La Mano
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La Mano - Cenzie Loparco
manchi.
CAPITOLO I
Quell’estate fu particolarmente rovente. Il caldo torrido, accompagnato da un costante vento infuocato, seccava tutto. Ogni filo d’erba aveva ormai raggiunto la caratteristica colorazione nero-giallognola della morte, e i cani, con la lingua penzoloni e in perenne affanno, se ne stavano riparati in posti improbabili, per trovare invano un po’ di frescura.
Anche ai ragazzi mancava la grinta necessaria per imbarcarsi in avventure folli e divertenti. Tutto il giorno erano confinati nelle loro case, le cui antiche e spesse mura riuscivano a mitigare in qualche modo quel caldo opprimente. Uscivano per strada nelle prime ore del mattino, quando il fresco della notte non aveva ancora ceduto il passo al calore del giorno e nel tardo pomeriggio, quando il sole si preparava a calare. Si incontravano all’angolo della piazzetta del quartiere, gironzolando annoiati senza meta.
«Che si fa domani?» chiese Vittorio, le mani in tasca e il passo strascicato.
«Io proporrei di andare al bosco delle rose» rispose Salvo, che si era seduto sull’estramurale che delimitava il centro storico.
«Ma sei matto?» gli disse Andrea «Non vedi che caldo alle nove di sera? Figuriamoci domattina.»
L’altro lo guardò con disprezzo. «E cosa vorresti? Continuare a stare chiuso come un topo nella tua bella casa, con l’aria condizionata a manetta fino al tramonto? Dai, non rovinare tutto. Domani alle sei prendiamo le bici, qualche bottiglia d’acqua, passiamo al bar di Ciccio, facciamo colazione coi cornetti, ci compriamo quattro panini e andiamo in perlustrazione.»
Anche gli altri furono d’accordo e quella sera progettarono la grande avventura che li avrebbe attesi l’indomani.
«Ma proprio al bosco delle rose dobbiamo andare?» chiese Andrea petulante. «Non ci sono mai stato, ma so per certo che è lontano.»
Gli altri lo zittirono: «Si va al bosco delle rose. Anche noi non ci siamo mai stati e direi che questa sia la volta buona. Lo sapevate che la zona del bosco è stata transennata e chiusa al pubblico da molto tempo? Dicono che l’antico convento sia pericolante, ma io credo che ci sia nascosto un tesoro e che la sovrintendenza se lo voglia tenere tutto per sé. Lenti come sono a reperire i fondi necessari agli scavi, passeranno minimo dieci anni prima che quelli tornino per mettere mano alla zona. Vi ricordate ciò che accadde quando scavarono nella contrada di fontana Le Torrette? Portarono alla luce un antico tempio, recintarono tutta l’area, misero un lucchetto e chi s’è visto s’è visto. Ora non ci sono che erbacce e degrado. Immaginate per un secondo se fossimo noi a trovare qualcosa di bello: diverremmo famosi e forse pure ricchi! Ci chiamerebbero nelle trasmissioni televisive, ci inviterebbero all’estero, magari proprio negli Stati Uniti. Incontreremmo gente famosa, poi, fighi come siamo, ci proporrebbero sicuramente di partecipare a un reality o a un film con attrici bone e formose …»
Salvo era perso nei suoi sogni a occhi aperti. Solo Andrea non era impressionato dai suoi discorsi e scuotendo la testa, saltò giù dal muretto. Incamminandosi verso la piazza disse: «Ok Riccardo Scamarcio dei bassifondi, verrò con voi, ma solo per farvi un piacere. Adesso, perché non andiamo alla sala giochi di Gaetano? Prendiamo una coca cola e ci facciamo una partita a biliardino. Tranquilli, pago io.» aggiunse sorridendo, ben sapendo che gli amici non disponevano di paghette settimanali laute come la sua. La sala giochi di Gaetano era formata da un ampio salone con tre tavoli da biliardo dal prezioso panno verde, interdetti a ragazzini come loro. Qui venivano disputate interminabili partite tra i soliti avventori, giovani e meno giovani, che preferivano trascorrere il tempo lì dentro, soprattutto per il refrigerio dell’aria condizionata. C’erano un paio di videogames di ultima generazione, che simulavano la guida su un circuito automobilistico e due biliardini, solitamente presi d’assalto dai ragazzini della loro età. Gli altri furono d’accordo e correndo verso la sala giochi, lasciarono Salvo indietro. Si alzò anche lui e raggiunse di corsa gli amici.
Da Gaetano seguirono la partita a biliardo fra la star locale, Tonino U’ Dannat, un quarantenne secco che nella vita sembrava non fare nient’altro che giocare, e uno di fuori, un certo Alessandro Stecca d’oro. Riuscirono infine a impossessarsi di un biliardino, e fecero un paio di partite prima di congedarsi.
L’indomani, alle sei in punto, c’erano tutti: Salvo con la sua bici sgangherata e lo zainetto in spalla, Andrea, il perfettino, con il cappellino all’ultima moda e le scarpe firmate, Nino ancora mezzo addormentato e Vittorio, il più corpulento della banda, con le bottiglie d’acqua posizionate strategicamente sul portapacchi della sua bici sportiva.
La cittadina lentamente si svegliava, con la maggioranza degli agricoltori ormai nei campi e gli operai delle vicine fabbriche manifatturiere a sorseggiare un caffè, prima dell’inizio del turno di lavoro.
