L’eroe di Eleanor: Natale in città, #2
By Jill Barnett
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About this ebook
Un classico racconto natalizio ambientato a New York a fine 1800. Alla morte di suo nonno, la 40enne Eleanor Austen è costretta a trasferirsi in un appartamento all’ultimo piano dell’edificio che avevano affittato a una palestra rumorosa di proprietà di un rinomato pugile irlandese, il 32enne Conn Donnoughue. Durante un mese di dicembre innevato e magico, due cuori solitari potrebbero scoprire di avere in comune molto più di quanto pensavano…
Dall’autrice Jill Barnett, più volte in vetta alle classifiche del New York Times e già pubblicata in precedenza da Mondadori, ecco un racconto incantevole ancora inedito in Italia.
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L’eroe di Eleanor - Jill Barnett
L’EROE DI ELEANOR
di Jill Barnett
––––––––
Traduzione di Isabella Nanni
Capitolo Uno
New York City, 1898
Conn Donoughue aveva un gancio destro forte come una pinta di birra irlandese. Per dieci anni aveva vissuto grazie ai suoi pugni, combattendo contro avversari che – quando si svegliavano – dicevano che aveva spalle larghe come due pianoforti messi insieme. E i suoi pugni? Giuravano che non li avevano nemmeno visti arrivare.
Quando era salito sul suo primo ring, nessuno sapeva chi fosse Connaicht Tobias Donoughue. Fino a quando aveva cominciato a combattere. Da quel momento nessuno si scordò più l’uomo che avevano soprannominato il Gigante Irlandese.
A dodici anni Conn era già più alto di un metro e ottanta e poteva appoggiare il gomito sulla testa di sua nonna mentre lei lo guardava da sotto in su senza sentirsi intimidita, come se suo nipote non fosse alto il doppio di lei. Gli faceva sempre delle gran ramanzine agitandogli un dito bitorzoluto davanti al mento. Il tema erano sempre i tre grandi Valori: Paradiso, Inferno e Lavoro Duro. Negli anni successivi Conn divenne ancora più alto, tirato su a storie della fuga dei suoi nonni dalla povertà di massa in Irlanda alla terra promessa in America, dove c’era la possibilità di rifarsi una vita.
Sua nonna morì nell’83, quando Conn lavorava quattordici ore al giorno in una fabbrica di carrozze. A 10 anni aveva fatto il garzone con il compito di portare secchi d’acqua per raffreddare il ferro incandescente dei cerchioni delle ruote. Otto anni più tardi, guadagnava cinque dollari a settimana per sovrintendere l’enorme macinatrice da cui tiravano fuori le aste di trasporto. Il lavoro duro non lo spaventava. Non era mai in ritardo e non era mai stato assente dal lavoro.
Due mesi dopo che Conn aveva seppellito sua nonna, la fabbrica cambiò proprietari. Il nuovo proprietario licenziò tutti gli Irlandesi e rifiutò di pagare loro la paga settimanale. Il giorno successivo i lavoratori si radunarono alla fabbrica per esigere di essere pagati.
E quel giorno cambiò la sua vita – perché il primo combattimento di Conn fu con un gangster assoldato dal proprietario che bloccava l’ingresso alla Fabbrica di Carrozze Tanniman. Conn vinse l’incontro insieme ai soldi delle paghe arretrate di tutti gli operai irlandesi.
Il suo secondo combattimento fu due sere più tardi, quando si batté contro un pugile del posto in uno sterrato dietro la Taverna O’Malley dove il ring era stato ricreato con delle corde sulla ghiaia. Il suo terzo incontro fu in un pascolo per mucche fuori Hoboken. Di taverna in taverna era girata voce del nuovo pugile gigante. C’era una folla di trecento persone al pascolo. E quando l’incontro finì, Conn aveva un nuovo lavoro.
Nel corso dei dieci anni che seguirono, il Gigante Irlandese divenne una leggenda del pugilato. Aveva perso il conto del numero di combattimenti cui aveva partecipato. Il numero non importava. Ma c’era una cosa che non perdeva.
Connaicht Tobias Donoughue non perdeva mai un incontro.
La Palestra del Gigante aveva sede nel cuore di New York. Ubicata all’interno di un edificio di mattoni di tre piani con una scala antincendio esterna nera in ferro che faceva zigzag sulla facciata a est come le cicatrici di uno schermitore, la palestra s’incuneava tra la Stivaleria Su Misura di Pasterini e la Compagnia dei Sigari Cubani. Pasterini aveva un’insegna singolare a forma di stivale e una tenda parasole che riproduceva i colori della bandiera italiana. Un’altra insegna a bandoliera di porcellana era fissata sulle pesanti porte del negozio di sigari, dove si affermava in caratteri dorati che Havana vendeva i migliori cubani degli Stati Uniti.
La stradina era un’accozzaglia di esercenti e negozi, la maggior parte con alloggi e molteplici appartamenti ai piani di sopra. Nessun edificio era della stessa altezza o dello stesso stile degli altri. Ognuno aveva una personalità unica e diversa, come quelli che ci lavoravano e vivevano.
In omaggio al periodo natalizio, la vetrina di Pasterini che dava sulla strada aveva un presepe fatto di vera pelle di alligatore allestito all’interno di una mangiatoia di cuoio. Il negozio di sigari aveva optato per decori più tradizionali. Scatole di sigari fatti a mano importati e tabacchi esotici dai nomi altisonanti come Fiamma dell’Oasi e Spezia Spagnola erano in mostra all’interno di scatole di latta rossa scintillanti decorate con profili femminili o inseriti in contenitori per sigari di ebano intagliato con coperchi in argento.
Il macellaio del Tedesco aveva in vetrina un albero di Natale di piume d’oca patriotticamente tinte di rosso e blu, abbinate al bianco naturale, e l’albero era addobbato con ornamenti a stelle e strisce. Anziché con un angelo, la cima dell’albero era agghindata con una figurina di cartone dello Zio Sam. Un nastro largo quanto la fascia della vincitrice del concorso Miss Ponte di Brooklyn andava da una parte all’altra dell’albero pubblicizzando bistecche di carne bovina, polli freschi e ben nutriti e le migliori oche che si potessero trovare sul mercato per il pranzo di Natale.
Per tutto il quartiere erano stesi moderni fili della luce e del telefono, tessuti insieme come reti da trapezio del circo Barnum, tesi tra i vecchi pali di ferro battuto delle strade. Per cercare di celebrare le festività, dopo il Giorno del Ringraziamento qualche anima pia aveva annodato ai pali svariati nastri scintillanti rossi e verdi. Adesso, qualche giorno dopo, a seguito della pioggia e della grandine della sera prima, i nastri ormai fradici erano a terra ai piedi dei pali della luce in attesa che passasse lo spazzino a raccoglierli.
Non c’erano ghirlande natalizie all’ingresso della palestra. Nessun ramo di agrifoglio o corona di sempreverde. Solo una grande vecchia porta di assi di pino con tre crepe – una fatta da Murray Ryan quando aveva provato a tirare un pugno a Otto Rhinehold e lo aveva mancato. Le altre due risalivano a quando la vecchia signora Fogarty aveva tirato dietro delle bottiglie di whiskey a suo marito Duncan quando si era dimenticato di tornare a casa per una settimana.
L’ingresso era scuro e rovinato dall’umidità, con gradini di cemento e un corrimano di ferro che era ancora piegato nel punto in cui era stato colpito da un carro di ghiaccio che aveva perso il carico. Dentro era meglio. Gli atleti che entravano erano accolti in un vasto atrio con annesso banco di ricevimento in muratura.