Un labirinto in mare
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Le due vicende s’intrecciano su una tela di parole, raccolte nel labirinto del Minotauro, mentre il pericolo si avvicina all’isola.
Quel che è stato ritorna, in forma differente, nelle esperienze del giovane e nei ricordi del vecchio.
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Book preview
Un labirinto in mare - Matteo Pizzolante
ali.
Capitolo 1
La cesta
Due mani.
Sono due mani di vecchio, che ne hanno viste molte di mani e di avventure. Mani che sin da piccole hanno lavorato: falciato spighe, battuto crusca, impastato pane, issato vele, scavato buche, calato cadaveri.
Due mani veloci, ma senza fretta, rattoppano uno strappo nella rete.
La piccola vela quadrata e bianca accoglie il vento di mare, il cui odore è sempre identico, se sei abbastanza lontano dalla costa o se non incappi in corpi morti alla deriva. Odore di mare, che è tutto e nulla: sale. I gesti sono piccoli e precisi, le pieghe della pelle raggrinzita si susseguono e si trasformano al gioco delle articolazioni, a volte doloranti ma non oggi: oggi non ci sono i dolori del vecchio, solo la sua esperienza e il lavoro procede spedito. Non c’è nessuno a remare, non serve: la piccola barca è sospinta dal vento, il timone è bloccato da una fune che da un lato all’altro della carena lo stringe proprio al centro. Nella peggiore delle ipotesi il vento cambia direzione, le mani lasciano la rete, riposizionano l’asse del timone nel giro del nodo per poi tornare alla rete, ai gesti semplici e metodici delle mani di un vecchio che hanno visto molte mani e molte avventure.
Il rumore della sabbia e dei ciottoli sotto la carena è una parentesi per l’udito, interrompe l’infrangersi caotico e ritmato delle onde, sottolinea il vociare di ragazzi sulla spiaggia. È un fruscio regolare e secco che si accompagna alla vista degli ulivi all’orizzonte.
Le mani del vecchio prendono due ceste di vimini, di identica fattura ma una delle due è più profonda, mentre l’altra è di poco più stretta e bassa; la trama erosa dal sale scintilla sui punti di maggior usura e scricchiola per l’attrito tra le fibre. È un suono che il vecchio percepisce con le sole dita, poiché il vento lo trascina via, impastandolo con la voce del mare. Infilate l’una nell’altra sembrano un’unica cesta: in quella più profonda ripone i pesci migliori, adagiandoli con cura, ordinati, per risparmiare spazio e formare una superficie quanto più regolare possibile. Vi infila poi la seconda, nella quale ripone i pesci più piccoli e squallidi. È noto per essere un pescatore sfortunato ma anche un gran maestro nel vendere: pesca sempre pochi e miserevoli pesci, eppure torna dal mercato sempre soddisfatto.
Semplicemente è un vecchio che, come le sue mani, ha conosciuto molte mani e molte avventure.
Questo ne fa anche un imbroglione, probabilmente, ma non si arriva innocenti alla vecchiaia.
La strada che dalla spiaggia porta al villaggio si snoda tra la costa chiara e l’ombra degli ulivi. Il vecchio percorre quella strada da diversi anni, molti potremmo dire, eppure sono pochi in confronto alla sua età. La percorre da anni, in media quattro volte a settimana, per portare il suo pesce al mercato del porto.
Evita le assemblee e le cerimonie religiose, quest’isola non è la sua, la vita di quest’isola non lo riguarda: quel che conta è che nessuno abbia mai fatto troppe domande sul passato di questo vecchio, a nessuno fra gli abitanti sembra importare poi molto da dove venga e cosa facesse un tempo: il vecchio è un solitario che parla poco e con poche persone, se ha qualcosa da nascondere lo fa molto bene e da parecchi anni.
Alla sua sinistra, fuori dalla strada polverosa di tufo e pietrisco, la terra rossa cede lentamente il passo ai sassi e questi vanno facendosi pian piano minuti, piccini, ciottoli, sassolini, sabbia. Poi inizia il mare che quando vuole tutto ingoia e molto dà, a chi lo sa prendere. A volte lo dà traendolo dalle sue viscere liquide: tonni, cernie e piccoli carangidi, alici, alilunghe, aguglie, alacce… Altre volte lo porta su una nave come fosse su un vassoio ma in tal caso solo i pirati possono servirsene, e in mare tutti sono pirati, a seconda dell’inclinazione, dell’occasione e degli strumenti a disposizione.
Sotto un muro di pietra due ragazzini giocano abbozzando disegni nella polvere con un ramo spezzato. Lanciano due sassi a testa, poi un dado ciascuno, a volte ridono e tracciano segni. Uno dei due solleva lo sguardo.
