manoscritti e piedistalli che esibivano artefatti dell’inizio della civiltà.

    «L’unico modo per passare dal presente al futuro è comprendere gli oceani del passato. Se solo più persone, nel corso degli anni, l’avessero capito, chissà quanti progressi avremmo ottenuto oggi!».

    «Immagino di sì», replicò lei, in tono scettico. Bellina, come il resto della società estriana, considerava gli scavi del lord cancelliere l’unica eccentricità dell’anziano signore. Qualcosa che lo rendeva un minimo più umano.

    Lo scribografo sul bordo del tavolo si attivò, con la mano meccanica che scriveva un messaggio privato per il lord cancelliere. L’uomo strappò il pezzo di pergamena e lo lesse, aggrottando la fronte. Poi sospirò e inserì la mano nel marchingegno per scrivere una risposta.

    Bellina osservò il padre per tutto il tempo: aveva le ampie spalle contratte, la fronte coperta di rughe sempre più profonde. Notò che i corti capelli che circondavano la sua calvizie stavano passando da grigi a bianchi: era evidente che i problemi con il Burkesh e vent’anni della sua carica gli stessero imponendo un pesante tributo.

    «Ah, le gioie del potere», mormorò.

    «Padre, forse sarebbe ora di iniziare ad addestrare il tuo successore», mormorò Bellina, in tono preoccupato.

    «C’è ancora energia in questo vecchio mastino, mia cara!», replicò lui, con uno dei suoi rari sorrisi. «Comunque, il tempo stringe e dovremmo parlare del motivo per cui ti ho fatta chiamare qui prima della fine della tua lezione. Ormai sei arrivata a un’età in cui una giovane donna del tuo rango dovrebbe essere fidanzata, e dovrebbe cominciare a frequentare un uomo di pari estrazione sociale. Poiché hai fatto tutto quello che potevi per disprezzare e mettere in ridicolo la nobiltà…».

    «Quegli stupidi noiosi non meritano altro!», esclamò Bellina, incapace di trattenersi. «Con quei loro infiniti discorsi su quanto sono costate le loro scarpe, o su chi ha scolpito la loro pettinatura fino ad altezze ridicole. Se uno di loro avesse un singolo pensiero originale in tutta la vita, è probabile che prenderebbe fuoco per lo shock!».

    «In ogni caso», continuò il lord cancelliere, «questo è un problema in più di cui non ho bisogno, perciò mi sto occupando di organizzarti un fidanzamento».

    «Perderesti solo del tempo. Rifiuterò senza la minima esitazione. Sarò io a decidere se e quando fidanzarmi!».

    «Bellina, devi sempre crearmi problemi? La gestione dell’Impero è una passeggiata tra i giardini ornamentali, in confronto a te. Sai quanto ho dovuto usare la mia diplomazia, dopo che si è saputo dei tuoi poteri cognopatici. I nobili volevano che ti mandassi nel complesso, e ho dovuto lottare a lungo e con tutte le mie forze per fermarli, convinti com’erano che ti avrei usato per leggere nei loro pensieri».

    «Come se ci fosse qualcosa da spiare, in quelle loro teste», protestò Bellina con uno sbuffo.

    Quello era uno dei principali pregiudizi sui cognopati. Le persone pensavano che lei e gli altri come lei volessero infiltrarsi nelle loro menti per spiare i loro pensieri, quando, in realtà, la prima cosa che imparava un cognopate era quella di bloccare l’inutile brusio che costituiva il dialogo interiore della maggior parte degli individui. Perciò, per mettere a proprio agio la gente, servivano gli inibitori di potere e la costante supervisione dei suoi simili.

    «Sai che sei l’unica cognopate a cui è permesso vivere all’interno delle mura cittadine. Un esiguo privilegio, lo so», disse suo padre, piegandosi sulla scrivania e prendendo le mani di Bellina nelle sue. «Questi ultimi tredici anni sono stati un costante esercizio nel dimostrare al mondo che tu e gli altri cognopati non siete mostri. Pensa al tuo fidanzamento come a un passo successivo. Se non per te, Bellina, almeno per me. Non trasformare questa faccenda in un’altra delle tue battaglie».

    Bellina lo guardò negli occhi, notando le ombre scure che li cerchiavano. Dèi, quando sarà stata l’ultima volta che ha dormito? Si sentì cogliere dalla vergogna. Lui aveva combattuto con tutto se stesso per tenerla accanto a sé, invece di farla internare nella Scuola di Cognometria, un complesso quasi militare. Sapeva di essere una figura di riferimento per i suoi simili, la chiave per persuadere la gente che i cognopati fossero cittadini come tutti gli altri, e non di seconda classe, come i maghi schiavizzati che servivano l’Impero.

