Sie sind auf Seite 1von 71

Ezio Franceschini. PAROLE COME SABBIA. RACCONTI.

La sera, nella cucina che lo ospita da tanti anni per la cena, il professor depone i gravosi impegni che hanno occupato la sua giornata e per qualche breve, felice momento le sue parole diventano senza peso, senza importanza: parole come sabbia, che danno forma a diciotto splendidi racconti, una specie di balsamo per la fatica della sera. I racconti del professore infondono serenit, ispirano sentimenti gioiosi, narrano di cose semplici e piccole; ma nelle piccole cose si incrocia la tensione religiosa e morale dei personaggi, trascinati inesorabilmente, quasi loro malgrado, fuori dalla banalit e dal compromesso, verso il mondo nascosto ma sempre presente della Grazia, dove anche il minimo gesto di carit o l'ultima professione di fede non accadono invano. Biografia dell'autore. Ezio Franceschini (1906-1983), dopo gli studi presso l'Universit di Padova sotto la guida di Concetto Marchesi, divenne il primo titolare in Italia di una cattedra di Storia della letteratura latina medievale. Militante antifascista, stretto collaboratore di Agostino Gemelli, stimato studioso del medioevo, fu preside della facolt di Lettere e Filosofia e poi rettore della Universit Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Le sue numerose opere riflettono una personalit originalissima e le sue molteplici attivit di studioso, alpinista, maestro spirituale, narratore e scrittore di racconti per bambini. Racconti per Anna e le sue amiche. Eccomi a Lei, signorina Anna, per mantenere finalmente una vecchia promessa. Ricorda? Arrivavo a mensa verso le otto e mezzo di sera, dopo giornate pesanti di fatica, stanco da non poterne quasi pi: lezioni, esami, colloqui con studenti (e ciascuno ha spesso una sua storia, ha sempre diritto ad una parola che sia soltanto per lui), conferenze, riunioni interminabili per cercare di risolvere problemi delicati: s, ero proprio stanco, tante volte. E da anni, cos. Passavo attraverso la grande sala dove tra un vociare confuso stavano cenando professori, assistenti, perfezionandi; aprivo la porta della saletta attigua, la saletta della direzione e degli ospiti, per intenderci: e mi veniva incontro subito, ogni volta, il Suo sorriso, signorina Anna. Ogni volta: anche alla fine di giornate in cui la Sua stanchezza avrebbe potuto essere ancora pi pesante della mia. Poi venivano, premurose, le Sue amiche, a portarmi la minestra con i capelli d'angelo, il piatto di carne, o il formaggio, o le uova al tegamino, con la verdura, e poi la frutta di stagione: perch le Sue amiche sono quelle che il mondo chiama comunemente donne di servizio, o pi volgarmente e semplicemente serve. Alcune stanno in cucina a pelare patate, a sbucciare piselli, ad aiutare il cuoco; altre lavano i piatti e li asciugano; altre, con un grembiulino sempre candido, vengono a servire in tavola, attente, piene di premura, pazienti ad ogni impazienza. Anche loro avevano, alle otto e mezzo di sera, una giornata pesante sulle spalle; lunghe ore di lavoro fra pulizie, preparazione dei pasti, servizio: e il pensiero della casa lontana, che spesso pesa di pi del servizio. Eppure anche loro sorridevano sempre: e mi guardavano non come si guarda un uomo importante, ma come un vecchio amico, da cui non divide quel grembiule bianco, ma solo un diverso servizio, una diversa responsabilit. Temo che Lei non sappia, signorina Anna, che cosa significhi per un uomo stanco un accogliente sorriso di donna. E' come lo scomparire improvviso di ogni peso, come il dissiparsi di un banco

di nebbia portato via da un colpo di vento; come se una mano lieve ti togliesse gi dalle spalle uno zaino pesantissimo: ti senti di colpo leggero, riposato; ti senti un altro uomo. Ma io sono una donna illetterata, dir Lei, una donna che sa solo far da mangiare: e le mie amiche sono ragazze di servizio. No, signorina Anna, Lei non sa soltanto far da mangiare: sa far da sorella (e qualche volta da mamma) a tutti, senza distinguere se siano professori o studenti, grandi o piccoli, bianchi o di altro colore: e Dio sa quanti ne hanno bisogno! Poi sa sorridere; e il suo non saper di lettere Le ha lasciato una dote incantevole, che quasi nessuna donna di lettere ha ormai pi: la semplicit. Che vale, mi creda, assai pi delle lettere. Quanto alle Sue amiche, lo so bene che il mondo le chiama serve. Il mondo. Ma conosco un testo, e lo conosce anche Lei, in cui molti secoli fa una donna si chiam serva. Ecco, io sono la serva del Signore, disse: e per essersi chiamata cos il Figlio di Dio si fece uomo, e uomo nel seno di quella Sua serva, da cui accetter per culla una mangiatoia e per riscaldamento il fiato di un asino e di un bue. Vorrei che le Sue amiche non lo dimenticassero mai, questo, quando il mondo le chiama serve. E vorrei che sentissero in quel nome ci che sent, allora, l'arcangelo Gabriele, mandato da Dio in una citt della Galilea che si chiamava Nazareth. Come non lo dimenticher un giorno, lass, il Figlio della sua Serva, quando non ci chieder se saremo stati grandi, potenti, sapienti, dotti o ignoranti, ma soltanto se saremo stati buoni con Lui nel servizio dei nostri fratelli: Avevo fame, e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere; ero senza casa, e mi avete ospitato; ero nudo, e mi avete coperto; fui ammalato, e mi visitaste; fui in prigione e veniste a trovarmi... (Matteo, 25, 35-6): ero stanco e mi avete sorriso. S, lo so, quest'ultima frase non c' nel Vangelo: ma sottintesa, mi creda, in tutte le altre, perch non c' conforto senza sorriso. E anche perch non c' soltanto fame di pane, n sete di acqua, n la malattia da ricovero in ospedale, n la solitudine delle prigioni; ci sono fame e sete, e malattie e solitudini ben peggiori: che spesso basta un sorriso a disperdere. Dunque, il Giudice ci chieder se Lo avremo servito bene nei fratelli. E se non saremo stati servi e serve fedeli non entreremo nel regno del Figlio della Serva. Bravo, servo buono e fedele... entra nel regno di gioia del tuo Signore. (Matteo, 25, 21). Vede come Dio ama questo nome di servo, che il mondo disprezza? Lo ama a tal punto da farne condizione assoluta per l'entrata nel Suo regno. Ma il discorso mi ha portato lontano, signorina Anna: e pi lontano mi porterebbe se questa non fosse soltanto la presentazione di un libro. Lei sa come nato, questo libro, dedicato a Lei e alle Sue amiche. Dopo la loro accoglienza sorridente io mi sentivo, come Le ho detto sopra, leggero, riposato, sereno; senza pi dottrina, senza pi cultura, senza pi il decoro del professore, pesante come un soprabito d'inverno; mi sentivo tornato semplice, tornato bambino: cos lieve da poter camminare in punta di piedi sulle corolle dei fiori senza farle piegare di un millimetro. Ora il professore ci racconta una storia suonava allora la Sua voce, nell'accento canoro della natia Pari, alta sui colli fra Grosseto e Siena e sulle acque del pescoso Ombrone: da dove, quando ci va, torna con pacchi enormi, ricchi di ogni ben di Dio, dai funghi agli uccelletti gi arrostiti, dalle focaccine fatte in casa ai panforti di Siena. Cos sono nati questi racconti: nel Suo regno, cara Anna, fra la cucina dai pentoloni immensi dove le Sue amiche si muovono leggere come un esercito di api operose, e la sala da pranzo del mondo dotto dei professori e degli assistenti: altro alveare di bisbigli e sussurri e ronzii, ma su argomenti pi seri, pi consapevolmente impegnati, come oggi si dice.

Poi mi venuta l'idea di mettere insieme alcuni di quei racconti, via via pubblicati, spesso a lunghe scadenze, in: Vita e Pensiero, aggiungendovi, anche, qualche testo di anni lontani, scritto per il settimanale: Gioia, e per il quotidiano milanese: L'Italia; parole, parole come sabbia, senza importanza, senza peso, per qualche minuto di sollievo fra tante cose importanti e gravi che si fanno nella giornata. Ed ecco il volume che offro a Lei, signorina Anna, e alle Sue amiche: piccolo segno di riconoscenza per quel sorriso che per tanti anni mi ha accolto, e ancora mi accoglie, alle otto e mezzo di sera, ponendosi come ala leggera sotto il peso della mia stanchezza. L'illustrazione, riproduce un quadro di un mio giovane amico, il pittore Nando Montuschi: e rappresenta tre eremiti che si dirigono verso il deserto, in cerca di silenzio. Li guardi con affetto, cara Anna, e li accolga con festa, come accoglie me, nei giorni della fatica: sa, sono loro che spesso mi suggeriscono le parole che raccolgo per Lei e per le Sue amiche). E. F. Raffigurato un quadro: Tre eremiti, di Nando Montuschi. Dio solo santo. Il monaco Serlone non ricordava pi da quanto tempo fosse venuto nel deserto: certo erano pi di quarant'anni, quarant'anni di giorni sempre uguali, pieni di preghiera, di penitenze, di silenzio. Ogni sabato partiva all'alba, a piedi nudi, e percorreva molte miglia per assistere alla messa nel villaggio pi vicino al suo eremo; le prime volte, rammentava bene, era giunto con le piante ridotte ad un grumo di sangue per le ferite delle pietre lungo l'interminabile percorso, ma poi la pelle si era rassodata ed egli aveva cominciato a camminare come se avesse sotto le piante delle solide suole di cuoio. Non un albero sulla strada, n un filo d'erba: ma un deserto di rocce e di sabbia, in cui vivevano soltanto serpenti e scorpioni velenosi. Durante le ore di sole a Serlone era sembrato pi volte d'impazzire: la testa, appena ricoperta da un copricapo di fili di palma intrecciati, gli rintronava dentro come colpita da furiosi colpi di martello: la lingua s'ingrossava fino ad occupare tutta la bocca, invano inumidita di tanto in tanto con il poco d'acqua che il monaco portava con s dentro una zucca rinsecchita. In quei momenti Serlone non era capace n di pregare n di pensare: andava avanti soltanto, un passo dietro l'altro, come un automa, in attesa che il sole tramontasse e la notte giungesse recando il sollievo della sua frescura. Il monaco sapeva bene di non poter pregare nelle ore dell'arsura implacata; ma avevo fatto un patto col Signore, fino dall'inizio della sua vita di eremita, non appena si era accorto che la vampa del sole gli permetteva soltanto di sopravvivere. Signore, avevo detto, tu vedi che non colpa mia se non posso pregare. Ma accetta le ore del tormento per tutte le anime che, potendolo, non pregano, laggi a Solo, la citt che ho lasciato. Trasforma tu, che tutto puoi, in preghiera i raggi del sole che mi brucia, lo strisciare silenzioso e insidioso dei serpenti, e questo mio camminare senza preci verso l'ombra e la frescura della notte. Non sapeva se il Signore avesse accettato la sua preghiera: ma ogni sabato, prima di partire, la ripeteva inginocchiato sulla soglia della sua capanna, con le braccia distese e la faccia rivolta al deserto. Portava con s delle stuoie, il lavoro della settimana, barattandole, al villaggio, con un po' di farina e un po' di sale. D'altro non aveva bisogno, perch vicino alla sua capanna c'era una piccola sorgente, sorta chiss quando e come, dalla quale traevano vita alcune palme, che gli davano cibo e lavoro (con le loro foglie infatti intesseva le stuoie), e un orticello di pochi metri quadrati, che aveva costruito con terriccio di riporto e cinto di grosse pietre per ripararlo dal vento, nemico di ogni cosa vivente. La capanna del monaco era ai confini del deserto di pietra e di sabbia; ma dalla parte opposta la natura era ancora pi selvaggia: a tal punto che Serlone non aveva mai osati dirigervi i passi. Cortine di rocce si

susseguivano a perdita d'occhio, come onde di un mare in tempesta pietrificante da un malefico: ma salivano, salivano per frangersi ai piedi di un vulcano, laggi alla linea estrema dell'orizzonte. Dal vulcano il monaco non ricordava di aver mai visto uscire n fumo n fuoco; ma questo rendeva ancora pi opprimente la sua mole massiccia, perch fumo e fuoco sarebbero stati, almeno, segni di una vita che invece non c'era pi: anche il vulcano era ormai una delle tante cose morte di quell'immenso cimitero. E cos, di vivo in quell'inferno, non c'erano che la sorgente, le palme, il campicello di Serlone: e la sua preghiera che saliva a Dio, da quanto egli stesso non sapeva pi, ma certo da pi di quaranta anni. Era, quella di Serlone, una preghiera fatta di poche parole, di molti sacrifici, di interminabili silenzi: n il monaco si preoccupava di sapere se fosse gradita al Signore, perch era diventato semplice come un bambino. Ma una domenica egli vide al villaggio, dove si era recato per la messa, uno spettacolo inconsueto: la chiesetta era piena, malgrado che fosse l'alba, i fedeli lo stringevano da vicino come mai avevano fatto, e c'era chi addirittura cercava di strappargli di nascosto qualche pezzetto dell'abito logoro e liso che indossava. Le stuoie poi andarono a ruba, mentre farina e sale si ammonticchiavano davanti a lui in misura mai prima vista. A Solo, sent sussurrare alcuni, la peccatrice Taide si convertita e si fatta monaca, dopo averlo visto in sogno camminare nel deserto e pregare per lei. A Solo, ud altri dire, il principe ereditario istantaneamente guarito dopo che il re suo padre ebbe invocato il suo nome, ammonito in sogno che egli pregava per lui. Poi i sussurrii e le parole dette sottovoce si fecero un grido solo: Il santo, il santo! E fu un accorrere da ogni parte del villaggio, anche degli indifferenti, degli scettici, dei pagani stessi. Soltanto allora Serlone cap e inorrid. Prese dal mucchio di farina e di sale la solita misura e fugg via, con una velocit incredibile in un vecchio; si calm quando fu ancora solo, nel deserto, e il sole cominci a fargli sentire ancora una volta la micidiale tortura. E fu ancora, come sempre, un passo dietro l'altro, fra sabbie e rocce, con la gola riarsa e le labbra tumefatte. Come sempre: cos, almeno, parve al monaco nel suo torpore: ma qualche cosa di nuovo c'era, invece; giungeva a lui, e l'avvertiva, come portata da un vento misterioso l'eco delle parole udite e fuggite: Il santo, il santo! Serlone s'avvide che per la prima volta in quell'inferno c'era qualcosa che gli rimaneva dentro, malgrado la sofferenza dell'arsura e della fatica. Si ferm di colpo, e inginocchiato sulla sabbia rovente grid con tutte le forze che gli restavano: No, Signore, no! Tu solo sei buono, tu solo sei santo! Abbi piet di me! Il grido appassionato spense l'eco delle parole che lo inseguivano come una muta di cani: e Serlone riprese a camminare come sempre, senza riuscire a pregare, e nemmeno a pensare: s, come sempre, un passo dietro l'altro, fra serpenti e scorpioni, nel deserto di fuoco. In quello stesso momento sui campi di Solo, arsi dalla siccit, scese a cielo sereno una pioggia ristoratrice, e dai fedeli piangenti di gioia fu vista, oltre le cortine dell'acqua, la figura di un eremita che camminava fra le sabbie di un deserto, solo e curvo in una solitudine sconfinata. Giunto alla sua capanna, Serlone rese grazie a Dio, adagi il corpo stanco sulla logora stuoia che gli serviva da giaciglio, e s'addorment profondamente. Ma il nemico ritorn all'attacco. I fantasmi della notte furono subito sul dormiente. Si rivide a Solo, giovane, ricco, amato, il principe della giovent dorata; si riconobbe al primo posto nei banchetti senza fine, cinto il bel corpo di vesti di seta, il capo di corone di fiori; sent quasi fisicamente il profumo delle vivande prelibate, dei vini scelti: e le sue

narici si aprirono, come a respirarlo, mentre il corpo si muoveva lievemente sulla stuoia. Poi la scena cambi; gli apparve la sua fuga dal mondo, dapprima in una comunit di altri monaci, poi lontano da ogni vicinanza d'uomo, nella solitudine del deserto di pietre e di sabbia. E una voce gli sembr udire, che diceva: Ricordi, Serlone, le parole del Vangelo che ti hanno fatto lasciare per sempre il mondo: "Se vuoi essere perfetto, va, vendi tutto ci che hai, danne il ricavato ai poveri e avrai un tesoro in cielo: e poi vieni e seguimi"?. Il monaco, nel sonno, faceva segno di s con la testa, che si ricordava. E la voce, ma il dormiente era incerto se fosse la stessa o un'altra che si sforzava di riprodurla in tutto, riprese: Ebbene, Serlone, se ci che dice il Vangelo hai fatto, se hai dato ai poveri i tuoi beni, se hai seguito il Signore fino in questo deserto, allora tu sei perfetto: tu sei santo. Guarda!. Il monaco rivide Solo: vide Taide, la peccatrice, alla quale il vescovo imponeva l'abito di penitenza; vide il principe malato, alzarsi, guarito, alla sola invocazione del suo nome; vide la pioggia scendere, a cielo sereno, sui campi assetati. E un grido ud, un grido che da Solo saliva al villaggio dove si recava a messa, la domenica, e di l, portato dal vento varcava le solitudini del deserto per fermarsi sulla sua capanna: Serlone santo, Serlone santo!. Si svegli con la fronte imperlata di sudore, e le mani che si muovevano davanti al volto come a scacciare un pensiero importuno. And verso la sorgente per rinfrescarsi, ma vide che era disseccata: il filo d'acqua che filtrava dalla roccia non dava pi che qualche goccia, subito assorbita dalla sabbia. Poi le gocce, sempre pi rade, cessarono del tutto: e anche quel tenue segno di vita fu spento. Come far, ora - disse fra s Serlone - a vivere in questo luogo?. Prendi il tuo bastone - gli sugger una voce misteriosa, che al monaco parve quella stessa del sogno - e batti sulla roccia, come fece Mos: ne avrai un'acqua ancora pi buona e pi abbondante di prima. Prese il bastone, quasi meccanicamente, batt: ed ecco una polla d'acqua fresca e viva erompere dalla roccia e scorrere verso le palme, l'orto, per perdersi poi, pi in l, nella sabbia. Come Mos, come Mos... ripeteva la voce misteriosa, dolce e suadente come una carezza. Allora vero - mormor fra s il monaco - sono proprio santo... . Aveva appena formulato il pensiero, che gett un grido di spavento: una risata stridula era risuonata nell'aria, e dalla roccia non sgorgava pi acqua, ma fuoco. In pochi secondi le palme, la sua stessa capanna non furono che un rogo solo. Nello stesso momento un boato come di tuono percosse l'aria superando il crepitio delle fiamme; gli occhi smarriti del monaco si volsero verso il nuovo rumore, e apparve loro laggi, sulla linea estrema dell'orizzonte, uno spettacolo terrificante: il vulcano vomitava colonne di fuoco, mentre nuvole di fumo salivano fino ad oscurare la luce del sole ormai alto nel cielo. Poi, d'un tratto, cess il fuoco; quello che aveva incenerito la capanna e le palme, quello del vulcano lontano: e fu come se la notte fosse scesa improvvisa a mezzo il giorno. Serlone tremava e piangeva: ma il peggio non era venuto ancora. Egli vide dal cratere del vulcano uscire d'un tratto un essere strano e mostruoso, una specie di cavallo nero con gli occhi di fuoco e lunghe corna aguzze; lo vide scrutare l'orizzonte, e poi scendere a galoppo verso di lui, Serlone. Allora cap, e si vide perduto: il maligno, dopo averlo indotto al peccato, veniva a prendere la sua ghiotta preda per portarla con s nelle viscere della terra, nel suo regno infernale: l, dove c' pianto e stridore di denti. Il monaco si prostr a terra, fra i resti calcinati della sua capanna, e col volto fra la cenere cos preg: Signore, io non sono pi degno di alzare la

faccia verso di te, perch ho peccato, ho gravemente peccato contro di te. Ma tu, la cui misericordia non ha confini; tu, che hai mandato a redimerci dal male il tuo Figlio unigenito; tu, che Ges ci ha insegnato a chiamare padre, padre che ama e che perdona: abbi piet di me; puniscimi pure con la morte, che ho mille volte meritato, ma ridammi prima la tua grazia e il tuo amore. Tacque: ma nel silenzio della notte mostruosa egli non sentiva altro che lo scalpitio del centauro che veniva verso di lui; alz gli occhi e lo vide; aveva superato la prima cortina di rocce e scendeva lanciato al galoppo: vi vedevano lampeggiare gli occhi di fuoco, si udiva il rumore sempre pi forte degli zoccoli... Ma Iddio taceva. Allora il monaco di rivolse alla corte celeste, il volto ancora nella cenere: Maria, regina del Cielo, madre di misericordia, rifugio dei peccatori, abbi piet di me; tu, che sei onnipotente presso il cuore del figlio tuo, intercedi per me. Ho peccato contro di lui, ma non voglio morire senza il suo perdono e il suo amore: questo ti prego di ottenermi, Signora amabilissima, non la vita, ma il suo perdono e la sua grazia, senza i quali non voglio vivere. Voi pure invoco. Angeli, Arcangeli, Troni, Dominazioni, Principati, Potest, Virt, Cherubini e Serafini che credo vivi e operanti nel Cielo; venite in mio soccorso guidati da san Michele Arcangelo, e salvatemi dal nemico infernale: strappategli l'anima mia, non il mio corpo. E anche voi, Santi tutti, io imploro; voi apostoli, voi martiri, voi vergini, voi confessori, che conosceste la rabbia del nemico e la superaste: intercedete per me peccatore, la cui voce non pu pi giungere all'orecchio di un Dio che ho offeso e tradito... . Tacque ancora: e non ud intorno a s che il silenzio, rotto soltanto dal martellare degli zoccoli che si faceva sempre pi fitto e pi sonoro; il mostro doveva aver raggiunto ormai l'ultimo crinale di rocce prima del deserto: fra poco sarebbe piombato sulla sua vittima. Ma n il demonio n Serlone si erano accorti di quanto stava avvenendo in quel preciso istante sopra di loro. Dal cielo l'intera corte si era mossa e scendeva come in lunga processione verso la terra: in testa era una donna, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come esercito schierato a battaglia, cinta il capo di una corona di stelle; ai lati aveva l'arcangelo Michele e l'arcangelo Raffaele; dietro, il lunga teoria, i santi e le sante tutte: d'intorno schiere senza numero di Angeli, di Arcangeli, di Troni, di Dominazioni, di Virt, di Cherubini, di Serafini. Ciascuno, eccettuata Maria, portava nelle mani un oggetto che gli uomini avrebbero detto un mattone: soltanto che ra di cristallo pi duro dell'acciaio, non di creta o di argilla, e portava inciso sopra, a lettere d'oro, il nome di ciascun angelo e di ciascun santo. Furono in un attimo sulla terra; a un cenno di Maria, l'arcangelo Michele tracci con la spada di fuoco un solco, ampio e preciso, intorno a Serlone sempre prostrato al suolo: poi, a guisa di muratori che costruiscano una casa, vennero ad uno ad uno, i santi, le sante, gli angeli, e deposero i loro mattoni uno sull'altro, lungo il cerchio tracciato da Michele, rinchiudendo cos il corpo dell'eremita sotto una invisibile cupola di cristallo. Un attimo, e l'opera fu compiuta: librata nell'aria, la corte celeste attese, immobile. Il centaura non aveva ormai pi ostacoli davanti a s: volava sulla sabbia; Serlone avvertiva, ormai, anche il puzzo di zolfo che mandava il suo alito infuocato: ancora pochi metri... Il monaco alz da terra il volto, allarg le braccia e guard il nemico: Abbi piet di me, Signore - mormorarono le sue labbra - perch sono un uomo peccatore, mentre due lacrime scendevano sul vecchio volto, dove le penitenze avevano scavato solchi profondi di rughe. E rimase fermo, in ginocchio, in attesa della fine. Il centauro dette un ultimo, enorme balzo, spalancando le fauci: e giacque, tramortito, con tutte le ossa spezzate, ai piedi della invisibile parete di cristallo che difendeva il monaco. Le tenebre scomparvero, il cielo ritorn di un azzurro intenso, quasi irreale; e un canto lo percorse da un capo all'altro dell'orizzonte, accompagnato dal

suono di arpe e di cetre: Santo, Santo. Santo il Signore Iddio, che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.... Lo ud anche Serlone, sempre in ginocchio, e sbigottito; e dopo il canto ud una voce che diceva: Serlone, Serlone, se anche tu trasformassi in acqua freschissima questo deserto; se anche tu risuscitassi i morti da quattro giorni; se anche tu convertissi tutti i peccatori della terra: ricordati che tutto ci non sarebbe opera tua, ma di Dio, dal quale tutto tu hai avuto; perch la santit degli uomini altro non che un raggio della santit di Dio, che solo buono, che solo santo. E tanto pi l'uomo fa rifulgere il raggio divino quanto pi dimentica se stesso, che niente, e riconosce tutto da Dio, che tutto. "Mia la gloria", dice il Signore: ricordalo, Serlone, e sappi che chi si vanta del bene compiuto il peggiore dei ladri, perch ladro della gloria di Dio. Quando la voce tacque, l'eremita si ritrov nella vecchia capanna, sotto le note palme: tutto era tornato miracolosamente come prima; e poich era sabato, raccolse come di consueto un po' di acqua nella zucca rinsecchita e si accinse al viaggio attraverso il deserto per la messa dell'indomani, gi, al villaggio. Era un po' pi curvo, un po' pi stanco, ma aveva negli occhi una luce nuova. E con gli occhi aperti verso il cielo, luminosi di quella luce che non si era spenta, lo ritrovarono gli uomini del villaggio, la sera della domenica, preoccupati per il suo mancato arrivo. Un serpente fugg da sotto il suo corpo, strumento della vendetta rabbiosa del nemico; ma l'anima era gi stata condotta da san Michele arcangelo nella gloria dei cieli: un raggio della quale era rimasto negli occhi del monaco morto, che aveva chiesto al Signore, non di vivere, ma di non perdere mai la sua grazia e il suo amore. E' vero che il nome di Serlone non c' nel calendario dei santi della Chiesa militante, perch vissuto molti e molti secoli fa, e allora erano molti gli eremiti come lui; ma esso scritto a lettere d'oro in quello della Chiesa trionfante, che contiene i nomi di tutti coloro che avranno amato Dio in semplicit di vita e in santit di opere, anche se qualche volta il nemico li avr sconfitti, non vinti: le donnette che il mondo chiama da quattro soldi, che vanno a messa quando il mondo dorme e la cui teologia consiste nella corona del rosario; le madri, che conducono per mano i figli sulle strade di Dio, oltre che su quelle della terra, e abbandonate non si lamentano, ma sanno trasformare in un'ultima offerta la solitudine del cuore e della vita; la folla anonima (per il mondo) e sterminata dei poveri, degli afflitti, dei diseredati, che rendono a Dio sulla terra la loro testimonianza in rassegnazione e pazienza, e per i quali sta scritto: Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi, ed io vi ristorer. Ma se la Chiesa militante non ha messo il nome di Serlone nel catalogo dei santi, ne ha accolto la preghiera e l'ha introdotta nel messale fra le orazioni di ringraziamento dopo la messa: Dammi, o Signore, soltanto l'amore di te, con la grazia, e sar ricchissimo: cos ricco da non chiedere pi nient'altro. Frate Pazienza. Era l'anno di grazia 1130, come si diceva allora, quando alla Grazia ci si credeva pi di oggi e gli uomini pregavano di pi. Non che fossero migliori, intendiamoci: rubavano, incendiavano case, rapivano donne, cercavano armi sempre pi perfezionate, uccidevano anche allora come adesso. Ma credevano, si pentivano, facevano il bene con altrettanta gagliardia: cos si aprivano nuovi monasteri, si erigevano splendide chiese, si fondavano ospedali: e la fede si opponeva al male con la stessa risolutezza con cui il maligno lo diffondeva, approfittando dell'ignoranza della povera gente e delle ingiustizie e angherie che essa subiva. In un paese dei Vosgi, sperduto fra montagne e foreste, un prete parlava a pochi fedeli: Miei cari, in un mondo pieno di malvagit e di peccati, voi vi aspetterete che io dica di pregare e di fare penitenza; invece io vi dar un

consiglio che vi parr da niente, ma seguendo il quale avrete certamente la vita eterna: abbiate pazienza, miei cari, perch cos possederete le vostre anime; abbiate pazienza: non sono parole mie, ma di Cristo Ges, e sono le uniche che abbia ripetuto tre volte. Segno che deve essere una grande cosa, la pazienza. Amen. La piccola folla usc di chiesa, domandandosi se fosse valsa la pena di aver fatto miglia e miglia per una simile predica. Solo un giovane robusto rimase fermo, con gli occhi pieni di luce: Wilfrido, il pescatore. Sembrava guardare il grande crocifisso di legno che sovrastava l'altare, ma in realt vedeva, al di l di esso, tutta la sua vita. Oh, egli conosceva bene la pazienza! Conosceva i disumani silenzi delle boscaglie immense in cui anche la voce lenta dei fiumi e quella impetuosa dei torrenti silenzio, silenzio di parole umane unite e dette per sentirsi vicini l'uno all'altro e darsi forza e conforto. Per giorni e giorni non s'imbatteva in anima viva. Le prime volte aveva avuto paura, ma ora non pi: il silenzio lo fasciava come un mantello soffice e gradito. Aveva imparato a conoscere la voce degli animali nella foresta, il canto degli uccelli, lo strisciare dei serpenti, il muoversi improvviso dei rami al balzare rapido degli scoiattoli: erano voci, suoni, rumori che gli facevano compagnia, erano la sua vita. Era diventato un formidabile pescatore e amava la sua arte, di cui conosceva ormai tutte le astuzie. Era capace di seguire una preda, avvistata e sfuggitagli, per ore ed ore, senza un momento di impazienza, pazienza, senza uno scatto di dispetto, con una tenacia che non ammetteva stanchezza n riposo. Pazienza! Il freddo, il caldo, la fame, il ritorno, talora, a mani vuote: quanti inviti alla pazienza, nella sua vita! Ma non avrebbe mai pensato che fosse stata una cosa cos importante, come aveva detto il prete. Wilfrido non aveva pi genitori. Li aveva trovati uccisi, un giorno, di ritorno dalla pesca, accanto alla capanna incendiata, per uno di quegli atti di vendetta fra trib nemiche, cos frequenti in quei tempi. Aveva due sorelle minori, cui aveva fatto da padre e che ora erano in et da marito. E difatti se ne andarono, una dopo l'altra, seguendo il loro destino di spose, in terre lontane: un abbraccio, una lacrima, un sorriso al fratello, ma egli le sent ormai distaccate per sempre da lui, protese verso un'altra vita, come se non le avesse conosciute mai. Pazienza, disse. Riprese la sua vita tra boschi e torrenti. E quando tornava a casa carico di preda, ne distribuiva a quanti sapeva averne bisogno: ammalati, vecchi, vedove, orfani. Lo chiamavano, ormai, il pescatore dei poveri. Passarono anni: molti anni. Un giorno Wilfrido batt alla porta di un monastero che sorgeva nelle vicinanze e i cui monaci erano famosi per santit e penitenza. Avvisato dal portinaio, venne gi l'abate in persona. Che cosa vuoi, figlio mio?. Vorrei rimanere qui con voi, a servirvi per gli anni che mi restano, se il Signore verr. Altrimenti, pazienza. Ma dovrai digiunare ogni giorno.... Pazienza, l'ho fatto per tutta la vita, padre.... Dovrai alzarti prima dell'alba, a notte fonda.... Anche a questo sono abituato, padre.... Dovrai lasciare tutti i tuoi parenti, gli amici.... Non ho pi nessuno.... Dovrai stare fra le mura di questo convento, senza uscirne mai pi.... Wilfrido rivide come in un sogno le foreste, i laghi, i fiumi, la libert sconfinata che aveva avuto... L'abate lo guardava immobile come una statua. Finalmente l'uomo porse risolutamente al monaco gli arnesi da pesca che aveva portato con s: Ecco, padre - disse - accetto anche questo. Fu accolto, fu adibito agli uffici pi umili: e poich ubbidiva a tutti, senza discutere, o mormorando sottovoce la parola pazienza, lo chiamarono frate Pazienza.

