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Sposami, per favore!: Un invito all’altare, #1
Sposami, per favore!: Un invito all’altare, #1
Sposami, per favore!: Un invito all’altare, #1
Ebook157 pages2 hours

Sposami, per favore!: Un invito all’altare, #1

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About this ebook

Una volta lasciato il quartiere in cui era cresciuta, Ava McKenna aveva deciso che non si sarebbe più guardata indietro. E per dieci anni ci era riuscita, finché Mateo Ortega, il bel ragazzo della porta accanto, non si rifà vivo per chiederle un favore. Mateo ha bisogno di una finta fidanzata e pensa che Ava sia perfetta per recitare la parte.

Ava accetta perché deve un favore alla famiglia Ortega, ma guardando nei profondi occhi castani di Mateo si rende conto che ripagare quel vecchio debito potrebbe avere delle conseguenze sul suo cuore.

LanguageItaliano
Release dateJan 8, 2021
ISBN9781393236108
Sposami, per favore!: Un invito all’altare, #1

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    Sposami, per favore! - Caroline Mickelson

    Capitolo 1

    «H o qui un’offerta che non potrai rifiutare».

    Ava McKenna sorrise al tono entusiasta della sua agente immobiliare. Non che la proprietà in questione fosse sul mercato da molto tempo. Aveva messo in vendita la casa della sua infanzia solo due settimane prima. Quindi l’offerta doveva essere molto vicina al prezzo richiesto. Cercò di mostrare lo stesso entusiasmo che sentiva nella voce dell’altra ma non era facile. Anche se dopo la morte della madre, dieci anni prima, non era più stata nella casa in cui era cresciuta, la decisione di vendere non era stata facile. Era sola al mondo e la casa era per Ava l’unico legame con la sua infanzia. Altre persone avevano zii e zie, cugini e altri familiari, lei aveva una casa.

    «Ava? Mi stai ascoltando?»

    «Sì, sono qui». Ava si fermò nel parcheggio riservato di fronte al suo ufficio e spense il motore della decapottabile. «Hai tutta la mia attenzione».

    «Bene. Allora, ho un’offerta in contanti per il prezzo effettivo che abbiamo chiesto. E, come sappiamo tutte e due, il prezzo fissato era ben più alto della media in quella zona, quindi dobbiamo essere soddisfatte».

    Soddisfatta? Ava si mosse, a disagio, sul sedile. No, non era soddisfatta. Né sollevata. Né felice. Certo, avrebbe dovuto esserlo ma non lo era. «Posso avere un po’ di tempo per pensarci, Jessie?»

    Uno strano silenzio percorse la linea per un lungo momento, poi l’agente immobiliare parlò. «Certo, è una tua decisione, non mia. Ma c’è un’altra cosa».

    «Sto ascoltando». Ava infilò le chiavi dell'auto nella borsetta. Con una mossa in cui si era esercitata a lungo, sgusciò fuori tenendo la borsetta, la cartella e la tazza di caffè. Apprezzò la fresca brezza mattutina mentre si dirigeva verso il suo ufficio, contenta di avere una finestra che si poteva aprire per approfittare della perfetta mattinata di primavera dell’Arizona. «Gli acquirenti hanno una lunga lista di modifiche che vorrebbero che facessi? Perché ti anticipo subito che non ho intenzione di esagerare per far piacere a un potenziale acquirente schizzinoso».

    «No, Ava, niente del genere. L’acquirente vorrebbe incontrarti personalmente per discutere l’offerta».

    Curioso. Ava aprì il suo ufficio e fece scattare l’interruttore con il gomito. Grazie a Dio aveva il Bluetooth. Mani libere era la sua espressione preferita. Lasciò cadere tutto sulla scrivania. «Non so, Jessie, a cosa potrebbe servire?»

    L’agente immobiliare non fece una piega. «Che male potrebbe fare?»

    «Non guardi i telegiornali?» Ava avviò il computer e accese il monitor. «Una donna che incontra un estraneo in un edificio disabitato potrebbe essere leggermente in pericolo». Si diresse lungo il corridoio per cominciare a preparare il caffè. Era sempre la prima ad arrivare e le piaceva che ci fosse il caffè appena fatto mentre i suoi dipendenti arrivavano alla spicciolata. Ava accese la macchinetta.

    «Beh, questa è la cosa più strana» disse Jessie. «Dice che non è uno sconosciuto. Dice che ti ha conosciuta tempo fa e vuole incontrarti per cena da Papagayos».

    Le sopracciglia delicatamente arcuate di Ava si sollevarono. Non era uno sconosciuto? Non avrebbe nemmeno dovuto chiederlo. Avrebbe semplicemente dovuto declinare. Ma la curiosità ebbe la meglio. «Come si chiama l’acquirente?»