    «Mi spiace, padre. Farò come desideri», replicò infine, abbassando lo sguardo.

    «Grazie, mia cara. Comincerò a muovermi oggi pomeriggio. E ora, dai un bacio a tuo padre e va’ pure: è stata una mattinata lunga e faticosa».

    Bellina si alzò, aggirò la scrivania e posò un bacio affettuoso sulla fronte del padre. Poi andò alla porta. Mentre la chiudeva, lo vide chinare il capo e chiudere gli occhi. Sembrava così anziano.

    «Ti voglio bene, padre», mormorò, prima che la porta si chiudesse del tutto.

    2

    Il giovane si guardò allo specchio per la quinta volta e, come sempre, apprezzò ciò che vedeva. Una figura snella e scolpita si rifletteva nei suoi occhi azzurri, a cui si abbinava alla perfezione la sfumatura quasi identica della sua uniforme. L’oro dei bottoni e le aquile sui risvolti scintillavano come soli in miniatura. La fascia di un blu più scuro intorno alla vita e i tocchi esperti dei sarti non facevano che esaltare il suo fisico. La sua non era un’uniforme standard: era stata realizzata, a un costo esorbitante, dai migliori sarti dell’Impero. Si passò una mano tra i capelli biondi, sistemando qualche ciocca fuori posto. «Come sto, Benkins?».

    «Siete la personificazione della nobiltà e dell’onore di Estria, lord Elvgren».

    «Qualche dama del distretto di Coldbridge avrebbe da ridire con la tua affermazione!». Elvgren Lovitz batté una pacca amichevole sulla spalla del suo valletto, prima di osservare l’uomo con affetto. Aveva un volto pieno di rughe e pieghe che sembrava sempre sul punto di scivolargli via dal cranio, e una statura media. Indossava un abito di velluto ben stirato, ricamato con fili di vero platino. L’attaccatura dei capelli, di un nero corvino nonostante l’età avanzata, era piuttosto ritratta sulla fronte. «Dovesti smetterla di usare l’inchiostro di seppia nordica per tingerti i capelli, Benkins. Non sai che ti farà cadere quei pochi che ti sono rimasti, vecchio mio?», commentò Elvgren, con una risata.

    «La vostra preoccupazione per la salute della mia chioma mi commuove, milord».

    «La tua impertinenza finirà per farti licenziare, un giorno o l’altro, Benkins. È un bene che io mi affezioni tanto. Ma ora sarà meglio che mi muova!». lord Elvgren si girò rapido sui tacchi dei suoi stivali di pelle escambriana e puntò verso la porta a rapidi passi.

    «Signore? Potreste forse aver bisogno delle vostre sciabole da allenamento?», gli chiese Benkins, in tono educato.

    «Ecco che, nel giro di un attimo, mi ricordi quanto tu mi sia indispensabile, Benkins! Cosa farei senza di te?», commentò Elvgren, esalando un lungo e drammatico sospiro.

    «Oh, sono certo che vi disperereste per un’intera mezza mattinata, milord, prima di crollare senza scampo», replicò il valletto, passandogli le armi.

    Elvgren sistemò le sciabole alla cintura, sorrise un’ultima volta a Benkins e uscì dalla stanza, puntando verso il campo d’addestramento.

    *

    La ghiaia scricchiolava sotto gli stivali di lord Elvgren. Nonostante il cielo nuvolo e la minaccia di pioggia, fu lieto di vedere che gli alti spalti che si sollevavano sulle quattro pareti del campo d’addestramento fossero comunque pieni. Come sempre, l’ultimo giorno del mese di Corrin significava che tutti, nobili e popolani, potevano assistere all’allenamento della crema dell’esercito imperiale dell’Estria. L’ingresso era libero, ma chi arrivava prima trovava i posti migliori, e, nonostante ce ne fossero ben cinquemila, moltissima gente non riusciva a entrare.

    Le file di soldati stavano finendo di mettersi in formazione da battaglia. Elvgren osservò soddisfatto la moltitudine di uomini che si muoveva con precisione al suono del fischietto del maestro d’armi Greelix, in una serie di cambiamenti fluidi che somigliava al movimento ritmico e naturale delle onde. È per questo che l’esercito estriano è invidiato in tutto il mondo, considerò lui, disciplina e un immancabile tocco di stile.