Altri anni passarono, tanti. Frate Pazienza era felice. Solo di tanto in tanto lo prendeva un'acuta nostalgia della libert alla quale aveva rinunciato per amore di Dio. Ho, se soltanto fosse potuto andare a pescare, a rivedere i luoghi della sua giovinezza, a strappare ai gorghi la preda con l'amo ricurvo... Pazienza! E via gli occhi dall'orizzonte lontano! Non aveva detto, quel prete, e Ges prima di lui, che l'uomo paziente arriva a possedere la sua anima? Ci sarebbe mai riuscito, lui, povero monaco ignorante? Immerso in questi pensieri, e in questa speranza, non si era accorto che un movimento del tutto insolito animava il monastero. Porte si aprivano e si chiudevano, monaci andavano e venivano: in silenzio, si capisce, ma come se qualche cosa di importante stesse per capitare... Non ci bad e si rec, come di consueto, a pulire le stalle. Intanto l'abate aveva fatto radunare nella foresteria i monaci pi anziani. giunto un messo, poco fa - disse - ad avvisarci che domani passer di qui Bernardo, abate di Chiaravalle, con il suo amico, l'irlandese Malachia. Sono uomini famosi e, ci che conta molto pi, santi. Le celle della foresteria sono pronte, ma i doveri di ospitalit ci impongono di apparecchiare signorilmente la tavola, e non abbiamo nulla... che cosa suggerite?. Se sono santi - borbott uno - si accontenteranno del nostro pane e dei nostri legumi... . Certamente - rispose l'abate - ma l'essere monaci non ci esime dal mostrarci largamente ospitali, se lo possiamo... . Un mezzo ci sarebbe - osserv il pi anziano dei convenuti - ma lo potremo usare?. Parla, disse l'abate. Mandiamo fra Pazienza a pescare, mormor l'altro. Un silenzio cadde su tutti: e si guardavano l'un l'altro. S, frate Pazienza era stato un famoso pescatore: ma ormai da tanti anni faceva il guattero, lo stalliere, il cuoco per quel po' di erba che mangiavano, e non era pi uscito dal monastero. L'abate tagli corto: Accetto il consiglio - disse -: andare in soffitta, dove ci devono essere ancora i suoi arnesi da pesca, e fate venir qui fra Pazienza. Il frate venne, un po' confuso di trovarsi in foresteria, fra tutti quei monaci che lo guardavano. Frate Pazienza, - parl l'abate - eccoti qua la canna, gli ami, la bisaccia che avevi quando ti presentasti alla porta del monastero. Abbiamo bisogno di pesce per due illustri ospiti che arriveranno domani. Fa del tuo meglio, e che Dio ti accompagni. Cos fra Pazienza si trov fuori dal convento, libero, anzi comandato di andare a pescare in virt di santa obbedienza. Avrebbe cantato di gioia. Ma si ricord che era un monaco e che ci sarebbe stato sconveniente. Raccolte molte esche, soprattutto vermiciattoli rosei e mobilissimi che trovava rivoltando sassi e rimuovendo il terreno l dov'era umido, si avvi verso una forra, nel fondo della quale scorreva un torrente che sapeva particolarmente ricco di pesce. Il luogo era fra i pi selvaggi della zona. A monte piombava nel vuoto una cascata di una ventina di metri; poi c'era un tratto pianeggiante, con qualche rado albero fra i massi di una frana tempo addietro caduta: a valle il torrente scompariva in una cupa voragine dove nessuno mai aveva osato avventurarsi:ecco, il luogo adatto era il tratto pianeggiante fra la cascata e l'abisso. Mentre fra Pazienza aggiustava la lenza, si ud il rombo lontano di un tuono. Il monaco alz la testa: il cielo era cupo, l'aria immobile, pesante. Meglio cos, - sussurr - se le acque si intorbideranno un poco pescher meglio. E gett l'amo proprio in mezzo alla corrente attendendo che il primo pesce abboccasse. Si sentiva il pescatore di un tempo, i muscoli tesi allo strappo nel momento opportuno, gli occhi lungo il filo, l'attenzione vigile e pronta: e ne prov un senso di orgoglio che lo fece arrossire: Attento, frate - disse fra s -

sei qui per obbedienza, non per divertimento. Cominciarono, intanto, a cadere delle gocce rade e pesanti, che parevano di piombo fuso. Fra Pazienza percorse una cinquantina di metri facendo scivolare la lenza lungo il pelo dell'acqua, indugiando l dove essa, aggirando o sormontando un sasso, faceva dei gorghi vorticosi: nulla. Sembrava che il torrente fosse privo di vita, e convogliasse un'acqua mortale... Ma ecco, d'un tratto, dietro un macigno pi ampio degli altri, il primo strattone: in una frazione di secondo frate Pazienza avvert che il pesce aveva abboccato e dette alla canna il colpo che l'avrebbe uncinato e strappato dall'acqua; ma con sua enorme sorpresa l'amo usc solo: il pesce, strappata l'esca, era sfuggito alla cattura. Era la prima volta in vita sua che gli capitava una cosa simile... Pazienza, mormor il frate infilando nell'amo un lungo verme che si divincolava disperatamente, sar per il prossimo colpo: ma quel pesce non mi sfuggir pi. Intanto le gocce rade si erano trasformate in pioggia fitta: i tuoni si avvicinavano, ma l'aria era sempre immobile. L'amo, ben lanciato, cadde in mezzo alla corrente: poi scese, ora visibile alla superficie, ora lasciato andare verso il fondo con insuperabile maestria lungo il filo dell'acqua. Giunto che fu dietro il macigno, ecco un nuovo, ma pi violento strattone, e l'immediato colpo di canna del monaco: ma ancora gli penzol davanti al naso, privo d'esca, l'amo nudo. Al monaco, allibito, parve anche di udire una risata stridula. Ma doveva essere la tempesta che ormai era sopra di lui. Guard a monte: la cascata urlava e precipitava con una massa d'acqua sempre pi ampia e di un colore strano, che il monaco non ricordava di aver visto mai: pareva sangue. A valle, dall'abisso si alzavano strani vapori, come di zolfo: o era uno scherzo che la fantasia gli giocava? Wilfrido ebbe la voglia di andarsene; prov, anche, per la prima volta dopo tanti anni, un moto interiore di stizza: ma lo cacci subito come una tentazione, e ne chiese mentalmente perdono a Dio. Poi fra il monaco e il pesce cominci una lotta senza esclusione di colpi. L'uomo pose in atto tutte le astuzie per cui era famoso: entr nel torrente per essere pi pronto allo strappo, divent una cosa sola con l'amo che gettava, pesc alla superficie, pesc nel profondo; ma la bestia continuava a strappargli uno ad uno i vermi con strattoni cos violenti che pi di una volta il pescatore perdette l'equilibrio e cadde in acqua. Ma risaliva pazientemente, rimetteva il verme, rilanciava. Il volto era sferzato dalla pioggia ormai violentissima, le mani stringevano la canna, come rattrappite, pi per forza d'inerzia che di volont. Il rumore della cascata era diventato infernale, e le tenebre si facevano sempre pi fitte. Al monaco venne da piangere: Dunque - pensava dovr tornare al convento senza il pi piccolo pesciolino? Che cosa diranno di me? Che sono un inetto, un buono a nulla, un vecchio incapace anche di pescare. E come rideranno! Se questo che vuoi, o Signore, ebbene, sia: lo accetto con gioia dalle tue mani.... Si rizz alto sulla persona, flagellato dalla pioggia, e prendendo il barattolo delle esche lo rovesci nell'acqua limacciosa. Pazienza, - mormor - la vittoria tua, pesce. Lo riconosco umilmente. Sei stato tu il pi bravo. In quel preciso momento qualcosa di spaventoso avvenne. Un lungo brivido percorse le acque del torrente che si arrestarono come fossero d'un colpo impietrite. E il monaco vide rizzarsi davanti a lui, su di una roccia, avvolto in un mantello di fiamma, il signore delle tenebre. Lo riconobbe subito, ma non ne ebbe paura: ai suoi piedi, immobile, era una enorme trota, che pareva attendere. Tutto intorno, silenzio immenso: anche la pioggia si era fermata a mezz'aria, attonita. Sembrava che il tempo, che la vita stessa non esistessero pi. No, disse finalmente il diavolo. Hai vinto tu, frate Pazienza. Sappi che avevo ottenuto da Dio il permesso di trascinarti con me nell'abisso al minimo

gesto, o parola, o moto d'impazienza cui avessi volontariamente acconsentito. Sei tu il pi bravo: e sei padrone, ora, della tua anima.... Dette queste parole, con un grande balzo scomparve nella voragine che l'inghiott richiudendosi sopra di lui con un boato sinistro. Il monaco si guard intorno. Mio Dio, quanti pesci! La cascata era sempre immobile, come se fosse cristallo; e l, nel tratto pianeggiante dove Wilfrido aveva pescato, il letto del torrente era quasi asciutto. Centinaia di pesci si dibattevano nelle poche pozzanghere rimaste; ma uno soprattutto attir l'attenzione del pescatore: la smisurata trota che aveva visto ai piedi del diavolo, la trota che gli aveva mangiato tutte le esche... Si avvicin, raggiante, e fece per prenderla: ma vide subito che non ce la faceva, era troppo pesante. Prov ad alzarla una volta, due volte; poi rinunci, prostrato dalla fatica. Pazienza, - pens - forse il Signore vuole cos perch non pecchi di vanit davanti all'abate e agli altri monaci. Sia fatta la sua volont. Non temere, t'aiuter io, disse in quel momento una voce alle sue spalle. Il monaco si volt. Gli stava davanti un giovane bellissimo e sorridente: tanto bello che non pareva nemmeno un uomo. Ma tu, chi sei?, fece Wilfrido. Sono Raffaele, - rispose il giovane - lascia a me; me ne intendo di pesci: moltissimi anni fa ho aiutato il figlio di Tobia a tirarne fuori uno, ben pi grande di questo, da un fiume immenso, il Tigri.... Moltissimi anni fa? - fece il monaco, che non aveva mai letto la Bibbia - Ma tu, di anni, ne avrai s e no trenta. E poi non ho mai sentito parlare, da queste parti, del figlio di Tobia.... L'arcangelo Raffaele dette in una schietta risata. Va bene, va bene - disse chiedi all'abate che te ne racconti la storia. Ma intanto, eccomi qua per aiutarti. Cos dicendo si caric sulle spalle il pesce smisurato e si mise a risalire la riva scoscesa del torrente seguito dal monaco. Arrivati che furono in cima, il torrente riprese a scorrere alle loro spalle: e per qualche minuto l'acqua riboll per il guizzar felice dei pesci che ritrovarono, con l'acqua, la loro vita. I due, intanto, si erano avviati al monastero. Camminavano, ormai, fianco a fianco, ma solo Raffaele parlava. Parlava di Dio, di fede, di santit, di bont; parlava della terra dove c' cos poco amore, del paradiso, dove c' soltanto amore: e ciascuno ne avr tanto quanto ne avr avuto sulla terra, non un'oncia di pi. Parlava dei puri di cuore, degli umili, dei misericordiosi, dei giusti. E sai - diceva - come possono diventare tali? Soltanto con la pazienza. Quante anime vi sono, dentro e fuori i conventi, che vorrebbero diventare sante, ma ad una condizione: diventarlo presto, subito! E quando vedono che ci non avviene, e che passano i mesi e gli anni, si scoraggiano, abbandonano ogni sforzo, abbandonano il solco che avevano cominciato a scavare con mano ferma e desiderosa! Dio non accetta condizioni da parte di chi lo vuole amare; e da lui vuole una cosa sola: che si apra senza condizioni e senza riserve alla Sua volont. L'amore condizionato non amore; e la misura di amare Dio di amarlo senza misura. Per ottenere questo c' da aspettare trenta, quaranta, cinquant'anni? Ebbene, si aspetta pazientemente, giorno per giorno, ora per ora, trenta, quaranta, cinquant'anni.... A frate Pazienza pareva di essere gi in paradiso. C'era nelle parole del giovane compagno come una dolcezza strana, in cui si dissolveva ogni suo pensiero: e gliene venivano una forza, una convinzione, un desiderio, che non aveva sentito mai cos potenti. Oh, fosse stato lontano ancora molte miglia, il convento... Invece ci arrivarono presto. L'arcangelo Raffaele depose il pesce su di una panchina addossata al muro del monastero: ed era cos grande che la occup tutta rimanendo, anzi, con la coda, fuori dall'estremit. Intanto frate Pazienza suon il campanello.

Venne ad aprire, dopo pochi istanti, il portinaio: Ben tornato, frate Pazienza, ben tornato. Come andata la pesca?. Bene, bene; ma intanto ti prego di preparare una cella perch c' con me un giovane che mi ha aiutato molto, e che ha bisogno di riposare. Entra pure, Raffaele.... Ma poich il portinaio lo guardava sbalordito, si volt: il giovane non c'era pi. Allora alz gli occhi in alto: e gli parve di udire una voce, la voce di lui, chiara pur fra melodie dolcissime: Arrivederci, frate Pazienza, arrivederci presto. Cadde in ginocchio, con le braccia protese verso la voce che udiva: S, arrivederci - mormorarono le sue labbra - arrivederci, quando il Signore vorr. Perch la sua volont deve essere fatta, non la mia.... Il portinaio scosse la testa: troppo stanco - disse - poveretto!. Ma se il giovane era scomparso, restava l, sulla panchina, l'enorme trota. E fu subito, da tutto il monastero, un accorrere di monaci a vederla, ad ammirarla, ad aprirle la bocca per sentirne, con i polpastrelli delle dita, i denti aguzzi come pugnali. Venne anche l'abate e ordin di trasportare il pesce in cucina: vi si provarono due degli uomini pi giovani e pi robusti, ma invano. Come avr fatto frate Pazienza, da solo?, si disse il sant'uomo. Poi ordin che si costruisse una specie di portantina: e solo cos poterono introdurre nel monastero la trota. Ma vi erano da pochi minuti quando un servo venne di corsa dall'abate: Padre - disse tutto affannato - sta per giungere Bernardo di Chiaravalle, con Malachia e alcuni altri monaci. L'abate si mosse loro incontro con i pi anziani, un po' stupito di quell'anticipato arrivo. La pace sia con voi tutti - disse Bernardo -, abbiamo affrettato il cammino per esservi accanto nella preghiera per il frate morto poco fa. Volete condurci nella sua cella?. I monaci si guardavano l'un l'altro sbalorditi: Ma nessuno di noi morto sussurr l'abate. Poco fa - continu Bernardo - mentre venivamo verso il monastero ci parso di vedere uno strano spettacolo, in cielo: uno dei vostri frati, con una lunga canna da pesca in mano, saliva in alto, a passi lenti, accompagnato da un giovane bellissimo, un angelo certamente, che gli parlava.... Frate Pazienza, - gridarono tutti - non pu essere che lui. Ma pochi minuti fa era ancora qui, reduce dalla pesca, con uno splendido pesce, che doveva servire per il vostro pranzo di domani.... Si recarono insieme alla cella, che egli aveva voluto vicino alle stalle per essere pi sollecito nel suo lavoro. S, frate Pazienza c'era: immobile sulla poca paglia che ricopriva quattro assi sconnesse che gli servivano da letto. Sul suo volto era una pace immensa; gli occhi, aperti, sembravano fissare uno spettacolo che li aveva riempiti di'indicibile gioia; le labbra erano rimaste socchiuse, come se le ultime parole dette fossero state: Sono pronto, eccomi, vengo; i piedi erano laceri, come per lungo e faticoso cammino; le mani gonfie mostravano i segni di una grande fatica: i pugni erano chiusi. Accanto era la canna da pesca. morto di stanchezza sussurr un frate, mentre tutti erano caduti in ginocchio. Parl allora Malachia, un vecchio dalla lunga barba e dagli occhi azzurri come il mare della sua Irlanda. Noi siamo venuti a Dio - disse, guardando in volto Bernardo - abbandonando le nostre famiglie, i nostri castelli, le nostre comodit: quest'uomo ha lasciato, per venire a Lui, la sua canna da pesca, e se stesso; noi abbiamo trasferito la nostra grandezza dal servizio degli uomini a quello di Dio, e il mondo ci onora per quella grandezza che ha soltanto cambiato di direzione: quest'uomo ha voluto restare sempre piccolo; noi abbiamo scorte di monaci che ci accompagnano nei nostri viaggi: quest'uomo non ha conosciuto che solitudine e abbandono; noi predichiamo il silenzio: quest'uomo lo ha vissuto; noi fondiamo

monasteri, inalziamo chiese, scriviamo a vescovi e a papi: quest'uomo vissuto in una cella, accanto alle stalle. Voi dite che morto di stanchezza; no, di stanchezza moriremo noi, e Dio voglia che sia per la sua gloria, non per la nostra: quest'uomo morto d'amore. Bernardo scoppi in lacrime e abbracci Malachia. Fra pochi decenni la Chiesa li avrebbe proclamati santi, entrambi: ma in quel momento, accanto a quel corpo, essi provavano un desiderio struggente di semplicit, di nascondimento, di pace. Con infinita dolcezza, in ginocchio, aprirono i pugni chiusi del frate morto. Contenevano due splendidi diamanti, sui quali erano scolpite, in latino, le parole di Cristo Signore: Nella pazienza possederete la vostra anima (Luca, XXI, 19). Questa fu l'unica predica che fece frate Pazienza; Malachia sorrise, come per una conferma attesa; Bernardo di Chiaravalle chin il capo e arross: aveva capito che l'ammonimento era rivolto particolarmente a lui. Lacrime in Paradiso. Tommaso era un brav'uomo, sulla cinquantina, con qualche piccola rotondit incipiente, ma ancora fresco, vivo e sempre sereno. Non aveva una famiglia sua. Dal lavoro che faceva, e che gli avrebbe assicurato, dopo i settant'anni, una modesta pensione, traeva di che vivere senza larghezze, ma anche senza restrinzioni. Al denaro, per, non teneva. E la sua gioia maggiore era quando, due volte all'anno, vicino a Natale e a Pasqua, si metteva a tavolino e compilava una decina di assegni: per conventi di clausura, ricoveri di vecchi, orfanotrofi, asili di bambini poveri, o per qualche bisogno che si presentava improvviso e urgente. Firmati gli assegni, spedite le raccomandate, si sentiva leggero, leggero, la strada gli pareva cos facile... E se una nube poteva oscurare la sua contentezza era perch poteva dare poco, molto poco; gli assegni erano di cinque, sei mila lire, raramente toccavano le dieci: ma era tutto ci di cui poteva disporre, perch libretti in banca non ne teneva, dato che alla vecchiaia sarebbe stata sufficiente la pensione. Faceva cos da un giorno, ormai lontano, in cui gli era venuto sott'occhio un passo della Sapienza: Beato l'uomo che non va dietro al denaro, n pone la sua speranza in monete accumulate... (Eccl.XXXI, 8). Gli sembrava strano che ci volesse cos poco per essere beati; pi strano ancora che il libro sacro aggiungesse che uomini simili erano pressocch introvabili... La barca di Tommaso procedeva, cos, senza scosse, su di un mare calmo. La sua serenit, la sua bont gli avevano fatto molti amici, il suo consiglio era ricercato da tutti: egli si avviava, senza saperlo, verso vette sempre pi alte. Fu allora che il diavolo decise di intervenire risolutamente, prima che fosse troppo tardi. E formul un piano veramente da par suo, diabolico. Era un 18 novembre. Tommaso, a tavolino, preparava in anticipo i soliti assegni. Ecco, lire tremila, cinquemila, seimila, poi ancora cinquemila, seimila. Sospir. Come sarei lieto - pens - se potessi scrivere su ciascuno di questi foglietti un milione!. Il pensiero gli mise in corpo una strana euforia. Prese dieci pezzetti di carta, li ridusse al formato degli assegni, su ciascuno scrisse, ben tondo, 1.000.000, e firm con la sua pi bella calligrafia. Prese anche dieci buste bianche, vi tracci gli indirizzi, poi scoppi in una risata. Illusioni - sussurr - una simile somma io non l'avr mai. Ma mise da parte, senza stracciarle, le buste con gli indirizzi e i foglietti. Non aveva finito di chiudere il cassetto che il campanello trill. And ad aprire. Il portalettere gli consegn una raccomandata urgente, tutta coperta di francobolli. Tommaso ne firm la ricevuta, chiuse la porta, torn a tavolino, apr. Egregio Signore, - diceva la lettera - ho l'incarico di trasmetterLe l'acclusa somma di dieci milioni di lire quale parte a Lei spettante della eredit del signor Fausto, Suo zio,

venuto meno ai vivi lo scorso mese in Canada. La banca non mi ha voluto, per ragioni tecniche, rilasciare un solo assegno, ma dieci, da un milione ciascuno: mi voglia scusare per l'incomodo che ci Le dar, e voglia credermi, Suo dev.mo avv. X Y, notaio, esecutore testamentario. Alla lettera erano acclusi dieci assegni da un milione ciascuno intestati a lui, Tommaso. Il brav'uomo li palp con i polpastrelli delle dita, li guard uno ad uno contro luce, li ricont due, tre volte... s, erano proprio dieci, da un milione ciascuno, e vi stava scritto sopra, a penna, il suo nome. Era padrone di dieci milioni. Ci che pochi momenti prima aveva ritenuto un'illusione, un sogno, si era avverato. Eppure non provava in s alcuna gioia, ma un turbamento strano, come se un oscuro pericolo lo minacciasse. Si guardo intorno; nella stanza non c'era nessuno: i soliti mobili, la solita scrivania, i soliti quadri alle pareti. Ma l'aria pareva pesante, calda: si sarebbe detto il fiato di una bestia, ecco, proprio cos, il fiato di una bestia, che non solo avvolgeva mobili e pareti ma penetrava anche dentro di lui, Tommaso, a poco a poco. L'uomo prov un brivido. Sent il bisogno di muoversi, di fare qualche cosa. Apr il cassetto della scrivania. Le buste erano l, pronte, dieci, una sull'altra, con gli indirizzi gi vergati. Si ricord di tutto. Sarebbe bastato estrarre i pezzetti di carta, firmare gli assegni veri, di dietro, dove sta scritto girate, introdurli nelle buste, chiudere, portare alla posta e in dieci minuti tutto sarebbe finito: la felicit sarebbe arrivata in dieci posti diversi ad asciugare lacrime, pagare debiti, seminare sorrisi. Come era felice! E quante volte ormai aveva fatto cos! Tommaso riprese in mano gli assegni veri. Li annus. Sono soldi veri mormor - e sono miei. Si sentiva soffocare, e rigir l'indice della mano destra, fra il colletto e il collo, con forza. Certo, quei denari non erano frutto del suo lavoro, ma erano giunti a lui in modo del tutto legittimo, per donazione testamentaria di un parente, tramite un notaio, che un uomo di legge, un pubblico ufficiale... e dieci milioni, sono dieci milioni, non quattro, cinque, seimila lire... sono dieci milioni... Intanto s'era fatta sera. Tommaso usc, cen alla solita trattoria, ma senza parlare con alcuno: e torn subito a casa. Quando fu a letto si ricord che doveva fare la lettura spirituale. Era un'abitudine che aveva preso da molti anni, da quando aveva letto un passo di san Gerolamo che invitava a leggere la Bibbia prima di addormentarsi: (cadentem faciem pagina sancta suscipiat). Gli sembrava di deporre il suo corpo dentro un'amaca di buoni pensieri per il viaggio della notte fino all'approdo mattutino. Fece cos anche quella sera, aprendo a caso un libro che aveva sul comodino. Il brano che gli capit sott'occhio parlava dei re Magi. Sapete - diceva il testo - perch i soldati di Erode, lanciati al loro inseguimento dopo la mancata promessa di tornare a Gerusalemme, non li poterono raggiungere? Perch avevano deposto l'oro ai piedi di Ges, nella grotta di Betlemme. E senza quel peso i cammelli erano velocissimi, quasi folate di vento nel deserto, sotto il sorriso delle stelle; mentre il peso dell'odio faceva ritardare i soldati del re sanguinario.... Tommaso spense la luce e il sonno fu su di lui. Si vide solo, in un deserto sconfinato, a dorso di un cammello agile e leggero, ma stranamente incapace di correre. Eppure non portava, di bagaglio, che una bisaccia. L'uomo vi affond la mano: s, i dieci assegni da un milione erano l, intatti, e gi firmati. Li estrasse, li ricont sotto la luna: il cammello bram. D'un tratto il silenzio del deserto fu rotto da un rumore lontano, come di un galoppo furioso... il cammello bram ancora, con le grosse narici in aria. Una luce si fece nella mente di Tommaso: I soldati di Erode! I soldati di Erode!. Ma il loro intento non era quello di uccidere Ges? S, gli rispose dentro una voce, ma Ges in ogni uomo, Ges si pu uccidere in ogni uomo.... Dette un violento strattone alle briglie. Ma come lento, come lento era l'animale! E il rumore

del galoppo aumentava, aumentava... il cielo stesso sembrava ripercuoterlo nella sua volta divenuta improvvisamente nera e ostile... D'un tratto Tommaso si avvide di non essere solo. Venuto chiss da dove, un altro cammello era accanto al suo, e lo cavalcava la badessa, a lui ben nota, di un monastero di clausura: proprio quella alla quale era intestata la prima delle dieci buste... l'uomo cap, frug nella bisaccia, e le porse il primo assegno. Il cammello di Tommaso diede un balzo e parve volare: l'altro scomparve, come assorbito dalla sabbia. La scena si ripet altre volte nel deserto percorso dai brividi della notte che ormai si piegava verso le prime luci dell'alba. La badessa era stata via via sostituita da un missionario, da un povero, da un carcerato, da un orfano, e via dicendo, e a ciascuno Tommaso, per sfuggire ai soldati di Erode, aveva consegnato un assegno. Quando non ne ebbe pi alcuno, il cammello percorse volando un'ultima duna: e un'oasi, oltre il confine della sabbia, accolse la cavalcatura e il cavaliere, un'oasi meravigliosa, ricca di palme, e d'acqua, e di luce, e di canti di uccelli, e di profumi di fiori. Il rumore degli zoccoli inseguitori era definitivamente svanito. Tommaso si svegli. Si sfreg gli occhi. Corse ad aprire il cassetto: i dieci preziosi foglietti erano ancora l, con il suo nome scritto a penna, e senza firma nel retro, dove c' il girate. L'uomo li palp, li cont, li ripose al loro posto. Ma che cosa avveniva dentro di lui? Si ricord che per la prima volta, da anni, non aveva pronunciato, svegliandosi, la preghiera consueta: Apri, o Signore, la mia bocca, perch benedica il tuo santo nome; purifica anche il mio cuore da ogni pensiero vano, o cattivo, o inutile... degnati, o Signore, di custodirmi di questo giorno cos che io lo trascorra senza peccare.... Ne ebbe vergogna e ne ripet le parole, compitandole. Ma avvert lo stesso senso di soffocazione del giorno prima. Apr le finestre. Anche al di fuori l'aria era grigia, pesante; la campanella della chiesa vicina sembrava avere il battacchio avvolto nell'ovatta. Tommaso prese il messalino e diede un'occhiata al calendario: To', una vedova, oggi - disse - deve essersi fatta santa dopo aver perduto il marito...; e si rec a messa. N si avvide che un'ombra lo seguiva silenziosa come la notte. (Lectio Epistolae beati Pauli apostoli ad Timotheum) pronunci il prete giunto all'epistola. (Carissime...). Tommaso seguiva con gli occhi il testo, come sempre. Ma ad un tratto la sua attenzione si fece pi grande: (Si quis autem suorum) - proseguiva il prete nella lettura -, (et maxime domesticorum, curam non habet, fidem negavit, et est infideli deterior) (1 Tim. V, 3-10): Se qualcuno non ha cura dei suoi, e massimamente dei familiari, ha rinnegato la fede ed peggiore di un pagano. per te - sussurr a Tommaso una strana voce, suadente come quella che ingann Eva nel Paradiso terrestre - s, per te: (si quis) maschile, altrimenti avrebbe detto (si qua). per te, dunque. Se tu non avessi cura dei tuoi cari, e massimamente dei familiari, saresti peggiore di un pagano. san Paolo, che lo dice, cio lo Spirito Santo.... Si avvi verso casa, lentamente, con quell'idea in testa. Aveva una nipote maritata, ricca. E se mandassi a lei, qualche assegno? si disse. Ma non ha bisogno di nulla fece dall'interno una vocetta sottile, sottile, che era poi quella della coscienza. Zitta tu - borbott Tommaso -, ne vuoi sapere di pi di san Paolo? Pi dello Spirito Santo? Non hai sentito? (Si quis... curam non habet...: un tram che passava gli imped di udire una risata stridula. La voce tacque e Tommaso prosegu nell'inseguimento dei suoi pensieri. La nipote maritata non aveva figli... chiss che quando egli fosse stato vecchio non potesse essergli utile... Ma non hai la pensione? rifece la vocetta poco prima mortificata con il perentorio richiamo a san Paolo e allo Spirito Santo. Zitta tu - ripet l'uomo -, e la possibile svalutazione della moneta, dove la

metti? (Estote prudentes), dice il Vangelo, siate prudenti come i serpenti...:il grido di un cenciaiolo che passava gli imped di udire una risata stridula. La voce tacque. Tommaso, appena giunto a casa firm tre dei dieci assegni, li introdusse in una busta, scrisse sopra l'indirizzo della nipote. (Si quis suorum curam non habet) - si ripeteva andando all'ufficio postale (fidem negavit), ha rinnegato la fede... e il volto dell'ombra che lo seguiva era tutto un sorriso. Con gli altri sette milioni Tommaso acquist l'appartamentino dove fino allora era stato in affitto, lo mun di un televisore, di poltrone comode, regolabili secondo i diversi gradi di stanchezza; compr tutta una serie di soffici pantofole. In fondo diceva facendo gli acquisti - ho ben diritto di riposare anch'io, ora che vado verso la vecchiaia. Ho sempre pensato agli altri. Potr pensare un poco anche a me stesso, no?: e concluse con una frase che anni addietro, udita in una predica, lo aveva fatto indignare: (Caritas incipit ab ego...), la carit comincia da noi (veramente, a lui che sapeva il latino, quell'(ab ego) dava noia, ma il senso era chiarissimo, e quell'(ego) era lui, lui solo). (Caritas incipit ab ego,), fece eco una voce strana... Da quel momento Tommasi si convinse di avere trovato la giusta via, l'equilibrio desiderato. Va bene lo zelo, si diceva pensando al passato, va bene la carit verso il prossimo, ma senza esagerazioni, perbacco! La virt sta nel mezzo, mai alle estremit. Ho pure un mio decoro da mantenere, data la posizione che occupo. E poi, giusto che in caso di malattia debba andare all'ospedale? Che da vecchio mi accontenti di una pensioncina valevole soltanto per una modesta casa di ricovero, e forse dividendo con altri la camera? Se facessi cos, non mi metterei, forse, io stesso, nella condizione di irritarmi, di perdere la serenit, di essere scontroso? Con queste e simili domande si pose l'anima in pace. L'antica gioia era scomparsa, vero. Ma essa doveva essere frutto, ora se ne accorgeva, pi del sentimento che della ragione. E del sentimento bisogna sempre diffidare: gioca degli scherzi cos brutti... Pochi anni dopo Tommaso fu fatto commendatore, e nella cerimonia di consegna dell'onorificenza fu indicato a modello dei giovani per capacit, zelo, prudenza...: in banca aveva un libretto nel quale stava scritto, ogni due righe, (ricevute lire... ricevute lire...) senza mai un (prelevate): e la cifra era ragguardevole, anche perch i soliti assegni erano diminuiti e ormai non sorpassavano le mille lire ciascuno. A sessantacinque anni una malattia improvvisa lo tolse di mezzo prima che potesse godersi la pensione. Mo con i conforti religiosi, assistito dalla nipote riconoscente per l'antico dono e per una recente frasetta, che riguardava il testamento. E mentre sulla terra si tributavano gli onori funebri al suo corpo (una targa sul frontale della chiesa ricordava a tutti l'uomo onesto, probo, integerrimo), l'angelo della morte ne port l'anima al tribunale di Dio. Il giudice era seduto sul trono in tutta la sua maest. Quando Tommaso entr, accompagnato dall'angelo, il Cristo lo guard, senza parlare. Tommaso cominci a sentirsi a disagio. Poi, d'improvviso, scoppi nel cielo. dietro il trono, un coro di angeli, lento, solenni, pacato: (Liber scriptus proferetur - in quo totum continetur - unde mundus iudicetur...). Segu una pausa; poi il coro rispose: (Quid sum miser tunc dicturus? Quem patronum rogaturus cum vix iustus sit securus?). per me, per me, pensava Tommaso. Ma ne interruppe il pensiero la voce secca del giudice: Portatemi il libro della vita di costui.... Un angelo venne e porse un libro chiuso. Tommaso Pasquale - lesse il giudice - di anni cinquanta.... Veramente - os interrompere Tommaso - io ne ho sessantacinque... ci deve essere un errore....

