Ultimi uomini
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Ultimi uomini - Domenico Caputo
Caputo
JOHN FARMER
Una sera di Settembre John Farmer si sedette sulla sua porta dopo una lunga giornata di lavoro penoso, con la mente ancora più o meno rivolta alle sue fatiche. Dopo aver fatto un bagno si era assiso per ridare forma al suo uomo intellettuale. Era una sera piuttosto fresca e alcuni suoi vicini soffrivano il gelo. Egli non aveva seguito a lungo il corso dei propri pensieri quando udì suonare il flauto, e quel suono si armonizzò con il suo stato d'animo. Pensava però ancora al suo lavoro: ma di fatto sebbene questa preoccupazione lo agitasse in verità lo riguardava pochissimo e contro la sua volontà si ritrovò a fare altri calcoli e progetti. Era proprio come la forfora che si staccava continuamente dalla sua cute. Ma le note del flauto arrivavano dritte dritte alle sue orecchie da una sfera differente da quella in cui egli lavorava, e risvegliavano certe facoltà che erano in lui assopite. Lo facevano dimenticare e lo trascinavano fuori dalla strada del villaggio e dallo Stato in cui viveva.
Una voce gli disse: «Perché stai qui e vivi questa vita misera e piena di stenti, quando ti sarebbe possibile condurre un'esistenza gloriosa? Queste medesime stelle scintillano sopra campi diversi dai tuoi». Ma come uscire da questa condizione ed emigrare realmente laggiù? L'unica cosa che egli poté immaginare fu di mettere in pratica una nuova austerità; lasciar discendere la sua mente sul suo corpo e redimerlo, e trattare se stesso con un rispetto sempre maggiore.
(Henry David Thoreau, Walden ovvero Vita nei boschi - Leggi più alte)
PROLOGO
Era successo tutto sotto i miei occhi. Le lacrime che scorrevano lungo il mio volto sembravano evaporare per via del calore eccessivo. Ero intrappolato, immobile, una nullità. Non ero capace di comandare il mio corpo, e reagire.
Lui aveva una morsa possente. Le sue grosse mani callose e sporche di sangue, del mio sangue, mi bloccavano lungo le spalle mentre la sua bestia mi faceva da guardia standomi di fianco, impassibile, e pronta ad attaccare a ogni mio passo falso. Un demone incarnato nella forma di un cane. Leggeva nella mia mente controllando anch'essa. Il vento di Ottobre alimentava le fiamme che si alzavano prepotenti in alto nel cielo. Le foglie degli alberi trasportate dal vento s'incendiavano ancor prima di essere avvolte dalle fiamme, un calore assurdo e un fumo nero intrinseco di legna e plastica e ferro e carne penetrava nel mio naso donando un senso di nausea.
Ma ciò che rendeva straziante quel rogo erano le urla.
Il rogo era un furgone con all'interno le persone a cui tenevo di più su questa terra. Le urla di mia moglie aumentavano col dolore provocato dalle fiamme. La sua pelle si scioglieva mentre cercava invano di fuggire graffiando e sbattendo pugni e corpo contro le pareti del furgone. Immaginavo i suoi occhi che fissavano i miei perdere la loro vitalità, diventare vitrei, perdere il loro colore, la loro anima, e io perdevo la mia a ogni sua straziante richiesta di pietà, e ancor peggio di aiuto da parte mia.
Ancora più devastanti erano le urla di mia figlia. Anche lei invocava il mio nome con una voce tremante e pressoché già morta. I suoi lunghi capelli setosi che tanto mi piaceva accarezzare furono carbonizzati in una manciata di secondi. Le sue piccole mani con cui stringeva le mie, divelte dalla loro pelle, così come tutto il suo piccolo corpo.