    Tre brevi fischi segnalarono la fine dell’esercitazione. Un applauso educato si fece sentire dagli spalti più bassi, mentre da quelli più alti, occupati dai popolani, si udirono fischi e urla di apprezzamento.

    Elvgren si scostò per far passare la fanteria, accogliendo con noncuranza i secchi saluti che il suo grado di capitano richiedeva.

    «Alt!», esclamò. «Dietro front, attenti!». Gli uomini si fermarono e si girarono per fronteggiarlo con la precisione di un orologio Gortrix. «Tu, vieni qui!». Elvgren indicò un giovane soldato che si fece avanti. Con uno schiocco udibile, l’ufficiale lo colpì con un manrovescio potente.

    «Sei un maggiore?», gli chiese.

    «No, signore», balbettò il soldato, con la mascella squadrata che già andava arrossandosi.

    «Allora sei forse un generale?», continuò lui, con calma.

    «No, signore».

    «E allora vorrei sapere perché cazzo ti ritieni così importante da non rivolgere il saluto a un tuo superiore», gli urlò in faccia Elvgren.

    L’uomo sussultò, ma riuscì a mantenere un minimo di compostezza.

    «Vi chiedo perdono, signore, ma la mia mente era altrove. Sono una nuova recluta, non facevo neanche parte della formazione da battaglia. Mi è stato solo ordinato di portare la bandiera. Non intendevo mancarvi di rispetto, signore!».

    «Spiegami, di grazia, come mai hai deciso di arruolarti nell’esercito, a parte insultare chi è migliore di te per nascita e rango?».

    «L’ho fatto per via mia madre, signore. È stata colpita da una terribile malattia. Ho bisogno del denaro per il medico e…».

    «Basta così!», lo interruppe Elvgren. «Dovrei congedarti subito dal servizio del nostro stimato imperatore Isembert». A quelle parole, il giovane crollò in ginocchio e cominciò a singhiozzare senza ritegno. «Ma sarò clemente, considerando i tuoi problemi familiari». Un sorriso sfiorò il volto del soldato. «Alzati, uomo. Come ti chiami?».

    «Hubert Tesslet, signore».

    «Ebbene, recluta Tesslet, visto che mi sento generoso, la tua punizione sarà di cinquanta frustate e un mese di razioni dimezzate per te e il tuo squadrone. E ora, togliti dalla mia vista».

    Il sorriso svanì dal volto di Hubert. Lanciò uno sguardo cauto ai suoi compagni, che lo ricambiarono con un rancore a stento represso.

    Soddisfatto di quell’esibizione di autorità, Elvgren si allontanò, superando la folla. Grida di «Ottimo lavoro!», e «Meno della metà di quello che meritava!» si fecero sentire dagli spalti più bassi, mentre fischi e insulti piovevano sulla sventurata recluta da quelli più alti. Alcuni dei popolani cercarono di avanzare, ma furono respinti dalle mani decise della Guardia Cittadina, sempre pronta a intervenire in forza in quel genere di spettacolo.

    Nei pochi minuti che servirono a Elvgren per attraversare il cortile e raggiungere Greelix, gli spalti si riempirono del tutto. I due uomini si scambiarono un inchino, con Lovitz che si abbassava appena un po’ di più, per rispetto alla temibile reputazione del maestro d’armi. Greelix si sollevò in tutta la sua altezza: qualche centimetro più del giovane nobile, sebbene quest’ultimo, avendo appena diciannove anni, sarebbe potuto crescere ancora.

    «Eccellente dimostrazione di disciplina, capitano. Se avessi avuto gente come voi sulle mura di Stomsgrod, avremmo domato quei barbari nella metà del tempo!», ringhiò Greelix, stringendo i denti al punto da far temere che li avrebbe spezzati.

    «Così mi adulate, signore. Ma è un bene, per le masse, vedere che l’ordine viene mantenuto sempre, nell’esercito imperiale. Le apparenze sono tutto, in fondo». Un sentimento che aveva di sicuro a cuore. «Potete dirmi, di grazia, chi è il mio avversario di oggi, maestro Greelix?».

    «Dovrebbe avere importanza, capitano? Siete l’allievo migliore che mi sia capitato da tutte le famiglie nobili in un raggio di mille miglia. Questo duello è una formalità per la gioia di coloro che abbiamo giurato di proteggere».