Nessun errore, - disse il Cristo, e il suo volto assunse un atteggiamento di dolore - risulta che tu sei vissuto fino alla messa per santa Elisabetta vedova, il 19 novembre di quindici anni fa... dopo quel giorno le pagine sono bianche, assolutamente bianche... come vedi i conti tornano.... La messa di santa Elisabetta! Tommaso si rivide in chiesa, ricord l'epistola di san Paolo a Timoteo: (Si quis...) si ricord dei dieci assegni da un milione, sulla sottile carta filigranata e il suo nome scritto a penna: cap. Ma non ho fatto niente di male - sussurr -, quei denari erano miei. S, - fece il Signore, - erano tuoi: e non hai fatto niente di male. Perci in Paradiso ci resterai, qui sul limitare. Ma ora voglio farti vedere qualche cosa.... Batt le mani. Due angeli comparvero portando una macchina da proiezione. Nostro Signore si sedette accanto a Tommaso. Una nuvola bianchissima faceva da schermo: e nel cielo, divenuto improvvisamente nero, lo spettacolo incominci. Ecco, Tommaso vedeva se stesso, al tavolino di casa, laggi sulla terra, con gli assegni davanti. Rivide il sogno ammonitore dei cammelli, che il suo angelo custode aveva ottenuto per lui, perch potesse vincere la tentazione. Ma ora, che cosa stava succedendo sulla scena? Tommaso vide che firmava gli assegni, si recava alla posta, spediva le raccomandate, tornava a casa leggero pi ancora delle altre volte, e con tanta pace, mio Dio, quanta pace! Poi si vide dieci anni dopo, licenziato ingiustamente, senza lavoro, malato, solo: e una lettiga della croce bianca che lo portava in un ospedale; una lunga corsia di letti, con tanti malati... tanti occhi di sconosciuti che lo guardavano, ma con amore e sorridendo... una suora gli bagnava le labbra screpolate dalla febbre... poi vide una scala d'oro, e lui, proprio lui, lass, sull'ultimo gradino, vicino al cuore di Dio... quanto alto... quanto alto... mio Dio, mio Dio... Poi la scena cambi: e Tommaso rivide tutta la vera vita dei suoi ultimi quindici anni, la commenda, l'appartamentino divenuto suo, il televisore, le poltrone, le pantofole, la nipote al suo capezzale... poi vide una scala d'oro, quella di prima, e si riconobbe fermo gi in basso, al primo gradino. Veramente vedeva che cercava di salire e si afferrava saldo con le mani, alle aste laterali; ma ogni volta che poneva il piede sul secondo gradino questo si piegava e gli impediva di salire. Ecco, ora si avvicinava per vedere quale fosse l'ostacolo e trovava che il gradino non era d'oro, ma fatto di carta arrotolata: fatto con dieci assegni da un milione, in finissima carta filigranata, non firmati. E non poteva salire pi in su. Quando il quadro scomparve, e il cielo riacquist il suo splendore, Tommaso scoppi in pianto. Lo sguardo di Cristo, al suo fianco, era triste, molto triste. San Pietro, che passava in quel momento, si ferm meravigliato: Ma questo il Paradiso - disse - qui non si pu piangere. Lascia che pianga disse il Signore. E furono le prime lacrime viste in Paradiso. Lo specchio. In quell'anno di grazia 1096 rumori di guerra correvano per l'Europa. Ma non si trattava di una delle solite guerre, che vedono fratelli contro fratelli; questa volta le armi sarebbero state rivolte ad Oriente, contro i turchi, padroni della terra dove il Signore era nato, della citt dove era morto: una crociata, insomma, di cristiani, per la liberazione della Terra Santa dagli oppressori feroci, che uccidevano, depredavano, angariavano in ogni modo i pellegrini che venivano dall'Occidente per visitare il Santo Sepolcro. Goffredo di Buglione stava raccogliendo armati per ogni contrada di Francia; Pietro l'eremita predicava in ogni paese la guerra: che, diceva, sarebbe stata, finalmente, una guerra santa. Fu in una notte di quell'anno che davanti al fossato che girava intorno al castello della duchessa Anna di Bretagna si ferm un cavaliere, cinto di

ferro, su un cavallo nero che fumava per la lunga corsa, e nitriva scalpitando. Chi va l, grid una voce assonnata dall'alto delle mura. Sono Vasco, - fece il cavaliere - aprite. Il ponte levatoio scese lentamente, cigolando sulle catene arrugginite, mentre la porta si spalancava. Alcuni uomini di guardia furono accanto al cavaliere e lo aiutarono a scendere da cavallo. Voglio parlare subito con la duchessa mia nonna - fece il giovane. Pochi minuti dopo era nella grande sala del castello, mentre il maggiordomo, che lo aveva accompagnato, si recava ad avvertire la duchessa. Si trasse dalla testa l'elmo e lo depose su di una sedia l accanto. Poi si guard in uno dei molti specchi, di cui la sala era adorna. S, era proprio bello, Vasco di Bretagna, uno dei cavalieri pi famosi di Francia, nipote della duchessa Anna. Nelle giostre nessuno poteva resistere alla sua lancia; sotto i colpi della sua spada andavano in frantumi gli scudi pi robusti; la freccia lanciata dalla sua mano non falliva mai il bersaglio. Tutto questo gli parve vedere nello specchio: sorrise, aggiustandosi i capelli ricciuti.. Sei proprio sempre lo stesso - fece d'un tratto una voce sottile e dolce, alle sue spalle. Il giovane si volt di scatto e pose un ginocchio a terra. Anna di Bretagna era una vecchina che gli ottant'anni passati sembravano aver reso pi piccola, ma alla quale nulla avevano tolto di una fierezza che le traspirava dagli occhi, dal volto, dalla maest del portamento. Nonna - disse Vasco, sempre inginocchiato - ho deciso di partire anch'io per la crociata: e sono venuto perch tu mi benedica.... Non ti credevo cos pio - sorrise la duchessa guardandolo attentamente -, sei proprio sicuro di voler spargere il tuo sangue per la conquista del Santo Sepolcro?. Veramente - arross il giovane - io preferirei spargere il sangue degli altri, come ho sempre fatto, ma Pietro l'eremita dice che questa volta una cosa santa, che si lucrano indulgenze ad ogni colpo di spada, che ogni testa di turco tagliata un'anima del purgatorio che si libera... E poi, nonna, tu sai bene che mio fratello maggiore ha ereditato tutto, ed io non ho che le mie armi e il mio cavallo.... Vedo, vedo - fece la vecchina - non la piet, ma lo spirito di avventura che ti muove, il desiderio della gloria, del potere, della ricchezza. Ebbene, va pure, con la benedizione di questa tua vecchia nonna, che forse non rivedrai pi. Ma prima di partire devi farmi una promessa.... Subito, nonna: promessa da cavaliere. E che io perda l'anima se non la manterr.... Ma se non sai ancora di che cosa si tratta, benedetto ragazzo.... Sempre sorridendo Anna trasse di tasca un piccolissimo specchio di cristallo e lo porse al giovane, che lo port subito davanti al volto. Che cosa vedi, figliolo?. Ma che cosa dovrei vedere, nonnina? La mia faccia.... Ebbene, tu mi devi promettere che ogni sera, prima di coricarti, anche se fossi stanchissimo, ti guarderai in questo specchietto pronunciando le parole che ora ti dir.... Benissimo, nonna, anzi le voglio ripetere subito con te.... Allora, ripeti, ma con voce chiara, guardandoti nel cristallo: "Vasco".... Vasco. Tizzone d'inferno.... Ma nonna, che cosa dici... io... tu... no, non guardarmi cos... ti accontento... ti... ti... tizzone d'inferno.... Levato il santo battesimo.... Levato il santo battesimo.... Tu sei un perfetto animale.... Ma nonna, io sono un grande cavaliere, io sono uno dei pi forti giovani di Francia, io sono... no, non guardarmi cos... ti accontenter, ho promesso... tu sei un perfetto a... a... ani... anima... animale. Ciononostante, Signore Iddio, abbi piet di me.... Ciononostante, Signore Iddio, abbi piet di me... Uffa!. Niente uffa. E adesso ripeti la preghierina, ma senza fare il balbuziente,

come hai fatto. E bada che ho la tua promessa di cavaliere: ogni sera, anche che se fossi stanchissimo, ti guarderai nello specchio pronunciando le parole che ti ho insegnato. Addio figliolo e che il Signore sia con te. Pochi minuti dopo il cavallo nero ripassava, lanciato a furioso galoppo, sul ponte levatoio: e si perdeva nel buio della notte. Su, nella cappellina del castello, un lume si accendeva. Vasco di Bretagna cavalcava furioso verso l'accampamento di Goffredo di Buglione. Lui, un tizzone d'inferno... lui, un tizzone d'inferno... per, delle cattive azioni ne aveva pur fatte, quel cavaliere ucciso in duello per far piacere ad un amico... quella monaca rapita dal convento per riportarla ai genitori che la volevano maritare... quel contadino cacciato a frustare bench avesse ragione... quello splendido cavallo che non era propriamente una preda di guerra... s, forse la nonna non aveva tutti i torti... tizzone d'inferno... e poi, in fondo, un bel titolo, una bella frase... ma un perfetto animale no, questo no, questo no... un cavaliere della sua fatta non poteva essere un animale, sai pure perfetto... no, Vasco di Bretagna non era un animale... l'avrebbe fatto veder lui alla nonnina che era Vasco di Bretagna... per, se non era che per far contenta la nonna, per mantenere una promessa fatta, ebbene, avrebbe detto ogni sera quelle parole... A questa conclusione una strana pace fu su di lui, una pace mai prima provata. Gli pareva di essere a cavallo di una nuvola e che gli venisse incontro da lontano una musica dolcissima, come non ne aveva udita mai. E un canto, anche, gli parve udire, un canto di invisibili voci librate sul suono di arpe nascoste. Fece attenzione per vedere se gli riusciva di capire almeno una parola di quel canto; ed una ne cap, s, una sola, le cui sillabe si staccavano dai concenti che nascondevano tutte le altre. Ma da una parola sola, che cosa pu capire un cavaliere vestito di ferro? La parola era: (Magnificat). Soldati cristiani, - diceva ad altissima voce un banditore turco sotto le mura di Damietta - il Saladino, mio signore, pronto a cedervi la citt senza combattere se uno dei vostri campioni riuscir a vincerlo in singolare tenzone. Questa la proposta che egli mi ha ordinato di farvi. Che cosa rispondete?. Vasco di Bretagna fu l'urlo dell'esercito cristiano. Cos, in un pomeriggio pieno di sole, si trovarono di fronte il cavaliere bretone, divenuto in quegli anni ancor pi famoso, e il pi feroce dei condottieri turchi. Tutt'intorno i due eserciti facevano da spettatori e da giudici. Il primo scontro fu alla lancia: una specie di tronco dalla punta di ferro che non si sapeva come fossero capaci di reggere. I due cavalli lanciati al galoppo si andavano avvicinando, ecco, erano a pochi metri. Un urlo. Entrambi i guerrieri avevano colpito lo scudo dell'avversario e le lance erano andate in pezzi: ma n l'uno n l'altro erano caduti a terra. Allora posero mano alle spade in lotta ravvicinata. Fu in quel preciso momento che una freccia, lanciata da un guerriero cristiano, colp il cavallo del Saladino: e una voce grid: Uccidilo, Vasco. Vasco fece fare al suo destriero un fulmineo dietro front: un minuto dopo la testa dell'arciere cristiano che aveva scagliato il dardo era nelle sue mani; Vasco, sceso da cavallo, la offr al Saladino che gli veniva incontro furioso: Scusami - disse - e accetta la testa di questo traditore. Un lungo applauso si alz da entrambi gli eserciti. Anche il successivo duello alla spada non ebbe n vincitore n vinto: gli scudi andarono in frantumi e le spade si spezzarono nelle mani dei due combattenti, ma nessuno prevalse. Allora si rivolsero all'ultima arma, il pugnale. Il Saladino, di pi robusta corporatura, mise a terra Vasco, e gli fu sopra con il suo peso. Ecco, il pugnale scendeva lento verso il cuore del crociato, che cercava disperatamente di trattenere la mano dell'avversario... ancora due centimetri... uno... poi il pugnale improvvisamente si spunt incontrando un corpo duro a protezione del cuore... ma la sorpresa cost cara al Saladino, che si trov d'un tratto

disarmato da una furiosa reazione di Vasco che, rovesciatolo in uno sforzo supremo, gli punt a sua volta il pugnale alla gola... Uccidilo, urlarono molti cristiani... Vasco guardo il guerriero turco ormai in suo potere: la fronte, nobilissima, era imperlata di sudore; sulle guance scorreva il sangue delle ferite; gli occhi non erano quelli di un nemico: ma di un uomo pronto a morire senza paura e senza chiedere piet. Vasco gett lontano il pugnale ed aiut l'avversario a rialzarsi. La citt tua, disse il Saladino: e prima di ritirarsi lo volle abbracciare davanti a tutti, ponendogli al collo una collana d'oro tempestata di pietre preziose. Vasco si ritir nella sua tenda. Era ferito, era esausto, era stanco da morire. No, questa sera la preghiera non la dico - mormor -, questa sera non la dico, perch sono stanco; e perch non mi riconosco pi un perfetto animale.... Mentre cos diceva, riandava le fase del combattimento... rivide il pugnale del Saladino scendere sul suo cuore... ma perch non lo aveva trafitto?... Si port le mani al giubbotto, quasi affannosamente... ma s, proprio sul cuore c'era un oggetto duro... ritrasse la mano: e nella mano c'era lo specchietto della nonna, lo specchietto non pi tersissimo, perch segnato al centro dal pugnale del saraceno che vi si era spuntato... Un soldato cristiano che passava presso la tenda ud Vasco che gridava: Vasco, tizzone d'inferno, levato il santo battesimo, tu sei un perfetto animale... tu sei un perfetto animale... tu sei un perfetto animale.... Deve essere impazzito, disse. E fugg. Fugg cos rapidamente da non accorgersi che un'ombra nera era entrata nella tenda. Vasco era disteso sui tappeti che gli servivano da letto e anche nel sonno pesante in cui era caduto continuava a mormorare: ... Tu sei un perfetto animale. Ciononostante, Signore Iddio, abbi piet di me. Che il tuo Dio abbia piet di te affar suo - mormor il turco alzando la scimitarra -, ma io non ti posso perdonare di aver umiliato il mio re. E cal il fendente. ... Signore Iddio, abbi piet di me..., gorgogli la testa rotolando recisa. San Michele Arcangelo se ne stava disoccupato accanto alla grande bilancia su cui pesa i meriti e i demeriti, prima di introdurre i defunti nell'ufficio di san Pietro, quando sent un gran baccano venir su da un angolo della terra. E poco dopo vide presentarglisi una schiera di angeli e una schiera di diavoli che si disputavano l'anima di un cavaliere. Appartiene a noi, dicevano gli uni. No, a noi, urlavano gli altri. In mezzo, tutto impaurito, stava, poich era proprio lui, Vasco di Bretagna: chiuso nella sua armatura di guerriero, con lancia e spada, ma senza elmo. Ora vediamo subito chi di voi ha ragione.disse pacamente l'arcangelo, imponendo silenzio. E condusse tutti davanti alla bilancia della verit. Gli angeli gridavano il bene compiuto da Vasco, i diavoli il male: e negazioni, contraddizioni, urla, invettive, si intrecciavano con violenza. Soprattutto i diavoli erano feroci nel controbattere i meriti che gli angeli avanzavano. E cos la bilancia andava ora su ora gi, ma alla fine rimaneva con i piatti librati assolutamente alla stessa altezza. incredibile - sbott san Michele - in tanti secoli non ho mai visto una cosa simile. Ma quest'uomo - intervenne ad un certo momento l'angelo custode di Vasco - si fatto crociato per liberare il Santo Sepolcro.... D, piuttosto, per desiderio di gloria e di denaro..., url la schiera dei diavoli. Quest'uomo - continu l'angelo - ha versato il suo sangue per la fede.... D, piuttosto, che ha versato quello degli altri, per farsi ammirare e lodare..., lo interruppero i diavoli. Quest'uomo morto per la fede, fin l'angelo. Macch fede - fu la risposta dei diavoli -, morto per la vendetta di un soldato turco che non pat l'umiliazione del suo capitano, come sarebbe avvenuto in Europa, fra cristiani.... Adesso, basta, fece l'arcangelo Michele. E rivoltosi a Vasco: Butta l

sopra la tua lancia - gli ordin -, vedremo subito quale la verit. Vasco butt sul piatto delle opere buone la immensa e pesantissima lancia: il piatto rimase immobile. Ah, ah, ah,, ghignarono i demoni. Buttaci la tua spada, continu Michele. Vasco butt sulla bilancia la spada con il fodero: il piatto non si spost di un solo millimetro. Ah, ah, ah,, ghignarono i demoni. Vasco si vide perduto. Il sudore gli scendeva a rivoli sulla fronte. Gli angeli tacevano, mortificati. Guardate, viene qualcuno laggi, osserv in quel momento l'angelo custode. Tutti guardarono nella direzione da lui indicata. Una nuvoletta si era staccata dalla terra, e saliva, saliva. Sembrava occuparla un'anima piccina ed esile, una donna, pareva. Nel salire si faceva sempre pi luminosa, come se tutti i raggi del sole l'investissero. un'anima santa - osserv Michele -, ma devo pur pesare anche le sue opere, e la bilancia occupata da questo maledetto crociato. La nuvoletta si arrest, infine, davanti al gruppo dei contendenti. Nonna - grid Vasco - nonna!. Era lei, infatti, la duchessa Anna di Bretagna. S'era fatta pi curva, ma gli occhi, il volto, il portamento erano quelli di sempre. Solo che fra i capelli brillava una stella splendidissima. S'accomodi, signora - disse Michele Arcangelo - sono desolato di doverla fare aspettare. Ma c' qui un caso che non mi mai capitato in vita mia... e s che una vita lunga... la bilancia che non si vuole decidere. Ma questo Vasco, mio nipote, mornmor Anna. S, nonna - fece il poveretto - sono proprio io. Aiutami tu, come hai sempre fatto. San Michele disse brevemente alla duchessa ci che era accaduto: e le mostr la bilancia a piatti assolutamente uguali, malgrado che su quello delle opere vi fossero la lancia e la spada di Vasco. La duchessa guard il nipote. Vasco - gli disse - prima di partire dalla Bretagna tu mi facesti una promessa. Te ne ricordi? L'hai mantenuta?. S, nonna, sempre. Io ti diedi, allora, un piccolo specchio, in cui dovevi guardarti ogni sera recitando una piccola preghiera che, in verit, non accogliesti molto bene la prima volta. Me la sai ripetere?. Ecco, nonna: "Vasco, tizzone d'inferno, levato il santo battesimo, tu sei un perfetto animale. Ciononostante, Signore Iddio, abbi piet di me". L'ho recitata sempre, nonna, anche ieri sera, prima di essere ucciso, bench fossi esausto.... E lo specchio, dov'?. Dev'essere qui, nonna.... Figliolo, cercalo, e prova a buttarlo sul piatto delle opere buone. Vasco lo trasse dal giustacuore dov'era ancora, lo gett sulla bilancia. E fu come se un monte cadesse sul piatto. Il colpo fu tale che le opere cattive, sbalzate dal loro piatto, precipitarono nel vuoto: dietro esse, con un urlo di rabbia, precipitarono anche i demoni. In quel preciso istante un'immensa armonia riemp i cieli. Era una musica dolcissima, come di invisibili voci librate sul suono di arpe nascoste. Vasco fece attenzione. Ma s, la ricordava quella musica. Era la stessa udita la notte che aveva lasciato il castello della nonna per raggiungere gli accampamenti di Goffredo di Buglione. Ma ora non era una sola parola che egli riusciva ad afferrare; era tutta una serie di parole che venivano verso di lui, che lo circondavano, come una nuvola lieve e sonora. L'anima mia magnifica il Signore, ed esult il mio spirito

in Dio, mio Salvatore... Ha deposto dal trono i potenti, ha esaltato gli umili... Cos, non per eroiche imprese di guerra, non per la gloria conquistata davanti al mondo, ma per un piccolissimo atto di umilt il cavaliere Vasco di Bretagna, crociato, entr in Paradiso a braccetto della nonna in una sera d'agosto dell'anno di grazia 1099. Gi, sulla terra, pochi mesi dopo, Goffredo di Buglione entrava trionfante in Gerusalemme e chinandosi a baciare il Santo Sepolcro vi deponeva piangendo l'elmo dell'amico caduto, il povero Vasco. Ma era lontanissimo dal pensare, come lo siamo tutti noi, cristiani distratti, che non per quell'elmo, terrore dei nemici, l'anima di Vasco aveva gi fatto il suo ingresso in una Gerusalemme ben pi importante di quella terrena. Le piccole cose. Grande era la fama del monaco Pafnuzio nel contado di Siena, anzi in tutta la Toscana. E sarebbe stata ancora pi grande se questa storia non fosse accaduta molti, molti secoli fa, intorno all'anno mille, quando le notizie camminavano assai meno di adesso: di bocca in bocca, dalle casupole isolate in zone senza vie di comunicazione, ai paesi, alle borgate, alle citt, fra le contrade, sulle piazze, nei mercati. Siena era, allora, una citt piccola, ma gi famosa, tutta cinta da mura merlate interrotte da alte torri: dall'una all'altra delle quali rimbalzava, di notte, il grido delle sentinelle in armi, rompendo il silenzio che fasciava la citt come le sue mura. Bello, giovane, amato, erede unico di una famiglia nobile e ricca, toccato dalla Grazia divina, Pafnuzio si era fatto monaco, malgrado la disperata opposizione dei genitori: e da vent'anni ormai viveva solo in una grotta del monte Oliveto. Il luogo era solitario e selvaggio, chiuso fra foreste immense di querce, dove i cinghiali avevano il loro regno; vi si saliva con difficolt e non senza pericolo d'incontri con fiere selvagge; dopo ore ed ore di cammino si giungeva ad una piccola radura, sulla quale incombeva, a picco, una roccia inaccessibile, da cui calava un filo d'acqua perenne, limpidissimo: l accanto era la grotta di Pafnuzio. Qualcuno vi era entrato, mentre egli era nel bosco, immerso in preghiera, e ne era rimasto attonito: per letto, poche foglie secche; per guanciale, una pietra; in un angolo, tre sassi anneriti dal fuoco; appesi ad un chiodo, pi sopra, un pentolino scassato e un tegamino con il manico rotto; nel fondo, appena visibile, una rozza croce. Questo era tutto. Si sapeva che l'eremita aveva fatto voto di vivere sempre solo, di non possedere mai nulla. Da venti anni teneva fede alla sua parola; la gente lo venerava come un santo, e gi molti miracoli gli venivano attribuiti, di guarigioni, di conversioni, di interventi prodigiosi in casi disperati. Il nostro santo eremita diceva parlando di lui la gente, con ammirata venerazione. Fu a questo momento che Belzeb, il principe delle tenebre, decise di intervenire, chiamando a raccolta i suoi diavoli pi esperti. Ne vennero parecchi, tutti anziani e incalliti nell'arte di tendere alle anime le trappole pi insidiose. Facciamo in modo che diventi vescovo - propose uno -, cos lo prenderemo con gli onori e la vanit.... Mandiamogli ogni sorta di malattie, - disse un altro - cos da fargli venire meno la pazienza.... E ciascuno diceva la sua. Ma Belzeb mostrava, con il suo silenzio, di non essere soddisfatto delle proposte fatte, n di altre che si continuavano a fare. Con il tuo permesso - disse alla fine un diavolo piccolo, a cui nessuno aveva badato - vorrei tentare con cose piccole, alle quali nessuno bada. Superbia, avarizia, lussuria, egoismo, vanit, sono cose troppo grosse perch un santo non le avverta subito e si metta in guardia. Sono punti di arrivo, non punti

di partenza: e bisogna arrivarci adagio, molto adagio.... Belzeb, che gi alle prime parole del suo ultimo consigliere aveva rizzato le orecchie in segno di attenzione, lo interruppe quasi subito: Va bene, ho capito, forse hai ragione: affido a te l'affare, e ti do carta bianca. Il diavolo piccolo s'inchin attorcigliandosi la coda intorno ai fianchi pelosi. Sul monte Oliveto il silenzio era altissimo. Pareva che ogni vita fosse spenta e che le tenebre si fossero distese su ogni cosa come un velo di morte. Non un canto di uccello, non un soffio di vento, non un timido muoversi di foglie. Ma quando nel cielo immoto parvero perdere un po' di fulgore le stelle, come se una luce lontana sorgesse per strapparle alla coltre nera del firmamento, una voce umana scoppi improvvisa e giuliva: (Aperi, Domine, os meum, ad benedicendum nomen sanctum tuum:) apri, Signore, la mia bocca, a benedire il tuo santo nome... Cos Pafnuzio salutava, nella notte ancora fonda, la luce che stava per sorgere: e nella luce il Signore della luce, luce della luce e fontana di luce, come aveva cantato il vecchio Ambrogio, vescovo di Milano. A quelle parole il bosco si svegliava: ed era come se un coro di canti, di strilli, di fruscii, di brusii, dapprima tenue e quasi impercettibile, poi sempre pi forte, si unisse alla voce dell'eremita per accompagnarla in alto, oltre la cime del monte, fin dentro gli abissi del cielo: l dove stanno con le ali distese gli angeli che portano a Dio le preghiere degli uomini. Ma non era giunto ancora a fine di mattutino, quando Pafnuzio ud, dietro di s, un rumore non consueto, un lamento come di persona ferita e bisognosa di aiuto. Si volse lentamente e non seppe trattenere un moto di sorpresa: davanti a lui stava un uomo con le vesti a brandelli, il volto rigato di sangue per profonde ferite, gli occhi smarriti e imploranti, quasi fosse per venire meno. E infatti, alzate a stento le braccia, cadde svenuto ai suoi piedi. L'eremita lasci a mezzo la preghiera e si chin sul poveretto. Poco dopo le ferite erano lavate, la testa fasciata alla meglio, il corpo adagiato su di un morbido strato di foglie secche. Quando il malcapitato rinvenne, dalle sue labbra usc, tra un lamento e l'altro, la storia della sua disavventura: era monaco - disse - di un convento di Siena, venuto lass per chiedere consiglio; ma incappato in una banda di ladroni era stato ridotto cos. Domandava in grazia di poter rimanere qualche giorno con lui, finch fosse in grado di tornare in citt. Pafnuzio esit un momento, pensando al suo voto di voler vivere sempre da solo. Ma poi la carit ebbe il sopravvento; certo, se avesse avuto un mulo o un somaro, egli avrebbe rinnovato il gesto del buon Samaritano, portando il ferito almeno fino al primo casolare, laggi oltre la foresta, per lasciarlo in mani sicure; ma non aveva n mulo n somaro: rimanesse pure, quindi, il monaco, con lui, fino a guarigione raggiunta. Non si accorse, il caritatevole eremita, che un lampo di trionfo aveva attraversato, a queste parole, gli occhi del monaco: il quale, come forse avrete gi capito, era il diavole delle piccole cose, che stava dando inizio al suo piano infernale. La prima cosa che fece fu di toccare lievemente la fronte di Pafnuzio, la notte successiva, poco prima che questi si alzasse, come di consueto, a svegliare il bosco con la sua preghiera. Un sonno profondo scese sull'eremita: e invano, quel giorno, gli uccelli, le foglie, la vita della foresta, attesero la voce amica. Il sole era gi alto quando Pafnuzio si dest dal suo terpore. Non voleva credere a se stesso, si stropicciava gli occhi, li apriva, li chiudeva, li riapriva ancora: in vent'anni era la prima volta che un fatto simile gli capitava. Si guard attorno smarrito, come per chiedersi se non fosse un brutto sogno. Quando s'accorse che era una triste realt, si butt in ginocchio percuotendosi il petto e chiedendo perdono a Dio con grida quasi disperate. (Miserere mei, Deus; miserere mei, Deus:) il bosco taceva, tutt'intorno, sbigottito.

Ma ecco, d'un tratto, una voce risuonare timidamente: Con tutto il rispetto che ti devo, padre venerato e santo, non penso sia gradita a Dio questa tua disperazione. Senza volont non c' malizia, e per peccare ci vuole, oltre che la materia grave, piena avvertenza e deliberato consenso, come ci insegna la Chiesa. Vuoi tu saperne pi di lei, sposa di Cristo e madre nostra? E non potrebbe essere, questo tuo pianto, un atto di orgoglio luciferino? Le insidie del demonio sono sottili, padre mio, sono sottili, sottili.... Chi parlava cos era il monaco, cio il diavolo: il monaco-diavolo che chiameremo, per non ripeterci sempre, frate Insidia. Ora il diavolo , lo sapete bene, anche se decaduto, un angelo: e come tale potentissimo, per permissione di Dio. Non meravigliatevi perci di tutto quello che accadr in seguito, e soprattutto non costringetemi a spiegarvi ogni cosa. Dunque, per quattro giorni successivi il povero Pafnuzio si svegli a mezzogiorno: non voleva disperarsi per non peccare di orgoglio, ma il suo dolore era profondo, almeno quanto lo stupore degli animali della foresta che lo attendevano invano all'appuntamento dell'alba. Fu allora che frate Insidia - il quale faceva in modo di non guarire mai torn alla carica: Padre - disse - il tuo dolore mi di grande pena. Ma un modo ci sarebbe, un modo sicuro, dico, perch tu ti possa svegliare all'alba. E' quello che adoperiamo noi, gi in convento: sarebbe sufficiente che tu possedessi un gallo... il gallo, come sai, canta sempre all'alba. Lo dicono anche i nostri santi Padri, (gallus iacentes excitat et somnolentos increpat), il gallo sveglia i dormienti, sgrida i pigri; e per questo lo abbiamo messo in cima ai nostri campanili. Ecco, se tu possedessi un gallo, il problema sarebbe risolto per sempre, padre mio.... Ma io - fece Pafnuzio - ho fatto voto di non possedere mai niente, capisci? E niente vuol dire niente: n un gallo, n altro. Anche noi - suon melliflua la voce di frate Insidia - anche noi, monaci, come certo saprai, abbiamo fatto voto di povert. Abbiamo molte cose, vero, dai monasteri alle chiese, agli orti, ai frutteti, ai pollai, ma non in propriet, soltanto in uso. Il non avere nulla in propriet ci lascia poveri, l'avere le cose in uso ci permette di avere tutto, naturalmente per servire meglio il Signore, senza venir meno al voto di povert. Cos tu potresti benissimo usare di un gallo (e che cosa , poi, un gallo se non un animale piccolo e grazioso), naturalmente per servire meglio il Signore: e senza venire meno al voto di non possedere mai nulla. Pafnuzio ascoltava; sentiva dentro di s una voce che gli diceva di stare attento, attento, attento, ma d'altra parte il ragionamento di frate Insidia gli pareva non facesse una grinza: ed egli avrebbe ripreso a svegliarsi all'alba, a lodare Dio come prima. Cos, senza parlare, mosse il capo in segno di assenso. La sera stessa un contadino, sal alla grotta di Pafnuzio con un magnifico gallo; il contadino aveva certi occhi strani, specialmente quando si incontrarono con quelli di frate Insidia: ma il gallo era veramente un superbo animale. E quando, il giorno dopo, a notte fonda, svegli Pafnuzio, e si mise a pregare con lui cercando, con gli occhi fissi verso oriente, una luce che nessuno ancora vedeva, il bosco intero sobbalz di gioia: e un coro immenso di voci, non mai prima udito con tale intensit, salut lo stupore dell'alba che scoloriva il cielo all'orizzonte lontano. Pafnuzio recitava mattutino e piangeva di gioia. Quando ebbe finito, guard con riconoscenza il gallo: Sei proprio una gran brava bestia - disse -, peccato che non abbia pensato prima a te: per ricordati che non sei mio, sei solo in uso, in uso... io non possiedo niente. In uso, fece eco sommessamente frate Insidia: anche il gallo parve assentire, alzando la splendida testa. Per quindici giorni, pi puntuale di un cronometro, il gallo cant svegliando Pafnuzio quando la notte giungeva ai confini del giorno; ma al sedicesimo tacque, e l'eremita si dest ai raggi del sole: il fatto si ripet nei giorni successivi.

Costernato e addolorato Pafnuzio affront direttamente il gallo: Perch non canti pi, gallo caro, e te ne stai con quest'aria afflitta, la cresta abbassata, le penne dimesse? Eppure ti do il cibo migliore, l'acqua pi fresca: e ho perduto perfino del tempo, che Dio mi perdoni, a cercarti nel bosco delle ghiottonerie.... Non difficile capirlo, fece alle sue spalle la voce di frate Insidia. Spiegati, gli fece Pafnuzio. Padre venerato, la tua santit non ti consente di vedere e di capire subito certe cose, un po' delicate senza dubbio, ma che la legge del creato stesso esige. (Gallus amisit vocem), il gallo non canta pi, perch, come dicono i nostri teologi, (indiget socia quam naturaliter requirit), gli manca la compagna che la sua stessa natura richiede, cio una creatura simile a lui, ma di esso diverso, una gallina quindi. Non sono io che dico questo, Dio stesso che lo dice, sapiente creatore di tutte le cose. Non ricordi come il primo capitolo del Genesi commenta la creazione dell'uomo? (Masculum ef feminam creavit eos): li cre maschio e femmina. Visto che l'uomo si sentiva solo, Dio gli cre la donna; cos fece per tutti gli animali di cui popol la terra, i mari, i cieli. E perci - lo interruppe Pafnuzio - io dovrei procurare a questo gallo, perch ha perso la voce, una gallina? E dopo un gallo io dovrei possedere anche una gallina?. Non tu - mormor il monaco - tu continui a non possedere niente, come hai promesso a Dio. Hai in uso il gallo, il quale, a sua volta, ha diritto di avere, non importa se in propriet o in uso, ci che la sua natura richiede, cio una gallina, (sociam quam naturaliter requirit). O vorresti forse farti giudice dell'opera di Dio, che cos ha stabilito? E ritenerti pi sapiente di lui? Bada, padre reverendo, di non cadere nelle insidie del demonio, che sono sottili, sottili.... E con la gallina, il gallo torner a cantare?. Chicchiricch, fece la bestia scuotendo le penne dai riflessi di perla... La sera stessa di quel giorno una vecchia contadina sal alla grotta dell'eremita con una magnifica gallina; la contadina aveva certi occhi strani, specialmente quando si incontrarono con quelli di frate Insidia: ma la gallina era veramente un superbo animale: e vol accanto al gallo, che l'accolse felice. L'indomani, lo squillo che svegli Pafnuzio e il bosco parve un grido di gioia ripercosso da monti e da valli: e giunse fino ai confini del mare destando di soprassalto anche l'alba che attendeva dietro il filo dell'onda per alzare il sipario della notte. (Aperi, Domine, os meum ad benedicendum nomen sanctum tuum), grid Pafnuzio con le braccia protese ad oriente. E continu pregando e piangendo fra mille voci che gli facevano da coro, esultanti e lieti per la sua gioia. Poi i giorni seguirono ai giorni, salutati sempre dal canto di Pafnuzio che svegliava il mondo dall'abbraccio della notte. Ma un giorno l'eremita, tornando dalla foresta con frate Insidia, vide qualche cosa biancheggiare in una specie di nido fatto di steli e di frasche. Si avvicin incuriosito e, chinatosi, raccolse un oggetto di forma ovale, bianchissimo. Lo stava girando e rigirando fra le mani, quando il compagno gli disse: Padre venerato e santo, non stupirti: non che il frutto delle attenzioni del gallo verso la gallina, un comunissimo uovo. E a che cosa serve?. Sul volto di frate Insidia apparve un sorriso, negli occhi pass un lampo. Serve a molte cose, padre venerato: ma soprattutto d nutrimento per le persone affaticate e stanche. Come farebbe bene anche a te, cos indebolito dai digiuni e dalle astinenze! Ti cibi soltanto di erbe, spesso crude, e bevi un sorso d'acqua. So bene che lo fai per ridurre in schiavit il corpo e dare all'anima ali sempre pi grandi. Ma anche il corpo, credimi, ha i suoi diritti: perch serva bene l'anima non lo si pu maltrattare troppo. Non ti sei accorto, per esempio, come in questi ultimi giorni la tua voce sia diventata fioca, debole, quasi stonata? E ti pare

