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Alexandra: L'immenso amore di una madre
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Ebook412 pages6 hours

Alexandra: L'immenso amore di una madre

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About this ebook

Alexandra. L'immenso amore di una madre: Quante volte nel corso della nostra vita ci siamo chiesti cos'è l'amore e qual è la manifestazione che meglio riesce a rappresentarlo nella sua pienezza e nelle sue sfaccettature? Alexandra è la storia incredibile di una donna e di suo figlio. Sullo sfondo della solare Cuba, al ritmo incalzante dei balli caraibici, il verificarsi di incredibili coincidenze dimostra quanto la vita dipenda, in fondo, solamente dal destino, mettendo in luce l'immenso amore che una madre è disposta a donare e lanciando un messaggio positivo e ottimista, nel quale vengono messi in risalto i valori dell'amicizia e della solidarietà.
LanguageItaliano
Release dateMay 31, 2019
ISBN9788830606340
Alexandra: L'immenso amore di una madre

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    Book preview

    Alexandra - Gianpietro Marchesi

    NuoveVoci

    VITE BIOGRAFIE

    Gianpietro Marchesi

    Alexandra

    l’immenso amore di una madre

    © 2019 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-567-9959-0

    I edizione aprile 2019

    Finito di stampare nel mese di aprile 2019

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Alexandra

    l’immenso amore di una madre.

    Alla mia Mamma.

    Tu sei lo specchio che riflette l’arcobaleno delle passioni,

    sei l’ingresso che cancella le confusioni.

    Capitolo I

    Il cielo sopra La Habana era completamente coperto da alte nubi di un blu scuro particolarmente intenso, talmente minacciose da incutere inquietudine e terrore anche ai più coraggiosi; avvisando che l’uragano Kate stava per abbattersi su quella sfortunata e allo stesso tempo meravigliosa città, già duramente provata dalla crisi economica che Cuba stava attraversando a metà degli anni Ottanta.

    Il vento soffiava forte da nord-est, creando delle onde enormi che si scagliavano con una forza poderosa sulle pietre poste a difesa del Malecón, alzandosi per parecchi metri sopra il livello della strada e generando enormi mani d’acqua che s’infrangevano potenti sul lungomare, trascinandosi dietro tutto quello che incontravano lungo il percorso di deflusso verso l’oceano, come se volessero distruggere il magnifico fronte mare della capitale.

    Mentre l’intera popolazione dell’isola era intenta a sbarrare freneticamente porte e finestre per difendersi dalla tempesta in arrivo, facendo di tutto per proteggersi dall’inferno che si sarebbe scatenato di lì a qualche giorno, tre amici un po’ incoscienti giocavano impavidi sulla strada costiera, schivando le possenti onde che cadevano in mezzo alla carreggiata per evitare di essere sommersi e resistendo poi al risucchio creato dall’acqua che ritornava al mare, sforzandosi energeticamente per non soccombere alla forza della corrente di rientro.

    Le scuole erano state preventivamente chiuse e avendo terminato tutti i compiti, per dare supporto alla realizzazione delle più o meno improvvisate difese per l’uragano in arrivo, i tre adolescenti decisero di approfittarne per ritrovarsi e giocare insieme. Non erano insolite le occasioni come questa: approfittare della chiusura al transito sul Malecón a causa del pericolo di allagamento per divertirsi indisturbati. Anzi, negli ultimi anni questi eventi erano diventati sempre più frequenti a causa della poca manutenzione e del mancato rinforzo delle barriere protettive, ma cavalloni così enormi non se n’erano mai visti prima. Erano perfetti per le gare che i tre compagni adoravano fare per provare una penetrante scarica di adrenalina.

    Come ogni attività che implichi una sfida con la natura, anche questa aveva il suo grado di pericolosità. Ma i tre amici conoscevano alla perfezione il lungomare e i punti critici da evitare, nei quali i marosi cadevano troppo potenti creando un risucchio difficile da domare, e si limitavano quindi a giocare solo dove il rischio era minimo. Con l’esperienza avevano maturato una certa consapevolezza delle minacce legate a quello svago, che aveva insegnato loro a porre molta attenzione allo stato fisico e mentale, obbligandoli a fermarsi di tanto in tanto per riposare e verificare di essere ancora in grado di continuare. Quel passatempo avventuroso poteva essere vissuto in totale sicurezza solo se si possedeva la forza necessaria per resistere alla corrente e si avevano i riflessi pronti per evitare i frangenti che si scagliavano incessanti e improvvisi sulla strada.