    Elvgren non riuscì a trattenere il sorriso che gli si allargava sulle labbra, e lasciò che il calore dell’autocompiacimento gli si spandesse nel petto come ottimo brandy.

    «A proposito, capitano, ecco il suo avversario».

    Elvgren portò con calma lo sguardo verso il cerchio d’allenamento e osservò la sua imminente vittima. Un bruto enorme si fece avanti; gli occhi e i capelli scuri tradivano un’ascendenza tremorana. La sua uniforme era quella regolare, il che faceva capire che non era un nobile, sebbene i gradi rivelassero che era un capitano.

    «Immagino che non sarebbe educato farlo aspettare, eh, maestro d’armi?». Elvgren ammiccò verso il suo insegnante. Con quelle parole, puntò verso il cerchio. Applausi, urla e incoraggiamenti lo seguirono, e lui rispose con un inchino regale. Si fermò dal lato a lui assegnato del cerchio.

    Sollevando una mano, il maestro d’armi impose il silenzio. «Al mio segnale, la sfida avrà inizio. Come sempre, la dimostrazione continuerà finché uno dei duellanti non otterrà cinque punti, oppure uno dei due non si arrenderà. I punti si otterranno toccando il corpo dell’avversario con la punta della spada o spingendolo oltre il bordo del cerchio. Sono stato chiaro?». Entrambi i capitani annuirono. A quel punto, Greelix lasciò cadere la mano con un gesto secco e fischiò una volta.

    Elvgren entrò con noncuranza nel cerchio e osservò l’altro capitano fare lo stesso, prima di fermarsi a circa tre metri da lui.

    «Sono Trivani Costanza di…».

    «Temo di non essere affatto interessato al vostro nome, buon uomo», replicò Elvgren, guardandosi le unghie e sbadigliando in modo teatrale. La sua scena fu salutata da risate sguaiate e applausi.

    Costanza avvampò in volto. «Non mi sono mai sentito così insultato in vita mia… Assumete la posizione di combattimento!».

    «Questo farebbe pensare che sia sul punto di iniziare a combattere», ritorse Elvgren, con un sorriso smagliante e un occhiolino impertinente alla folla che gli fece ottenere altre risate.

    Il volto di Trivani si fece di un intenso e meraviglioso color pulce, prima che si lanciasse contro di lui.

    Veloce, pensò Elvgren, ma non abbastanza. Schivò la carica e colpì Costanza sulla schiena. Trivani si girò di scatto, con la sciabola che compiva un ampio arco. Il giovane nobile lo evitò senza problemi. L’altro continuò a incalzarlo con una serie di furiosi fendenti, mentre Lovitz danzava intorno all’avversario con la grazia e la rapidità di uno skitterling in volo.

    «Solleva la tua lama e combatti, bastardo!», sbottò Costanza, già affannato per lo sforzo.

    «Temo che, se lo facessi, vecchio mio, questo piccolo esercizio durerebbe troppo poco, e questa brava gente è venuta qui per uno spett…». Elvgren fu interrotto quando un montante rabbioso gli sfiorò il naso. Arretrò di un passo, ma era ancora all’interno della portata della spada avversaria. L’acciaio risuonò contro l’acciaio, e lui sentì la vibrazione dell’impatto risalirgli lungo il braccio. Questo è stato forte, pensò. È ora di fare sul serio. Si abbassò sotto il braccio allungato di Costanza e usò lo slancio in avanti dell’avversario per colpirlo alla schiena con il pomo pesante della sciabola. Trivani, dovette dargliene atto, riuscì a trasformare la caduta in una capriola sulla spalla, ed ebbe appena il tempo di tornare in piedi prima di ritrovarsi pressato dall’attacco di Elvgren.

    Se il giovane nobile era rapido a schivare, quando attaccava era difficile vedere i suoi movimenti. La sua sciabola danzava davanti a lui come un serpente d’argento, e Costanza riuscì a stento a tenerlo a bada. Notò che l’avversario iniziava a stancarsi, e, quanto a lui, cominciava davvero ad annoiarsi. Piroettò sui tacchi e colpì con forza Costanza sulla mascella con l’elsa della spada, avvertendo lo schiocco sordo dell’osso che si spezzava. Senza fermarsi, gli fece perdere l’equilibrio con un calcio e gli piantò un piede sul petto, puntandogli la spada alla gola. «Vi arrendete, signore?», domandò, premendo forte contro lo sterno di Trivani. Costanza lo guardò dal basso con odio e imbarazzo. «Mi a’endo», mugugnò, con la bocca polverizzata.