L'uomo con la maschera fissava il mio volto. A lui non importava guardare l'opera appena compiuta. Traeva benessere nel guardarmi soffrire. Mi stava punendo per avergli portato via una sua anima. Con le braccia conserte restava immobile a fissarmi poggiato contro il suo pick-up. Non mi avrebbe ucciso. Sarebbe stato un premio eliminarmi, per unirmi ai miei cari. No! Io dovevo portare con me quel ricordo, quel massacro. Era la mia punizione e anche un modo di mostrarmi la sua arte. Devastare le vite dipingendo uno scenario raccapricciante da portare per sempre nella mente.
Le urla smisero gradualmente, seguirono solo altri deboli e insignificanti colpi contro le lamiere, poi solo il fuoco.
Altri due uomini al suo fianco presero dai sedili posteriori dell'auto degli estintori e cominciarono a spegnere le fiamme.
Mi chiedevo dove fossi, perché nessuno veniva in soccorso, perché nessuno si era accorto del fumo. Perché eravamo abbandonati in questo mondo così piccolo?
Il furgone era completamente carbonizzato. Nonostante le fiamme fossero state spente emanava un forte calore. Uno dei due uomini tornò al pick-up e dal retro tirò fuori un piede di porco. Indossò una tuta ignifuga e, portandosi sul retro del furgone, forzò l'apertura. Le due porte caddero sotto l'effetto del calore eccessivo. L'uomo alle mie spalle, la montagna che mi stringeva nella sua morsa, affondò con più forza le sue dita pressandomi verso il terreno, era arrivato il momento più atteso.
L'uomo poggiato al pick-up con le braccia conserte s'incamminò nella mia direzione. Aveva un passo lento e sicuro. La testa ben alta e un portamento spavaldo. Se solo avessi avuto la possibilità di vedere il suo volto, di poter stampare la sua faccia nella mia mente. L'avrei cercato in tutto il mondo e l'avrebbe pagata.
S'inginocchiò mettendosi alla mia stessa altezza. Nella mano sinistra stringeva uno strano oggetto d'oro. Con l'altra accarezzava l'ispido pelo della bestia al mio fianco. Io fissavo i suoi occhi. L'unica parte del suo volto visibile. Quello sguardo non l'avrei mai più dimenticato. Gli avrei cavato quegli occhi indemoniati e privi di senso.
«So a cosa pensi!» pronunciò mantenendo il contatto visivo.
«Vuoi uccidermi, vuoi vendicarti anzi, vorresti cavarmi gli occhi! ...perché sono l'unica cosa del mio volto che riesci a vedere. Ma vedi, non puoi.»
L'uomo col piede di porco utilizzò la parte uncinata dell'arnese per arpionare uno dei due corpi all'interno del furgone per trascinarlo fuori. Il corpo di mia moglie fu scaraventato sulla terra carbonizzata. L'altro uomo raffreddò il suo corpo con l'estintore e infine lo adagiò su un telo di plastica per poi trasportarlo davanti ai miei occhi.
La sua faccia era deforme. Nera, come la mia anima. Non era più la donna che conoscevo, ora era un ammasso di carne carbonizzata. L'odore era nauseabondo. Non resistetti e vomitai. Le lacrime avevano bagnato anche i miei vestiti e la mia testa iniziò a vorticare velocemente.
Fui riportato alla lucidità all'istante perché l'uomo vicino al furgone prese l'altro corpo. Questa volta non usò il piede di porco ma entrò all'interno e caricò sul suo corpo quel che restava di mia figlia, per poi gettarlo sul terreno di fianco a sua madre.
Era un dolore inspiegabile. Il mio cuore pulsava sangue all'impazzata, ero sull'orlo di un infarto. Le mie mani erano tremanti, sudavo freddo e il respiro divenne irregolare. Ero in preda al panico. La montagna alle mie spalle cambiò presa, portando il suo braccio al mio collo come per strangolarmi.
«LASCIAMI ANDARE!... ti prego!» gridai supplicandolo.
Cercavo in tutti i modi di divincolarmi da quella morsa, mentre lui assisteva alla mia patetica prova di evasione. Gioiva del mio dolore.