«Buon giorno Ipnomaco» quasi sussurra.
Le labbra del vecchio rispondono: «Buon giorno», e sanno che è un saluto che non vuol dir nulla, un augurio buttato alle ortiche, in una vita che potrebbe concludersi in qualsiasi istante e che per le indecifrabili volontà degli Déi potrebbe estendersi oltre l’opportuno. Ma che lo faccia davvero, che si estenda effettivamente oltre l’opportuno, lo pensa solo quando le mani gli dolgono e non riesce a piegare le dita. Oggi non è così: oggi, buon giorno
, è semplicemente qualcosa di ovvio da dire per scongiurare il silenzio. Essere intelligenti è faticoso, e dopo una mattinata di pesca non ne ha proprio le energie. Energie che serviranno.
Infatti, giunto al mercato, nel bel mezzo delle trattative, quel tirchio di Philaretos s’era permesso di portare il valore del suo pesce a otto dracme e mezzo per una mina! E volendo pure toglierne le interiora! Povero scemo, per avvalorare la sua tesi aveva preso uno dei pesci più striminziti e l’aveva sventolato davanti a tutti, lanciandolo infine come un sasso da una fionda.
«Al più van bene per far puzzare i Persiani!» aveva sentenziato con aria spavalda.
Senza scomporsi le vecchie mani avevano mutato la trama delle cicatrici, rapidamente, estraendo dalla cesta nascosta – quella più grande, celata da quella piccola – un pesce dal peso di almeno una mina:
«Questo è il pesce che il mare mi dà, questo il pesce che vendo al mercato. Quello che hai lanciato è quello che tengo per me o che lascio ai corvi… Ora che è insozzato te lo lascio volentieri.»
Philaretos non è il mercante più simpatico del porto. Certo, potente, influente, può accordarsi con le autorità per negare il diritto di vendita del proprio pescato ad altri pescatori… naturalmente non è amato. Con quella sceneggiata tipica della vita di un mercato di mare, Ipnomaco s’è guadagnato la sua fetta di simpatia, ma Philaretos potrebbe rendergli difficile vendere il proprio pesce. In teoria.
Già, perché preso d’assalto dagli insulti e dagli sfottò dei presenti, Philaretos ha finito con l’ammettere che il prezzo giusto è diverso, pur esigendo le scuse per l’offesa.
Chiedere scusa ad un cretino costa meno della pancia vuota. Dieci virgola sei dracme per mina per tutto il carico, compresi i polpi: non male. L’orgoglio di Philaretos è salvo, lui dovrà continuare ad averci a che fare ma con un guadagno di poco più di settantotto dracme. Abbastanza per due vecchie mani che ne avevano viste tante di dracme, e di Philaretos, pure.
Le mani sciolgono una piccola sacca dalla cinta, vi rovesciano le monete, riallacciano la sacca. Sul carretto cigolante salgono due sacchetti di orzo, una ricotta in una foglia di vite, un otre da due emicongi di vino. Altre volte s’è visto quel tramestio. Un gesto comune al mercato del porto in un villaggio di tutto rispetto, sparso fra le mille isole dell’Egeo.
Una larga cicatrice segna la vecchia mano destra sotto il mignolo. Una cicatrice netta, che si perde alla base della mano in uno sbuffo. È profonda e l’osso che vi si cela è palesemente scomposto.
Quel segno è ancora aperto, è il lascito per la vita di un istante in cui aveva avuto paura, davvero, di vedere cosa ci fosse dopo: l’avversario aveva calato il suo fendente con un istante d’anticipo, appena sufficiente a colpire per primo mentre la mano del vecchio, al tempo giovane, calava anch’essa con la stessa intenzione. La lama aveva aperto la carne e intaccato a fondo il primo osso: avrebbe potuto benissimo procedere verso il petto nudo o seguire la linea del braccio, squarciandolo, ma s’era scontrata col pomello della sua machara, deviando. Non ricorda esattamente cosa fosse accaduto e quel che ricorda è oramai fatto più di quanto gli hanno raccontato che di quanto gli suggeriscano i sui stessi ricordi. Gli sembra di ricordare, che la mano sinistra afferrò il collo del disgraziato e, con un solo strattone disperato, lo fece cascare vicino ai remi.
Andò a sbattere il cranio, proprio sotto il sopracciglio, sul bordo dell'imbarcazione e rimase lì, inerme, mentre un altro uomo, tenendo in mano un capretto per una zampa, lo colpiva definitivamente al volto, con una scure. Una cosa che ricorda con assoluta certezza è lo stupore alla vista della cavità della bocca, spalancata sotto lo zigomo, sanguinante e buia.
La mano poi gli era stata fasciata ben stretta, ma aveva