    «Il vincitore è il capitano Elvgren Lovitz!», ruggì Greelix, e un’esplosione di applausi piovve sul giovane nobile.

    Elvgren si godette la scena. L’applauso inebriante, l’adulazione delle masse e un avversario del suo stesso grado schiacciato sotto il suo tacco. Inspirò a fondo, adorando ogni secondo di quella situazione.

    *

    Più tardi, quel pomeriggio, dopo qualche brindisi di festeggiamento e diverse pacche sulla schiena dei suoi pari, Elvgren tornò nel vestibolo della magione di famiglia. Due servitori si affrettarono ad attraversare il pavimento di marmo per prendergli giacca e cappello. Sparirono veloci come erano comparsi, con soltanto il ticchettio dei loro passi a ricordargli che non erano stati mere apparizioni con un buon gusto nel vestire. Elvgren alzò lo sguardo al suono di nuovi passi che scendevano l’elegante scala a chiocciola. «Ah, Benkins, eccoti! Sii gentile e preparami un bagno».

    «Temo che non ci sia il tempo per uno dei vostri lunghi bagni, milord. Abbiamo un ospite molto importante».

    Dopo un rapido cambio d’abito, Elvgren raggiunse l’entrata del giardino botanico di suo padre. Due servitori aprirono le doppie porte, inchinandosi nel frattempo. Lui avanzò lungo il sentiero coperto di ghiaia, superando le betulle drago di Pevontess, i cui rami più alti sfioravano la volta di vetro del soffitto. Pregò dentro di sé che suo padre non avesse colto l’occasione per mostrare all’ospite la zona della giungla e che l’incontro non si svolgesse sotto il calore soffocante delle lampade alimentate a energia magica.

    Per fortuna, il buonsenso di suo padre aveva prevalso sulla sua innata spinta alla spettacolarità: tre figure erano sedute sotto il gazebo circolare di pietra.

    Suo padre e sua madre erano seduti l’uno accanto all’altra in delle sedie di ferro battuto decorato. Dall’altra parte del tavolino c’era un uomo che Elvgren aveva visto soltanto da lontano nelle occasioni sociali, o sulla moltitudine di atti pubblici che portavano stampato sopra il suo volto. «lord cancelliere». Il giovane si inchinò più di quanto avesse mai fatto in vita sua. «Se avessi saputo che un ospite stimato come voi ci stava facendo l’onore di una sua visita, sarei tornato subito a casa!».

    «Lord Elvgren», rispose il lord cancelliere, accennando appena a un inchino del capo dopo la manifestazione di rispetto del giovane nobile. «Non vi preoccupate. Questo mi ha dato modo di studiare le magnifiche sculture che vostro padre ha di recente acquisito nel suo sito di scavo. Sembrerebbe che abbiamo un interesse comune nelle prime manifestazioni della civiltà avvenute con l’esilio degli Antichi terrori». Il lord cancelliere accennò con la mano al gazebo e alle statue e ai busti che si trovavano tra le colonne.

    Elvgren li osservò. Volti di imperatori senza nome lo fissarono di rimando. Qualcuna di quelle teste di marmo aveva ancora gli occhi originali in madreperla e azzurrite. Sembravano vivi. Il giovane rabbrividì dentro di sé, sotto a quello sguardo inquietante.

    «Prego, sedetevi», lo invitò il lord cancelliere.

    La sedia di Elvgren fu portata da un servitore che uscì dalle ombre, e lui si accomodò, con i genitori alla sua sinistra e il lord cancelliere a destra. Lanciò uno sguardo ai suoi. Si sarebbe potuto considerare un clone di suo padre, a parte le rughe che gli increspavano la fronte e i capelli appena un po’ più radi. Quanto a sua madre, aveva i capelli neri tirati indietro e tenuti in ordine da una spilla di platino incrostata di diamanti, che le permetteva di mostrare tutta la bellezza del suo viso a cuore. Solo la presenza di leggere zampe di gallina rivelava la sua età, condizione che nessuno dei costosi cosmetici importati che lei acquistava sembrava poter arrestare. Entrambi indossavano i loro abiti più eleganti, e avevano un’aspettativa feroce negli occhi, come cani affamati davanti al bancone del macellaio.

    «Molto bene, poiché tutte le parti interessate sono qui, direi di venire al motivo della mia visita». Il lord cancelliere batté le mani, fissando con lo sguardo adamantino la famiglia Lovitz. «Come forse sapete, mia figlia, lady Bellina, è ormai maggiorenne. Credo che sia venuto il momento che si fidanzi. E ritengo che il giovane Elvgren potrebbe essere un buon partito per lei».