    Si divertivano un mondo a sfidare le gigantesche onde e i loro vigorosi vortici, recitando ruoli di cavalieri in combattimento contro un enorme mostro marino, riuscendo con la fantasia a vivere dei momenti eroici nei quali mostravano al mondo intero il loro coraggio.

    In mezzo al frastuono dei boati generati dai cavalloni che s’infrangevano al suolo, sommato al fragore del mare in tempesta e al sibilo del vento che soffiava impetuoso, si udivano appena le urla compiaciute degli amici, immersi nel loro ludico sollazzo.

    «Occhio che arriva!» urlò Pedro nel vedere un’onda alta almeno tre metri che si innalzava sopra il livello della strada.

    «Tutti indietro!» gridò Jorge, che fu immediatamente seguito dagli altri due compagni, evitando così di venire sommersi dall’acqua.

    Il frangente si frantumò al suolo creando un forte risucchio, e nel caos generato si udivano a stento le risa dei tre ragazzi che si divertivano assai a resistere alla forza della corrente, preparandosi ad affrontare il flutto successivo.

    Pedro aveva sedici anni ed era la rappresentazione perfetta del cubano di origine spagnola. Il suo vero nome era Juan Pedro, in onore ai due nonni: Juan, quello materno, era morto a causa di una malattia quando il nipote era ancora giovane; Pedro, quello paterno, era deceduto prima ancora che nascesse. Era un ragazzo magro, alto circa un metro e ottanta, con la carnagione olivastra e gli occhi innocenti marrone chiaro. Portava lunghi capelli castani e mossi che arrivavano all’altezza delle spalle come era di moda in quegli anni, quando i giovani cubani sfoggiavano orgogliosi le loro lunghe criniere alle giovani donne, nella speranza di conquistarle. I lineamenti del suo viso erano molto dolci, quasi effeminati, tanto da suscitare sempre simpatia e tenerezza in tutte le persone che lo incontravano. Il suo sguardo era ingenuo, ma veniva compensato da una voce decisa e autoritaria che bilanciava apparenza ed essenza, generando fiducia e rispetto in tutti coloro che avevano a che fare con lui.

    Jorge era il suo migliore amico e aveva un anno di meno, ma frequentava la stessa classe a scuola poiché aveva iniziato il suo percorso scolastico in anticipo. Era infatti stato integrato in una classe mista con studenti di diverse età. Leggermente più basso dell’amico, aveva un fisico più robusto nonostante fosse più rotondeggiante che muscoloso. Aveva profondi occhi neri e corti capelli bruni con taglio militare, per seguire le regole che il padre poliziotto imponeva in casa. Da quest’ultimo aveva ereditato il carattere rigido e spigoloso, sempre vigile e riflessivo. Era poco incline a dare confidenza agli sconosciuti, ma era sempre disposto ad aiutare chiunque fosse in difficoltà, tanto che la sua infinita bontà gli veniva riconosciuta da chiunque lo conoscesse. Era mulatto, dall’incarnato scuro tipico della campagna di Camaguey da dove erano originari i suoi genitori.

    A Cuba convivevano pacificamente tre etnie, di cui la più numerosa era composta dai bianchi latini discendenti dai coloni spagnoli. Poi c’erano i mulatti nati dall’unione di una persona di etnia latina con una di origine africana, e infine c’erano i neri di origine africana. A differenza delle altre Grandi Antille, qui le persone di colore erano meno numerose, perché l’isola era stata utilizzata dai conquistatori spagnoli più come base militare e navale che come terreno agricolo, quindi la manodopera degli schiavi era meno necessaria. La pace e il rispetto tra le differenti etnie erano inoltre garantiti dalla costituzione che sancisce l’uguaglianza fra tutti i gruppi etnici del Paese, condannando ogni forma di discriminazione e d’intolleranza.

    L’ultimo membro del gruppo si chiamava David. Frequentava la stessa scuola degli altri due, ma era un anno indietro perché aveva quindici anni. Era alto quanto Jorge e di carnagione era bianco latte. Aveva occhi castani tendenti al verde e lunghi capelli biondi. Era il ragazzo più generoso che Cuba avesse mai conosciuto e tutte le volte che possedeva qualcosa in più rispetto ad un amico, lo condivideva senza alcuna esitazione. Inoltre era uno degli studenti più intelligenti e promettenti della scuola e veniva soprannominato genio ribelle: spesso, infatti, veniva messo in punizione perché umiliava gli insegnanti, dimostrando con arroganza che ne sapeva più di loro durante le interrogazioni.