L’aria conservava ancora quella tipica freschezza che le prime ore del mattino portano con sé, ma già si presagiva che anche quel giorno sarebbe stato di fuoco.
Il gruppetto si diresse al bar di Ciccio, un localino situato al centro del paese, con all’esterno una decina di tavolini dove gli avventori potevano consumare le loro ordinazioni stando comodamente seduti. Internamente l’esercizio commerciale non era un granché, con i suoi poster raffiguranti star hollywoodiane degli anni cinquanta e un bancone nero, con qua e là dei richiami bianchi che si intonavano con i piccoli divanetti dello stesso colore, posti nella parte più nascosta del locale e gli sgabelli da bar anch’essi neri e bianchi. Ai giovani il locale piaceva perché aveva un enorme televisore al plasma dallo schermo gigante, solitamente sintonizzato su un canale di video musicali o sulla pay tv per le partite di calcio.
Dopo essersi seduti fuori e aver consumato una lauta colazione, i ragazzi, in sella alle loro bici, imboccarono la strada ripida che nei secoli passati aveva visto tanti asini e cavalli entrare per l’antica porta del paese, ultima testimonianza dell’antica cinta muraria. Pedalarono di gran lena oltrepassando i campi gialli, ormai mietuti da qualche settimana e quelli verdi di pomodori che, a causa dell’umidità notturna, emanavano quell’odore caratteristico così caro a Salvo. Dopo un po’ di chilometri si fermarono. Sebbene il sole non fosse ancora alto nel cielo, faceva già caldo e loro sudavano copiosamente.
«Quanto manca alla meta?» chiese Vittorio ansante, porgendo una delle bottiglie agli amici, che grati ne bevvero a turno.
«Ci siamo quasi» lo rassicurò Nino. «Se non mi sbaglio, dobbiamo svoltare al prossimo tratturo che incontreremo. Ci dovrebbe essere uno di quei cartelli turistici di colore marrone.»
«Non è che ci giochiamo le gomme alle bici?» chiese allarmato Andrea, che non aveva minimamente voglia di tornare a casa a piedi per quelle strade pietrose e polverose. Temeva infatti che le sue preziose scarpe firmate potessero rovinarsi.
Gli altri, ignorando le sue rimostranze continuarono dritto, finché non scorsero il cartello turistico.
Imboccarono il sentiero utilizzato fino al secolo scorso dai pastori per la transumanza delle pecore e delle mucche.
«E vai!» esclamò Nino accelerando. «Chi resta indietro è un perdente!»
Finalmente giunsero al famoso bosco delle rose. In realtà del bosco non erano rimasti che pochi alberi, tutt’al più avrebbe potuto essere una radura, e delle rose, che in tempi antichi le avevano dato il nome, non v’era più traccia.
«Tutto qui?!» esclamò Andrea deluso.
Anche gli altri erano alquanto insoddisfatti, ma Salvo non voleva darsi per vinto.
«Ma no sciocchi» disse deciso. «Non vedete che dobbiamo proseguire per quella stradina accidentata? Ora lasceremo le bici al riparo e avanzeremo a piedi. Non ho ancora scorto le transenne.»
«Ci manca solo che qualcuno passi da queste parti e ci freghi le bici.» brontolò Andrea. «Voi avete dei vecchi catorci, ma lo sapete quanto è costata la mia mountain bike?»
«No, e non ce ne frega niente! Avanti, andiamo.»
E così il gruppo, in un’approssimativa fila indiana, proseguì la marcia per il sentiero scosceso e sassoso. Più di una volta rischiarono di ruzzolare a terra. La passeggiata, complice la lussureggiante vegetazione che costeggiava la stradina e che impediva ai raggi di sole di trapassarla, dava a tutti una piacevole sensazione di freschezza.
«Non pensavo che ci fossero tanti alberi e arbusti.» osservò Vittorio.
«In realtà, se guardi bene, la vegetazione costeggia solo la stradina, oltre vi è il nulla. Comunque meglio per noi, almeno stiamo al fresco.» disse Andrea prendendo un lungo sorso d’acqua dalla bottiglia.
Dopo una curva il sentiero si interruppe improvvisamente e i ragazzi videro le transenne arancioni.
«E adesso che si fa?» chiese Vittorio, stanco di portarsi dietro le bottiglie d’acqua e ansioso di mangiare il delizioso panino alla mortadella preparato da Ciccio.
«Si continua.» rispose Salvo perentorio. «Non ci faremo fermare di certo da questa ridicola recinzione, specie dopo tutta la strada che abbiamo fatto. Coraggio ragazzi, oltre le transenne c’è un tesoro ad attenderci!»
In realtà, per quanto ridicola, la recinzione non aveva appigli che permettessero di scavalcarla, per cui poteva diventare davvero un ostacolo invalicabile.
La perlustrarono palmo a palmo e Nino scorse una parte che era stata tagliata con delle cesoie.
«Per di qua!» esultò trionfante. Gli altri lo raggiunsero e seppur con qualche difficoltà riuscirono a entrare.
«Ci hanno preceduti» sussurrò Andrea guardandosi intorno circospetto. «E se ci fosse qualcuno?»
Gli altri lo guardarono con scherno e senza rispondergli, entrarono.
A un centinaio di metri si ergeva triste l’antico monastero, ormai ridotto a una penosa ombra di ciò che fu,