giusto far salire a Dio una voce fioca, debole, stonata? A Lui, Signore dell'universo, a Lui per il quale l'usignolo canta la sua canzone pi bella e l'allodola corre incontro al sole strillando, e il firmamento stesso innalza, nel ruotare degli astri, una musica meravigliosa? Sarai dunque inferiore agli animali nel lodare Dio, tu, la sua creatura pi bella? Eppure, ci vorrebbe cos poco! Ecco, guarda: prendi quest'uovo, gli fai un buchetto in alto, per l'aria, uno un po' pi grosso in basso, accosti a questo la bocca, e succhi... vedi? bastato un secondo e tutto fatto. Ed ora ascolta la mia voce.... Cos dicendo frate Insidia inton il (Magnificat): le parole, le sillabe, gli uscivano canore e sonore in un suono ora rapido, ora prolungato, ma sempre chiaro, pieno, pastoso, stupendo. Gli uccelli che stavano cantando nel bosco tacquero di colpo: poi fu tutto un fruscio d'ali accorrenti per vedere il cantore nuovo e meraviglioso. L'indomani, quando il gallo cant, Pafnuzio sorb il primo uovo da quando era eremita. Guarda - gli mormor dentro una voce - che cos facendo non apr pi la bocca a benedire il nome santo di Dio, ma a sorbire un uovo.... Taci, stupida - le risposte Pafnuzio - sai bene che lo faccio proprio per benedire meglio il Signore.... L'(Aperi, Domine, os meum), gli usc infatti assai meglio del solito: pieno, alto, forse, rotondo... Da quel giorno prima di mattutino l'eremita prese l'abitudine di sorbirsi un ovetto. Del resto, che cosa era cambiato? Il gallo era in uso, la gallina era del gallo, l'uovo lo aiutava a servire Dio in modo pi decoroso e conveniente alla Sua maest. Tutto era come prima, dunque, anzi meglio di prima. Eppure Pafnuzio non pot sottrarsi all'impressione che la sua preghiera sonora si aggirasse fra le selve, percorresse le valli, ma non salisse pi in su, l dove gli angeli con le ali distese attendono le preghiere degli uomini per portarle al trono di Dio. Dev'essere una tentazione del demonio, si disse, e non vi fece pi caso. Qualche settimana dopo, mentre era ancora con frate Insidia, uno spettacolo inconsueto si offerse a Pafnuzio. Nella radura davanti alla grotta veniva avanti pettoruta e gonfia nelle penne la gallina; ma non era sola: la seguiva uno stuolo di pulcini che correvano qua e l, beccavano per terra, ma erano pronti a correre dalla madre non appena questa emetteva certi chiocciolii dalla gola socchiusa. Guarda, guarda - fece frate Insidia - babbo gallo e mamma gallina non sono pi soli. E che cosa faremo di questi pulcini?. Frate Insidia chin gli occhi percorsi da un rapido lampo. Padre reverendo, - rispose - potremo venderli, appena saranno cresciuti e diventati dei bei galletti. Venderli? Ritrovarci ancora a contatto di quella cosa immonda che il denaro, per fuggire il quale sono venuto quass? No, questo non lo far mai. Non temere - gli rispose il monaco - e fidati di me. Se lo vorrai, tu non vedrai n toccherai mai denaro. Il quale proprio, come dice il Vangelo, mammona di iniquit, sorgente di ogni passione, fonte di ogni peccato. Eppure, se uno ne distaccato dal cuore, quanto bene si pu fare con esso! Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, ospitare i pellegrini, aiutare le vedove, nutrire gli orfani: con che cosa si fa tutto questo, se non con il denaro? Tu, finora, a che venuto quass in pianto a chiederti aiuto, hai risposto con parole sante, con saggi consigli, e ne sei stato benedetto. Ma se avessi potuto far s che il contadino depredato della mucca fosse stato in grado di acquistarne un'altra col tuo aiuto, di ricostruirsi la casa chi l'aveva veduta bruciare, di tirar su i figli la donna rimasta vedova, non saresti stato benedetto mille volte di pi? Anzi, non tu, ma Dio, in nome del quale tu avresti fatto tutto ci? Ricorda, padre venerato, quanto dice san Giovanni: "Figliuoli miei, amatevi con le opere, non con le parole". Certo, tentazione terribile il denaro: ma soltanto per chi lo ama,

non per chi ne ha il cuore distaccato, e se ne serve soltanto per le opere di misericordia e di carit. Dio stesso lo dice: "Beato il ricco che sar trovato senza macchia, che non andato dietro all'oro, n ha posto la sua speranza nel denaro ammucchiato. Egli ha fatto cose meravigliose nella sua vita, e gloria eterna lo attende, perch poteva violare la legge, e non la viol, fare il male, e non lo fece. Per questo tutti i suoi beni sono fondati nel Signore, e la chiesa dei fedeli racconter le sue elemosine". Ricordi questi versetti del cap. XXXXI dell'Ecclesiastico? Ebbene, parola di Dio, riconoscila detta anche per te, e riempi questa tua solitudine, fatta finora di preghiera, anche di carit, di misericordia, di bont verso il prossimo. Non temere per la tua vita solitaria. Scender io stesso a Siena a vendere i galletti. Tu poi distribuirai tutto ai poveri, che ne daranno gloria a Dio. Cos parl frate Insidia: e la sua voce si andava di mano in mano facendo pi forte, pi sicura. Il vento non soffiava pi fra le piante, una grande pace sembrava essersi distesa su ogni cosa. Anche Pafnuzio taceva. Ruppe il silenzio della sua anima una voce che sembrava venire da lontananze estreme: Sta attento, Pafnuzio, per amor di Dio, sta attento e riconosci l'insidia del nemico.... Quale nemico - mormor fra s l'eremita - se la Bibbia, cio Dio stesso, che fa l'elogio del ricco dal cuore distaccato? Gloria eterna lo attende... i suoi beni sono fondati nel Signore... la chiesa dei fedeli esalter le sue elemosine... che cosa vuoi di pi? Questa parola di Dio. Un mese dopo frate Insidia sal alla grotta di Pafnuzio con il primo sacchetto di monetine d'oro. L' eremita lo rovesci al suolo, cos, per curiosit, le prese in mano, le osserv, una per una: come erano belle, come scintillavano al sole, come spiccavano nell'oro zecchino il giglio di Firenze, che egli ben conosceva, e il leone di san Marco, e le torri di San Geminiano, e la faccia dell'imperatore di Bisanzio! Ma era giusto dare cose cos belle a bifolchi cui erano state rubate le mucche, ai contadini cui il fuoco aveva divorato la casa o le messi, a vedove che si trascinavano dietro bambini sporchi e mocciosi? Non sarebbe stato meglio custodire quelle monete entro forzieri degni di loro, in cassette ben lavorate, tutte irte di borchie di ferro: e servirsene, semmai, per far costruire delle cattedrali a maggior gloria di Dio e della santa Chiesa? E farle costruire, possibilmente, dopo la propria morte, raccogliendo, intanto, pi monete che fosse possibile? Non era questo un proposito ben pi virile che lo starsene su di un monte a cantare le lodi di Dio vivendo miseramente privi di tutto, senza poter aiutare nessuno? E che questo facesse non un bifolco, ma lui, conte dell'impero, erede unico di una casata nobile e ricca? Questi pensieri, ed altri simili, and rimurginando Pafnuzio per qualche tempo, con l'aiuto zelantissimo di frate Insidia che li documentava con passi della Bibbia e dei santi Padri. Finch un giorno presero entrambi il cammino che conduceva a Siena. Due anni dopo il conte Pafnuzio, il ricco pi avaro di Siena, che affermando di voler far costruire, dopo morte, una stupenda cattedrale, non avrebbe dato un soldo per salvare un affamato, improvvisamente mor: mor e fu sepolto nell'inferno. A frate Insidia ritornato diavolo furono decretati, laggi, gli onori del trionfo; Lucifero stesso gli appunt sul petto le insegne di commendatore, con placca, dell'Ordine delle Tenebre: il suo metodo di usare delle piccole cose pass in tutti i manuali con cui si istruiscono i diavoli al combattimento contro le anime: ed ebbe, ed ha, un enorme successo. Tre rose. Anche questa storia di tanti, tanti secoli fa, ed accaduta in un paese lontano, l'Egitto: paese che fu un tempo di grande civilt e dove il

Cristianesimo si diffuse rapidamente, conquistando citt e villaggi e popolando i deserti di monasteri e di anacoreti, i racconti della cui vita eroica si spargevano per tutto il mondo, lasciando sbigottito chi li ascoltava. In una chiara notte d'estate, sotto un cielo in cui Iddio sembrava avere appeso allora allora le stelle, tanto erano luminose, il giovane Epifanio usc di nascosto dalla sua ricca casa di Solofra; la citt dormiva, le strade erano vuote, il silenzio era rotto soltanto dal vento che veniva dal deserto e si spezzava agli angoli delle casa, dividendosi in tanti rami per riunirsi poi, pazzo e vorticoso, nella piazza dove sorgeva la cattedrale. Non ne poteva proprio pi Epifanio; troppo austeri gli parevano i genitori per i suoi sedici anni, desiderosi di essere capiti, troppo esigente la scuola, troppo rigidi e segaligni i maestri, troppo vuoti gli amici e le amiche con cui non poteva parlare di niente che non fosse frivolo. Meglio andare a rifugiarsi per un po' di tempo in qualche in qualche monastero, a cercare pace per l'anima e consiglio da qualche vecchio monaco; forse gli si sarebbero schiarite le idee, forse avrebbe capito che cosa Dio voleva da lui; perch questo, soprattutto, il giovane voleva: capire che cosa Iddio voleva da lui. Cos pensando Epifanio si trov senza accorgersene fuori della citt addormentata: e il deserto fu davanti a lui, sconfinato. Non lo aveva mai visto da solo, di notte: e ne prov uno stupore indicibile. Gli sembrava di camminare sotto un mantello trapunto di luci che scendeva fino a toccare il suolo, laggi, all'estremo orizzonte, dove si profilava, pi nera della notte, la macchia di una montagna su cui le stelle parevano aver acceso dei fuochi, ma ben pi chiari di quelli che i cammellieri accendevano nei bivacchi delle soste notturne per dare riposo agli stanchi animali. Il silenzio era enorme: i passi stessi del giovane vi si perdevano senza romperlo, come se a camminare fosse un uccellino, non un uomo. Eppure nell'aria era tutto un muoversi, un intrecciarsi misterioso di melodie che le orecchie non avvertivano, ma scendevano nel cuore e lo colmavano di una dolcezza infinita. Epifanio ricord la lezione di un vecchio maestro che gli parlava di una musica delle stelle: le quali, diceva, percorrendo le loro orbite, producono un'armonia che gli uomini non possono avvertire, un'armonia che trasforma il cielo in un immenso concerto: canto di adorazione, di riconoscenza, di amore dell'universo a Dio che lo ha creato traendolo dall'informe caos, come narra l'Antico Testamento. Era dunque la musica delle stelle quella che avvertiva, per un misterioso privilegio, il giovane che camminava nel deserto? Era il canto dell'universo? Ma qualche ora dopo Epifanio non poteva pi farsi n quella n altre domande; egli procedeva sotto un cielo che il sole, ormai alto sull'orizzonte, aveva reso di fuoco come la terra su cui barcollavano i suoi piedi stanchi. Le orme dei cammelli che egli aveva seguito uscendo di citt erano scomparse; alla sabbia si era sostituita la pietra, una pietra calcinata dalla calura e priva di ogni traccia di passaggio umano, di ogni segno di vita. Unico punto di riferimento restava la montagna lontana, ai piedi della quale Epifanio sapeva che avrebbe trovato un monastero: ma vi sarebbe giunto prima di cadere al suolo, stremato dal caldo e dalla sete, lasciando il corpo in pasto alle iene e agli avvoltoi? Signore, aiutami, - divenne l'unico pensiero che fosse in grado di fare Signore, aiutami, aiutami: tu sai che cerco te, le tue strade, la tua parola, la tua volont. Non si accorse nemmeno di cadere. Non si accorse nemmeno che un giovane bellissimo si chinava su di lui e, presolo fra le braccia, lo portava per le vie del cielo, librato su ali pi soffici della piuma, pi veloci del vento. Si accorse solo di essere alla porta del monastero, ai piedi del monte. La porta si apr senza che egli avesse profferito una sola parola, come se fosse atteso da tempo. Apparve un monaco che al giovane sembr alquanto diverso da come gli avevano detto che i monaci erano: vestito di una ricca

tonaca di fine lino, ai fianchi una cintura di cuoio lavorato e trapunto di borchie d'argento, ai piedi dei sandali comodi ed eleganti. Senza parlare il monaco fece cenno ad Epifanio di seguirlo. Passarono attraverso alcune stanze dai pavimenti di marmo, riccamente addobbate; poi giunsero in una grande sala, quale il giovane non ricordava di avere mai visto, neppure in citt. Una cinquantina di monaci, vestiti come quello che lo accompagnava, erano comodamente seduti in ampie poltrone e ascoltavano con attenzione e deferenza un altro monaco, evidentemente l'abate, che parlava da una cattedra dai braccioli d'avorio, in fondo alla sala; le pareti, tutt'intorno, erano ricoperte dagli scaffali di una biblioteca i cui libri rivelavano il loro contenuto con titoli impressi a lettere d'oro sulle costole di pergamena ben levigata. L'abate fece cenno ad Epifanio di prendere posto fra i monaci, poi continu: Voi conoscete, fratelli, la ragione per la quale vi ho raccolto qui, oggi. I nostri predecessori hanno fatto voto di costruire, accanto al monastero, una chiesa in onore di santa Caterina d'Alessandria, che veglia sulla nostra terra dall'alto del Monte Sinai, dove gli angeli seppellirono un tempo lontano il suo corpo santo. giunta l'ora di mantenere quel voto. Abbiamo raccolto mezzi a sufficienza (parve ad Epifanio che la voce dell'abate fosse un po' incerta nel pronunciare queste ultime parole), ma non sappiamo dove e come costruire la chiesa: fuori del monastero c' il deserto di pietra, a destra si sprofonda l'abisso scavato dal torrente, dietro si erge la montagna alta e brulla. Le difficolt che si presentano per ogni dove sono dunque enormi. Quale il vostro consiglio?. Per una decisione di tanta importanza - osserv il monaco seduto accanto ad Epifanio - mi pare necessario che la comunit sia qui al completo. Ora, non vedo fra noi il nostro Antonio. L'abate ebbe un impercettibile moto d'impazienza e di contrariet. Sapete tutti - rispose che Antonio ha scelto da molti anni la vita eremitica ed andato ad abitare in una grotta, sul monte. Che consiglio ci pu dare, uscito com' dalla vita di comunit? Tuttavia, se volete, lo manderemo a chiamare. E potr andare proprio il giovane appena arrivato qui. Intanto noi continueremo nella recita dell'ufficio divino. Epifanio rimase imbarazzato: non conosceva il monte, non conosceva Antonio. Ma il monaco che l'aveva accolto lo riaccompagn alla porta del monastero e gli indic una traccia di sentiero che s'inerpicava su per la montagna. Seguila disse -, non puoi sbagliare, perch porta alla grotta. E torna gi con Antonio. Il giovane incominci a salire. La montagna era sassosa, brulla, infuocata: non un albero, non un filo d'erba fra le pietre arroventate. Quando fu un po' pi in alto, Epifanio vide anche la valle di cui aveva parlato l'abate; pi che una valle, era una enorme spaccatura fra le rocce, a destra del monastero, larga e profondissima. La doveva avere scavata in secoli, forse in millenni, per aprirsi un varco verso la pianura, un torrente impetuoso di cui non restava ormai che un filo d'acqua che si vedeva sperdersi nel fondo, laggi dove il sole non poteva penetrare mai: esile filo d'argento che dopo poche decine di metri scompariva inghiottito da qualche invisibile fessura. Il sentiero, intanto, continuava a salire, sempre pi ripido, sempre pi affannoso. Il passo di Epifanio si faceva lento, strascicato, pesante. Fu in quel momento che il giovane ud un uccello cantare. Si ferm. S, era proprio il canto di un uccello, anche se non riusciva ancora a vedere dove fosse la bestiola. Un canto melodioso, ma strano, che non ricordava di aver udito mai... o forse s, quella notte, gi nel deserto, quando si era chiesto se l'armonia che gli invadeva il cuore non fosse il canto delle stelle. La stessa dolcezza, lo stesso incanto struggente: un venir meno di ogni pensiero umano, uno svuotarsi di ogni senso del male, un desiderio infinito di semplicit, di bont, di Dio, s, di Dio, come un camminare senza pi peso, neppure di ombre, senza pi desideri, neppure di luce o di pace. Perch erano gi nel cuore la serenit,

la luce, la pace, in possesso pieno. Una voce d'uomo ruppe l'incantesimo: Che cosa vuoi, figliuolo?. Solo allora Epifanio si accorse che era giunto davanti alla grotta. Il monaco che gli stava davanti non era davvero come quelli che aveva lasciato laggi, nel monastero: dimesso nella tonaca pi e pi volte rattoppata, scalzo, con una lunga barba bianca; ma la voce era dolce quasi come il canto che aveva prima udito, gli occhi erano luminosi quasi come le stelle che gli erano state sul capo, quella notte. Nella grotta, un giaciglio di foglie secche: per inginocchiatoio un gradino rozzamente scavato nella roccia. Solo una cosa parve strana ad Epifanio: sopra una piccola mensola, pure di pietra, era un vasetto di creta con tre magnifiche rose, freschissime. Tre rose in quella solitudine senza vita. Udita dal giovane l'ambasciata dell'abate, l'eremita annu senza parlare; prese con s un libro di vecchia pergamena gualcita dall'uso e precedendo Epifanio discese verso il monastero. Dunque - riprese l'abate - ora che la comunit al completo, quale consiglio avete da darmi?. Chiese la parola un monaco di mezza et, dal volto energico, dalla voce ferma: un uomo pratico, si direbbe oggi, un costruttore. Padre, - disse senza tanti preamboli - i nostri predecessori hanno trovato tesori, nei fianchi del monte: zaffiri, diamanti, smeraldi; e in parte li hanno portati in citt ottenendone denaro, molto denaro. I forzieri del monastero sono pieni d'oro e di pietre preziose. Chiamiamo i migliori ingegneri, assoldiamo i pi bravi operai portandoli qui dalla citt lontana, anche se dovessimo costruire per loro una strada attraverso il deserto. In qualche anno innalzeremo a santa Caterina d'Alessandria una delle chiese pi belle d'Egitto, forse del mondo; e il nostro monastero diverr ancora pi famoso. Per la gloria di Dio, s'intende. Non vedo altra via di uscita per spianare una parte del monte, come il mio consiglio: ma abbiamo i mezzi per farlo. Un mormorio di generale approvazione accolse le parole del monaco. Vorrei sentire anche il parere del nostro eremita, - disse con unzione che voleva essere umile l'abate - egli vive lass, pi vicino a Dio.... Antonio si alz, mentre il silenzio s'era fatto pi grande: l'attesa di tutti era appesa a quel silenzio. L'eremita trasse il libro che aveva portato con s, sfogli qualche pagina, poi lesse, lentamente: Se qualcuno avr dei beni di questo mondo, e avr visto suo fratello essere nel bisogno, e avr chiuso il suo cuore sulle sue necessit, come pu essere in lui l'amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole, n con la lingua, ma con le opere e nella verit (II Giov., III, 17). Io so - soggiunse l'eremita - che grande la miseria laggi, in citt, dove la carestia ha portato la fame. Ebbene, mandiamo al vescovo di Solofra tutti i tesori che i nostri predecessori hanno raccolto, perch li trasformi in pane per i poveri, in cure per gli ammalati, in aiuti per le vedove, gli orfani, i vecchi. Parole sante - fece l'abate -, ma la gloria di Dio non merita maggior rispetto? I poveri moriranno, malgrado gli aiuti che potremmo dar loro, ed altri ne nasceranno, e moriranno e nasceranno e moriranno ancora, nelle eterne vicende della vita, perch sta scritto che i poveri li avremo sempre tra noi. Ma i templi, le basiliche, le chiese, restano documento e testimonianza della gloria che gli uomini danno a Dio; sfidano il tempo: e generazioni e generazioni si succedono oranti sotto le loro volte. La casa di Dio pi necessaria che le case degli uomini: Dio eterno, gli uomini passano. E sta scritto che non di solo pane essi vivono. Se non costruiremo noi, ora che ne abbiamo i mezzi, la chiesa in onore di santa Caterina e per la gloria di Dio, chi manterr il voto fatto, chi spianer il monte? Questa la domanda precisa: rispondimi, Antonio: chi spianer il monte?. L'eremita trasse ancora di sotto la povera tonaca rattoppata il libro tutto gualcito; sfogli qualche pagina, poi lesse lentamente: In verit, in verit vi dico: se avrete fede quanto un granello di senape,

direte a questo monte: spostati da qui a l, e il monte si sposter: e niente vi sar impossibile (Matteo XVII, 19). Finito che ebbe di leggere, si sedette senza fare, questa volta, alcun commento. Un sorriso di pazienza indulgente pass sul volto dell'abate: Noi conosciamo bene queste parole, Antonio. Ma Iddio ci ha dato l'intelligenza per poterle capire nel loro vero senso, al di l del simbolismo, e la Chiesa nostra madre ci consente di approfondire i significati reconditi del Vangelo. Tu fai l'eremita sul monte, e hai scelto la strada della contemplazione. Ma anche con la strada dello studio si va a Dio, Antonio: e lo studio ci aiuta a capire la sua parola, consegnata nei sacri testi. Cos ci insegnano i Padri, da Origene ad Atanasio, da Gregorio di Nissa a Gerolamo ed Agostino. Ges, figlio di Dio, venendo sulla terra, si visto costretto ad usare parole umane: e poich parlava a poveri pescatori, a contadini, al popolo ignorante, ha dovuto usare parole adatte per farsi capire da quelle povere teste: di qui le parabole, i racconti, le immagini. Come in questo caso, per esempio. Egli voleva dire che la fede una cosa grande. Come poteva farlo capire loro? Tirando fuori la immagine del monte che si muove. Chi ha mai veduto un monte muoversi, da quando Dio li ha piantati sulla terra con le loro moli maestose? E' cosa razionalmente impossibile. Ebbene, per far capire alla povera gente che la fede una cosa grande, Ges ha detto che capace di trasportare le montagne: cio di fare una cosa impossibile. Ma la frase resta una immagine, una immagine poetica per la gente tarda a capire. Noi, ai quali Dio stesso ha dato l'intelligenza, e la possibilit - e il dovere - di usarla, ammiriamo l'immagine stupenda, ma ne cerchiamo anche il significato profondo, che agli altri sfugge: perch la verit nel significato profondo, non nell'immagine, e noi dobbiamo cercare la verit. Il significato profondo che dobbiamo essere uomini di fede, di grande fede: il resto poesia, atto di bont di Ges perch potessero capire anche i tardi di mente, gli operai, i pescatori, i cammellieri, le serve. Un grande applauso coron le parole dell'abate: che si erse alto sulla cattedra in tutta la sua umilt compiaciuta, e con un grande segno di croce pose fine all'assemblea. Pochi minuti dopo Epifanio si ritrov sul sentiero del monte: voleva riaccompagnare l'eremita nella sua grotta, confortarlo, parlare ancora con lui, chiedergli consiglio. Erano gi a mezza strada quando il giovane trasal ad uno strano rumore, come d'un uccello che gli passasse accanto rapidissimo. Si volse e guard in basso. Ci che vide lo fece rabbrividire. Un grande angelo con una verga nella destra, e nella sinistra un involucro che pareva un sacco, scendeva a volo verso il monastero: l'aspetto, il volto, erano quelli di una persona piena di sdegno, quasi di furore. Epifanio lo vide spalancare con un colpo di verga la porta d'entrata e poi, ad una ad una, tutte le altre fino alla stanza del tesoro; qui giunto, rotti i forzieri, ne rovesci fuori il contenuto: diamanti, rubini, topazi, smeraldi, monete d'oro, tutto disparve nel sacco che aveva con s. A terra rimasero le cassette vuote. Poi Epifanio vide l'angelo librarsi a volo, sul deserto, volare fino a Solofra, entrare nel palazzo del vescovo e rovesciargli sul tavolo l'immensa ricchezza: sul tavolo dove erano suppliche di persone affamate e disperate, e sul quale il vescovo aveva reclinato la testa piangendo per non aver di che aiutare la sua gente dopo aver venduto tutto, perfino i calici d'oro e d'argento delle chiese. L'azione dell'angelo fu cos rapida che il povero vescovo non si accorse neppure della sua entrata: quando alz il volto allo strano rumore, le lacrime che ancora lo imperlavano mandarono i riflessi delle pietre preziose e delle monete d'oro che si trov, a montagne, sul tavolo. Eccoli serviti - fu la voce di Antonio, che trasse il giovane dallo stupore della visione -: ora credo veramente che, anche senza loro merito, i monaci potranno costruire la chiesa a santa Caterina.... Epifanio voleva chiedergli spiegazioni, ma in quel preciso momento riprese a cantare l'uccello meraviglioso che egli aveva udito durante la sua prima salita al monte. E fu

nella dolcezza di quella voce armoniosa che i due viandanti si ritrovarono nella grotta. Allora il giovane si fece coraggio: Padre, - disse - dov' l'uccello che canta cos meravigliosamente?. L'eremita lo prese per mano e lo condusse verso una finestra di roccia che si apriva sulla grotta da un lato non visibile dalla via di salita. Di contro, si rizzava solitario un grande albero, un cedro del Libano dai rami vasti e possenti, ma con la cima resa secca dai fulmini. Era proprio sulla sua cima che l'uccello cantava. Guarda bene, - fece l'eremita - non vedi niente dietro l'uccello?. Niente, padre mio. Prova a guardare meglio.... Oh, s, ora mi par di vedere qualche cosa, ma non saprei dirti che cos'. Sembra il velo di una signora, ecco, ora ne vedo anche il volto, s, proprio una bellissima signora. Ma dev'essere uno scherzo degli occhi, non possibile. Figliuolo, io vivevo nella citt da cui tu pure vieni, ero un professore che gli uomini dicevano famoso (fece il nome, ed Epifanio ne fu sbigottito) e a cui folle di giovani accorrevano per averne parole di umana sapienza. Tutto mi diedero gli uomini: onori, fortuna, ricchezza, fama. Tutto questo faceva intorno a me un rumore, anzi un fracasso, da cui invano cercavo di liberarmi: lezioni, conferenze, assemblee, adunanze; mi sembrava di essere un tronco di legno in bala di un torrente impetuoso. Ed era un torrente di parole, assai pi pericoloso di quelli di acqua limacciosa. Parlavo molto, pensavo poco, pregavo sempre di meno. Avevo gli orecchi e l'animo frastornati. Una notte invocai disperatamente Dio, come un naufrago che sta per essere inghiottito dalle onde. Dio, Dio, gridai. In quel momento sentii quest'uccello cantare. "Seguilo" mi disse di dentro una voce. Lo seguii attraverso il deserto. Ma il canto tacque quando entrai nel monastero, laggi: dove riprese il rumore delle parole, delle lezioni, dello studio. Si studiavano i libri santi, vero. Ma il rumore era quello stesso che sentivo nel mondo. Allora ne uscii, e venni quass. E sai chi quella signora, la padrona dell'uccello meraviglioso? quella il cui pensiero soltanto ci salva, strappandoci ai gorghi dei rumori umani. S, non sbarrare gli occhi, proprio lei, la morte. Gli uomini ne hanno paura, cercano di soffocarne il pensiero fra mille voci, fra mille frastuoni. Come cambierebbe la loro vita se pensassero che ci amica, che nostra sorella, che il suo compito non n di farci paura n di farci soffrire: ma di prenderci per mano per condurci a Dio dopo il cammino terreno. Serenamente, lietamente. Che cosa hai provato nell'udire il canto dell'uccello che ti ha condotto fin qui? Che cosa hai provato, stanotte, laggi nel deserto, quando hai udito la musica delle stelle? Ebbene, tutto quello niente, niente, capisci, in confronto di ci che udiremo quando la dolce signora ci avr preso per mano, per condurci al di l del tempo, al di l delle stelle, nel regno di Dio, dell'amore di Dio. Per questo, vedi, ho pronte quelle rose che ti avr fatto meraviglia vedere nella grotta spoglia di un povero eremita. Sono sempre fresche, sono per lei. Non voglio che la signora venga ad offrirmi una felicit infinita, senza che io abbia nulla da offrirle in cambio. Nel mondo ero un uomo cortese, amavo i fiori, amavo riceverne, amavo darne. Ora sono un povero solitario che ha rinunciato a tutto: ma non ad un fiore per ringraziare la bella signora, l'amica cara e attesa, quando verr.... Epifanio stava ad ascoltare come trasognato, con una gran voglia di piangere che gli premeva dentro: di piangere di gioia. Lo scosse ancora la voce dell'eremita: Figliolo, credi tu in Dio?. Il giovane trasal. Padre, credere in Dio deve essere una cosa immensa, una grazia superiore ad ogni altra grazia. Voglio dire credere veramente, in Dio, con tutte le conseguenze che questo credere comporta... Padre, io spero che prima di morire

Dio mi faccia la grazia di credere veramente in lui.... Figliolo, sono contento che tu dica cos. Lo chieder anch'io per te, soprattutto quando sar tornato a casa... Ma ti ho fatto la domanda anche perch tu mi aiuti ad accontentare i miei fratelli che sono gi al monastero... non sono cattivi credilo, non sono cattivi... la sapienza umana li ha resi soltanto un po' distratti, ed ora sono senza mezzi per costruire la chiesa cui tengono tanto... voglio dire senza i loro mezzi, in cui solo confidavano, sia pure a gloria di Dio. Ma gloria a Dio bisogna darla, sempre, con le chiese invisibili che costruiamo, se si fa Lui il muratore, col nostro permesso, dentro di noi; ma anche con quelle visibili che costruiamo fuori di noi. Li dobbiamo aiutare. Ti prego, perci, mettiti accanto a quella finestra di roccia. Di l tu puoi vedere il monte, e puoi vedere anche la valle profonda dove scorre quel filo d'acqua... Non badare a quello che far io: tu guarda soltanto. Ci detto l'eremita s'inginocchi: poi, lentamente, a parole staccate, come se ogni sillaba fosse un'intera preghiera, ripet il brano del Vangelo che aveva letto laggi al convento, nell'assemblea dei monaci: In verit, in verit vi dico: se avrete fede quanto un granello di senape, direte a questo monte: spostati da qui a l: e il monte si sposter. E niente vi sar impossibile. Epifanio, ubbidiente, guardava fuori dalla finestra di roccia. Guardava il monte. Dapprima gli parve di non vedere nulla, assolutamente nulla. Poi vide ma che cos'era mai? - vide un cerchio di nuvole circondare la cima del monte: ma erano nuvole strane, che si andavano muovendo come volessero danzare intorno alla cima... e nello stesso tempo ud venire da quella corona di nuvole un suono come di arpe lontane... guard meglio, con tutta la forza dei suoi occhi... non erano nuvole, erano angeli... ora li vedeva bene librarsi sulle ali bianchissime... Intanto anche l'uccello si era messo a cantare con tono ancora pi alto, ancora pi melodioso. Era come se un immenso concerto si fosse d'un tratto levato ad accompagnare la voce dell'eremita che stava per arrivare alla fine delle parole: In verit, in verit vi dico... direte a questo monte: spostati da qui e l... spostati da qui a l.... Allora Epifanio vide qualche cosa di veramente incredibile. Ecco, la corona danzante di angeli aveva divelto la cima del monte e la portava per le vie del cielo. In verit, in verit vi dico... e il monte si sposter. Epifanio guardava sbigottito: volle parlare, ma non trov voce, distogliere gli occhi, ma non pot farlo. Gli angeli erano intanto giunti sopra l'abisso. Ora discendevano lentamente. Ecco, deponevano la cima del monte dentro la voragine e un'ampia spianata appariva ormai accanto al monastero, dal lato destro. La spianata che i monaci volevano ottenere con le loro immense ricchezze per costruirvi la chiesa di santa Caterina... Il giovane guardava: ora gli angeli si allontanavano, il loro canto diveniva pi fioco, pi lontano, si perdeva nel cielo. Soltanto allora Epifanio s'accorse che anche il meraviglioso uccello non cantava pi, che un'immensa pace era scesa sul monte, nella grotta, su tutto. Si volse di scatto. L'eremita era caduto piano a terra con le braccia aperte come ad accogliere un supremo invito. Il giovane volse lo sguardo alla mensola dov'era il vaso di creta: il vaso era l, ma le rose non c'erano pi. Molti decenni dopo, chi arrivava al monastero il 20 di agosto poteva assistere nella vicina chiesa di Santa Caterina d'Alessandria, povera ma devotissima, alla Messa in onore dei beati Antonio ed Epifanio eremiti. E il Vangelo della Messa era il brano di san Matteo XVII, 19. La lezione. C'era una volta, moltissimi anni fa, tanti che nessuna delle Sue amiche, e neppure Lei, signorina Anna, era ancora nata, un giovane professore: bello, con una piccola barba a punta e baffetti nerissimi, ma timido timido,

poverino: cos timido che ad ogni stormir di fronda le sue guance assumevano i colori di certe mele bolzanine, quelle che sembravano addirittura dipinte, rosse come sono. Immaginatevi dunque come doveva sentirsi quel giorno d'aprile dell'anno 1900 tondo tondo, nell'ufficio della direttrice dell'istituto di educazione femminile De Filippis, che da un quarto d'ora lo andava squadrando da capo a piedi, senza parlare. Una donna era, la direttrice, sui cinquanta anni, dura, angolosa, ben piallata; sulla guancia destra aveva un grosso neo dal quale si ergevano tre lunghi peli setolosi, attorcigliati in cime come le corna di un ariete, e sul labbro superiore dei baffi da maresciallo, di petto ai quali impallidivano quelli del professore. Gli occhi poi erano nascosti dietro due lenti massicce che rendevano la sua faccia simile a quella di un serpente a sonagli. Finalmente la donna apr la bocca: Bene, - disse - si vede che lei di primo pelo; ma io ho bisogno di un supplente per le ragazze di prima liceo, dato che quella disgraziata di loro insegnante ha avuto la cattiva idea di sposarsi; di sposarsi, dico io (e qui diede un formidabile pugno sul tavolo che sobbalz come il cuore del povero professore), in pieno anno scolastico, come se non ci fossero i mesi di vacanza per far queste cose... Lei la sostituir. Lo stipendio di trenta lire al mese; come vede, non lesino. E si ricordi che alle lezioni sar presente sar presente anch'io, perch... no, niente perch, sar presente anch'io e basta. Vada pure. Incomincer domattina alle otto. Puntualissimamente, si capisce. L'indomani mattina, alle otto in punto, il giovane professore faceva il suo ingresso nell'aula con un timore da non dirsi. Sal la cattedra come fosse un altare, poi guard gi. Il silenzio era perfetto. Quaranta occhi erano fissi su di lui con quella curiosit interrogativa con la quale una scolaresca guarda per la prima volta un nuovo insegnante. E che occhi, santo cielo! Quelle non erano pi bambine, ma donne, proprio donne! Non ne aveva mai viste tante insieme, lui che arrossiva davanti ad una sola. Ed erano l che guardavano lui, che aspettavano che egli parlasse, forse per ridere di lui. finita, pens il professore: e gli venne una gran voglia di piangere. Finita. La sua prima ora di lezione sarebbe stata anche l'ultima. Quanti sogni infranti, quante illusioni cadute! Ma che cosa avrebbe fatto, dunque, nella vita? Rivide come in una visione rapidissima l'entusiasmo dei suoi studi universitari, la laurea bellissima, riud le congratulazioni dei suoi maestri, il plauso dei compagni: tutto era stato inutile, dunque; egli... Ma, insomma, vuol cominciare, s o no?, suon irritata una voce cavernosa che veniva dal fondo dell'aula. Solo allora il professore si ricord della promessa che gli aveva fatto la direttrice. Ecco, i quaranta occhi luminosi si erano spenti, le testoline bionde e brune curvate sui libri ancora chiusi, come corolle al soffio gelido della tramontana: accesi erano rimasti due occhiacci soltanto l, in fondo all'aula, nell'ultimo banco a destra, dove la direttrice stava dando evidenti segni d'inquietudine. Il professore incominci. E fu allora che si avvide di essere veramente nato per fare il professore. Parl dei valori umani della poesia, dell'arte come gioia della vita. Guardava fisso nella parete di fronte, sulla quale troneggiava una immensa carta geografica; ma egli non la vedeva, non vedeva nulla. Sentiva le immagini frasi parola sulle sue labbra; ed erano parole armoniose, senza aggettivi, semplici. Era come se una musica dolcissima venisse verso di lui da misteriose lontananze, e il primo a sentirsene cullato era lui. Cos non s'accorse che gli occhi delle fanciulle si erano alzati dai libri e che lo fissavano estatici con lucicori strani. Le ragazze erano immobili, con le braccia conserte: e nessuna faceva appunti: segno, questo, che il maestro stava scrivendo nelle loro anime. Dopo pochi giorni le chiamava figliole, ed esse non se ne stupivano. Solo gli fece un appunto la direttrice, dopo la prima volta che us quel nome: Mi