Cercavo in tutti i modi di toccare il corpo di mia figlia, di portela aiutare.
Aveva gli occhi sbarrati ed era tutta carbonizzata. La sua pelle ribolliva.
Ma respirava ancora!
«Perché tutto questo? ...Perché?»
Ero distrutto dal dolore. Vedevo il suo piccolo corpo agonizzante morire a pochi centimetri da me.
«Tu sai il perché. Uccidere uno dei nostri non è stata un'ottima idea.»
«Ma chi diavolo siete?»
Si sollevò dalla sua posizione, si sgranchì la schiena e infine diede il colpo di grazia alla mia vita.
Con un calcio picchiò la testa carbonizzata di mia figlia, terminando la sua agonia.
«Noi sappiamo chi sei, cosa fai, dove vai e chi frequenti. Se voglio, riesco a sapere anche quante volte vai in bagno. Uccidere uno dei nostri equivale a essere punito. Spero che questo scenario ti rimanga impresso nella mente per l'eternità.»
Ascoltai quelle parole fissando i due cadaveri davanti al mio volto. Il dolore si era tramutato in rabbia, sentivo il mio corpo reagire. Ero solo al mondo. Ero già morto, ma loro non lo sapevano.
«Ti ucciderò!»
L'uomo in maschera si chinò.
«Come, prego?» chiese incredulo.
Alzai lo sguardo per guardarlo dritto negli occhi.
«Ho detto... che ti ucciderò.»
«Ma davvero? Allora la lezione non ti è bastata?» disse prendendomi per i capelli e portandomi a pochi centimetri dal suo volto.
«Allora vuoi davvero che altra gente muoia per mano tua?!»
Ero in preda alla rabbia e se avessi avuto un coltello tra le mani, in quell'istante gli avrei aperto la pancia in due.
«Sarò il tuo incubo peggiore, sarò l'errore più grande della tua vita, io sarò quello spettro che ti farà impazzire, fino a che non ti taglierò la gola e avrò la tua testa tra le mani.»
L'uomo che mi teneva stretto nella sua morsa mi lasciò. Per un attimo sentii di nuovo il mio corpo libero, ma non durò molto. Mi colpì alla testa.
Tutto attorno a me divenne scuro.
CAPITOLO 1
Perugia
Sedeva tranquillo sulla sedia della cucina. Dietro di lui il suo seguace. Oltre la maschera fissava l'uomo davanti a sé che impugnava un enorme coltello da cucina.
Tremava dalla paura. Sudava freddo e quel coltello faticava a prendere la mira. Lei tornò dalla camera dei bambini. Stringeva tra le braccia un fagotto che si muoveva timidamente.
«Stava dormendo» annunciò. «Appena vista la maschera ha creduto fossi un gioco» continuò giocando con il neonato.
«L'altro non c'è?»
«No, c'era solo lui.»
Lui annuì.
Sua madre iniziò ad agitarsi. Legata a una sedia e imbavagliata non poteva fare altro che assistere a quello che stava accadendo. Cercava di dimenarsi per liberarsi e strappare dalle braccia di quella donna il suo piccolo, il suo sangue, la sua vita. Sforzi inutili. Pure nell'eventualità che ci fosse riuscita, il seguace era pronto a rimetterla a posto con i suoi modi.
Tutto era pronto. Poteva cominciare.
«Sei pronto, Alfonso Rossi?» pronunciò con la sua voce calma e sicura nei confronti dell'uomo col coltello.
Alfonso alzò lo sguardo verso l'uomo che lo aveva nominato. Era bianco in volto e per niente ''pronto''.
Scosse la testa piangendo.
«Cosa... volete da... me?» Rialzò il volto mostrando il viso bagnato dalle lacrime.
«Cosa vogliamo?» domandò poggiandosi con la schiena sulla spalliera della sedia.
«Hai fatto propaganda contro di noi per mesi e mi chiedi cosa vogliamo? Non far finta di nulla, Alfonso. Non prendermi per uno stupido.»