    I tre amici erano completamente immersi nella loro battaglia, quando ad un certo punto Pedro vide in lontananza sul lungomare un ragazzino molto giovane che, forse nel tentativo di emularli, faceva il loro stesso gioco; ma si stava avvicinando onda dopo onda ad un punto in cui la corrente di rientro era troppo violenta, in quanto la via di fuga dell’acqua era stata erosa nel tempo, allargandosi considerevolmente, e consentendo così di incanalare un volume tale da creare una portanza alla quale risultava difficile resistere. Ancora pochi metri e il risucchio sarebbe stato troppo vigoroso e lo avrebbe trascinato nel mare facendogli fare un salto di almeno cinque metri nel vuoto, per poi sfracellarsi sulle rocce sottostanti.

    Pedro iniziò subito a urlargli di allontanarsi, ma il trambusto del mare era assordante che rendeva impossibile farsi sentire. Iniziò anche a fare dei cenni saltando e incrociando le mani per segnalare il pericolo, ma non fu visto dal ragazzino, preso com’era da quel divertente svago.

    Così indicò il ragazzino ai due amici che capirono subito il pericolo al quale stava andando incontro e immediatamente si mossero per raggiungerlo, camminando spediti nella parte interna della strada dove l’acqua arrivava di rado, per fare il più veloce possibile.

    Mentre i tre compagni si stavano avvicinando, continuando a urlare per avvisarlo del pericolo senza purtroppo essere né visti né sentiti, un’onda enorme travolse lo sventurato, che non riuscì a schivarla, perché il flusso ai piedi era diventato molto più potente e lo aveva rallentato. A stento riuscì a rialzarsi, ma il risucchio era troppo intenso e alla fine venne sopraffatto dalla forza del gorgo, che lo trascinò via con sé. Riuscì fortunatamente ad aggrapparsi con le mani a quel che restava del muretto sotto il quale, attraverso una grossa fessura, l’acqua ritornava nel mare e con uno sforzo immane, recuperò i piedi che penzolavano già nel vuoto, puntandoli contro il muretto stesso per opporre maggior resistenza.

    In quel momento arrivò un altro cavallone che lo travolse facendolo vacillare, ma con fatica non abbandonò la presa, lottando in preda alla disperazione per non venir trascinato sulle rocce sottostanti. Lo sforzo profuso per resistere a quel putiferio era enorme e non avrebbe resistito per molto tempo.

    Il giovane era stremato e stava per perdere ogni speranza, quando vide alla sua destra i tre amici che stavano aspettando il momento propizio per recuperarlo. Un sorriso di speranza apparve sul volto dello sciagurato, che ritrovò le energie per reggersi un altro po’.

    Il gruppo schivò un paio di onde, avvicinandosi il più possibile, finché sentì che la corrente iniziava a farsi troppo forte. Poi i tre compagni fecero una piccola catena umana tenendosi stretti per mano e preparandosi a muoversi all’unisono. Pedro urlò al malcapitato di stare calmo, intimandogli di tenersi pronto ad afferrare il suo braccio non appena fosse caduta l’onda successiva. Il ragazzo fece intendere di aver capito con un cenno del capo e restò concentrato in attesa di essere salvato.

    Il cavallone arrivò e Pedro attese che il grosso dell’acqua fluisse via prima di lanciarsi verso quell’incosciente; si teneva forte con la mano sinistra a quella di Jorge, per evitare di essere trascinato egli stesso dal reflusso. Con uno sforzo immane riuscì a prendere il braccio del giovane in pericolo, che si rimise in piedi con le ultime energie rimastegli. Con l’aiuto degli altri venne finalmente tirato in salvo, per poi essere portato a bordo strada sotto il portico di un palazzo dove l’acqua non arrivava, per consentirgli di riprendersi da quello spavento.

    Il ragazzino si accasciò subito a terra per la fatica e appena realizzò il pericolo scampato, scoppiò a piangere. David gli diede delle pacche sulla schiena e poi gli disse: «Te la sei vista brutta, eh?»

    Il giovane lo guardò con occhi colmi di lacrime e fece un cenno affermativo con la testa.

    Jorge allora esortò: «Smettila di piangere, il pericolo è passato.»

    Poi appena ritrovò la calma, gli chiese: «Come ti chiami?»