raccomando, professore, niente sentimentalismi!. Ma intanto prendeva a poco a poco piena coscienza di s, scopriva dietro la sua timidezza una profonda vena di umorismo. Le sue lezioni diventavano sempre pi vivaci; qualche fanciulla lo interrogava, voleva sapere di pi. Egli poteva ormai guardarle negli occhi senza arrossire e cogliervi dentro le luci di una giovinezza fresca e limpida che lo commuovevano. Ma s, figliuole erano, per cui anche la cultura era sorriso. Come sarebbe stato contento, senza l'incubo di quell'ultimo banco a destra dove c'erano quei due occhiacci che non ridevano mai! Cos fu che un giorno... Quel giorno doveva spiegare la canzone di Giosu Carducci, il poeta allora pi famoso, nella quale si rievocava la leggenda medioevale di Jaufr Rudel: un prode cavaliere di Francia, innamoratosi di Melisenda, signora di Tripoli, senza averla mai veduta, ma solo per averne udito magnificare la bellezza e la cortesia dai viandanti che tornavano dall'Oriente; innamoratosi fino al punto di imbarcarsi, bench moribondo, per andare a morire fra le sue braccia. Una canzone che faceva piangere tutti, allora. Il professore amava quella poesia: egli sentiva che avrebbe preso le sue venti figliuole, le avrebbe imbarcate sulla nave stessa di Jaufr Rudel e le avrebbe condotte con lui a Tripoli, al cospetto di Melisenda: sapeva che avrebbero pianto tutte sul morto cavaliere. Con questa piena di sentimenti stava per entrare in aula, quando la nota voce lo agghiacci: Mi raccomando, professore, prudenza: e niente sentimentalismi, soprattutto. Era stato come se sul suo incendio interiore fosse stata gettata una secchia di acqua gelata. Ma dunque avrebbe sempre avuto fra i piedi quella megra? E avrebbe dovuto ridurre le sue lezioni aride come un manuale di archeologia? Che pena, mio Dio, che pena... Dal Libano trema e rosseggia Su'l mare la fresca mattina... Le ragazze erano attentissime, come in trepida attesa di qualche cosa di bello e di gentile, proprio per loro, per loro... Dunque, il Libano, una catena montana, ricca di cedri, con i quali gli antichi Fenici facevano le navi... Ah, no, no, al diavolo la signora direttrice. No, bambine, non importa niente che cosa sia il Libano! Importa che una nave corra su quelle onde rosate dalla prima aurora... e su quella nave c' il giovane bellissimo, dai capelli d'oro, che sta morendo, ma non vuole morire prima d'aver visto la fanciulla amata che l, nel castello di Tripoli di Siria, che si profila all'orizzonte, erto sulle onde del mare. Mi seguite? Le venti teste facevano di s, di s. Ecco, la nave giunta al lido. Un messaggero si stacca rapido e si dirige al castello. Melisenda, Contessa di Tripoli, ov'? Io vengo messaggio d'amore, Io vengo messaggio di morte. Messaggio vengo io del signore Di Blaia, Giaufredo Rudel. Notizie di voi gli fur porte, V'am, vi cant non veduta. Ei viene e si muor. Vi saluta, Signore, il poeta fedel. Non importa, bambine, chi sia il messaggero. un amico che vuole portare all'amico che muore il conforto supremo; e chiede alla bellissima donna che venga gi, su quella nave straniera che s' appena ancorata al lido, laggi dove ...giacea sotto un bel padiglione Giaufredo al cospetto del mare. Che cosa avreste fatto voi, figliuole?. Saremmo andate gi sulla nave, tutte, di corsa. Un formidabile colpo di tosse venne dall'ultimo banco di destra

ripercuotendosi con echi sinistri in tutti gli angoli dell'aula. Ma nessuno ci bad. Brave, figliuole. E cos fece Melisenda. Prese con s una fida ancella e scese sulla nave, e fu accanto, in ginocchio, al cavaliere che moriva. Quando il morente la vide, una dolcezza infinita lo prese, una gioia grande per quell'atto d'amore che superava anche la morte: Contessa, che mai la vita? E' l'ombra d'un sogno fuggente. La favola breve finita: Il vero immortale l'amor. E poi, che fece? La guard fisso fisso negli occhi e le chiese un bacio. Voi che avreste fatto?. Glielo avremmo dato tutte, tutte. Brave, figliuole. E cos fece Mel.... Un formidabile pugno squass l'ultimo banco di destra: Basta, fece una voce che era pi sibilo di serpente che voce. Basta; per oggi la lezione finita. Le ragazze lasciarono l'aula a capo chino... Le avevo detto, professore, che non voglio scempiaggini.... Ma, signora.... Niente ma. Continuer mercoled prossimo, alle due pomeridiane, col pranzo ancora sullo stomaco. Speriamo che almeno la freni dai suoi stupidi sentimentalismi. Ma quel mercoled il professore non mangi. E all'una e mezzo and a scuola con un pacchettino che teneva delicatamente con la mano destra. Si rec subito in direzione. Permesso.... Avanti! Come mai con mezz'ora di anticipo, professore?. Signora... ecco, signora direttrice, sono venuto a farle le mie scuse per l'altro giorno. S, ho messo un po' troppo sentimento nello spiegare quella canzone. Ma ora l'ho capito. E lei mi perdona, non vero? Ecco, le ho portato un piattino di fragole, perch mi perdoni e le accetti... oh, poca cosa, scusi, ma sono freschissime, e vi ho gi messo molto zucchero.... E scopr un magnifico piatto di fragole, cosparse da una leggera polverina bianca... Bravo, professore, bravo: no, non per le fragole, ma per aver capito di aver esagerato l'altro giorno. Vede, sono ancora ragazzine, fanno presto a montarsi la testa con certe parole... bacio... amore... ma che belle fragole! E che profumo! Dovrei rifiutare, professore; ma non voglio darle un dispiacere. Ecco, le mangio... sono squisite... ecco, contento?. Il professore faceva cenno che s, che s, era contento. La donna sul pallido amante Chinossi recandolo al seno, Tre volte la bocca tremante Co'l bacio d'amore baci. Bench fossero le due pomeridiane, nessuna delle ragazze dava segno di distrazione. E allora il professore parl come aveva parlato la prima volta. Parl del mistero della vita; parl del mistero della morte; parl della donna e della luce che essa pu dare alla vita e alla morte degli uomini. Come fossero piccole sorelle mostr loro la strada, con parole piene che ciascuno poteva capire: ed era una strada di bont e d'amore... la avrebbero saputa percorrere anche loro? Ecco, questo egli sperava, come unica ricompensa delle sue parole, che se ne fossero ricordate un giorno, quando la vita avrebbe preso loro la mano e l'avrebbe posta in quella di un altro, per un comune cammino di speranze, di gioie, di pene, di sacrifici... quando sulla loro strada qualcuno, non importa chi, avrebbe loro chiesto aiuto per vivere, o per morire: un sorriso, una parola, un silenzio, una carezza, perch, tante volte, un essere umano non

chiede di pi per vivere o morire, sereno... Ricordassero sempre, le pregava, che il Signore aveva creato la donna perch desse all'uomo ci che nessun elemento dell'universo, anche se appena uscito dalle sue mani, gli poteva dare, non le stelle del cielo, non la luce del sole o del giorno, non la variet e l'armonia dei colori, non il volare degli uccelli o il guizzare dei pesci, non il palpitare miracoloso della vita in tutte le sue manifestazioni: un aiuto a percorrere le vie di Dio nel mondo, un aiuto che fosse nello stesso tempo amore e forza, bont e pazienza, tenerezza e consiglio, serenit e sacrificio... Queste e altre cose disse, il professore, in quell'ora: e gli pareva che sua madre gli fosse accanto e gli sorridesse. Le ragazze ascoltavano immobili, con gli occhi pieni di lacrime. E solo quando il professore ebbe finito, una di loro si alz e disse: Grazie, professore, di averci dato tanta luce. Dall'ultimo banco di destra nessuna interruzione era venuta, perch la signora direttrice, vinta dal sonnifero di cui erano cosparse le fragole, dormiva profondamente. Il giorno dopo il professore si vide recapitare a casa una busta urgentissima, con l'intestazione dell'Istituto di educazione femminile De Filippis. C'erano dentro 30 lire queste parole scritte con carattere alto e acuto di persona irritata Non metta pi piede nel mio Istituto. Ma al di sotto di quelle parole il professore vide quaranta occhi che gli sorridevano lieti. E sorrise anche lui. Uomini e donne. Da quattro ore l'uomo cammina. Macelleria... Stoffe... Barbiere... Caff... Tutto per sposi... Trattoria da Enrico, da Giuseppe, da Giovanni, da Erode... Merceria: oh, finalmente: lo sguardo semispento dell'uomo si ravviva, il passo si rinfranca: finalmente! Scompare dalla strada per qualche minuto: scompare come inghiottito da un aspirapolvere. Ma ora, rieccolo l, di nuovo sul marciapiede: l'occhio ritornato opaco, le spalle sono pi curve di prima; e i calzoni, strano a dirsi, sembrano cadere pi flosci sulle scarpe impolverate. Ora si rimette in cammino con un lungo sospiro. Cinema... Ospedale Maggiore... Piazza della Fontana... Pellami... Penne stilografiche... Calze... Farmacia... Busti... Merceria: oh, finalmente! L'uomo intontito: non distingue pi nulla, non vede pi nulla, non capisce pi nulla. Cento volte ha letto quella parola, che ora avverte solo inconsciamente, per abitudine. Cento volte scomparso, sperando, dalla strada, e altrettante vi ritornato pi curvo, pi desolato, pi stanco, a riprendere il cammino che non finisce mai. La testa gli si fatta come un chiodo battuto da colpi regolari di martello; le braccia oscillano inerti ai fianchi; e la riga dei calzoni, strano a dirsi, diventa sempre pi serpentina cadendo sulle scarpe impolverate. Da sette ore l'uomo cammina. uscito di casa appena si sono aperte le panetterie, avanguardia vigile delle altre botteghe; ha percorso da un capo all'altro la citt osservandone il primo risveglio e l'ansia febbrile e l'adagiarsi improvviso dopo la furia del mezzogiorno. Ora giunto in piazza Aspromonte. Non ne pu pi.Si abbatte su di una panchina, sotto un platano mezzo spoglio. Il sole, il povero sole di dicembre, sta per tramontare. Ma chi sar quella donna? Veniva avanti leggera leggera, dall'altra parte della piazza. Era vestita tutta di bianco, e lunghissima era la veste di seta terminante agli orli in sottili trine a punto d'Olanda. In testa aveva un velo azzurro, tenuissimo, trapunto di stelle d'oro, che

accoglievano tutti i raggi dell'ultimo sole. Veniva avanti toccando appena la terra: e l'accompagnava un volo di variopinte farfalle. Quando fu vicina alla panchina, un sorriso balen nel suo volto bellissimo; si chin sull'uomo e mormor una parola: ma l'uomo non si scosse, n rispose. Allora la donna si mise a ballare: e fu come una nuvola bianca che vada verso un angolo del cielo e poi ritorni, sospinta dal vento, e poi vada ancora e ancora ritorni. Danzava compostissima, come le fate sui monti nelle notti di plenilunio, quando i camosci vengono a bere alle acque d'argento. Solo le mani non muoveva; anzi le teneva congiunte come custodissero un tesoro che si vuole nascondere per rendere pi grande la gioia del dono. Tutto intorno il volo delle farfalle sembrava uno scoppiettio di fiamme nel cielo che incupiva. Quando la nuvola di trine si ricompose armoniosamente, e la danza ebbe fine, la donna si fece pi vicina. Allora parve all'uomo della panchina di essere avviluppato in una tela di ragno: fili d'oro, fili di argento, fili di seta; e gli parve che ad un certo momento tutti quei fili girassero vorticosamente intorno a lui, come fosse egli, il legno di un rocchetto. Ormai gli aveva fasciato i piedi, le gambe, la vita, le braccia, il collo: egli non era pi che un gigantesco baco da seta con la testa fuori. D'improvviso, quando l'avvolgimento giunse al collo, il moto si ferm. Allora la donna si fece vicinissima; le mani bianche, sempre chiuse, furono a pochi centimetri dal suo volto. Eccole aprirsi, lentamente come un bocciolo di rosa al primo sole, sotto gli occhi curiosi e ansiosi dell'uomo legato. Un grido. Eccolo l, sulle palme ormai aperte, l'oggetto lungamente bramato, lungamente cercato. Mandava raggi come una perla orientale. Eccolo l. E non poterlo toccare, non poterlo afferrare, non poterlo baciare! L'uomo si gonfi per rompere i legami. Ma non ne fece nulla. E allora, tristemente, davanti al vicino ma irraggiungibile tesoro, ripet i versi che aveva imparato da bambino: Sette paia di scarpe ho consumate Di tutto ferro per te ritrovare... Sette verghe di ferro ho logorate Per appoggiarmi nel fatale andare... Sette fiasche di lacrime ho colmate... Sent che il pianto gli riempiva davvero gli occhi e non se ne rammaric. La visione si fece confusa davanti a lui. E anche la mente gli si confuse, sempre pi, sempre pi. Gli parve di udire un lieve respiro, un profumo acuto. Poi pi nulla. Quando l'uomo si risvegli, ebbe un lungo brivido: la notte era gi scesa. Si alz dalla panchina con le ossa rotte e si avvi verso casa. Ma che cosa ha, signore?, chiese la portinaia vedendolo entrare in quello stato. L'altro la guard: poi, con aria rassegnata, come se tutto fosse inutile, disse sottovoce poche parole. Se non che questo - rispose la donna - lasci fare a me. L'uomo sal le scale lentissimamente, trasse la chiave del suo appartamento, entr, si gett sulla sedia del suo tavolo di lavoro. Il tavolo era letteralmente coperto di libri. Con mossa desolata ne prese uno. Apr a caso. La donna un essere che ha in s qualche cosa di misterioso e di arcano. Non si pu capire, non si pu spiegare: si costata. Dove dieci uomini intelligenti falliscono, pu riuscire una donna sola. Sa rendere bello il brutto con niente. Sa fare cose squisite con niente. Sa trasformare il pianto in riso con niente. Con una manciata di erbe sa fare una minestra. Con uno straccio inutile sa fare una bambola per il bambino. Con una parola pu mutare la sorte di

un'esistenza. Sa trovare tutto. E' spiegabile perci che presso certe trib si rendano alla donna onori divini.... Sa trovare tutto! Quelle parole diventarono per l'uomo parole stregate. Ora si facevano enormi fino ad occupare tutto il libro, tutta la stanza. Sa trovare tutto! Un rovinare di mattoni sulla testa, una serie di violentissimi pugni nello stomaco: (sa - trovare - tutto!) Tutto! Forse anche...? Ecco qua, signore - fece la portinaia entrando -. E un'altra volta non si dia pena per cos poco. Ma l'uomo non vedeva pi la portinaia. Vedeva la fata, la fata bella del sogno. Vedeva le parole lette pochi minuti prima: e gli parevano d'oro, ora. Questo vedeva: mentre dalla mano della portinaia, sbalordita, prendeva e baciava un comune rocchetto di filo nero, di quello che si adopera per attaccare i bottoni, senza i quali i pantaloni degli uomini non possono cadere a piombo sulle scarpe: non possono, non possono davvero. Intanto la portinaia usciva, scrollando la testa. Uomini e bestie. La bambina grande - disse la donna gettando in aria una boccata di fumo nella sala piena di luci e di voci - grande, e bisogna levarle di testa la fantasia della Befana. Mi piacciono poco queste anticaglie dei nostri nonni. Regaliamole un bel vestito per la prossima festa, e una collana di perline. Che te ne pare?. L'uomo, impeccabile nel suo abito da sera, con la faccia insulsa deformata dal monocolo, assent con lieve cenno del capo. Hai ragione, mia cara - e l'errore suon con lo stridore di una ruota di carro male unta - hai ragione come sempre. Una telefonata al negozio, domattina, e tutto sar fatto. In quel momento l'orchestra attacc un tango. Nella sala fu un rumore di sedie smosse, un inchinarsi di sparati bianchi, un porgere di mani ingemmate. I corpi si snodarono in mille contorcimenti, come nido di biscie al primo sole. E la luce sfacciatamente diffusa non vide che sorrisi idioti di labbra dipinte, non ud che parole vuote, le orribili parole che si dicono quando non si ha nulla da dire. Cos gli uomini attesero l'alba. Fuori, nevicava. Signore, - disse la bambina schiacciando il naso sul vetro - Signore, che in questa notte mandi in giro la Befana per i bimbi buoni, non dimenticarti di me. Ho recitato sempre le preghiere, ho preso le medicine cattive, non ho detto brutte parole, ho cercato di essere ubbidiente. Signore, fa che il babbo e la mamma mi vogliano bene, che non mi lascino tanto sola. E poi vorrei una bambola con la chiusura lampo per guarirla subito quando si ammala; vorrei un piccolo orso, di quelli dal pelo nero: e un uccellino vorrei, un uccellino piccolo piccolo, e un fiore, soltanto un fiore. Cos pregava la bambina col naso contro il vetro e le manine intrecciate sul petto. Ma quando ebbe detto l'ultima parola un colpo di tosse la fece sussultare tutta: e il viso le si fece di fiamma. Gi nella sala dalle molte luci gli uomini attendevano l'alba: e non udirono nulla. Ma il bosco ud. Il bosco dai pini neri, con i rami piegati sotto il peso della neve sempre pi fitta, accolse le parole della bambina sola: e fu come se un lungo fremito raccolto lo percorresse tutto, fino nelle valli pi lontane. A quel fremito si risvegliarono gli animali della foresta. Primo ad uscire fu l'orso, il grande orso dal pelo nero: apr gli occhietti irrequieti a quel richiamo insolito e abbandon la caverna; ed ora veniva avanti a gran passi, incurante della neve che gli cadeva addosso dai rami

scrollati e rizzantisi subito con un lungo respiro di sollievo: veniva avanti verso la radura, al centro del bosco. Poi fu la volta del capriolo dalle brevi corna ramose e dalle gambe snelle; poi venne la lepre, e lo scoiattolo, e l'aquila, e il gallo cedrone. Ultimo fu lo scricciolo, che and a posarsi sulle corna del capriolo. Quando gli animali furono raccolti, il vento ripet la preghiera della bambina. Come possiamo fare? - dice l'orso - piccola e sola, dobbiamo aiutarla; altrimenti, perch abbiamo un cuore qua dentro?. E si percosse con la zampa il petto peloso. (Gi nella sala dalle molte luci una mano si posava sullo sparato bianco e una voce sussurrava: Al cuore non si comanda, signora; suvvia, ditemi di s). Andiamo dalla Befana, - propose l'aquila - l'ho vista stamane nella grotta del Sass Maor che preparava i regali per questa notte. Forse la troveremo ancora. Lei sola ci pu aiutare. E fu nel bosco una processione non mai veduta, sulla neve bianca, sotto gli abeti neri. Andavano gli animali grandi e piccoli, per portare conforto ad una bambina. Ma nessuno s'accorse che un altro essere s'era unito silenziosamente a loro, venuto gi a cavallo di un fiocco di neve: un essere dalle ali ancora pi bianche della neve: un angelo di Dio. Nella sala dalle molte luci anche gli uomini camminavano. Quando li vide tutti insieme, la Befana si stup: Che cosa volete - disse - a quest'ora? Ho molto da fare, questa notte, e devo partire subito. Tornate domani. No, - rispose l'orso - non torneremo domani. Abbiamo sentito la preghiera di una bambina degli uomini, gi in paese: vuole una bambola con la chiusura lampo per guarirla subito quando si ammala, vuole un piccolo orso, di quelli dal pelo nero, e un uccellino anche, piccolo piccolo, e un fiore, soltanto un fiore. Ci puoi accontentare?. Cos disse l'orso, e non vide che la Befana s'era asciugata una lacrima. Non lo vide anche perch essa si era voltata per aprire l'armadio dei doni. Ho tutto, - rispose subito - eccetto l'uccellino piccolo piccolo. E non lo posso fare subito. Non ci pensare per questo, nonna, - rispose lo scricciolo - provvederemo noi. E gli animali ridiscesero a valle recando i doni. Cosa facciamo ora? disse desolatamente l'orso quando furono sotto le finestre della bambina. - Come facciamo ad entrare?. Allora il piccolo bimbo con le ali, ch'essi non avevano veduto, vol rapido sul davanzale e apr la finestra con un lieve tocco della mano. E l'aquila port su tutti, anche il grande orso dal pelo nero. S'accostarono silenziosi al letto della bambina - ma come era rosso quel viso, come scosso quel povero petto! - e vi deposero i loro doni. La bambina sorrise: accarezz con la mano, lievemente, le teste degli animali; strinse con la sinistra al cuore la bambola. Grazie, - disse - grazie. (Sar meglio metterla in collegio al pi presto - propose gi nella sala la donna dipinta all'uomo del monocolo -; cos saremo pi liberi; cos breve la vita che se non ci si svaga mentre si pu...). Nella stanza le bestie vegliarono la bimba fino all'alba: e solo allora, guardatala un'ultima volta, rientrarono nel bosco nero, alle loro tane. Non tutte. Lo scricciolo si ferm per sostituire l'uccellino che la Befana non aveva. E cant la sua canzone pi bella, quella con la quale annuncia, uscendo dalle cataste di legna, la neve che viene. Ma quando il cielo fu pi chiaro, il volto della bambina si fece di cera e i sussulti cessarono: allora l'angelo fece cenno allo scricciolo che tacesse. Nella stanza una luce si spense con un ultimo sorriso beato: e la bimba giacque immobile fra la bambola e il piccolo orso dal pelo nero. Allora l'angelo stese le sue mani. Vieni disse: e scomparve nel cielo tra i

fiocchi sempre pi fitti della neve. Anche gi nella sala si spegnevano le ultime luci. Un soldo. Questo fatto accadde molti secoli fa, nel convento della Verna, quando ancora non era sorto il paese attuale, e una ininterrotta foresta di querce immense ricopriva il monte, sacro all'amore e al dolore di Francesco. Vi si saliva a fatica, dal Casentino, e verso la fine, dove l'erta si faceva pi dura su sassi squadrati e sconnessi, si aveva l'impressione di scorgere il santo ad ogni svolta della strada, tanto l'ambiente era rimasto uguale a quello di allora, nella sua selvaggia bellezza fra boschi e dirupi: quei dirupi che circondano il Sasso Spicco e che la leggenda vuole formati il giorno stesso della morte del Signore, quando la terra trem in ogni parte del mondo, come a Gerusalemme, sbigottita davanti alla crudelt degli uomini che avevano appeso ad una croce il loro Redentore. Il convento era dov' adesso, ma pi piccolo, senza la grande chiesa che non si pu dire brutta soltanto perch ci offre, quasi a farsi perdonare, le stupende terrecotte dei Della Robbia: e la cappella delle Stimmate, isolata nella foresta, presentava ancora il rosso pavimento di mattoni, cos simile a quello della chiesa di S. Damiano, ad Assisi (quando lo modificarono, facendolo com' ora, si dice che S. Gerolamo volesse scagliare contro i frati il sasso che tiene in mano, nella grande scena dello sfondo, con la luna e il sole che piangono Ges morto: ma la Vergine lo preg di non farlo, e di avere pazienza almeno da morto, se non ne aveva avuta da vivo). I frati che abitavano lass erano, in ossequio alla volont di san Francesco, fra i migliori dell'Ordine: ed attendevano con ogni cura anche ad una ventina di chierici, la cui formazione era stata loro affidata dal Ministro Generale stesso. Ma quella sera, raccolti a tavola per la parca cena, alcuni dei frati maestri erano stranamente pensierosi e preoccupati e desolati. No, con i chierici non va, - disse fra Stefano, che era dottore in teologia a Parigi e quando parlava ruotava gli occhi come fossero uova sode e rotolava parole sonore sulle teste degli uditori - non riesco a farli studiare come vorrei e come dovrebbero, per fare onore all'Ordine e a questo luogo santo. Gi - rincalz fra Venanzio, che aveva studiato diritto canonico a Bologna, e prima di parlare taceva, e prima di tacere parlava, e sempre, tacendo e parlando, atteggiava il volto alla maest della scienza che possedeva - sono pigri, svogliati, non mostrano interesse alcuno: eppure hanno i maestri migliori dell'Ordine, lo dico a gloria di Dio, non nostra.... Pensa - riprese fra Stefano - che stamattina ho adoperato tutta la mia scienza e tutta la mia scienza e tutta la mia eloquenza per spiegare loro la famosa frase di sant'Agostino: (qui creavit te sine te non salvabit te sine te). facile, no? Dio, che ti ha creato senza il tuo consenso, non ti salver senza il tuo consenso. Eppure, quando passai alle interrogazioni, un vero disastro! Qualcuno doveva aver perfino dormito, perch non sapeva neppure tradurre la frase... Non so davvero pi che cosa fare, come parlare, quali provvedimenti prendere. Eppure un rimedio bisogna trovarlo.... Perch non chiedete aiuto a fra Leone?. Chi aveva parlato cos era stato uno che fino allora non aveva detto nulla, ma aveva ascoltato in silenzio, e un poco sorridendo, l'amaro sfogo dei due confratelli. Fra Leone?. La voce di frate Stefano e di frate Venanzio scoppi simultaneamente, con uguale accento di stupore, d'incredulit, di commiserazione. Fra Leone era un vecchio frate laico con una corona di radi capelli, interamente bianchi, sotto

un'ampia e lucida pelata: e aveva occhi da bambino, incredibilmente azzurri. Da quarant'anni serviva la comunit come cuoco e fac-totum; conosceva, come nessun altro, ogni anfratto del monte, che percorreva in cerca di erbe, di funghi, di mirtilli, di miele selvatico; raccoglieva gli uccellini che le tempeste strappavano gi dai nidi, li nutriva con pazienza infinita e poi, appena in grado di volare, li rimetteva in libert: e cos faceva con i falchi, con i leprotti, con le donnole, perfino con i cuccioli delle volpi, rimandando ognuno nella foresta con una carezza ed una benedizione. Non sapeva n leggere n scrivere, ma era di una piet e di uno zelo esemplari. Per i malati, poi. era una vera provvidenza; preparava in silenzio bevande strane, tratte dalle sue erbe, curava con decotti e unguenti sconosciuti ai medici e ai trattati di medicina di allora: ma i dolori si attenuavano, le ferite si chiudevano, le febbri cessavano, i malati guarivano. E tutto faceva con un sorriso bonario, quasi chiedendo scusa del disturbo che dava con la sua presenza. Le poche volte che, costretto dall'obbedienza o dalla carit, apriva bocca, parlava per parabole e immagini, in semplicit di pensiero: ma preferiva tacere con gli uomini. Quando era solo nei boschi,invece, le parole gli uscivano leggere e vive: parlava con l'acqua dei ruscelli che scendevano dal monte, con i fiori che si chinava ad accarezzare pregandoli di lodare, essi cos belli, il Signore, per lui cos brutto e cos ignorante, con il vento, con le nuvole, con gli uccelli, con tutto. Eppure non conosceva il Cantico di frate sole, perch allora neppure i frati se ne curavano. Fra le preghiere preferiva quella del (Pater Noster), che ai frati ignoranti come lui san Francesco aveva prescritto come sostitutiva dell'ufficio divino. I pellegrini che salivano il monte udivano spesso rimbalzare dai dirupi della vetta, o uscire improvvisi dalle forre selvagge, i (Pater) di fra Leone: che per cessavano subito quando egli si accorgeva di non essere solo, perch aveva il pudore della preghiera, che non voleva sciupata dalla curiosit di nessuno: neppure da una curiosit comprensiva e affettuosa, come quella che lo circondava. E che bene voleva a san Francesco! Un bene che gli si era moltiplicato dentro, nel pi profondo dell'animo, dal giorno in cui un frate dotto, per consolarlo della sua ignoranza, gli aveva letto e spiegato un passo della (Vita) del Santo scritta da Tommaso da Celano: Quando si faceva radere, san Francesco diceva spesso a chi lo radeva: "Guardati bene dal farmi una corona grande! Voglio, infatti, che i miei frati laici abbiano la loro parte nella mia testa". E voleva che l'Ordine fosse anche per i poveri e gli illetterati, non soltanto per i dotati e i sapienti. "Presso Dio - diceva - non ci sono persone che valgano pi delle altre; e il Ministro Generale dell'Ordine, lo Spirito Santo, riposa anche sopra i poveri e i semplici" (CELANO, Vita seconda, II, cap. 145). Dunque, si era detto, anche lui, Leone, povero frate laico senza tonsura, era caro a san Francesco come i dotti chierici, era nel suo cuore, nella sua preghiera: anche lui, bench non sapesse che cucinare e raccogliere erbe e frutti selvatici e dire padrenostri. E il Ministro Generale dell'Ordine era lo Spirito Santo, con cui si pu sempre ragionare, e anche un frate laico pu parlargli, magari in dialetto, perch il padre dei poveri e conosce tutte le lingue, anche quelle degli analfabeti. Ma perch non le predicavano mai queste cose, i frati dotti, che venivano da Parigi e da Bologna? Un giorno si era permesso di andare ad ascoltare, con i chierici, una lezione di frate Stefano, che, vedendolo, non aveva detto niente, ma l'aveva guardato con stupore e crollando la testa. Ebbene, non aveva capito assolutamente niente. Poi i chierici gli avevano spiegato che (latria) il culto dovuto a Dio, e (dulia) quello ai santi; che (epicheia) significa giustizia e (agpe) amore; che il Verbo si chiama (lgos) e che le cause si dividono

in prime, seconde, efficienti e formali. Gli era cominciata a girare la testa; non riusciva assolutamente a capire perch, se c'erano parole facili e semplici, se ne dovessero adoperare altre, complicate e difficili. Cos s'era fatta l'idea che i frati dotti fossero tutti malati nella testa, poveretti, per il troppo studiare, e cercava di curarli come poteva, con i succhi delle sue erbe che ridavano la salute ai corpi: ma la testa, purtroppo, rimaneva sempre la stessa. Chiss - pensava fra s - se il Ministro Generale dell'Ordine, lo Spirito Santo, gli avrebbe fatto trovare, una volta o l'altra, un'erba capace di guarire le teste dei frati dotti! Aveva raggiunto, a tale scopo, cinque padrenostri a quelli che prescriveva la Regola, e li recitava con un fervore particolare come l'intenzione che aveva fatta: uno per la testa di frate Stefano, uno per quella di frate Venanzio, gli altri tre lo Spirito Santo li applicasse pure, a sua scelta, ai frati pi bisognosi dell'Ordine, dal Ministro Generale in gi. Qualche cosa di tale giudizio sui frati dotti doveva essere trapelato nel convento. E questo fu il motivo dello stupore di fra Stefano e di fra Venanzio davanti alla proposta, strana davvero, di chiedere aiuto a fra Leone per aiutare i chierici a capire la teologia. Ma passato il primo stupore, guardandosi in faccia non senza un sorrisetto, i due si dissero: E perch no, in fondo? Mettiamolo alla prova questo frate che prega per la guarigione delle nostre teste, e vediamo che cosa capace di fare lui. Detto fatto, lo fecero chiamare. Senti - gli disse frate Stefano - noi non siamo capaci di far capire ai chierici questa frase di sant'Agostino: che anche se Dio ci ha creati senza chiedercene il permesso, non ci potr salvare senza il nostro consenso, e la nostra collaborazione. C' il concetto di creazione, il concetto di salvezza, il problema della libera volont umana, perch il (lgos).... Basta, basta, - interruppe fra Leone, cui cominciava a girare la testa altrimenti mi confondete le idee e non capisco pi nulla... Mi ci prover, se proprio lo volete, reverendi Padri, ma lo voglio fare assolutamente a modo mio. Solo vi prego di essere presenti anche voi, perch mi possiate correggere quando sbaglio.... L'indomani i chierici stupefatti videro sedersi modestamente fra loro i due temuti professori e salire in cattedra frate Leone. Lo salutarono con un affettuoso applauso: sul volto dei pi saputelli c'era un sorrisino ironico, qualche occhiata corse tra i banchi con qualche colpo di tosse, ma proprio senza nessuna intenzione cattiva. Quello che ora segue il riassunto della lezione di fra Leone, frate laico e analfabeta, trascritta da uno dei chierici presenti in un vecchio codice di pergamena che dovrebbe ancora trovarsi nel convento della Verna: perch di l io la trassi, con tutta questa storia, qualche anno fa, avutone il permesso dal guardiano indulgente. Il testo nel saporoso latino scolastico dell'epoca, ma il chierico avverte che fra Leone parl (vulgaris usus sermone), cio in volgare: ed una vera disgrazia che quanto disse non ci sia stato conservato in volgare, perch sarebbe stato uno dei testi pi antichi della nostra lingua. Comunque, ecco la lezione. Miei cari ragazzi, fra Stefano mi ha pregato di spiegarvi una frase di sant'Agostino, di cui non ricordo pi le difficili parole latine, ma che significa, in sostanza, questo: il Signore, che ci ha creati senza chiedercene il permesso, ha bisogno, per salvarci, del nostro permesso: cio non potr, anche se onnipotente, salvarci senza il nostro consenso e la nostra collaborazione. Cercher di farlo come potr, da quel povero ignorante che sono, capace solo di farvi da mangiare, e di volervi bene, e di pregare che diventiate dei santi frati: voi ascoltatemi con indulgenza, e tenete davanti un foglio perch ci sar forse da scrivere qualche numero. Seguitemi dunque sulla piazza di Arezzo, ma tanti anni fa che n i vostri nonni n i nonni dei vostri nonni erano ancora nati.