    Il cuore del giovane affondò come una pietra. Aveva visto poche volte Bellina Ressa in alcune feste, dove si era lasciata dietro una scia di nobili rossi in viso e offesi. Come avrebbero mai potuto togliersi da una situazione del genere? Il lord cancelliere non era un uomo a cui si poteva dire di no, e i pochi che ci avevano provato avevano la tendenza a essere ritrovati in vari stati di decomposizione.

    «lord cancelliere», iniziò esitante suo padre, «questo è davvero un grande onore… ma noi avremmo già organizzato il fidanzamento di nostro figlio Elvgren con lady Hortense».

    Ben fatto, padre, pensò Elvgren. Hortense era molto più adatta a lui: di una bellezza sconvolgente e assolutamente remissiva. Notò le sopracciglia del lord cancelliere sollevarsi appena.

    «Allora mi aspetto che mettiate fine a codesti accordi quanto più in fretta potete. E ora, come dote e in segno di buona fede, vorrei che le terre che possedete nella valle di Valdring diventassero di mio possesso».

    Gli occhi del padre di Elvgren avevano perso l’aspettativa di poco prima, tramutandosi in quelli di un cane che ne aveva appena visto uno più grosso intento a occhieggiare il bancone del macellaio. «Milord, con tutto il dovuto rispetto, ma parliamo di metà dei miei possedimenti. È una valida fonte di guadagni dal grano che vi si coltiva, per non parlare del valore archeologico di quei terreni».

    «Ne sono consapevole. Ma ho una sola figlia, ed è l’ultimo raggio di luce della mia vita, dalla dipartita della mia amata Tabatha», rispose il lord cancelliere, prendendo un sorso di tè. «Mi rendo conto, tuttavia, dei suoi difetti: è una fanciulla ribelle e difficile, per non parlare delle sue capacità cognopatiche…».

    «Mio caro lord cancelliere», intervenne la madre di Elvgren, «non penseremmo mai, neanche per un attimo, che la… ah… particolarità di lady Bellina possa essere un ostacolo, ma…».

    «Vi prego, lady Lovitz, risparmiatemi le sciocchezze. Il problema esiste, anche dopo tutti questi anni e dopo che Bellina ha dimostrato di essere un modello per quelli come lei. So che le sue abilità sono ancora un problema, per la nobiltà. Per questo, sono disposto a offrire un sostanziale incentivo, del quale una famiglia di rango minore quale è la vostra dovrebbe comprendere il valore». Il cancelliere spostò lo sguardo su Elvgren.

    Il giovane nobile si sentì contorcere le viscere come un verme cotto dal sole.

    «Che ne direste di diventare lord cancelliere, ragazzo mio?».

    3

    Cirona Bouchard era seduta con la robusta figura china sul giornale del mattino nella sala da pranzo delle Guardie Imperiali. Quello spazio era grande abbastanza per accogliere un centinaio di uomini, anche se al momento ce n’erano appena una dozzina.

    Si passò le dita tra i capelli rasati e castani e si prese un attimo per digerire le informazioni che aveva appena letto. Leggere: quella sì che era una grande ambizione, per un’orfana di Barrow Bottom, senza considerare il fatto che fosse riuscita a ottenere il posto di capo delle guardie del palazzo. Ma imparare a leggere era stato uno dei privilegi di essere accolta nell’accademia dell’esercito quando era ancora molto giovane.

    L’articolo principale riguardava il blocco delle navi estriane da parte della flotta burkeshi nello Stretto di Hareef. Entrambe le parti stavano tirando fuori dichiarazioni ardite e poco velate minacce di vendetta, quelle che di solito si scambiavano gli uomini che sapevano benissimo che non si sarebbero mai dovuti confrontare su un campo di battaglia, respirando l’odore del sangue dei compagni d’arme. I burkeshi dichiaravano che l’Estria era collegata alla cattura e alla schiavitù dei kaffar, l’ultima popolazione ancora libera che aveva capacità magiche in tutto il mondo. L’Estria rispondeva affermando che la colpa era dei pirati, i quali agivano ben fuori dalla sfera di competenza del governo. Inoltre, dichiarava l’Estria, i centri di scambio fino al libero stato di Chenta erano stati saccheggiati e i mercanti uccisi. I burkeshi affermavano che era opera dei banditi e delle tribù nomadi.

    Di

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