    «Felix», rispose il ragazzino, ancora scosso.

    «Io sono Jorge, e loro sono Pedro e David», aggiunse il suo interlocutore con l’intento di farlo calmare conversando tranquillamente.

    «Molto piacere», rispose il giovane dopo aver preso un lungo respiro per arrestare gli incessanti singhiozzi. Poi con voce commossa aggiunse: «Vi ringrazio tutti di cuore per avermi salvato.»

    David allora, notando che si era perfettamente ripreso, intervenne consigliandogli di stare molto attento a valutare i rischi delle sue azioni.

    Poi gli chiese: «Quanti anni hai?»

    «Dodici», rispose il ragazzino sorprendendo i presenti.

    «Cavoli, sei davvero molto alto per la tua età e hai anche un fisico atletico, decisamente sviluppato», sottolineò Jorge, stupito.

    «Gioco a basket nella nazionale giovanile cubana», spiegò con orgoglio Felix.

    «Comunque sei sempre troppo giovane per affrontare da solo le onde del Malecón», rimarcò Pedro, che poi precisò: «Alla nostra età riusciamo a resistere alla corrente, ma alla tua è quasi impossibile non soccombere alla forza del mare.»

    Il campioncino, allora, nel tentativo di giustificarsi rispose: «Ho visto voi farlo e divertirvi un sacco, così ho voluto provare. All’inizio stavo prudente e mantenevo la distanza, ma poi mi sono lasciato prendere la mano e sono precipitato in balia degli eventi. Fortunatamente siete arrivati voi.»

    Pedro alla fine per confortarlo lo abbracciò e aggiunse: «Quest’esperienza ti servirà per il futuro; fare un passo troppo lungo rispetto alle proprie capacità può essere fatale.»

    Felix annuì e poi strinse la mano ai tre ragazzi per ringraziarli, giurando: «Un giorno mi sdebiterò. Io conquisterò il mondo e mi ricorderò di voi tre.»

    I soccorritori fecero un sorriso a seguito della grottesca promessa, certi che fosse dovuta allo shock per l’avventura appena vissuta.

    Dopo essersi salutati, Pedro lo osservò allontanarsi verso La Habana vecchia, contemplando la bellezza del fronte mare della sua città. Tutte le volte che si fermava ad ammirarlo provava una sentimento di meraviglia e di stupore, tanto era incantevole quel luogo. I palazzi erano in rovina per la mancata manutenzione, la carenza dei materiali e l’esposizione agli agenti atmosferici, ma conservavano lo splendore unico di quel quadro d’insieme. Era una cartolina da sogno, una visione che toglieva il fiato. Un alternarsi di edifici coloniali color pastello – dal rosa orchidea al verde molucella, dal giallo mimosa al blu pervinca – che era un capolavoro di perfezione, tanto da sembrare uscito dal mondo delle favole.

    Pedro non conosceva il mondo, ma era certo che tutta quella magnificenza si potesse ammirare solamente a La Habana e per questo si sentiva fortunato e privilegiato, essendo libero di godere di quella vista ogni qualvolta ne avesse avuto il desiderio.

    La magia di quel luogo era dovuta soprattutto all’atmosfera generata dall’insieme degli elementi di quella meraviglia, che cambiavano completamente a seconda del momento della giornata.

    All’alba, i colori, risvegliandosi dal buio della notte, davano il meglio della loro luminosità, alla quale si sommavano la leggerezza, la frizzantezza dell’aria, l’odore della rugiada nei prati e il profumo intenso dei fiori. Ne scaturiva uno scenario di attesa e di meraviglia che risvegliava la capitale agli affari quotidiani.

    A mezzogiorno l’afa offuscava la luce del sole, dando una tonalità più opaca agli edifici. L’aria diventava rarefatta e gli odori delle attività quotidiane dominavano su quelle della natura, generando un ambiente contraddistinto da stanchezza e spossatezza, che accompagnava i cubani al rito sacro della siesta giornaliera.

    Nel pomeriggio, il sole era più basso e i colori dei palazzi si sposavano con l’arancio tenue del cielo. L’aria calda e gli odori della frutta fresca raccolta nella giornata e venduta lungo i corsi plasmavano un paesaggio caratterizzato da una percezione di pace e di accettazione del passare del tempo; stimolo per riflessioni esistenziali e meditazioni trascendentali.