Alcune guardie del Comune venivano avanti, trascinando un uomo di mezza et, legato: e di tanto in tanto lo pigliavano a calci perch camminasse pi in fretta. La met era - non spaventatevi - una forca, rizzata in un angolo della piazza, con un bel nodo scorsoio gi preparato, e un omaccione nerboruto, con un cappuccio nero in testa, il boia, che ne provava la resistenza con le mani enormi. Un ultimo strattone, un'ultima pedata, e il disgraziato si trov con la testa dentro il laccio: non tentava di resistere pi, ormai, rassegnato alla sua sorte. Il capo delle guardie tir fuori una pergamena scritta e la porse al boia. era il testo della condanna. Ma mentre questi stava leggendo, ecco un giulivo suono di trombe, di corni, un galoppare rapido di cavalli: e una brigata in festa fu nella piazza. Saranno state una ventina di persone, ma due specialmente spiccavano fra tutte: un giovane alto, sulla trentina, dal volto forte e dolce insieme, vestito come uno che va a nozze; e la signora che lo accompagnava (come sapete anche le signore vanno a cavallo), bella come la Madonna, ragazzi miei, proprio come la Madonna: cio cos bella che non si pu descrivere. La brigata non si era accorta di quanto stava per accadere sulla piazza. Ma quando fu davanti alla forca ogni suono cess, i cavalli stessi si arrestarono di colpo senza bisogno di briglie. e si fece un silenzio pieno di doloroso stupore. Lo ruppe la signora, rivolgendosi alle guardie: " Perch conducete a morte quest'uomo? che cosa ha fatto?". Siamo le guardie del Comune di Arezzo, signora. Quest'uomo non ha ammazzato nessuno n ha commesso delitti veri e propri, ma debitore di cento fiorini d'oro al Comune, che glieli aveva prestati per trafficare: e poich, come vedi, diventato un pezzente, la legge vuole che sia impiccato". "E voi uccidete un uomo per un pugno di monete d'oro"? E' la legge, signora; e le leggi, buone o cattive che siano, vanno rispettate. Ors, boia, fa il tuo dovere...". "Aspettate, guardie! Non c' proprio alcun mezzo per salvare questo disgraziato?". "C', che paghi i cento fiorini di debito. Ma dove vuole che li vada a prendere? Ha cercato di farlo, s, perch aveva anche lui della gente che gli doveva denaro, aveva parenti, aveva amici... ma nessuno s' fatto avanti nel momento del bisogno. Ors, boia...". "Aspettate, vi dico. Dunque, se qualcuno pagasse per lui, sarebbe libero?". "Certamente, signora...". La donna si rivolse allora al giovane che le era rimasto accanto, silenzioso, e la guardava e ascoltava commosso. "E tu, figlio mio, sopporteresti che oggi, proprio oggi, giorno delle tue nozze, un poveretto venisse impiccato perch non pu pagare un debito? Tu, che di debiti altrui ne hai gi pagati tanti, con generosit senza limiti?". "Madre mia, sai bene che sono pronto a fare tutto ci che mi chiedi. Ma credo di non avere qui, ora, tanti denari. Comunque, eccoti quanto ho". E staccata dalla cintura una borsa pesante d'oro la porse alla madre; e la donna la pass al capo delle guardie. "Uno... due... tre... cinque... venti... cinquanta... settanta". "Sono settanta fiorini d'oro, signora" "Non possono bastare?". "No, signora, la legge dice che devono essere cento. Ors, boia...". Il boia dette uno strattone alla corda. Il condannato strabuzz gli occhi... "Aspettate, aspettate!". La signora porse un'altra borsa, pi piccola, ma essa pure pesante. "Questo quanto possiedo io. Prendete pure...". "Uno... due... tre... cinque... venti". "Sono venti fiorini d'oro, signora, che uniti ai settanta fanno novanta. Ne mancano ancora dieci...". La signora volse lo sguardo ai cavalieri che accompagnavano a nozze il figlio: e due lacrime le scesero lente dalle ciglia... sembrava proprio la Madonna

addolorata, ragazzi, proprio la Madonna addolorata... I cavalieri senza indugiare si vuotarono le tasche, e un nuovo gruzzolo fu messo davanti alle guardie: "Uno... due... tre... otto... nove...". "Ci sono nove fiorini, signora, che aggiunti agli altri settanta e venti fanno novantanove, e poi ci sono anche degli spiccioli, ma non arrivano al fiorino: manca un soldo, signora! Ors, boia...". Il boia dette uno strattone alla corda. Il condannato strabuzz gli occhi... "E per un soldo che manca, su cento fiorini d'oro, un soldo, dico un soldo che non che un soldo, voi uccidete un uomo?". E' la legge, signora. Ors, boia...". "Aspettate ancora! Ma lo avete, almeno, frugato, per vedere se un soldo non lo abbia lui?". "No, signora, l'abbiamo ritenuto inutile, ma per accontentarti...". Fu cos che, con grande stupore delle guardie, nel fondo della tasca dei pantaloni del condannato fu trovato un soldo, il soldo che mancava per fare i cento fiorini. E per quel soldo, per quel solo soldo, il poveretto fu salvo. C' bisogno che vi spieghi, ragazzi? Il giovane che andava a nozze era Nostro Signore, e con lui erano la Madonna - sia sempre benedetta! - e i santi. Ma la loro misericordia, la loro bont, il loro aiuto, la loro stessa potenza, non ci possono salvare, se noi non ci mettiamo, di nostro, almeno un soldo di buona volont. Ed , mi pare, quello che voleva dire sant'Agostino. Ma ora, ragazzi, devo andare in cucina. Non mi sento bene su questa cattedra. Pregher per voi, e voi per me, che sorella morte, come la chiama il nostro serafico Padre, ci trovi con quel soldo di buona volont in tasca. Tutto il resto dei nostri debiti, e sono tanti, lo pagano Nostro Signore, la Madonna, - sia sempre benedetta! - i santi nostri padroni. Ma quel soldo dev'essere nostro, capite, nostro. Nostro, s'intende, per grazia di Dio che ci permette di conservarlo e di offrirglielo. E cos sia. Fra Leone si fece un largo segno di croce, scese dalla cattedra ciabattando, e si avvi verso la cucina. Era cos assorto che non si accorse neppure che frate Stefano e frate Venanzio si erano messi in ginocchio, fra i chierici commossi, e avevano il volto bagnato di lacrime. Ma quando il giorno dopo alla presenza di tutti i frati dotti e dei chierici, essi bruciarono i loro diplomi di dottorato in teologia e in diritto canonico, una grande luce avvolse il convento e il monte della Verna. Guardate - dissero gli abitanti del Casentino con gli occhi alla cima -, sembra che tutta la montagna bruci. Dev'essere san Francesco, - fece una donnetta semplice e povera, che viveva di carit e perci vedeva di pi - dev'essere san Francesco, che contento dei suoi frati ed disceso con gli angeli a trovarli. Prega per noi, prega per noi. Intanto, ignaro di tutto, fra Leone stava distribuendo il becchime ai polli. La visita. Pertanto dissegli apertamente il medico: "Padre, secondo nostra scienza la tua infermit incurabile, e credo che in sul finir di settembre o nel cominciare di ottobre tu morrai". Allora il beato Francesco, che giaceva nel letto, con gran devozione e riverenza alz le mani al Signore e a grande letizia di mente e di corpo disse: "Ben venga mia sorella morte". L'uomo stava leggendo questa pagina dello (Specchio di perfezione) quando la sirena lanci il suo primo grido d'allarme; poi, con brevissimi intervalli, gli altri: si era a Milano, una notte del dicembre 1943. Andiamo disse l'uomo: sal fino all'ultimo piano per assicurarsi che le porte dei solai fossero aperte, che le bombe pirofughe fossero in ordine, che non mancasse la sabbia nei secchielli sui pianerottoli, che nessuno fosse rimasto inavvertitamente in casa. Poi scese nella cantina adattata a rifugio con alcune panche e qualche palo di sostegno. I pochi rimasti nella grande

casa vi erano gi tutti: le donne, disposte in giro, giocavano a carte (le padrone impellicciate gomito a gomito con le domestiche dai poveri scialli sdrusciti); gli uomini, quasi tutti gi anziani, ricordavano episodi dell'altra guerra quando si affrontava il nemico in campo aperto e la morte non veniva gi dal cielo, inesorabile, come ora, ma si dava e si riceveva di trincea in trincea, a fronte alta, da soldati. L'uomo si sedette in un angolo; non si sentiva, quella sera, n di giocare n di discorrere, per mantenere pi a lungo possibile nel cuore la serenit immensa che le parole dello (Specchio) gli avevano dato. Ben venga mia sorella morte. Ecco, se la porta del rifugio si aprisse, e lei venisse, chi avrebbe potuto salvarla cos, ripetere quelle sublimi parole? Nessuno, certo,neppure lui, anzi lui meno di tutti: ma il solo pensiero che un uomo le aveva potute pronunciare un giorno, gli metteva addosso una strana gioia, come se Francesco le avesse dette anche a lui quelle parole, per il giorno in cui anche lui... Poco prima di mezzanotte le sirene fecero riudire la loro voce: in un solo grido lungo lungo, questa volta, come se la notte stessa respirasse di sollievo. Il rifugio si vuot di colpo: rumori di passi sulle scale, stridore di chiavi e di serrature, colpi soffocanti di porte che si chiudono, poi di nuovo il silenzio. Ultimo sal l'uomo. Ci sarebbe ancora tempo di lavorare, come gli altri giorni, ma no: meglio metter gi una bevanda calda e poi andare a letto: il tempo si potr riguadagnare domani. Eccolo nel cucinino attiguo alla stanza da letto (non c' che una porta a vetro che le divida): apre i rubinetti, accende il fiammifero. Ah, non c' gas, pazienza. Butta via il fiammifero. Pazienza, si pu dormire anche senza bevanda calda. Esce. S'inginocchia ai piedi del letto. Ma perch l'esame di coscienza cos lungo, questa sera? Perch cos fervido l'atto di dolore? Ritornano alla mente le parole di san Francesco: ecco spiegato tutto, merito loro, merito loro anche questo. Qualche secondo dopo un colpo leggero: l'ultima luce, sul comodino, spenta. Assisi, principio d'ottobre del 1226. Da una stanza a pianterreno del vescovado un canto s'alza e si diffonde nell'aria: Laudato si', mi Signore.... Ma perch questo timbro di pianto nella voce dei frati? Non questo il Cantico di frate sole, il canto della serenit e dell'amore, il canto della pace che ha fatto gettare l'uno nelle braccia dell'altro il Vescovo e il Podest? S, questo: ma udite, cittadini di Assisi, udite: c' una strofa nuova: Laudato si', mi Signore, per sora nostra morte corporale.... Udite, voi che avete dipinto sulle pareti delle vostre chiese la morte col cranio dalle occhiaie vuote, e la falce nella mani ischeletrite: non questa la morte, non questa. la nostra sorella che viene... Lo ha detto quest'uomo che sta morendo nel vostro palazzo episcopale, mentre frate Leone canta: canta e piange, come Angelo, come Rufino. Come le campane di san Giorgio, come le campane di san Damiano, gi fra gli ulivi, dove Chiara soffre e prega. No, la nuova sorella non ancora qui: ma sta arrivando, e Francesco l'incontrer domani laggi a Santa Maria degli Angeli, fra le capanne dei frati, che egli ha voluto fatte di felci e di fango, attorno alla povera chiesetta. Ma intanto egli le manda il suo saluto da quass, nell'attesa: Ben venga, ben venga mia sorella morte. Ben venga... mormorano le labbra sorridenti del dormienti, felice del suo sogno. Ed ecco che la porta del cucinino d'un tratto si apre e una figura viene avanti. Viene avanti, ma i suoi piedi non fanno rumore: viene avanti, ma il suo corpo non muove l'aria. La sua testa non un cranio dalle occhiate vuote, la sua mano non reca la falce: eppure lei, lei. Nella stanza il silenzio profondo: solo nel cucinino un lievissimo sibilo, ma appena percettibile, viene dai rubinetti lasciati aperti e nei quali affluisce ora il gas... La morte si avvicina al letto. Ecco, ora la puoi vedere bene: le sue mani sono belle e bianche, nel volto sereno c' quasi il

rammarico di dover compiere l'opera sua. Oh, ma lo far dolcemente, e l'uomo non se ne accorger neppure. Cos... le dita della morte toccano la fronte del dormiente: lievi, come una carezza. Ma ecco, dall'altro lato del letto, una voce: Sorella... e una mano invisibile solleva quell'altra mano. La morte alza il volto e riconosce nelle tenebre l'angelo custode. Che cosa vuoi?. Sorella, non ancor giunta l'ora tua. Questo scritto nei decreti di Dio: che quest'uomo riprenda la sua strada per lottare di pi, per soffrire di pi, per amare di pi. Anche per insegnare a quanti gli verranno accanto nella vita a chiamarti sorella, a vivere in modo che la tua mano, se toglie loro la vita del corpo, dia quest'altra vita: quella nella quale l'amore non avr confini. Cos disse l'Angelo; e la morte usc, lieve come era venuta. L'indomani, entrando nel cucinino, l'uomo trov il gas che ardeva.Eppure era ben sicuro di non averlo acceso lui. Cap allora che nella notte aveva ricevuto una visita, una lunga visita. Cap che qualcuno aveva vegliato su di lui: e che egli doveva, ora, lottare di pi,soffrire di pi, amare di pi, per poter dire alla visitatrice ad ogni ora del giorno: Benvenuta, sorella, benvenuta. Lezione di filosofia. Questa una storia vera accaduta vent'anni fa, in uno dei momenti pi duri della guerra, quando a Milano infuriavano il freddo, la fame e, pi dolorosa ancora, una lotta fratricida che seminava di morti le piazze e le strade, e di destinati a morire in campi di concentramento della Germania. Ho cambiato solo qualche particolare che mi riguarda, ma senza alcuna importanza. Allora io non La conoscevo, signorina Anna. Ma un'altra Anna, che ora monaca in Sardegna, mi apr le porte della sua casa quando per me, ricercato dalla polizia tedesca ed italiana, le uniche porte aperte erano quelle del carcere di S. Vittore. Ma sapete che se mi arrestano qui da voi - dissi presentandomi a casa sua vi aspetta la deportazione, se non peggio?. Lei fa il suo dovere, noi faremo il nostro mi rispose tranquillamente il padre dell'Anna. Parole semplici ed eroiche come queste ne furono dette molte, in quel periodo: e da esse non meno che dal sangue e dal sacrificio sbocciato il fiore della libert. Ma veniamo alla storia. Che cosa desidera signore?. La voce squillante veniva con un timbro vibrato, un po' acuto, ma pieno di decisione, da dietro il banco di un panificio vicino a piazza Aspromonte. Sul banco v'erano due bilance automatiche, (una a dexteris altera a sinistris) (non spaventatevi, cari lettori, capirete alla fine l'importanza che ha il latino nelle vicende di questa storia), due vasi di vetro pieni di caramelle, un tagliere con un lungo coltello dalla lama a sega, inerte, in quel momento, fra mucchietti di briciole di pane; dietro il banco, quattro scansie che aprivano all'ins la loro bocca desolatamente vuota, come sogliono fare alla fine della giornata. Fra le bilance e le scansie stava lei, la padrona della voce. Mi guardai attorno timidamente. Nel negozio non c'era nessuno, a quell'ora. Fuori il crepuscolo scendeva su di una giornata triste, di quelle che capitano non di rado anche a Milano nel tardo autunno. Dunque, signore, in che cosa la posso servire?. Mi riscossi. Non v'era impazienza in quella voce: quell'atroce impazienza che il tono della nostra et dai nervi rovinati e rende cos aspri i rapporti col prossimo; ma la calma tranquilla di un invito. Ed io sentivo che, intanto, gli occhi di quella donna mi guardavano. Allora alzai anche i miei. Dietro le bilance v'era una giovane signora con i capelli neri raccolti in ricci ribelli come pampini d'una vite intorno ad un volto roseo e fresco, piuttosto paffuto, con un piccolo neo sulla guancia destra.

Dovevo essere stanca, alla fine della giornata; eppure i suoi occhi sorridevano e mi guardavano come fossi il primo cliente, non l'ultimo di una serie che non doveva averle rese allegre le lunghe ore del lavoro. Mi sentii confortato. Signora... dissi, ma poi parve che il coraggio mi venisse meno, il coraggio che mi occorreva per continuare: perch, in fondo, ero vestito abbastanza decorosamente, con il cappotto slabbrato alle maniche, ma pulito, e una gran busta di pelle, piena di libri nella mano sinistra. Mi prese una voglia pazza di andar via subito, di fuggire: ma... e dopo? Avrei dovuto riprendere da capo tutto, in un altro negozio, e sarebbe stato peggio. Oppure... Signora... ricominciai - ma di nuovo l'invisibile mano mi prese alla gola; e non seppi aggiungere altro che questo: Buona sera. Ma la forza che mi aveva fermato le parole trov disgraziatamente aperta la via degli occhi: la quale, per essere muta, si pu percorrere pi facilmente. E una lacrima scese lenta, gi gi, fino all'angolo destro della bocca; e vi sarebbe entrata se un'altra, e poi un'altra ancora non l'avessero seguita, ingrossata e fatta scomparire nel folto della lunga barba. Malgrado questo, non avevo abbassato la faccia. Ma lei non sta bene, fece premurosamente la signora: e uscita da dietro il banco mi condusse, attraverso il retrobottega in un cucinino, dove mi fece sedere ponendomi davanti un bicchierino di marsala colmo fino all'orlo, malgrado facessi segno di no, di no. Volevo dirle, signora, che ho fame. E non ho bollini per comperare un'altra razione di pane. Ho fatto l'impossibile per accontentarmi del bastoncino della tessera, ma ora viene l'inverno, non posso resistere pi: e debbo andare contro la legge: (contra legem), s, purtroppo... ed la prima volta: ecco tutto, signora. Lei ha davanti un pover'uomo, costretto, alla sua et, ad andare, come un delinquente, contro la legge. terribile signora, ma cos. Pochi minuto dopo uscivo tenendo sotto il braccio una forma di mezzo chilo di pane di Merano, quello nero, di segale, che pi buono raffermo che fresco, e che mi avrebbe offerto preziosi supplementi all'insufficiente razione. Gi, ma ero anche triste, molto triste; camminavo ad occhi bassi e mi sembrava che ad ogni angolo di strada dovesse sbucare un agente della legge e dichiararmi in arresto... Cos conobbi la signora Pina. La famiglia era composta dal marito, il signor Carletto, un brav'uomo, di quelli che hanno l'aria di ammazzare tutto il mondo e non farebbero male ad una mosca, di un gatto di Angora chiamato Pucci e di una cagnetta di nome Lola: il pi stupido animale che abbia mai visto sulla faccia della terra, anzi certamente, se seme di cani esiste nel mondo delle stelle, il pi stupido cane dell'universo. Fatte le presentazioni, mi presentai anch'io. Professore!... e di che cosa? disse la signora quando dovetti pur manifestarle la mia triste professione. Di filosofia, signora. Filosofia? A che cosa serve?. A che cosa serve? Mi guardi in faccia, signora, per vedere a che cosa serve, praticamente. Per, in qualche occasione, pu aiutare a uscire da certe posizioni difficili menando per il naso la gente stupida. Ecco, questa credo sia l'unica utilit della filosofia. Per raggiungere questa capacit bisogna studiare molto, essere degli iniziati. E non facile.... Pass qualche settimana. M'accorsi che la signora Pina s'era fatta intanto pensierosa, che aveva ora lei qualche cosa da dire, senza avere il coraggio di dirla. Una sera, che in negozio non c'era nessuno e fuori nevicava, e il Pucci era venuto a sfregarsi contro le mie gambe alzando la coda e guardando in su le dissi: Questa volta tocca a me, signora, farle coraggio. Suvvia: ricorda quando venni qui per la prima volta? Mi dica che cosa la rende pensierosa, e se la posso aiutare. Professore, vorrei... vorrei.... Coraggio, signora.

Ecco. Vorrei studiare filosofia.... Abbass gli occhi e il neo apparve pi chiaro sulla fresca guancia improvvisamente arrossata: pareva una piccola goccia immobile sul petalo d'ina rosa. Santo desiderio, signora, santo e legittimo. Per le debbo dire subito che non pensi di trovar tutto facile; davvero, perch (non cuicumque datum est habere nasum), il che significa che non a tutti dato avere il naso.... Il naso? Ma io ce l'ho, professore - fece la signora portando ambo le mani sul volto -. Come pu pensare che non l'abbia? Non lo vede?. S, figliola, s il (nasus vulgaris) lei indubbiamente ce l'ha, lo vedo. Anzi, se permette, le posso anche dire che , il suo, un graziosissimo naso, una tenera pallottolina di burro sulla quale anche il pi lieve tocco, anche l'ala di una libellula, lascerebbe un segno. Ma il naso di cui io parlo un altro, che non tutti hanno. Comunque, lei non deve scoraggiarsi. Vedremo subito se lei ce l'ha. E gi che ci siamo, stabiliamo anche l'onorario. Ecco. Per ogni lezione che le impartir lei mi dar un filoncino di pane; cos potr avere pi forza a condurla dentro i segreti della filosofia. L'indomani cominciai con le nozioni pi elementari: e fra le prime, naturalmente, fu l'uso del sillogismo. Accanto alla signora Pina c'era, svagato come al solito e con una sigaretta in bocca, il signor Carletto, con la sua faccia aperta di brav'uomo di affari e la cinghia dei pantaloni lievemente allentata perch aveva appena cenato; sul tavolo c'era il Pucci con la coda arrotolata intorno alle zampe davanti; sotto, fortunatamente a tiro di pedate, la stupida Lola; la famiglia al completo. Assunsi l'aria grave, severa, professionale, e diedi inizio alla prima lezione. Dunque, signora, stia bene attenta a quello che le dir. Sembrano cose da niente, eppure in esse sta il segreto di tutta la filosofia. Ecco, io dico una proposizione generale, cos: "Tutti gli uomini sono mortali". Non vero che cos? Siamo tutti d'accordo? Allora passiamo ad una (propositio minor), ad una proposizione minore: per esempio a questa: "Carletto un uomo". Anche qui siamo tutti d'accordo, non vero? E allora, quale sar la conclusione? Sar evidentemente questa: "Carletto mortale". La signora Pina si strinse a Carletto, come volesse strapparlo alla morte: e lui disse: Ma professore, non poteva trovare un esempio meno funebre?. Certo, signore, ma sarebbe stato inutile: nulla pu cambiare il suo destino, che anche il mio. E lei, figliuola, ha capito il ragionamento? Io le ho fatto un sillogismo, le ho dato la chiave di tutta la filosofia. Se riesce a capire questo, il naso ce l'ha, se no, no. Ma per oggi basta. Ci pensi su. E per domenica ventura mi faccia tre esempi di sillogismo. La domenica sera su di un quaderno lindo e pulito che la signora Pina mi porse trionfante stava scritto cos: Compito n. 1. Fare tre esempi di sillogismo. Eccoli, signor professore: 1. Tutte le locomotive fumano. Mio marito fuma. Dunque mio marito una locomotiva. 2. Tutte le oche hanno due gambe. Dunque la padrona di casa un'oca; 3. Io scrivo. Tu scrivi. Noi scriviamo. La signora Pina fremeva nell'attesa del giudizio; sentivo, senza vederli, i suoi occhi su di me come se volessero leggere nella mia coscienza. Santo cielo - pensavo - come faccio ora a dirle che non ha neanche le radici del (nasus interioris hominis), del naso dell'uomo filosofo? Come faccio a rompere le sue illusioni? Mentre pensavo cos uno strano fenomeno accadde. Le parole scritte sul quaderno cominciarono a muoversi, dapprima lentamente, poi sempre pi in fretta; ed io le vidi ad una ad una trasformarsi in bellissimi filoncini da pane che si rizzavano sul foglio, mi facevano un profondo inchino e poi fuggivano vertiginosamente. Sudavo freddo! Gi, avrei dovuto rinunciare anche ai filoncini di pane. Allora, quando l'ultimo fu davanti a me, e mi parve che sorridesse beffardamente, mi gettai disperatamente addosso a lui per afferrarlo con ambo le mani perch almeno lui non fuggisse, perch almeno lui

restasse con me... e il quaderno cadde a terra con un fruscio di fogli che si aprivano... Ma, professore.... Mi riscossi. Avevo capito che dovevo salvar tutto: le illusioni della signora Pina, i filoncini di pane frutto delle mie lezioni, ma anche l'onest professionale alla quale non ero venuto mai meno. Figliuola, dissi, forse prematuro che parliamo di sillogismo. Lasciamolo stare per ora e passiamo siamo ad un altro argomento: per esempio alle prove della nostra esistenza. Perch, se io esisto posso fare dei sillogismo; se no, no: non vero? Dunque, saprebbe lei dimostrarmi che esiste?. Ma certo, professore, tanto facile... Eccomi qua... mangio, bevo, dormo. Ho le mani, i piedi, la testa. Mi alzo, mi siedo, faccio dei movimenti. Dunque esisto. Illusione, figliuola, illusione! Queste cose le pu dire l'(homo vulgaris), ma l'(homo philosophus) no. Egli sa che i sensi ingannano. Ma allora, professore, come faccio a sapere che esisto?. Cinquecento generazioni di uomini sono morte senza saperlo, signora. Qui sta il succo di tutta la filosofia. Me lo dica, me lo dica subito, professore!. Allora, figliuola, stia attenta. Lei deve tener ben presenti tre parole latine che spiegano tutto, tre sole parole, non si lamenter, spero. Eccole: (cogito ergo sum). Voglio dire: penso, dunque esisto. Le scriva cinquecento volte sul quaderno. Le ripeta di giorno, di notte, quando lavora, quando riposa. Ne sentir la potenza immane. Quando saranno diventate sostanza della sua vita, allora possieder il segreto della filosofia; allora potr bere i veleni senza che le facciano male, potr uscire salva dalle situazioni pi difficili. Potr persino, stia bene attenta, dar vita alla sua ombra; e per esempio, dormire tranquillamente su in camera mentre la sua ombra vende il pane ai clienti in negozio. No, non scrolli la testa, tale la potenza della filosofia, basta solo credere. Buonanotte, figliuola; anzi (cogito ergo sum), figliuola. Ma una tarda sera del dicembre 1944, mentre nell'accogliente cucinino della signora Pina stavo al caldo sorbendo un caff delizioso, che mi ristorava dalla fatica di un lungo cammino (per vi garantisco, lettori miei, che su, lungo il confine svizzero, io andavo solo a raccogliere narcisi, nocciole e lumache, a seconda della stagione, non per altri motivi, chiedetelo pure a mia nipote Maricilla...) fu picchiato violentemente alla porta. E una voce irata segu ai colpi: Aprite, la polizia. Feci appena in tempo a nascondermi dietro alcuni sacchi di farina ammonticchiati in un angolo, nella penombra. Entr un uomo sulla trentina, torvo, con una testa da morto sul cappello e una grossa pistola alla cintura: uno della polizia neofascista. Che cosa desiderate, signore, a quest'ora? Il pane finito, non ne ho assolutamente pi, mi spiace. Non cerco pane, signora. Sedetevi e rispondete. Conoscete il professore che abita di sopra, al primo piano? Badate di non mentire, se volete che non vi succedano dei guai grossi. Dunque, ripeto, lo conoscete?. Ma certo, signore, certo. Anzi vi posso dire che viene spesso qui da me. Vi era anche un'ora fa. Ah! E sapete che cosa fa?. S, professore di filosofia, poveretto. Non intendo dire questo. Dico se sapete che un delinquente della peggior specie; un nemico della nostra repubblica sociale!. Un delinquente? Ah no, caro signore, questo no, non lo posso credere. Alla sua et! E poi un vecchietto cos amabile, cos gentile... Pensate che in un certo periodo s'era ficcato in testa d'insegnarmi filosofia. Ah, ah! Ma io fingevo di dargli retta, poverino, per non togliergli un'illusione e, anche, ma s, per potergli dare qualche filoncino di pane senza che se ne offendesse. Ma dentro di me, sapeste quanto ridevo! Un giorno, pensate, voleva insegnarmi i sillogismi. Voi sapete che cosa sono i sillogismi? No? Allora ve lo dico in

due parole. Ecco, come se io facessi a voi questo ragionamento: Chi perseguita i propri fratelli un assassino. Voi perseguitate i vostri fratelli: dunque voi siete un assassino.... Dal mio angolino nell'ombra vidi l'uomo trasalire violentemente e arrossire, come se uno schiaffo l'avesse colpito in piena faccia. E intanto, con un volto angelico, la signora Pina continuava: Ecco, proprio cos. Che ne dite voi di questo ragionamento? Che non regge, non vero? Eppure egli pretendeva di s, e voleva convincerne anche me. E io lo lasciavo dire, povero vecchio! Un'altra volta... a proposito, datemi la rivoltella!. C'era un cos dolce sorriso sulle labbra della signora Pina e tanta suadente forza nella sua parola, che l'uomo, soggiogato, le porse la rivoltella. Io seguivo attentamente la scena. Che intenzioni aveva quel diavolo di donna? Ecco - riprese la signora - ora v'insegner anch'io un poco di filosofia. Vediamo, siete sicuro di esistere, voi?. Perbacco, signora! Eccomi qui davanti a voi, che vi parlo e, se permettete (abbass la voce in tono di commossa devozione), vi ammiro; s, vi ammiro. Sono vivo e in buona salute: perci esisto. Errore, signor mio, errore. Per esempio, vedete, se io facessi cos... (con un rapido movimento mise la rivoltella in posizione di sparo e la punt sul petto del milite)... alzate le mani, vi prego... (quello, con gli occhi sbarrati si affrett ad eseguire l'ordine)... cos va bene ... ecco, se io premessi leggermente il grilletto... (grosse gocce di sudore imperlavano la fronte del disgraziato...) che cosa succederebbe, secondo voi? (Piet - fece, irriconoscibile, la voce dell'uomo - ho a casa quattro bambini). Ma no, non spaventatevi! Che cosa succederebbe, dicevo? Dalla canna uscirebbe una pallottola che trapasserebbe il cuore... oh, ne sono sicura, ho la mano ferma, sapete... dunque, vi trapasserebbe il cuore. Ma chi morrebbe? Voi? Neppur per sogno! Voi siete, nella sostanza, immortale. Morrebbe la vostra immagine, e questo, che cosa pu contare? Un uomo come voi, poi... ma forse meglio che facciamo la prova. Signora. - disse subito il milite sempre con le braccia alzate e il volto madido di sudore - signora, ho quattro figli... vi giuro che non far pi questo lurido mestiere... ma abbiate piet... vi giuro... abbiate piet.... Suvvia, non abbiate paura, altrimenti che cosa ci sta a fare quella testa da morto sul vostro cappello?... Ecco, io premer il grilletto cos, con un tocco lieve lieve... e voi partirete, signore, per una via dalla quale, dicono, non si torna pi... ma qualcuno vi sar, s, che vendica oltre la vita le ingiustizie patite e getter all'inferno la vostra anima dannata... ecco, a lui voi non potrete sfuggire... siete pronto allora?.... Signora, - rantol l'uomo pallido come un cadavere - no, non voglio partire; abbiate piet; vi giuro che ho capito, che non far pi questo infame mestiere. Non credete? Ve dar la prova; ecco, questa stessa notte sei patrioti devono essere arrestati qui in citt: se volete, telefono a tutti, subito... no, non un inganno, signora, vi giuro che ho capito... ho in tasca gli indirizzi... potete controllare..., poi, improvvisamente, abbass di colpo le braccia sul tavolino, vi appoggi la testa e scoppi in singhiozzi. La signora Pina si alz e gli and vicino; con un gesto d'infinita piet gli pos una mano sulla testa, in atto materno: Coraggio, - disse - non v' abisso da cui, con l'aiuto di Dio, non si possa risalire. Allora l'uomo le afferr la mano e gliela baci. Pochi secondi dopo alcune brevi parole al telefono mettevano in salvo sei patrioti milanesi. Quando uscii dal nascondiglio la signora Pina stava ritornando dalla porta dove aveva accompagnato il milite. Aveva gli occhi umidi, ma quanto sorridenti! Le presi anch'io la mano e gliela baciai. Signora Pina, - sussurrai - diavolo d'una donna, altro che naso, lei ha una proboscide! La proclamo (ad honorem) dottore in filosofia.