«Ho parlato delle maschere solo per prendere voti.» Tentò di sminuire. «Non... non avevo alcuna intenzione di mettermi contro il vostro ordine.»
Lui si portò una mano sul collo e strofinò la pelle emanando un sospiro. Poi scosse la testa rassegnato.
«Questo ci prende per stupidi» disse guardando la donna in maschera. Aveva un tailleur nero, magra e alta. Il volto nascosto dalla maschera bianca da cui s'intravedevano i lunghi capelli castani. Stringeva ancora il neonato sotto gli occhi spaventati della madre che non aveva per un attimo distolto lo sguardo.
«Ammazziamoli il figlio, Sacerdote. Così capisce con chi ha che fare» propose il seguace, strusciando le sue untuose mani. Anche lui portava un vestito nero e una maschera in volto.
«Shhh!» fece tacere il suo uomo. «Tutto al suo tempo.» Poi tornò su Alfonso Rossi.
«A ogni azione corrisponde una reazione, Onorevole Alfonso Rossi. La tua politica ha causato gravi problemi alla mia confraternita e io sono venuto da te per esser ripagato di quel danno. Due miei uomini sono stati uccisi per la tua politica.»
Fu interrotto dall'onorevole.
«E tu li chiami uomini quelle due bestie che hanno ammazzato??? Hanno violentato e ucciso una donna anziana e io dovrei pagare per loro? Sei fuori per caso?» annunciò con rabbia guardando nella fessura della maschera da dove spuntavano gli occhi del Sacerdote.
«Quelli, che tu chiami bestie erano uomini. Uomini veri, senza regole imposte, senza legami, liberi. Le loro menti erano pure. Nuove leve per il nuovo mondo» disse puntandogli l'indice contro. «Le vostre regole, i vostri schemi, le vostre paure me li hanno portati via... e ora voglio essere ripagato del danno ricevuto.»
«Quanti soldi vuoi? Ho tutto il denaro che può servirti e posso dartene altro. Toglimi questo coltello dalle mani e saprò ripagarti. Ma liberami e andatevene» implorò con gli occhi spalancati sperando in un accordo.
Lui scosse la testa, poi sbatté un pugno contro il muro vicino a sé provocandosi un taglio, da cui iniziò a fuoriuscire sangue. Alfonso rimase a bocca aperta. Sua moglie, per la prima volta dall'inizio di quell'incubo distolse lo sguardo per guardare quell'uomo, che ammirava la sua mano sinistra, con un buco nel palmo, tra l'indice e il pollice, con un rivolo di sangue che colava.
«Voi uomini di un mondo falso, credete che tutto si risolva col denaro. Il denaro, che vi fa sentire appagati, che vi fa dannare l'anima. Una bugia raccontata sin da bambini per inglobare le menti. Marionette del nulla. Non siete nient'altro che la solita storiella triste che si racconta da secoli. Poveri nello spirito e dall'esistenza vuota. Alla ricerca di una cometa immaginaria e irraggiungibile.»
Prese un fazzoletto dalla tasca della sua giacca e avvolse la mano insanguinata.
«Prendi quel coltello Alfonso e pugnalati a morte, o saprò vendicarmi a dovere.»
Alfonso restò senza parole. Guardò quel coltello tra le sue mani e il suo tremolio sembrò aumentare.
«Non...non ci...» Ma fu subito interrotto dal Sacerdote.
«Mia signora, prendi quel bambino e uccidilo» ordinò alla donna in maschera, che si avviò verso la cucina, poco distante da loro.
«NO, NO FERMATI, TI PREGO!!!» implorò lui cadendo dal divano dov'era seduto. Sua moglie piangeva per la disperazione per quel senso d'inutilità che la travolgeva. Legata a quella sedia non poteva fare nulla per il suo bambino.
Lui fece segno alla donna di fermare l'esecuzione.
«Ucciditi!» ordinò nuovamente.
Alfonso si rimise a sedere, guardando il coltello