    Ma era al tramonto che questa città dava il meglio di sé. Il cielo iniziava ad assumere colori rossastri e il chiarore diveniva sempre più fioco, riducendo la tonalità delle architetture del Malecón, che davano l’impressione di accompagnare il sole al suo riposo quotidiano. L’aria ritornava fresca e gli odori del mare dominavano su tutti gli altri, alimentando un’atmosfera impregnata da una sensazione di energia e di vitalità che i cubani erano maestri nel far esplodere tutte le sere fino a notte inoltrata.

    Mentre si lasciava sbalordire dal miracolo di quella visione ammaliante, Pedro udì i rintocchi delle campane della cattedrale della Vergine Maria ed intuì che fosse già mezzogiorno. Come ogni lunedì sua madre preparava il suo piatto preferito, il coniglio stufato alla cubana. Molti lo avevano assaggiato e tutti ne erano rimasti deliziati, giurando che fosse il più squisito che avessero mai mangiato e forse il più prelibato di tutta Cuba. Ci volevano circa tre ore per prepararlo, lasciandolo rosolare a fuoco lentissimo per conservarne la tenerezza, aggiungendo cipolla, alloro e di tanto in tanto del vino tinto per arricchire il sapore. Veniva sempre servito accompagnato con del platano bollito che ne esaltava la fragranza, dando luogo a una combinazione che accontentava anche i palati più esigenti.

    Salutati gli amici, iniziò a camminare con passo veloce verso casa, per non arrivare in ritardo facendo raffreddare la leccornia che lo aspettava. L’appartamento in cui viveva era al piano terra in un palazzo poco distante dalla piazza della cattedrale, assegnato dal governo a suo nonno Juan come ricompensa per i servigi resi alla nazione, essendosi distinto in molteplici battaglie durante la rivoluzione cubana.

    L’edificio era in rovina, ma s’intravedevano ancora i fasti di un tempo. I muri erano possenti e di color papaya, con dei finestroni enormi per arieggiare l’interno dei locali. Come ogni palazzo che si rispettasse, aveva un patio all’aperto ornato da colonne greche di marmo bianco e abbellito al centro da una grande fontana con la statua di una venere che versava acqua da un’anfora. Sul patio si affacciavano i quattro appartamenti in cui vivevano i membri della famiglia.

    Purtroppo, quello che un tempo era sicuramente un capolavoro di perfezione architettonica, oggi era completamente danneggiato e decadente, abbandonato all’incuria e allo scorrere del tempo. Gli intonaci erano del tutto rovinati e nei muri s’intravedevano delle ampie infiltrazioni d’acqua che in alcuni punti scoprivano delle barre di ferro arrugginite.

    Inoltre, ogni angolo del palazzo era ricoperto da muschi e piante selvatiche rampicanti, impossibili da debellare. Si respirava comunque ancora l’aria dell’opulenza e lo sfarzo dei tempi che furono, e con un po’ d’immaginazione si poteva rivivere l’eleganza che quell’angolo di paradiso possedeva negli anni della belle époque.

    Arrivato a pochi metri da casa, Pedro si bloccò di colpo, aprì la bocca e spalancò gli occhi in un’espressione di puro terrore, come se stesse vedendo il diavolo in persona. In un attimo impallidì e perse completamente la sensibilità delle gambe, cosa che gli impedì di avanzare ulteriormente. Smise anche di respirare per non fare alcun rumore che potesse attirare l’attenzione, nel tentativo di diventare invisibile. La paura si era totalmente impossessata di lui e non riusciva a credere a quello che i suoi occhi avevano visto: da casa sua era appena uscito il terribile colonnello Marcos.

    In quegli anni a Cuba era sicuramente tra le persone più temute e allo stesso tempo odiate dal popolo. Ufficiale della polizia segreta cubana e braccio destro di Raul Castro, fratello del presidente in carica, era stato insignito d’infinite medaglie al valore per i successi conseguiti sul campo, nonché celebrato come eroe nazionale per la vittoria conseguita sventando l’attacco alla Baia dei Porci.

    La leggenda narra che da solo, al comando di un esiguo numero di soldati fedeli a Fidel Castro, affrontò la forza di sbarco del fronte democratico rivoluzionario, formato da esuli cubani e mercenari addestrati dalla CIA. Spronando i suoi uomini a tenere duro e a resistere fino alla morte, rallentò l’invasione del nemico, favorendo l’arrivo dei rinforzi, giusto in tempo per ribaltare le sorti di quel tentativo americano di soverchiare il regime al governo.