La Giuseppa del Simeto. Quando la Giuseppa ritornava dalla lontana citt, dove si recava a studiare, era come se la rivoluzione entrasse nella casa lass, lungo le pendici dell'Etna. Oh, intendiamoci: una rivoluzione gentile, come la Giuseppa, che aveva dei capelli nerissimi e due occhi dolci, sotto i quali l'arco delle labbra intatte da ogni artificio si atteggiava sempre ad un delicato sorriso. Nella casa l'aspettava la nonna, una vecchina che non sapeva n leggere n scrivere, ma alla quale gli anni e i dolori avevano dato quella sapienza che i libri non danno. Benvenuta, - diceva la nonna - non hai ancora finito di studiare? E quando avrai finito, che cosa saprai? Vieni qui, bambina. Giuseppa aveva piacere di sentirsi chiamare bambina, anche se studiava filosofia e non era molto lontana dalla laurea. Facevano, insieme, il giro della casetta: Guarda soggiungeva la nonna. Dietro la casa saliva la montagna dalla cima eternamente bianca, dai fianchi massicci segnati dalle colate di lava, immenso altare fra la terra e il cielo; davanti sembrava invece d'essere su di un poggio aereo: il declivio del monte scendeva solenne verso la piana di Catania, le querce cedevano il posto agli aranci, e lontano, in basso, scorreva il Simto dalle limpide acque, la cui voce arrivava lass con un mormoro dolce, come di foresta percossa dal vento delle foglie irrequiete. Ad un'ansa del fiume si vedeva la casa del pescatore, dove, a notte, s'accendeva il lume per il traghetto: e sembrava una grossa lucciola che scorresse da un capo all'altro di un filo, come una perla rimasta sola nella collana. Non c'era nulla da dire: e le due donne non dicevano nulla. Poi la Giuseppa prendeva possesso della sua casetta. Perch dovete sapere che ne aveva una tutta sua. Non facile spiegarlo, ma prover ugualmente. C'era, dunque, la casa della nonna, piccola, ma troppo grande, ora che era rimasta sola. Accanto ad essa, distante una trentina di metri, una minuscola casetta, quasi di bambola, composta di un'unica stanza a pianterreno, dalla quale poi si accedeva, mediante una scaletta di legno, ad un'altra stanza esattamente sovrapposta alla prima. La chiamavano la casetta del nespolo, perch poco lontano si alzava un nespolo bellissimo; ma pi vicino ancora di esso v'era un altro albero, non so di che genere, ma che chiamer l'albero del chi, perch ogni notte vi si posava un chi per dire alle stelle il suo lamento. Il regno della Giuseppea era l. Fino da piccola si era impossessata della casetta e ne aveva fatto suo esclusivo dominio. A pianterreno aveva messo le sue masserizie di fanciulla cittadina e i libri che essa chiamava pedestri; di sopra, col letto, aveva portato i libri romantici. E quando, nelle notti lunari, la sua voce si alzava a salutare la luna, anche il chi taceva commosso: e alla voce della Giuseppa faceva da accompagnamento soltanto il rumore del fiume lontano. La Giuseppa del Simeto, la chiamavano per molte miglia all'intorno. Fu proprio in una di queste notti che la vide il pastore. Lo conoscevano tutti cos, senz'altro nome, perch era davvero una tipica figura di pastore: giovane, alto, magro, con occhi e capelli neri, e con un gregge di pecore cos bianche che era una meraviglia a vederle. Non sapevano chi fosse, n da dove venisse; arrivava improvvisamente al paese, in una certa epoca dell'anno, vi rimaneva qualche giorno, poi saliva su, verso la montagna, con le pecore. Parlava poco e adagio e il suo volto era sempre sereno: anche per questo tutti gli volevano bene. Una sera dunque, che gi le ombre respingevano l'ultimo sole verso le nevi del monte, egli si ferm con le pecore sotto l'albero del chi; e fu cos silenzioso, e le pecore stanche furono cos presto immote sotto l'albero, che la Giuseppa non si accorse di nulla: stava leggendo il suo Leopardi, proprio la canzone del pastore errante... Scese cos la notte e spunt dietro il monte la luna: come

portate dai suoi raggi due ali leggere solcarono l'aria immota, e s'ud un breve frusciar di foglie, subito spento. Poi, improvviso, scoppi il primo lamento, seguita da un altro, da un altro ancora: chi, chi, chi... Il pastore, senza fare il pi piccolo movimento, alz gli occhi e vide l'uccello; era l, dove il ramo pi alto s'innestava sul tronco, e pareva attendesse una risposta: le pecore erano sempre immote. Chi, chi...finalmente dalla finestra della casetta un canto dolce e lentissimo rispose, poi la Giuseppa apparve. Il pastore trattenne il fiato. La fanciulla era tutta fasciata dai raggi della luna: i capelli neri mandavano strani bagliori, gli occhi, il viso, le mani spiccavano sul fondo oscuro della finestra come un quadro stupendo appena uscito dal pennello di un artista. La fanciulla cantava. Tutto taceva all'intorno, anche il chi taceva; solo il fiume, laggi, continuava a scorrere sul suo letto, sotto la luna: e pareva che una invisibile mano toccasse lievemente i tasti di un pianoforte per accompagnare sommessamente quelle parole umane che salivano verso le stelle. Poi cessarono le parole e fu di nuovo silenzio: ch la voce stessa del fiume era silenzio. Fu allora che la Giuseppa vide la grande macchia bianca immota sotto l'albero del chi; e non s'era ancora accorta che erano pecore, soltanto pecore, quando da essa s'alz un suono lento, dolce e triste insieme: le note parevano venire direttamente verso di lei, tenui, lievi, come appese ai raggi della luna, poi la circondavano tutta, le davano dentro una dolcezza strana, mai provata, un desiderio di pianto... D'un tratto ebbe un soprassalto, diede un piccolo grido, chiuse rapida le imposte: aveva visto, fra le lane bianche delle pecore, il volto del pastore che suonava il flauto. La musica non cess; ma i raggi della luna e le note del flauto battevano ormai tristi sulle imposte chiuse. Anche l'uccello s'impazient: chi, chi, fece aspro: e il flauto tacque. Non ho ricchezze, signora - diceva il pastore alla vecchina, che lo fissava in volto come volesse vedergli l'anima - ho solo le mie pecore; e c' una casetta, laggi, nella pianura, oltre il fiume, dove una donna come voi mi benedice quando parto: io non vorrei che restasse sempre sola ad attendere il mio ritorno. Vostra nipote avrebbe due madri, una sul monte ed una nel piano. Perch non volete che sia mia sposa?. Non sono io, figliuolo - rispondeva la donna -. La Giuseppa, vedete, non una ragazza come le altre di qui: studia, fra poco andr per il mondo, dove ci sono grandi citt, ad insegnare, imparer sempre cose nuove, e forse diventer famosa. Che cosa potreste offrirle voi, con le vostre pecore?. La felicit anche fra le pecore, signora rispose il pastore. E usc triste dalla casa che gli era apparsa improvvisamente gelida; le pecore alzarono il muso, parvero capire, e gli furono tutte intorno. S egli disse: e la sua mano passava leggera dall'uno all'altro dei musi protesi. Riprese la via del monte; ma un'ombra di tristezza era scesa sul suo volto. Trascorsero alcune settimane; ma un giorno, passando in una radura, il pastore s'imbatt in un uomo strano: aveva una gran barba bianca, due occhi che sembravano carboni e, ai piedi, un cesto di vimini accuratamente coperto. Era seduto su di un sasso, e pareva attenderlo. Tu hai il mal d'amore - gli disse, infatti, fissandolo, quando il pastore gli fu vicino - la fanciulla per cui sospiri lontana. Ricordati di venire da me, quando sar ritornata. Mi troverai ogni mese qui, in questa radura, la notte che precede il plenilunio. Non dimenticarlo. Il pastore era cos stupito che non si accorse neppure, quando il vecchio s'avvi, che qualche cosa si muoveva dentro al cesto. Per le interminabili vie della grande citt la Giuseppa camminava. Attorno a lei il movimento era febbrile: tram, automobili velocissime che si faceva appena a tempo a scansare, col fiato in gola, correndo verso il marciapiede; furgoni, motociclette: un vortice da perderci la testa! E quelle facce! Vi si

leggeva l'ansia, la preoccupazione, la fretta, la noia, la disperazione, tutto: tutto, fuorch la pace. La Giuseppa suon ad un portone e fu introdotta in una parlatorio. Venne una suora, piuttosto anziana. Che cosa desidera, figliuola?. Vede, madre, ho avuto il mese scorso la laurea in filosofia. Vorrei poter lavorare, insegnare.... Oh, mi dispiace; i posti sono gi tutti occupati. Sono tante le domande.... Ma io abito molto lontano, ho bisogno di lavorare, madre.... Capisco, capisco. Ma che cosa possiamo fare? Lasci il nome e l'indirizzo, se crede; caso mai vedremo; e intanto abbia pazienza, figliuola. Il colloquio finito. La Giuseppa ancora sulla strada. Da un mese non sente che quelle parole: Vedremo, vedremo... lasci il nome, se crede... abbia pazienza.... Intanto i denari sono quasi terminati, anche la valigetta di pelle, dono della nonnina, stata sostituita da una di cartone pressato. La fanciulla cammina, ora, con le braccia abbandonate. L'ultimo indirizzo che ha sul notes molto lontano. S'avvia. Pensa con amarezza alle fatiche di lunghi anni. Perch tanto studio? Per finire cos, su di una strada, a domandare lavoro come un'elemosina? Ma se non chiede che di lavorare, senza risparmio di forze, di vivere fra bambini e giovani da educare, di dare tutta se stessa! Vedremo, vedremo; una nuova formula per rendere meno duro il rumore di una porta che si chiude alle spalle. Non altro. E la nonnina, laggi, che cosa far? E il chi verr ancora sull'albero? E i pastore con le pecore che sembravano uscite dal bucato... oh, il pastore... giunta. Un altro suono di campanello. Viene introdotta. Non un parlatorio di suore, questa volta, ma un ufficio molto elegante, con quadri e specchi alle pareti. Sono venuta per quel posto di segretaria.... Ma non pu continuare davanti a quei due occhi che la fissano in un modo... in un modo... l'uomo che sta seduto sull'ampia poltrona , pi che un essere umano, una montagna di lardo, una montagna con anelli d'oro alle dita, e catena d'oro da un lato all'altro del panciotto immenso. Ah, bene, bene! Laureata in filosofia? Ma guarda, non si direbbe! Ci metteremo presto d'accordo, se lei sar gentile. A proposito, la sua scrittura com'? Venga qui, ecco la mia penna, scriva chiaro su questo foglio... scriva quello che vuole... no, qui davanti a me, che diavolo, non chiede di essere la mia segretaria?. La Giuseppa si avvicina, prende la penna... pochi secondi dopo capisce che cosa dovrebbe fare per essere gentile, e la sua mano aperta e ferma scesa una volta, due volte sulla faccia di lardo dell'uomo seduto, mentre i suoi occhi fiammeggiano. Raccoglie sul tavolo la borsetta ed esce di corsa, inseguita dall'urlo stizzito del maiale dagli anelli d'oro, incollato dalla rabbia alla poltrona massiccia. Alta, sul cielo, la luna aveva scolorito ogni stella. E il suo chiarore diffuso pareva rendere tutto uguale, la neve della cima, gli alberi, i prati, la pianura lontana. Il pastore camminava rapido. Trov il vecchio dove l'aveva veduto la prima volta, seduto sul sasso. tornata disse in un soffio. L'ami sempre?. Sempre. Sei pronto a fare quello che ti dir, senza incertezze, e senza chiedere spiegazioni?. Se onesto, o se per la nostra felicit, s. Allora prendi questo cestello e portalo con te, ben chiuso. Domani, a notte, quando il plenilunio sembrer incendiare il monte, deponilo sulla porta della fanciulla. Alzane un poco il coperchio, poi va sotto l'albero del chi e suona col flauto la tua canzone pi bella. Ricordati bene che non devi cessar di

suonare finch l'amor tuo non sar fra le tue braccia. Se per qualunque motivo il flauto tacer, perderai te stesso e lei. Ora vattene. Quando, la notte dopo, il pastore sal alla casa della Giuseppa col misterioso paniere, il cuore gli batteva forte. Depose il cestello sulla pietra del limitare, davanti alla porta chiusa, ne alz un poco il coperchio, corse verso l'albero del chi e trasse il flauto. La luna, intanto, stava davvero incendiando il monte. Poco dopo si alzarono nell'aria luminosa le prime note: tenui, lievi, incerte dapprima, poi sempre pi sicure, come se la commozione del suonatore cedesse a poco a poco il posto alla gioia piena, di vivere, di amare. Anche la luna e il monte parevano ascoltare. Quando la Giuseppa si fece alla finestra, la melodia strarip: era come se il Simeto, che scorreva laggi nel fondo della valle, avesse cambiato in nota musicale ogni goccia della sua acqua nel cammino verso il mare e, uscito dalle sponde, non conoscesse altre rive che quelle del cielo. Ma gli occhi del pastore videro anche un'altra cosa; videro il cestello muoversi lievemente, poi sussultare: poi uscirne, uno dopo l'altro, due serpenti lunghi e sottili; le loro teste, ormai alte sul corpo arrotolato, dondolavano lentamente al suono del flauto. Poi, d'un tratto, i rettili scomparvero sotto le fessure della porta. Il pastore trattenne in tempo l'urlo; ricordava le parole del vecchio misterioso: Se per qualunque motivo il flauto tacer, perderai te stesso e lei.... Continu, dunque; ma il flauto pareva impazzito; le sue note si trasformarono in un pianto disperato, in un grido lungo e acuto: Fuggi, amore, - parevano dire - non senti la morte che sta salendo per le scale, che sta per avvolgere nelle sue spire la tua giovinezza? Fuggi, fuggi, sei ancora in tempo!. La Giuseppa ud nelle note il grido d'angoscia; ma pi lo vide negli occhi disperati del suonatore. Si volt, scorse i serpenti che stavano entrando nella stanza, fu d'un balzo sul davanzale della finestra. Guard in basso, esit un poco... Allora il pastore, sempre suonando, venne sotto: Salta, bambina, - diceva il flauto - non temere.... Con un piccolo grido la Giuseppa salt. Solo allora il pastore abbandon il flauto e apr le forti braccia... Prima di deporre al suolo il suo tesoro, se lo strinse un attimo al cuore. Cattivo, - gli sussurr la Giuseppa - c'era bisogno dei serpenti, per questo?. I serpenti, intanto, erano giunti sul davanzale e sembravano smarriti per il suono venuto meno. Poveretti mormor la fanciulla. Il pastore non cap; ma la Giuseppa aveva veduto, dietro le loro teste triangolari, la faccia immonda dell'uomo che le aveva chiesto, nella citt lontana (ma era davvero esistita?), di essere gentile: quello, s era il vero serpente... Poveretti ripet. Chi, chi... venne il richiamo dell'albero. La Giuseppa e il pastore guardarono: ecco, l dove il ramo pi alto si attaccava al tronco... Ma era proprio vero, o sognavano? Il chi non era solo... un altro uccello, del tutto simile a lui, solo di colore un p pi chiaro, gli era accanto, tanto accanto da mescolare le piume con quelle di lui e ne sembrava ascoltare estatico il canto... Il pastore strinse forte il braccio della Giuseppa: Vedi - mormor - anche lui non pi solo.... Cos va bene, - disse la nonna aprendo le imposte della vicina casetta - ora le pecore avranno anche la pastora: ci voleva proprio, la pastora, per un gregge cos candido. La luna continuava a ridere in alto, il Simeto a mormorare nella pianura lontana; i serpenti, ridiscese le scale, erano andati a riporsi, quieti, nel paniere: non riuscivano a darsi pace che la fanciulla li avesse chiamati

poveretti. Non conoscevano gli omini essi, ma la Giuseppa del Simeto aveva giudicato bene, proprio bene. La scolara timida. (Atto unico, in tre scene. - Personaggi: la scolara timida, il professore magro, due assistenti, Satanasso, un diavolo, molti dannati muti, una madre superiora. La scena varia col variare dei quadri. - Per capire la commedia basta essere o essere stati matricole universitarie). Scena prima. (Ampia sala d'esame con banchi, una lavagna, una cattedra. Sotto la cattedra un tavolino d'occasione, al quale siedono tre uomini in toga,con libri e registri davanti. Quello di mezzo il professore magro: alto, allampanato, naso adunco da sparviero, colletto duro, non rivoltato, con cravatta di seta e spilla tipo ottocento, occhi irrequieti e sospettosi, barbetta bianca rada e con i peli a cavatappi, aria da uomo superiore e infallibile; a destro il suo primo assistente, piccolo, panciuto, con tre dita di cotenna che il colletto non pu contenere e che s'incurva sul collo come l'arcata di un ponte, punteggiata di setole grosse e corte: tiene costantemente nella sinistra il fazzoletto con cui terge il sudore e, di tanto in tanto, anche le lenti spesse degli occhiali a stanghetta d'oro; a sinistra il secondo assistente, giovane elegantissimo, tutto in nero, con le guance sbarbate di fresco e profumate con acqua di colonia, baffetti alla don Rodrigo, capelli tirati a lucido. - Al professore magro i due assistenti tributano l'omaggio di continui e manifesti segni di ossequio: ridono quando ride, atteggiano a severit la faccia quando serio, si sdegnano quando si sdegna, lo guardano quando parla, seguendone col volto i vari moti dell'animo - La superficie laccata del tavolino cosparsa di puntini umidi o gi secchi causati dagli scoppi di saliva del professore magro. - Davanti ai tre sta la scolara timida; ha messo sul tavolo la borsetta col fermaglio d'osso e guarda, ma di sfuggita, il professore magro: ha le guance paffute e rosse, i capelli raccolti ai lati in due trecce che le nascondono gli orecchi, veste modestamente come s'addice ad una scolara timida, con maniche fino ai polsi, nessuna scollatura, calze opache, sottane a mezza gamba, scarpe nere e basse come quelle delle nostre nonne. Pare tranquilla. Gli occhi per, se si potesse guardarli bene, lascerebbero capire un'altalena di speranze, di timori, di paure). PROFESSORE MAGRO: (Va bene, signorina. Ma ditemi ora: voi avrete certamente letto il mio ultimo volume: che cosa ve ne pare?) SCOLARA TIMIDA: (E' un'opera indubbiamente completa e fondamentale, professore; come, del resto, tutti i vostri lavori...) (ampi cenni di assenso dei due assistenti). PROFESSORE MAGRO (con noncuranza) (Beh, lasciamo andare...) SCOLARA TIMIDA (... che sono veramente delle pietre...) (il professore magro corruga minacciosamente la fronte, stringe le mascelle, manda lampi dagli occhi irritati; al primo il lardo pi s'incurva sul collo massiccio, mentre la bocca mastica convulsamente una pallina di gomma ormai ridotta a poltiglia; il secondo fa uscire dalle labbra appena dischiuse un sottile sibilo di disprezzo)... (delle pietre miliari sulla strada della filologia che voi percorrete con la sicurezza e l'autorit indiscussa di un vero maestro...) ( la fronte del professore magro si spiana di colpo nel pi ampio sorriso, che si ripercuote come un lampo sulla faccia dei due assistenti i quali muovono la testa dall'alto in basso, come i moretti dei salvadanai missionari, con cenno di assenso e di compiacimento). PROFESSORE MAGRO (Ah!) I ASSISTENTE (Ah!) II ASSISTENTE (Ah!) SCOLARA TIMIDA (continua) (E poi voi, professore... PROFESSORE MAGRO (Dite pure, signorina, mi interessa molto ci che state

dicendo. Si vede che siete preparata bene. Continuate pure...) I ASSISTENTE (Continuate pure...) II ASSISTENTE (Continuate pure...) SCOLARA TIMIDA (china gli occhi in atto di delicata modestia e abbassa la voce: poi, dolcissimamente e lentamente, come un lungo s bemolle in cui sbocchi il tormento di un violino, dice) ... (voi sapete unire la filologia all'arte, la cultura alla poesia. Voi siete veramente...) (esita, alza rapidamente gli occhi, poi li abbassa subito). PROFESSORE MAGRO (lisciandosi la barba con un sorrisetto) (Coraggio, signorina, voi dite le cose molto interessanti...) I E II ASSISTENTE (insieme) (Molto interessanti... SCOLARA TIMIDA (... siete veramente un palombaro...) PROFESSORE MAGRO (che se ne stava ruotando come un girasole in una appena contenuta compiacenza di s) (Un... che cosa?) I ASSISTENTE (Un... che cosa?) II ASSISTENTE (Un... che cosa?) SCOLARA TIMIDA (alza gli occhi, fissa il professore magro che d segni manifesti di irrequietezza; arrossisce; abbassa ancora la voce che le esce di bocca come una vellutata carezza, non fatta tuttavia senza un interiore sforzo) ...(un palombaro abilissimo nello scandagliare gli oscuri mari non solo della filologia, ma anche quelli spesso ancora pi scuri e misteriosi dei cuori) (la voce diventa un soffio)... (dei nostri cuori. Nello svelarne le pieghe pi segrete) (sospira lievissimamente), (pi riposte, pi tenaci) ( si copre il volto con le mani)... PROFESSORE MAGRO (con faccia lieta) (Va bene, signorina. Basta guardarvi per capire che siete una donna intelligente) (segno di assenso degli assistenti). (Ma critiche non me ne sapete proprio fare? Proprio? Coraggio, figlia mia, dite pure: la critica, fatta col dovuto rispetto, s'intende, madre di verit). SCOLARA TIMIDA (alza gli occhi, ma non troppo; con le mani tormenta il fermaglio d'osso della borsetta; apre la bocca, ma non le esce parola; riprende a tormentare il fermaglio. Finalmente si decide) (Veramente, una ne avrei da fare, professore...) PROFESSORE MAGRO (segni di allarme: che cosa diavolo avr pescato costei nel mio volume? Ora per le dar io una lezione di modestia: mi sento l'animo di annientarla, di polverizzarla... Anche gli assistenti sono inquieti) (Ma dite pure, signorina, con la massima libert. Questo il tavolo della la scienza). (D un pugno sul tavolo cospargendolo nello stesso tempo di goccioline di saliva; il tavolo sobbalza e fa cadere a terra la borsetta della scolara timida che si china a raccoglierla chiudendosi la scollatura dell'abito con atto onesto e compostissimo; mentre ritorna in posizione normale il professore magro si scusa). SCOLARA TIMIDA (guarda arditamente il professore magro che si accarezza la barba, mentre il primo assistente tira fuori di bocca la cicca di gomma, la osserva e poi si rimette a masticarla; con voce decisa la scolara timida dice) (S, quella del Monti; la migliore che esista nella nostra letteratura. Non capisco come questa possa essere una critica...) I E II ASSISTENTE (insieme) (Neppure io...) SCOLARA TIMIDA (S, professore, una traduzione classica. Ma di tempi passati! Noi, noi tutte (arrossisce) avremmo preferito un'altra versione, pi aderente ai nostri sentimenti, al nostro spirito. Noi avremmo desiderato (con voce dolcissima, ma guizzante come un ramarro che attraversi un sentiero) una vostra traduzione! Che dono sarebbe stato l'avere il testo interpretato per noi, dal nostro Maestro! Saremmo state tutte felici, tanto tanto...) I ASSISTENTE (Ah!) II ASSISTENTE (Ah!) PROFESSORE MAGRO ( commosso; si tormenta con la sinistra la barba, mentre sopra il naso grifagno s'adagia il compiaciuto sorriso dei suoi occhi; le ultime parole della scolara timida, pronunciate con un timbro diabolico nella voce e un atteggiamento di dolce rimpianto nel volto sereno, lo hanno

totalmente conquistato) (Avete ragione, signorina, non ci avevo pensato. Grazie. Gi, sarebbe stato meglio. Grande mistero, questo animo moderno che non si appaga del bello passato, che cerca di evadere dagli schemi di ieri. Non parliamo poi di quello femminile. Va bene, signorina. Voi avete un ingegno eletto a una padronanza sicura di ogni argomento. La scienza pu aspettare molto da voi. E anche la cultura. E voi, caro) dottore (si rivolge al primo assistente che pende dalle sue labbra con la bocca aperta e la penna alzata), (mettete pure trenta e lode. ben meritato. Brava, signorina. Arrivederci, signorina. Aventi un altro). (La scolara timida esce. Cala la tela). Scena seconda. (Una vasta caverna senza luce. Alle pareti una fila di uomini e di donne appesi per il mento ad uncini da macellai. Da destra e da sinistra si sprigionano lingue di fuoco che salgono a lambire i corpi dei disgraziati e li fanno accartocciare dallo spasimo. Nell'aria un acre odore di zolfo, urla disperate e rantoli sommessi. Al centro della caverna, su di un trono arroventato, sta Satanasso: ruota intorno occhi spaventosi e digrigna i denti. D'un tratto, da sinistra, entra un diavolo con un tridente, in cima al quale, bene infilzata, sta la scolara timida). DIAVOLO (Salute a te, o Satana! Pesca grossa oggi!) SATANASSO (Quale pesce, o mio prode?) DIAVOLO (Una scolara timida!) SATANASSO (Bravissimo! Ma come hai fatto a prenderla?) DIAVOLO (Molti in verit mi ha fatto sudare, o sire, ma infine l'ho presa. Tutte le armi consuete mi si erano spuntate. Le vesti sono lunghe, come vedi: calze opache e spesse, maniche fino ai polsi, scollatura invisibile, nessun trucco sulla faccia. Niente da fare con le solite arti: un caso proprio disperato. L'ho presa con un trenta e lode). SATANASSO (Un trenta e lode?) DIAVOLO (S. Non ne aveva avuto nessuno, poverina, sul suo libretto, e ne desiderava almeno uno, tanto, tanto. Allora le ho suggerito come doveva fare col professore magro). SATANASSO (Col professore magro?) DIAVOLO (S, o mio sire: fra non molto ti far conoscere personalmente anche lui. Dunque, per conquistare il professore magro, lei si fatta insinuante, melliflua, dolcissima nella voce, maestra nell'arte dei rossori e dei silenzi, adulatrice, ipocrita. Insomma lo ha sedotto, e col mio aiuto ha finito con l'ottenere il suo scopo. Lei ha preso trenta e lode, ma io ho preso lei, subito, perch non avesse a pentirsi. So qual il suo posto senza che tu ti affatichi nel dare la sentenza, o mio re: ipocrisia, lusinghe, e chi affattura ha detto quel fiorentino che invano rincorsi quando fu quaggi. Cerchio ottavo: Malebolge: ce la porto subito!) SATANASSO (S, o mio prode, e dalle un posto speciale, come si addice ad una scolara timida. Ma prima toglile quel cappellino verde: non voglio che seduca altri, nel mio regno). (Il diavolo cerca di eseguire l'ordine, ma la dannata si dimena sulla punta del tridente:(No, no, il cappellino verde no!) Ma infine deve cedere; e il diavolo con un urlo di vittoria scompare portandole via tra fiamme e zolfo. Cala la tela). Scena terza. (Un convento. E' mezzanotte. La madre superiora in ciabatte di feltro, ornate di un ricamo di perline sulla punta, fa la ronda nel corridoio su cui danno le porte delle stanze. Ha nella destra una lampada a petrolio, con la sinistra tiene il rosario che le pende a fianco in lunga serie di grani. Volge ora qua or l la luce, sospettosa e prudente, sempre all'erta contro i fantasmi della notte. La sua cuffia con l'orlo a greca si disegna sul muro come la schiena arcuata di un gatto rabbioso. D'un tratto, nel silenzio fondo, l'agghiaccia un grido soffocato che viene da dietro le sue spalle: (No, no!). Si volta, si fa coraggio, corre ciabattando, inseguita dalla sua ombra

sul pavimento e da quella della sua cuffia sul muro: poi si arrestano tutte e tre, di colpo. Accosta l'orecchio alla porta da dove le pare sia uscito il grido; e difatti questo ancora si ripete: (No, no!). La superiora entra risolutamente, evita il piccolo armadio subito a destra della porta, e si china sul letto dove dorme la scolara timida). SUPERIORA (Che cosa c', figlia mia? Vi sentite male?) (Le mette la mano sulla fronte e la ritrae madida di sudore). (Ma voi bruciate) (a questa parola la dormiente ha un sussulto). SCOLARA TIMIDA (senza aprire gli occhi, con voce flebile) (Dove sono?) SUPERIORA (Dove siete? Ma nella vostra stanzetta, in convento, figlia mia! Dove volete essere?) SCOLARA TIMIDA (apre gli occhi) (Ah, siete voi, Madre Superiora? Ma allora...) (con ansia). (Ditemi, ma subito, ve ne prego, c' ancora il mio cappellino sull'attaccapanni)? SUPERIORA (molto stupita) (Il vostro cappellino verde? Aspettate (proietta la luce in direzione dell'attaccapanni): ma s, calmatevi)! SCOLARA TIMIDA (con un profondo sospiro di sollievo) (Deo gratias!) SUPERIORA (Riprendete il sonno, figliola, e non pensate a cose mondane (sottovoce, fra s: Il cappellino! Te lo do io, domani, il cappellino! Due once di olio di ricino, altro che cappellino! Ma guarda un po' la credevo cos seria, speravo che... insomma l'ambiente aiuta la vocazione... e invece... deve aver sognato che le hanno rubato il cappellino... ma dico io!), e riposate)! (La madre superiora esce e riprende la ronda: ma continua a scuotere la testa, rendendo pi mostruosa l'ombra del gatto sulla parete; al campanile del convento balle la mezza). Intanto, nella cella, appena uscita la superiora, la scolara timida si alzata. ancora sconvolta. Ma s, il cappellino proprio l. Va al tavolino, afferra la borsetta dal fermaglio d'osso, l'apre febbrilmente, estrae il libretto degli esami e lo scorre. Ecco. Terz'anno: letteratura greca... ecco... ecco la firma del professore magro: ma il trenta e lode non c', non c': c' solo lo spazio in bianco. Solo allora comprende del tutto: dunque non ha dato ancora l'esame, stato tutto un sogno, lei non ha prese trenta e lode, non ha sedotto il professore, non andata all'inferno! Che gioia! Corre a dare un bacio a santa Teresina che la guarda dalla parete, sopra il letto, col suo fascio di rose: e la foga tanta, che la retina con i nastri azzurri e il fiocchetto rosso non le pu star ferma in testa e le scivola gi scoprendole i diavolini (s, ci sono anch'essi, madre superiora!). Fuori la superiora ha finito la ronda ed passata in farmacia a preparare l'olio di ricino. Ecco: ha acceso un p di luce; lo versa attentamente nel bicchiere che tiene nella sinistra, all'altezza degli occhi, di contro alla lampadina. Segue attentamente il liquido che invade, viscido, il bicchiere, e mormora: (Il cappellino, il cappellino! Te lo do io il cappellino! Ed io che credevo avesse vocazione... ma dico... tutte cos queste benedette figliole!.) (Cala la tela). Pranzo di nozze. Lalla era una dolce fanciulla bruna con gli occhi color di pervinca e il sorriso di una fata in esilio. Gi, perch dovete sapere che Lalla, dolce fanciulla, viveva fra gente molto diversa da lei. Era una di quelle cooperative fra lavoratori, come spesso si trovano fra noi, nelle quali si riuniscono il bracciante e il manovale, il muratore, il falegname, il carpentiere, e sotto la guida di un uomo abile e di qualche capomastro, assumono appalti, costruiscono strade, case, canali, eccetera. Brava gente, intendiamoci, e abilissima nel proprio lavoro; ma con i pantaloni spesso ridotti a brandelli, le mani sporche di terra, o di calcina, o di malta, il fiato qualche volta odoroso di vino o di grappa. A Lalla volevano bene: le

raccontavano i loro crucci, personali e familiari, le chiedevano consiglio, la facevano partecipe delle loro gioie e delle loro pene, la volevano arbitra nelle loro contese e nei loro piccoli litigi. Ed era bello vedere quella fanciulla sempre sorridente, anche quando era molto stanca, tra omoni alti una testa pi di lei, fra un via vai di baffi ispidi e di barbe incolte. Anche il principale aveva in lei piena fiducia: le aveva affidato l'amministrazione, la cassa, la segreteria, in una parola tutte le mansioni pi importanti e pi delicate. Ma Lalla non era del tutto contenta. S, c'era il lavoro, la stima, la gioia di essere utile alla famiglia, tutto il piccolo regno di soddisfazioni non trascurabili. Ma a vent'anni si pensa anche a qualche cosa d'altro: a un volto, anche se non ancora definito, che si fissi su di noi e ci faccia arrossire di fuori e tremare di dentro, ad un braccio cui ci si possa appoggiare per una strada comune, questa eterna strada della vita. Chi sar pensava Lalla e quando verr?. Sognava e attendeva: intanto la primavera rivestiva, gli alberi come spose per il giorno delle nozze, l'estate riconduceva sui campi un mare biondo di messi che il vento accarezzava, poi veniva l'uva, cos bella e gonfia, e gli infiniti frutti di cui ricco l'autunno. Verr pure anche l'ora mia, sognava Lella. Perci il cuore le diede un balzo il giorno in cui in ufficio capit un giovane ingegnere. Era alto, bruno, dai lineamenti energici, dalla parola calma, suadente. Finalmente un uomo, sussurr: e la frase fin in un sospiro: chiss! Signorina Lalla diceva il biglietto da quando l'ho vista non ho pi pace. Nelle stelle del cielo vedo i suoi occhi luminosi; quando la notte se ne va, il sole che sorge ha il suo volto; gli uccelli che passano cantando dicono il suo nome, il vento, la luce, tutto l'universo mi parlano di lei. Perci senza di lei non posso pi vivere. Non ho da offrirle che un nome onorato, una vita di lavoro, un affetto che durer fino alla tomba. Mi dica presto di s. Ciccio. I caratteri erano quasi a stampatello, fermi, decisi, quadrati. E Lalla disse di s. Fissarono le nozze per la fine di aprile, quando le rose cominciano a fiorire. Lalla di tanto in tanto si sorprendeva a sognare. E il suo sogno diventava talora un soliloquio dolce: Andremo a Sirmione diceva l dove le acque del lago vengono a lambire l'orlo dei prati e bagnano i fiori, e poi si ritirano, e poi ritornano a bagnarli, sotto le trine degli ulivi che rompono l'azzurro del cielo. Ci terremo per mano e passeggeremo tra i fiori. Saremo cos felici! Guarderemo il lago e i monti lontani ancora bianchi di neve, ascolteremo il canto degli uccelli e il sussurrare delle onde; poi prenderemo una barca, lui remer ed io canter, e andremo lontano lontano, come se il lago fosse senza sponde e il tempo senza rive.... Difatti si recarono a Sirmione. E quanto Lalla aveva sognato tutto si verific a puntino. Camminarono fra i prati tenendosi per mano, guardarono il lago e i monti, udirono il canto degli uccelli e il sussurrare delle onde. Lalla sembrava davvero una fata, nel suo tenue vestito color di pervinca, come i suoi begli occhi sognanti; un fiore il pi bello tra i fiori: ed era felice. Anche Ciccio lo era, ma di tanto in tanto, oltre che il lago e la moglie, guardava anche l'orologio che aveva al polso. Lo guardava cos, di soppiatto, quasi ne aveva vergogna. Mezzogiorno pass col suono di cento campane di qua e di l dal lago, festoso saluto dei cento paesi che ridono sulle sue rive; poi pass la mezza, poi l'una: Lalla correva sempre tra i fiori. La una e mezza. Lalla volteggiava raggiante nei prati. Ed erano trilli che scoppiavano improvvisi, richiami rapidi e scoperte meravigliose: Oh, Ciccio, vieni a vedere questo filo d'erbe, come tutto lucente... ih, ih, guarda questa bestiolina che pare abbia il guscio di ceralacca... corri, corri, mi par d'aver visto una biscia..., ma allora era lei che correva, come un uccellino