    La risposta di Jessie fu un delicato colpo di tosse e un momento di silenzio prima di parlare: «Ha chiesto che non venga rivelato. Immagino ti voglia fare una sorpresa».

    «Beh, è una sorpresa in effetti» disse Ava, sorpresa del fatto che le tremassero leggermente le mani mentre aggiungeva un po’ di bustine di dolcificante nel barattolo quasi vuoto alla postazione per il caffè. «Non conosco nessuno del vecchio quartiere». Che non era esattamente la verità ma lei preferiva non pensare al passato. Aveva deciso per una rottura definitiva diversi anni prima.

    «Quindi è un sì o un no?» chiese Jessie.

    Ava si fermò. La parte razionale del cervello, quella che utilizzava il novantanove percento del tempo, le diceva di declinare l’offerta all’istante. Non aveva bisogno di vendere subito la casa. Il mercato era abbastanza sano e lei non aveva bisogno di soldi. Ma quell’insinuante uno percento emotivo la istigava. Acconsentì a incontrare l’uomo misterioso, cercava di convincersi, se non altro per mettere a tacere il passato. Dimostra che puoi andare indietro, che non hai più legami con quello che è stato. Ava sospirò.

    Jessie colse la sua indecisione. «Quindi è un sì? Posso chiamare il suo agente immobiliare e confermare che ci sarai?»

    Ava aveva bisogno di tempo per riflettere. «Ti richiamerò più tardi, lo prometto» disse, chiaramente svicolando da una conferma diretta. «Apprezzo davvero i tuoi sforzi, Jessie».

    «È il mio lavoro e sono contenta di farlo. Ma, Ava, penso che tu debba riflettere attentamente sul perché tu voglia vendere la casa e restarvi attaccata allo stesso tempo. Devi fare una scelta, non puoi avere entrambe le cose».

    Lo sapeva anche lei ma non riusciva a spiegare la tortuosità dei propri sentimenti alla sua agente immobiliare quando non li capiva nemmeno lei stessa.

    Ava trascorse il resto della mattina alla riunione dello staff. Amava il suo lavoro di organizzatrice di raccolte fondi ed era anche brava. Mettere tempo, capacità ed energia a disposizione di cause a cui teneva portava alla raccolta di significative quantità di dollari. Aveva dedicato tutta la vita alla carriera, anche sapendo che non era necessariamente una cosa positiva. Ma se avesse smesso di passare ogni momento da sveglia a pensare ai suoi clienti e ai loro progetti, cos’altro avrebbe fatto per passare il tempo? Non avrebbe potuto affrontare un vuoto così grande.

    Dopo la riunione Ava afferrò ancora una tazza di caffè e si rinchiuse nel suo ufficio. Tra telefonate ed email con clienti effettivi e potenziali, la mente continuava a vagare facendosi domande riguardanti l’offerta per la sua casa e l’invito a cena ad essa collegato con un uomo misterioso del suo passato.

    Il suo passato. Non c’erano grandi mostri spaventosi nel passato di Ava, né eventi traumatici degni di nota. Solo una grande solitudine come figlia unica, associata a una svariata quantità di sensi di colpa derivati dal guardare sua madre, single, che si rompeva le ossa al lavoro per riuscire a conservare un tetto sulla testa. Se non fosse stato per la generosità dei vicini, specialmente della famiglia Ortega, Ava non era sicura che la madre sarebbe riuscita a tenere la casa. In qualche modo, quando nel portafoglio McKenna mancavano i soldi per la spesa per arrivare a fine mese, qualche dono generoso degli Ortega trovava la strada per la loro tavola. L’armadio di Ava era sempre pieno di articoli di moda smessi da una delle figlie grandi degli Ortega. Nello stesso modo quasi miracoloso, quando in casa McKenna si rompeva qualcosa, qualcuno degli Ortega sapeva come ripararlo.

    Era come vivere nella casa di fianco a un’intera famiglia di fate madrine. Erano amici della specie migliore. Ava si morse il labbro. Non era abbastanza sincera. Gli Ortega erano più di quello. Erano la famiglia cui avrebbe sempre desiderato appartenere.

    E poi, proprio quando Ava iniziava l’ultimo anno della scuola superiore, alla madre era stato diagnosticato un cancro alle ovaie all’ultimo stadio. Trina McKenna si era indebolita ed era sfumata rapidamente come la foschia mattutina. La prima sorpresa era stata la rapidità con cui la salute della madre era peggiorata. La seconda sorpresa era stata che la madre aveva una polizza di assicurazione sulla vita che in caso di morte avrebbe consentito alla figlia di vivere meglio di quando era in vita. In seguito allo shock di aver perso la madre e avuto improvvisamente accesso a fondi che le consentivano di frequentare qualunque college avesse voluto, Ava aveva lasciato il quartiere proletario nella zona sud di Phoenix e non era più tornata indietro.