    Operava per lo più a La Habana e si diceva che godesse di una libertà operativa illimitata, disponendo di informatori in ogni luogo dell’isola. Il suo compito era di smantellare qualunque forma di protesta, intercettando e arrestando ogni elemento facente parte di gruppi di resistenza, impedendo così ogni manifestazione contraria alla Rivoluzione e ai suoi principi. Non importava quali fossero i mezzi necessari per raggiungere tale scopo: a lui era richiesto di eseguire gli ordini impartitigli, arrivando all’obiettivo senza dover giustificare ad alcuna autorità superiore le strategie utilizzate per raggiungerlo. La fiducia in lui era tale che gli era stata data carta bianca per svolgere al meglio la sua missione.

    Molti si chiedevano perché chiamarla polizia segreta, visto che tutti a Cuba conoscevano il colonnello Marcos e i suoi uomini. Forse il riferimento era alle operazioni che stava coordinando e agli ordini specifici che aveva ricevuto.

    Ogni volta che un sospettato giungeva al suo cospetto, veniva prima torturato e solo successivamente interrogato. In base alle risposte date, tornava in circolazione malridotto o scompariva per sempre; forse rinchiuso in qualche cella, forse a guardare le margherite dalla parte del gambo. Centinaia di cubani erano spariti dopo averlo incontrato.

    Era un uomo terribile che incuteva terrore solo a nominarlo. Era alto circa un metro e sessantotto, con un fisico tarchiato e muscoloso. Aveva una carnagione scura e portava capelli corti, tipici dei soldati; vestiva sempre in modo impeccabile, come se dovesse andare a un giuramento ufficiale, con l’immancabile mimetica militare. Nessuno lo aveva mai visto in abiti civili.

    Il suo sguardo era fiero, di una freddezza fuori dal comune, e non tradiva alcuna emozione. Dall’espressione del viso, nessuno riusciva a capire cosa provasse. I suoi occhi scuri non mostravano mai né gioia né dolore; l’unico sentimento che ne traspariva era una costante rabbia.

    Ma la cosa più atroce era la sua voce potente, fredda e penetrante, che non mostrava alcun dubbio o incertezza. Entrava nello stomaco come aghi di ghiaccio, paralizzando i malcapitati come se fosse il veleno di un serpente a sonagli. Si esprimeva sempre con una cadenza molto lenta, forse per godere il più possibile della sofferenza che procurava durante gli interrogatori, facendo svenire i sospettati dalla paura, ancor prima di rispondere alle domande poste dall’ufficiale.

    Qualcuno sosteneva che provasse piacere nel causare dolore agli altri e che per questo gli interrogatori non finivano mai, se non quando i presunti colpevoli crollavano a terra, privi di sensi. Inoltre, non mancava mai alle esecuzioni di morte, spesso determinate dalle sue inchieste, e tutte le volte mostrava un ghigno impercettibile di compiacimento.

    Chi ha visto il colonnello sparare afferma che le armi sembravano il prolungamento naturale delle sue braccia: non sbagliava un colpo e le maneggiava come se facessero parte integrante del suo corpo. Come ogni soldato, amava sparare, ma a differenza degli altri palesava un piacere perverso immaginando il dolore che ogni colpo esploso avrebbe causato al nemico. Inoltre, era un ex campione di karate e le sue mani erano tanto forti da riuscire a spezzare un braccio, tanto era potente la sua presa. Si muoveva sempre con almeno quattro uomini di scorta scelti personalmente dopo un’accurata selezione, e quando passava per le vie della città nessuno osava guardarlo negli occhi, abbassavano tutti lo sguardo per paura di attirare la sua attenzione e far scattare un interrogatorio-lampo.

    Qualcuno sosteneva che avesse sulla coscienza più vittime cubane lui che la rivoluzione stessa.

    Quel mostro era appena uscito da casa di Pedro.

    Capitolo II

    Non appena l’ufficiale si allontanò su una delle due jeep militari modello Uaz 469b che solo il suo reparto aveva in dotazione, Pedro, ancora in preda al panico, corse il più velocemente possibile verso casa. Il cuore gli batteva forte e un nodo alla gola gli impediva di deglutire. In quei pochi secondi gli passarono davanti infinite immagini di terrore, e ogni possibile scenario che si figurava nella mente lo faceva tremare e rabbrividire allo stesso tempo. Cosa poteva essere successo? Perché il colonnello era stato a casa sua?

    Non appena entrato nel suo appartamento, una voce familiare, serena e giuliva sortì l’effetto di calmarlo in un istante: «Cosa ti è successo? Sei così tanto pallido che sembra tu abbia visto un fantasma.»

    Era sua madre Alexandra, una donna avvenente, alta un metro e sessantacinque, con capelli castani ondulati che si posavano leggeri sulle spalle. I suoi occhi marroni dal leggero riflesso verde acquamarina avevano un’espressione gentile e intensamente profonda. Era di carnagione olivastra come il figlio, ma la sua pelle era tanto liscia da sembrare ambrata. La sua voce era talmente delicata e soave da ricordare il canto melodioso di una sirena.

    Il suo fascino era irraggiungibile e lasciava ammaliati tutti coloro che avevano la fortuna di incontrarla. I suoi movimenti aggraziati, lenti e sensuali non passavano mai inosservati quando passeggiava per le vie de La Habana. Aveva inoltre molto gusto nel vestire: era sempre impeccabile, elegante e ricercata, e il tutto era accompagnato dall’armonia di un trucco leggero ma efficace che risaltava al massimo la dolcezza dei lineamenti del viso. Era dotata di una cordialità unica ed era sempre pronta a regalare il suo meraviglioso sorriso al mondo. Era una donna straordinaria.

    Assieme alla sorella Juliana gestiva un piccolo banco dei fiori posto all’ingresso del Parque Central, il parco in cui si trovava la statua di José Martí, famoso poeta e scrittore di fine ottocento, considerato il più grande eroe nazionale e padre dell’indipendenza cubana.

    Il chiosco era molto piccolo, ma le permetteva di guadagnare quanto necessario per non far mancare mai nulla in casa. Amava il suo lavoro, malgrado non rendesse quanto avrebbe sperato, e compensava l’infinita fatica e lo smisurato sacrificio profusi nel condurlo con il piacere di lavorare all’aria aperta, in compagnia di sua sorella e sempre a contatto con la gente.

    Il suo banco era conosciuto da tutti nel quartiere, più per la presenza di queste due avvenenti titolari sempre solari e allegre che non per i fiori. Veniva loro comunque riconosciuto un certo talento artistico nel creare magnifiche composizioni, riuscendo sempre con la loro sensibilità a capire e a soddisfare le esigenze dei clienti che non mancavano mai di ritornare tutte le volte che ne avevano bisogno.

    Solo quando si trovava sola e protetta dalle mura di casa le capitava di mettere da parte il suo radioso sorriso e di smarrire la sua infinita allegria, cadendo in uno stato di pura sofferenza e di vero dolore nel ripensare alla disgrazia che l’aveva colpita in gioventù.

    Prima che Pedro nascesse, Alexandra aveva perso un figlio di soli cinque anni a causa di un incidente domestico. Si chiamava anche lui Pedro ed era morto precipitando dal balcone dell’appartamento in cui abitavano al tempo, posto al quarto piano di una palazzina nel quartiere El Globo, vicino all’aeroporto internazionale. Alexandra era scesa al piano inferiore per portare della frutta fresca a un’amica e il bambino, svegliatosi dal sonno pomeridiano, nel cercarla si sporse dal terrazzo e perse l’equilibrio, sfracellandosi al suolo. La madre, udendo un terrificante urlo e poi un tonfo seguito dalle grida di disperazione dei presenti, avvertì immediatamente un funesto presagio e, nell’angoscia più profonda, si affacciò dal balcone, constatando così che suo figlio era morto.

    Quella vista fu così atroce che lei stessa si lasciò cadere, attraversata dal dolore più terribile che una madre possa vivere, precipitando nel vuoto e atterrando accanto al corpo senza vita del figlioletto.

    I medici riuscirono miracolosamente a salvarla, nonostante non avesse alcuna voglia di vivere. Quel calvario venne anche aggravato dalla comunicazione da parte dei medici dell’obbligatorietà di eseguire un’ulteriore operazione per evitare di rimanere storpia, cosa che le avrebbe però impedito di avere altri figli in futuro.

    Alexandra si ribellò con forza a quella decisione, minacciando il suicidio in caso avessero preceduto. I dottori, allora, la informarono che avrebbero potuto fare anche in futuro quest’altro intervento, senza garantirne però gli esiti e sottolineando che per tutto quel periodo avrebbe sofferto dei dolori insopportabili, che probabilmente le avrebbero comunque impedito di portare a termine una nuova gestazione.