    Ava appoggiò i gomiti sulla scrivania e nascose la testa tra le mani. Non voleva ricordare niente di tutto questo, tutti i suoi ricordi erano ben sepolti nel passato, dove non avrebbero più potuto fare male. Quando era bambina non sapeva come ignorare la solitudine ma ora ci riusciva alla perfezione.

    Il cellulare squillò e Ava si allungò per prenderlo, già sapendo che era l’agente immobiliare. Lo schermo del telefono confermò il suo sospetto.

    «Quindi cosa vuoi fare?» chiese Jessie. «Hai preso una decisione?»

    «Ci andrò» Ava si sentì rispondere. Aveva bisogno di una rottura netta con il passato. Aveva preso la decisione di vendere la casa una volta per tutte e questo andava messo in conto come parte della decisione. L’avrebbe portata a termine. «Andrò direttamente da Papagayos dopo il lavoro. Sai per che ora è fissato l’incontro?»

    «Sei e trenta. Vuoi che ti raggiunga là?» chiese Jessie. «Come supporto, nel caso l’acquirente non sia davvero qualcuno che una volta conoscevi o sia qualcuno che ora non vuoi conoscere».

    Ava non esitò. «No grazie, Jessie, ce la posso fare. Questa persona ha detto di chi avrei dovuto chiedere?»

    «Ha detto che ti avrebbe riconosciuta lui»

    Lo stomaco di Ava fece un piccolo salto. Guardò l’orologio: ancora quattro ore.

    Mateo Ortega alzò lo sguardo verso l’orologio nel suo ufficio. Erano quasi le tre in punto e la campanella finale sarebbe suonata presto. Chiuse il file sul quale stava lavorando e spense il monitor. Mentre lavorava a una richiesta di sovvenzione, aveva arrotolato le maniche e allentato la cravatta ma non gli era mai piaciuto che i bambini lo vedessero in aspetto eccessivamente informale. Il fatto di porsi come modello di comportamento per lui era molto importante, come lo era anche per ognuno dei ragazzini che frequentavano la sua scuola. Tutti e duecentoquarantanove.

    Uscì in corridoio proprio nel momento in cui suonava la campanella finale della giornata. Come facevano tutti i giorni a quell’ora, le porte si aprirono e gli studenti cominciarono a riversarsi nell’atrio. Il rumore schizzò alle stelle e qualche piedino si dimenticò della regola di non correre mentre si dirigeva insieme alla massa a prendere il pullman. La sua presenza intendeva essere un silenzioso invito alla calma e sperava che avrebbe anche mostrato loro quanto ci teneva.

    Fece un cenno in risposta a ogni «Buongiorno, signor Ortega» e «Arrivederci, signor Ortega». Il ricordo del suo preside alle elementari era quello di un uomo dall’aspetto tetro sempre seduto alla scrivania e distante dagli studenti. Mateo stava facendo tutto il possibile per essere diverso.

    Quando i pullman furono partiti e anche l’ultimo dei ragazzini prelevato dai genitori o trasferito al programma del doposcuola, ritornò nel suo ufficio.

    «Ti hanno cercato al telefono, Mateo». La segretaria gli passò un foglietto di carta.

    Mateo guardò l’appunto e scoprì di aver appena perso una chiamata di sua zia. Tornato nel suo ufficio si tolse la giacca e fece il numero.

    «Ciao, Tia Sylvia» disse quando la zia rispose. «Ho appena ricevuto il tuo messaggio. Abuelo sta bene?»

    «È tranquillo, Mateo».

    Tranquillo indicava che suo nonno riusciva a tenere a bada il dolore che il cancro allo stomaco gli procurava. Mateo inalò a lungo e poi espirò. Era un uomo adulto che aveva subito altre perdite ma il pensiero di perdere il nonno cui era tanto affezionato gli faceva male al cuore. «Cosa posso fare per aiutare, Tia?»

    «Sei tanto un bravo ragazzo a chiederlo, Mateo».

    Le parole della zia lo fecero sorridere. Non era più un ragazzo da anni e tutti i bambini della scuola pensavano che fosse addirittura anziano. Ma per i bambini 35 anni erano la preistoria. «Sai che di qualunque cosa hai bisogno basta chiedere». Mateo lanciò un’occhiata all’orologio. Di nuovo. Improvvisamente si sentì come un adolescente che contava i minuti

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