    Ma la paziente fu irremovibile, giurando sul figlio appena perso che avrebbe sopportato qualunque supplizio pur di avere un’altra possibilità. Qualunque patimento sarebbe stato nulla rispetto alla perdita appena subita. Si mostrò così risoluta che convinse i medici ad assecondare la sua volontà.

    Il tempo le diede ragione; non solo riuscì ad avere un altro figlio, ma anche l’operazione chirurgica effettuata a un anno di distanza dal parto non lasciò alcun segno, salvo una leggera cicatrice sull’anca sinistra. Come preannunciato dai dottori, soffrì enormemente per tutta la gestazione, ma fu ricompensata dall’enorme gioia che la vita le aveva di nuovo regalato.

    Non abbandonò mai il piccolo Pedro, che crebbe in un clima di protezione estrema fino all’età adolescenziale. A quel punto, come consigliato da molti, decise di lasciargli spazio per scoprire da solo il mondo, facendo in modo che si abituasse a sopravvivere senza il suo perenne controllo e consentendolo a sperimentare per prepararsi al futuro. Non fu una cosa facile accettare di lasciargli sempre più libertà e indipendenza, considerato che aveva già perso un figlio del quale si sentiva responsabile. Ogni volta che usciva da solo, Alexandra viveva in uno stato di agitazione che scemava solo al suo ritorno; nonostante fosse consapevole dell’importanza di quel percorso formativo.

    Non aveva mai sposato l’uomo con il quale aveva concepito entrambi i figli. La loro era stata una lunga relazione segreta, dovuta al fatto che probabilmente lui una moglie già l’aveva. Quello era un argomento che non si poteva affrontare in casa, forse per la sofferenza che aveva procurato ad Alexandra che, in cuor suo, sperava un giorno di poter avere accanto a sé quell’uomo. Ma come spesso accade nella vita, le promesse si rivelano solo parole al vento. Celò sempre la natura del loro rapporto, senza mai nemmeno rivelare al figlio il nome di suo padre, con l’intento di far cadere nell’oblio quell’uomo che nulla aveva a che fare con la sua famiglia e che mai ne sarebbe dovuto entrare a far parte, nemmeno nei ricordi. Alle molte domande poste dal figlio, curioso di conoscere la storia di quell’uomo, non rispose mai, scusandosi sempre per quei silenzi. L’unica cosa che rimarcò, al fine di proteggere suo figlio dal naturale desiderio di rintracciare il genitore, fu la perdita di ogni contatto con quell’uomo durante la rivoluzione cubana, forse perché fuggito in America.

    «Ti si è seccata la gola a tal punto che non riesci più a parlare?» aggiunse la madre, constatando che non aveva reagito alla sua provocazione.

    «Ho visto il colonnello Marcos uscire da casa nostra e ho temuto il peggio», confessò finalmente Pedro dopo essersi ripreso dai tremori.

    Alexandra, ascoltando quella risposta, si mise a ridere, e con voce rassicurante gli confermò: «È vero, ho avuto l’onore di ricevere il famoso militare in casa nostra e di offrire a lui e ai suoi uomini una limonata fresca.»

    Pedro, incuriosito, domandò: «Perché sono venuti a casa nostra?»

    «Li ho invitati io», replicò decisa la madre.

    «Come? Tu hai invitato uno degli uomini più pericolosi di tutta Cuba per offrirgli una limonata?» rilanciò Pedro, meravigliato e preoccupato allo stesso tempo.

    «Non esattamente», rispose Alexandra, che poi spiegò: «Ieri sera il colonnello si era fermato al banco per comperare un mazzo di fiori da consegnare a una cerimonia questo pomeriggio. Capendo l’importanza di quell’ordine gli ho consigliato di passare oggi a ritirarlo, in modo che i fiori fossero freschissimi. E siccome il chiosco il lunedì mattina è chiuso, gli ho proposto di venire a prenderlo direttamente qui a casa, dove l’ho realizzato al meglio con i fiori comprati stamane al mercato. Ne è rimasto molto soddisfatto.»

    Pedro restò in un silenzio meditativo per qualche minuto, durante il quale realizzò che quanto successo non avrebbe avuto alcuna conseguenza nefasta.

    «Non hai avuto paura?» chiese poi alla madre, mostrando tutto il terrore che quell’uomo gli incuteva.

    «Perché avrei dovuto averne? Il colonnello è un eroe al servizio del nostro Paese. Non devi

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