impaurito, e si gettava al collo di Ciccio che ne provava un tramescolio dolcissimo e inebriante. Ma quando dalla torre di Catullo suonarono le due, e Lalla veniva di corsa a lui con il centesimo fiore in mano e un nuovo sorriso sul volto raggiante, Ciccio non ne pot pi: E se andassimo a prendere qualche cosa, amore mio sorridente?. Lalla non cap. Che cosa vuoi di pi? Fiori? Ma se tutti i fiori del mondo sono nostri, non hai che da aprire le braccia! E poi, guarda che lago, che cielo, che luce, che monti, che colori, oh, come sono felice!. Anch'io cara. Ma sono anche affamato. Fu come se una mazzata l'avesse colpita, come se la pallottola omicida d'un cacciatore avesse fermato al volo un cerbiatto ignaro. Il riso le si spense sulle labbra, rimase inchiodata a terra: e i fiori, tutto all'intorno, le parvero crisantemi. Ma come puoi aver fame..., chiese disperatamente con un singhiozzo nella voce. Il suo bel sogno cominciava dunque a svanire? E cos presto, mio Dio! Ma valeva la pena di sposarsi per poi mettersi volgarmente a mangiare come tutti i giorni in cui non ci si sposa? Va bene, disse con faccia da moribonda se proprio vuoi, andiamo pure a mangiare. Mentre andavano, Lalla si riaveva dal durissimo colpo. Da brava ragazza quale era, cominciava a rendersi ragione del desiderio di suo marito. Era una di quelle donne che anche quando precipitano da sogni lungamente accarezzati cascano in piedi. Va bene pensava camminando a braccio del marito prender una minestrina di capelli d'angelo ed io, perch non si vergogni a mangiare da solo, prender un brodino liscio. In fondo poveretto, lo capisco, se ha fame, bisogna pure che mangi; e poi una minestrina di capelli d'angelo proprio indicata per il giorno delle nozze, dato che deve mangiare.... Cos Ciccio ebbe la gioia di vedere Lalla rifarsi serena al suo fianco. Sent fremiti di vita passare attraverso il braccio appoggiato al suo, e il riso salire per la gola e scoppiare sulle labbra con una gioia irrequieta. Dio sia lodato, disse fra s. L'antico ristorante alle grotte di Catullo li accolse davanti al lago. Un cameriere si fece innanzi. Ciccio stava per parlare, ma Lalla lo prevenne con un sorriso: Un brodo liscio per me disse e una minestrina di capelli d'angelo per mio marito (e calc su quest'ultima parola come per una nuova presa di possesso). Ciccio la guard inquieto; si vedeva che voleva dire qualche cosa, ma non osava: inghiottiva continuamente saliva. Poi inghiott anche i capelli d'angelo che sembravano guardarlo con un beffardo sorriso. Sorbito il brodino: Ora sarai contento e sazio cinguett Lalla e noi potremo tornare fra i prati. Ma Ciccio non sentiva pi che gli stimoli della fame, non vedeva intorno a s che piatti fumanti di pastasciutta. Senti, cara disse io prenderei anche qualche cosa d'altro. Un po' di carne. Un frutto. Ma non hai me, fece Lalla con un nodo di pianto nella voce non hai me?. S, amore: ma tu non sei commestibile!. Oh, allora fa pure come credi, singhiozz la povera fanciulla. Ma intanto dentro di s, rinvenendo col suo solito buon senso, pensava: Beh, se ha fame, passi per un'aletta di pollo lesso con un po' di spinaci e una goccia d'olio... s, anche un'ala di pollo pu essere compatibile col matrimonio, se proprio non ne pu fare a meno; ecco: dei capelli d'angelo, un'ala. Poi, a voce alta: E che cosa vorresti mangiare, caro?. V'era tanta delicatezza in quella voce! Tanta tenerezza, tanto amore! Ma Ciccio si sentiva come fasciato da un volo di farfalle; vedeva scoppiettare davanti al suo volto fuochi e luci, si sentiva trasportare in alto in un

cocchio che aveva per ruote corone di rose e per redini dei capelli d'angelo. Non vide pi la moglie implorante accanto; vide solo che il cocchio si dirigeva vertiginosamente verso qualche cosa che risplendeva laggi, in un angolo del cielo. Ma che cos'era mai? Fiss gli occhi come allucinato verso quel punto che ingrandiva: poi sent le sue narici riempirsi di un profumo dolcissimo, che gli era gi noto, ma cos delizioso non l'aveva sentito mai, allarg il petto in un respiro immenso, poi, mentre gi il cocchio stava per raggiungere il traguardo, (Amor mio) disse ('na brasota dei porso), che in italiano significa una braciola di maiale. I suoi occhi ridevano ridevano. E al cameriere ordin veramente che gli portasse una braciola di maiale. Lalla lo guard smarrita. Le passarono vertiginosamente davanti agli occhi il velo bianco della mattina, quando le campane della sua chiesetta avevano suonato a festa, i fiori, il lago, la luce, il vento, il cielo, i monti, tutta la delicatezza di quelle ore d'incanto. Poi le parve che improvvisamente in mezzo a quel dolce mondo di sogni si rizzasse la figura di un mostro che sbranava una gigantesca braciola di maiale. Lo guard in faccia, vide il volto di suo marito, dette un piccolo grido e svenne. Venti anni sono passati da allora, Lalla e Ciccio vivono felici. Ma sul finire d'aprile, nel giorno anniversario, tornando a casa dal lavoro, Ciccio sa che trover per pranzo una (brasota de porso), ricordo eterno (finch sar viva, ha giurato Lalla) del giorno di nozze. Ma prima di sedersi al desco i due si scambiano un'allegra risata e un lungo bacio. Insalatina verde. Questa volta, cara Anna, voglio parlarLe della insalatina verde. Si mai chiesta perch si chiama verde? E perch si chiama insalata? facile, dir, e non vale la pena di perdere il tempo in queste sciocchezze: ma se dir cos, vuol dire che materialista, e non capir mai la bellezza delle cose. Sar brava nel maneggiare gli utensili di cucina, nel preparare squisite vivande, nell'attuare le ricette pi complicate; ma completamente sorda alla voce pi bella che la cucina fa sentire alle anime delicate: la voce della poesia. Gli uomini hanno cercato varie sedi, nei secoli, per la poesia: l'hanno messa sulla cima di un monte dove le nubi non possono salire, dove il sereno e la primavera sono eterni, l'hanno messa nei fiori dei prati, nel canto degli uccelli, nel calore del fuoco, nella voce del vento, nella freschezza dell'acqua, nella luce del sole, nei raggi della luna, nel sorriso delle fanciulle. Non dico che abbiano avuto torto; ma si sono dimenticati un posto dei pi importanti: la cucina. Provi a condurre in cucina un vero affamato e, legandogli le mani, a fargli passare sotto il naso un piatto di risotto, un pollo arrosto, una salsiccia fumante di puro porco, delle polpettine bene dorate, una braciola di manzo che sappia lievissimamente di attaccaticcio, una torta alla crema; lo vedr sospirare profondamente, aprire e chiudere alternativamente gli occhi, dimenarsi, piangere anche. la fame, dir. Neppure per sogno: la poesia, soltanto la poesia, che diventata profumo, sapore, delizia: tanto vero che egli si comporta come un innamorato, che sempre un poeta. Dunque Lei deve sapere il perch di tutto ci che avviene in cucina: allora essa sar veramente il Suo regno; non il luogo in cui si entra il meno possibile per uscirvi al pi presto, con un sospiro di sollievo, appendendo ad un chiodo il grembiule sporco aggiustandosi le maniche. Sa che cosa farei io, se fossi una donna? Sul limitare della cucina, a destra in alto, fisserei una mensola: e sopra vi porrei una corona regale di metallo prezioso sormontata da sette palline di smeraldo (ch tante sono le doti della brava cuciniera); col grembiule sporco andrei a far visita alle mie amiche, ma entrando in cucina mi vestirei di seta e mi metterei in testa la corona regale. Allora l'oca mi porgerebbe spontaneamente il collo, con fierezza, perch morire triste, ma

morire con dignit, no; allora le uova non si rammaricherebbero di essere spezzate e poi sbattute, dentro o fuori la farina, e l'acqua bollendo, invece che brontolare, canterebbe una ninna nanna in mi minore: perch tutto sta qui, nel far sentire a ciascuna cosa la sua dignit, la sua nobilt, e il senso intimo della poesia. Ora che Le ho detto questo, possiamo tornare all'insalata verde. Insalatina vezzeggiativo d'insalata, che si chiama cos perch, per sua natura, non pu essere mangiata senza il sale; verde poi si dice perch simbolo di speranza. Lei credeva che fosse per il colore, non vero? Ma no! Ha mai visto Lei, ci pensi bene, dell'insalata di color verde? Neppure per sogno! Pensi all'insalata cappuccina, alla lattuga, alla ricciolina, alla contadina, alla composta, alla trevisana, alla campagnola, ecc.: nessuna veramente verde di colore, anzi, gi verso il gambo, essa sempre bianca: solo nella foglia qualche volta verde, ma pu essere rossa (come la trevisana), o paonazza, o viola, o azzurrognola, o sbiadita, o cinerea, od olivastra. L'uomo la chiama dunque verde perch spera. Spera che cosa? Ecco: spera di poterla condire con un poco d'olio, e spera di non mangiarla da sola. Perch il compito dell'insalata proprio quello: tener alta la bandiera della speranza: anche per questo se ne fa cos largo uso nei tempi di carestia. Una volta, ben condita e accompagnata da due candide uova, era un classico piatto di magro, specialmente nell'estate, quando il suo fresco aroma porta tanto sollievo al corpo accaldato. Ma qui, mia cara, io La devo disingannare, portare un fiero colpo alla Sua convinzione: e, se scrupolosa, anche qualche rimorso di coscienza. Le ho detto che a me, in cucina, piace vedere tutto, studiare tutto, capire tutto, ricercare la ragione di tutto. Ora un giorno stavo da un'ora, davanti ad una pentola, meditando sui rapporti che corrono fra l'acqua e il fuoco: ecco, pensavo, il fuoco e l'acqua non possono stare insieme (proprio come certi uomini): dove c' uno non ci pu essere l'altro, e viceversa. Ma noi abbiamo bisogno che stiano insieme, e allora abbiamo inventato la pentola, cio un arnese che mette tra il fuoco e l'acqua soltanto lo schermo di una sottilissima parete, ma invalicabile. Il fuoco rugge sotto, ma la sua rabbia non pu far nulla, l'acqua bolle sopra ma non pu spegnere l'odiato nemico che pure non lontano da lei pi di qualche millimetro: e noi con l'acqua che bolle possiamo fare tante cose belle, specialmente in cucina (ma perch non ci sono pentole anche per gli uomini? Sarebbe bellissimo, quando due persone, con gli occhi fuori della testa, si urlano in faccia o via tu, o via io mettere uno dentro e l'altro sotto un gigantesco pentolone e poi sfruttare il loro odio a fini nobili, per esempio far produrre energia elettrica, per sbattere il latte e farne il burro, per aiutare le nonne a far andare, senza affaticarsi, sul pedale o alla manovella, le macchine da cucire, per fare il bucato con un battitore automatico, per riscaldare la casa, ecc.). Dunque, pensando ai rapporti tra l'acqua e il fuoco, andai a cadere nella filosofia: la quale, come sempre, mi fece venire il mal di testa (un male acuto, perfido: parte dal primo osso della colonna vertebrale, sul collo, e vien su fino alla nuca; qui si divide in due rami, uno si dirige verso l'occhio sinistro, l'altro va verso l'occhio destro, poi i due rami convergono alla radice del naso: quando sentite un male di questo genere vuol dire che la causa la filosofia). Questo male si pu vincere cercando di svagarsi, di osservare senza pensare. E cos feci. Sul tavolo di cucina c'era, quel giorno, un bel piatto d'insalatina verde, che avevo gi accuratamente lavata. A vedersi, era magnifica, fresca, perfettamente inodora, appetitosa. L'apparenza bella pensavo ma non sar soltanto apparenza? Infine, che cosa so io della sostanza di questa insalata? Della sua origine? Della sua storia? Della sua composizione? A

quest'ultima domanda mi ricordai che un mio amico naturalista mi aveva prestato un microscopio. Andai nello studio a prenderlo e portai anche, per procedere scientificamente, un pezzo di carta e una matita per le eventuali osservazioni. Cominciai l'esame dei gambi dell'insalatina, l dove di solito c' tutto quello che essa vuole nascondere. Se foste state presenti, lettrici mie, avreste potuto udire di tanto in tanto una esclamazione di meraviglia e vedere la mano tracciare note sulla carta mentre l'occhio rimaneva fisso al microscopio. Dopo un'ora l'esame era finito, ed io vi trascrivo qui i dati del foglietto che ho conservato fra le carte personali della mia giovinezza: 15 zampe di mosca, intere; 24 frammenti di zampe; 3 teste intere di mosca; 7 occhi (separati) di mosca; 14 pungiglioni di zanzara; 7 ali di zanzara intere; 32 frammenti di ali di zanzara; 6 porzioni di addome di mosca; 1 vermicello vivo e roseo; 3 lumachette vispe vispe: totale 112 pezzi anatomici vari. Notate che ho preso nota soltanto delle parti organiche, non dei residui inorganici (quelli che con una parola collettiva si chiamano sporco), per i quali l'intera serie dei numeri non mi sarebbe bastata. E notate anche che l'insalata l'avevo lavata io, con grande scrupolo, sotto la spina: evidentemente, se non l'avessi lavata io, avrei potuto mettere insieme un serraglio di bestie e di pezzi di bestie. Fui felice di sapere finalmente che cos'era l'insalata (ma dove era cresciuta? Sotto quale stella seminata? Quante volte aveva visto nascere e tramontare il sole? Con quale aveva sentito su di s, nelle notti stellate, la carezza della rugiada? Quante lumache aveva visto passeggiare sotto le sue foglie? Ed erano felici, quelle lumache, o avevano anch'esse le loro pene? Erano lumache col guscio o senza? Grosse o piccole? Chi lavava la scia viscida che lasciavano al loro passaggio? E parlavano? E che cosa dicevano? Ecco: anche a queste e a qualche altro migliaio di domande avrei dovuto trovare una risposta per sapere veramente che cos' l'insalata: ma bisogna anche sapersi accontentare a questo mondo). E la mangiai tutta, con le due uova tradizionali, preceduta da un piatto di risotto. Ma l'indomani, sabato, vedendo passare il curato del mio paese mi sentii nascer dentro degli scrupoli. Padre, dissi avrei una cosa da dirLe. Parla, figlio mio, son tutt'orecchi. Ieri, era venerd.... Ebbene?. Temo di non aver mangiato di magro. Male, figlio mio, male... ma come 'temi? che cos'hai mangiato?. Risotto.... Be', se non c'erano dentro i fegatini, niente di male. No, fegatini no: c'eran dentro rinoceronti. Il parroco strabuzz gli occhi, e mi guard storto. Dovetti spiegargli che cosa erano i rinoceronti del risotto, bestioline che si vedono solo al microscopio, ma intere, vive, e con antenne simili al corno del rinoceronte. Mi ascolt attentissimo: ma non disse nulla. Poi ho mangiato un'insalatina verde. Be', non vedo.... Ecco, reverendo, mi fregai nella tasca e trassi fuori il biglietto che vi ho trascritto sopra, nell'insalata c'era tutta questa roba: un vero condimento di carne. Inforc gli occhiali, lesse. Poi mi prese la mano e mi tast il polso a lungo. Figlio mio, disse finalmente, tu hai bisogno di un lungo periodo di riposo e di non portar pi microscopi in cucina. Quanto al resto io ti assolvo per tutti i rinoceronti che hai mangiato in vita tua e per quelli che ancora mangerai: e per tutto il resto, anche, e buon pro' ti faccia, buon pro' ti faccia. Ma carne, dicevo io, carne.... Allora egli mi pose le mani sulle spalle, paternamente, e mi fiss. Tu hai studiato filosofia, non vero?.

S, purtroppo.... Ebbene: chi fa l'uovo?. La gallina. E che cosa nasce dall'uovo?. La gallina. Allora l'uovo una gallina in fieri o, se vuoi, in potenza. No?. S, una gallina in potenza. E allora, se puoi mangiare di venerd ci che destinato a diventare una gallina, come non vuoi poter mangiare i tuoi rinoceronti?. Se ne and lento, solenne, con le mani dietro la schiena. Io intanto pensavo: S, ma se l'uovo l'effetto e la gallina la causa, ed io posso mangiare l'effetto di venerd, perch non posso mangiare anche la causa? . Ma in quel momento sentii il mal di testa venir su dal primo osso del collo e capii che stavo per ricadere nella filosofia. Allora tornai col desiderio al microscopio e all'insalatina verde. Un caro amico. C' nel Veneto, non lontano da Padova, una cittadina antica e famosa. La piazza centrale vi tutta formata di blocchi di pietra regolarmente stagliati e accostati cos da formare quasi una grande piattaforma, leggermente sopraelevata rispetto al livello delle strade che la circondano ai quattro lati. Tutt'intorno sono case con portici bassi, basse esse pure, quasi a fare atto di omaggio al palazzo municipale che le sovrasta guardandole dall'alto con l'occhio mobile di un vecchio orologio. Di contro alla facciata del palazzo, non in mezzo alla piazza, ma proprio al centro dell'orlo contrapposto, v' un curioso monumento a sostegno e ornamento dell'alto pennone che accoglie, nei giorni solenni, un'immensa e sbiadita bandiera. E' formato da quattro leoni, alti sopra uno zoccolo centrale: il tutto, se ben ricordo, in trachite euganea di facile lavorazione. Le bestie guardano verso i quattro punti cardinali e sono tutte raffigurate nella stessa posizione: accovacciate sulle zampe posteriori, ritte sulle anteriori, una delle quali posa al suolo mentre l'altra s'appoggia ad una grossa palla, pure di pietra, che rappresenta il mappamondo. Criniera immensa, fauci spalancate, occhi selvaggi, non si pu negare che l'aspetto sia ferocissimo; gli stessi monelli li lasciano in pace a guardia dell'alto pennone. In quei tempi abitavo vicino alla piazza; e poich lo studio era molto, mi accadeva spesso di passare la notte a tavolino, cullato da un delizioso silenzio che mi fasciava da ogni parte: e che, nella bella stagione, mi permetteva di udire distintamente il canto degli usignoli nei non lontani giardini. Qualche volta uscivo di casa (casa di povera gente con corridoio d'entrata stretto e male illuminato) e passeggiavo a lungo, nella strada deserta che conduceva alla piazza, esaminando curiosamente la mia ombra che si allungava e si accorciava e scompariva come fosse di gomma, mano mano che mi avvicinavo alla luce dei rari lampioni. Incontravo soltanto qualche grosso topo, che si allontanava subito con passettini irrequieti, o qualche cane randagio che passava al largo con un vago senso di timore. Uomini, mai: riposavano tutti, a quell'ora, nelle case chiuse, le sole che vegliano sulle fatiche dei corpi e sulle pene dei cuori. Ma una notte, uscito fuori sulla strada, m'accorsi di non essere solo: mi precedeva un uomo che si dirigeva con passo sicuro verso la piazza. Che cosa mai poteva volere un uomo, a quell'ora? Lo seguii dunque, con un senso di curiosit, badando di non farmi vedere. Giunto che fu nel mezzo della piazza alz gli occhi al cielo e allarg le mani: nel cielo tersissimo la luna sembrava una massaia rurale che getti attorno a s becchime di stelle. Tre per sette ventuno disse l'uomo con voce sommessa, ma che mi giunse distinta dietro il pilastro dove m'ero nascosto. Ventuno diviso sette tre.

Poi s'inginocchio e baci tre volte la terra. Si alz e si mise a girare come una trottola intorno a se stesso facendo perno sul tacco sinistro: Ventuno diviso tre sette. Stramazz a terra e vi rimase qualche secondo. Ma eccolo, di nuovo in piedi, dirigersi barcollando verso i leoni. Abbracci il primo sospendendosi con le mani alla criniera e incrociandogli i piedi sulla schiena; poi lentamente accost il suo naso al naso del leone: e rimase immobile, cos, a lungo. Poi ripet la stessa operazione con gli altri tre. Dietro il mio riparo io avevo osservato attentamente quella scena strana. D'un tratto un rintocco sordo venne gi dal palazzo municipale, seguita da altri. Alzai gli occhi: niente paura, il vecchio orologio batteva la mezzanotte. Ma quando ritornai con lo sguardo ai leoni l'uomo non c'era pi. Dove poteva essersi cacciato? Invano esplorai i dintorni: pareva che la terra lo avesse inghiottito. Allora uscii a mia volta nel mezzo della piazza, sotto la luna. Tre per sette ventuno, dissi, ventuno diviso sette tre. E m'inginocchiai e baciai tre volte la terra. Mi rialzai, girai come una trottola sul tacco sinistro, stramazzai, risorsi, mi diressi barcollando verso i leoni. Traboccavo di gioia come un boccale di vino. Eccomi abbrancato al primo, naso contro naso: cielo che freddo! Il leone era immoto e mi fissava con le pupille di pietra. Cos il secondo, cos il terzo. Ma quando giunsi all'ultimo, non mi accontentai di mettere il mio naso sul suo: mi arrampicai ancora pi su, pi su, fino a mettergli il collo fra le fauci spalancate. questo, neanche l'uomo lo ha fatto, pensavo felice. Tre per sette ventuno m'agghiacci in quel momento una voce che non sapevo donde venisse. Ventuno diviso sette tre. Mi parve che le mascelle del leone si chiudessero con un rumore secco; cercai di svincolarmi: impossibile; volli gridare: impossibile. Il leone non abbandonava la preda. Allora sottovoce ripetei: Ventuno diviso sette tre. E mi parve che la luna si staccasse dal cielo e venisse a salvarmi, e mi cullasse nelle sue braccia di luce. Ma non era la luna: era l'uomo, ricomparso non so come. Non nulla disse, il colletto si impigliato nei denti, e non ti puoi muovere: ma sar presto fatto. Difatti s'arrampic fino a me e mi liber subito. Ci sedemmo ai piedi dei leoni, come vecchi amici. Vedi, cominci io ho voluto fare questa notte ci che nessuno al mondo ha mai fatto e far mai. Quanti uomini credi che siano vissuti, finora? Miliardi, non vero? E quanti altri verranno? Ancora miliardi. Ebbene: nessuno di loro potr mai mettere il suo naso contro quello di questi leoni in una notte di plenilunio, come questa, a mezzanotte. Questo pensiero mi riempie di gioia indicibile. Mi par di vedere la storia degli uomini raccolta in una matassa di miliardi di fili grigi: ma uno distinto da tutti, visibile fra tutti, come un filo d'oro, il mio, il mio, soltanto il mio. Dev'essere un sapiente, pensavo intanto fra me, deve essere un grande filosofo. Mi parl tutta la notte di cose meravigliose: m'insegn a distinguere l'uno dall'altro i raggi della luna (Credono che siano tutti uguali, e invece no, ciascuno ha una sua missione, una sua luce, una sua storia come ognuno di noi: c' il raggio destinato a rendere luminosa l'acqua del mare, quello che sveglia i topi e i bruchi, quello che carica le gole degli usignoli per il loro canto notturno: e anche loro, i raggi di luna, costituiscono case, e piazze, e fontane, e campanili, ma noi siamo troppo sbadati per vederli): mi insegn ad avvertire le mille e mille voci di cui composto il silenzio (vedi, i cretini pensano che il silenzio sia assenza di voci: no, no. il silenzio la musica della notte, il concerto dell'universo); trasse gi dal cielo alcune nuvole che passavano e me ne mostr il cuore palpitante, i sospiri fuggitivi, il tessuto di trine... Io ascoltavo come cullato da uno stordimento mai prima provato: gli occhi mi sia aprivano su orizzonti senza confine, agli orecchi giungevano armonie e melodie della notte. Mi sembrava di essere in un'amaca legata a due nuvole che il vento spingeva lontano... Ci lasciammo quando la prima campana son, timida ancora, e le luci si

andavano spegnendo nel cielo perch un'altra si accendeva laggi, verso oriente. Ci abbracciammo come vecchi amici, dandoci appuntamento per il giorno dopo. Ero felice d'aver incontrato finalmente una persona che pensava come me, che aveva le mie stesse aspirazioni. Ma l'uomo non venne all'appuntamento. E nei giornali lessi invece che un pazzo pericoloso era fuggito dal manicomio vicino e si riteneva avesse potuto raggiungere nella notte la citt. Era lui, non c'era dubbio: i connotati corrispondevano esattamente. Un pazzo pericoloso. Mi rividi seduto con lui, sotto i leoni, in amicizia fraterna. Tre per sette ventuno, ripetei, ventuno diviso sette tre. Un pazzo pericoloso: ma allora, io... Parole. La vita corre tra parole udite e parole dette. C' un mondo formato da case, da monti, da fiumi, da alberi, da cose; c' un mondo formato da parole, le nostre e quelle degli altri: ma non c' molta diversit fra i due mondi. La prima parola udita senza capirla una voce d'affetto, la prima parola detta un nome d'amore. Ma prima ancora che possiamo udire la prima parola c' un pianto di madre su di noi, prima che possiamo pronunciare la prima parola, un altro ne pronuncia su di noi in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; e un altro ancora ne pronuncia per noi, in nostro nome, nella formula di una promessa sacra. Parole udite, parole dette: corrente che viene, corrente che v: ma corrente viva, anche se fatta di voci invisibili, corrente che resta per sempre, se non avanti agli uomini, davanti a Dio. Parole udite: lasciate passare come cose inutili, senza volto, senza colore; lasciate perdere nel nulla come il loro breve suono che ci passato accanto ed subito svanito, piccola onda presto distesasi subito negli stagni immoti del silenzio, senza pi nome. Parole udite: fermate, esaminate, scrutate, respinte o accolte, spesso accolte per sempre nello scrigno della mente, nello scrigno del cuore. Parole che vengono incessantemente verso la nostra vita, con doni di vita, o doni di morte; chiare come la luce meridiana o pi nere della notte; parole di bene, parole di male; parole di innocenza, parole d'infamia. L'uomo come le parole che accoglie dentro di s. Vi sono alcuni che le accolgono tutte, che lasciano la loro mente alla merc di tutti i venti, i loro cuori in bala di tutte le voci: e allora le parole vi tumultano dentro cercando di sopraffarsi a vicenda, come squadre avverse per la conquista di una trincea indifesa. Sulle trincee indifese sventola sempre la bandiera del pi forte: cos questi uomini non sono padroni della loro vita, ma la vita padrona di loro. Non si possono tener lontane dalla vita le parole: essi vi urgono attorno come l'aria. Ma si pu sedersi sulla porta della vita, giorno per giorno, ed esigere il biglietto d'ingresso per le parole che vogliono penetrarvi, esigerlo con volont pi forte del loro premere, decisa a disciplinare il loro tumulto, a scrutarle fino nelle fibre pi segrete. Poich frumento per il pane della vita sono le parole e bisogna perci esaminarle una per una prima d'impastarle, perch il pane sia buono: per noi e per gli altri che ricorreranno al nostro pane. Bisogna saper distinguere le parole di vita dalle parole di morte; Dio ci ha dato il modo di poterlo fare: la sua Parola. Se le parole non corrispondono al millimetro alla divina misura vanno buttate via: respinte, dimenticate se possibile, rese inefficaci con ogni mezzo. Le parole del male vengono a noi come siluri in cerca del fianco scoperto della nave per farla esplodere e inabissare: ma ci sempre dato di manovrare la nave cos che non ne abbia danno: ci sempre dato di far s che i siluri cadano inerti nelle oscurit marine da cui sono partiti. Basta non abbandonare il timone della legge di Dio, basta voler esser portati dal vento della sua Grazia. E aprire le porte alle parole di vita; non

lasciarle passare e perdere negli stagni del silenzio, ma fermarle, accoglierle gelosamente dentro di noi da qualunque vengano delle loro mille vie. Quanta tristezza nel pensiero delle parole buone perdute! Parole che ci chiedono ogni giorno timidamente il permesso di entrare per aiutarci a vivere, e che, respinte, per indifferenza o con malanimo, s'allontanano con la tristezza di chi va in esilio. Parole buone cui Dio aveva assegnato una missione come ai suoi angeli: e che trovano chiuse le porte dei cuori dove non c' posto per loro: come non c'era posto nelle case degli uomini per la Vergine che portava loro la Parola di Dio nel piccolo bimbo che aveva in seno. Accogliere le parole buone per il pane della nostra vita: riconoscerle, salutarle, deporle come perle nello scrigno del nostro interiore tesoro, sacro deposito per tutte le parole che dovremo dire a nostra volta, per aiutare gli altri a formare il loro tesoro. Non sono molte; non sono difficili, non sono pesanti: ma poche, semplici, leggere, si compendiamo tutte nell'amore di Dio e del prossimo. Parole udite: corrente che viene senza posa verso di noi, nello stagno del nostro essere: ma sta in noi se l'acqua di questo stagno sar limpida o torpida, se avremo fatto funzionare i filtri o se avremo accolto il fango di ogni ondata oltre le chiuse mal difese o incustodite, o abbandonate, dei nostri cuori. Parole dette. Corrente che va, senza posa, dallo stagno del nostro essere verso quello di altri che ci vivono accanto con lo stesso nostro destino, e camminano verso la medesima nostra mta. Parole dette: sementi gettate lungo la strada, a destra, a sinistra, davanti, indietro; non sui sassi, non nel vuoto, ma nel cuore di uomini, di nostri fratelli. Oh, tristezza senza nome di una seminagione di fango, d'iniquit, di male! Oh, desolazione di stagni interiori inquinati, dai quali non possono partire che torbide correnti! Parole dette: con spensieratezza, con vanit, con malvagit, con odio, con livore, con insidia: piccole e grandi onde del male. Ma con bont, anche: con gentilezza, con affabilit, con cortesia, con giustizia, con serenit, con carit, con amore: piccole e grandi onde del bene. Dono grande di Dio la parola: bisogna sentirne la responsabilit piena, come degli atti, come dei pensieri. E gettare la parola buona, maturata nel silenzio interiore al sole della Grazia divina, tratta dagli scrigni delle parole udite, da Dio e dagli uomini, farsene seminatori lungo la via con mano che non conosca riposo. Seminare, pensare soltanto alla semina, non al racconto: perch non ci si possa rimproverare un giorno che i solchi erano aperti, ma manc chi vi gettasse il seme, che le anfore erano pronte, ma non vi fu chi vi versasse l'acqua, l'acqua viva di parole vive. Parole di bene, parole di male: i carri armati si urtano per il possesso della terra, le parole si urtano per il possesso dei cuori. Parole udite, parole dette. Corrente che viene, corrente che va. Un giorno ce ne sar chiesta ragione. Parola perfetta soltanto la parola di Dio. Con una parola Iddio cre il mondo: il sole e la terra, l'acqua e la luce, le stelle e il firmamento, e infine la vita, sono nati da una parola di Dio. Poi quando il Figlio di Dio si fece uomo, si voluto chiamare Parola del Padre, Verbo di Dio. Le uniche parole perfette che l'umanit conosca sono le parole pronunciate dalla Parola di Dio, da Cristo Ges. Di qui il fascino ineffabile del Vangelo che ripete in eterno l'incanto della parola viva del Verbo di Dio: pensiero divino nella parola umana, quasi un'altra faccia dell'Incarnazione. Lo strumento del tempo che accoglie la voce dell'eterno, il mezzo limitato che offre l'involucro al pensiero senza confini: il Signore dell'universo, il creatore di tutti i suoni, di tutte le

vibrazioni, che chiude il suo parlare nel balbetto del vocabolario umano. Come devono aver trepidato le piccole parole dell'uomo nell'accogliere dentro di loro il pensiero di Dio! Sulla bocca del Figlio di Dio le parole umane hanno avuto per sempre la loro purificazione, come hanno attinto il vertice della loro perfezione. Perfezione che semplicit, semplicit assoluta: gli uomini quando parlano di Dio usano spesso un linguaggio complicato e difficile; quando Iddio ha parlato agli uomini non ha adoperato che un piccolo numero di parole comuni. Cos avvenuto che nessun uomo mai riuscito a imitare la semplicit delle parabole evangeliche, non fatte di astrazioni e di pensieri eccelsi, ma di padri e di figli, di pastori e di pecore, di contadini e di operai, di viti e di tralci. Parola di Dio. La parola umana pi s'avvicina o pi s'allontana dalla perfezione quanto pi si avvicina o si allontana dalla parola di Dio. Il Verbo di Dio ha detto di essere via, verit, vita: invano dunque si cercheranno, fuori della parola di Dio, la via, la verit, la vita. Cos illusione credere di poter dire parole di verit e di vita se non in noi la Verit e la Vita: perch i cuori non sono come gli orecchi che facilmente s'ingannano con l'incanto armonioso di parole sonanti; i cuori vanno alle radici delle parole: e se le vedono aride o vuote non sanno che farsene. Non sempre la parola suono; ci sono anche nel Vangelo parole non dette: uno sguardo, un silenzio, un sorriso, una carezza, un gesto. Del giovane ricco si dice che Ges lo guard; di Pietro si dice che Ges lo guard: davanti a Erode, davanti a Pilato, si legge che il Verbo tacque. Silenzio, sguardi, che sono parole, pi che parole. Anche nel mondo le grandi parole sono preparate dai grandi silenzi; le parole pi convincenti nascono dai dolori pi intimamente sofferti. Dono di Dio la parola: bisogna adoperarla con rispetto, con pudore, con venerazione. Ci non significa che tutte le parole debbano essere serie; lo scherzo, il gioco, la parola riposante, hanno la loro ragione di essere, e spesso il fabbro ne fiorisce come un albero a primavera sotto il fuoco della carit: quanti santi, anche fra i pi austeri, hanno detto parole piene di sorriso! La parola che deve essere bandita la parola che fa il male, o lo giustifica, o lo permette, o non lo impedisce: la parola vuota, come diceva il Gratry, e la parola venduta. Parola venduta. Perch anche la parola ha i suoi mercati: e venditori, e compratori, e sensali. Vi sono uomini che vi si recano portando con s le parole come le massaie i cestelli delle uova: e le vendono al maggior offerente, a tanto alla dozzina. Altri vi si recano a comperarle: per le loro vanit, per le loro ambizioni, per le loro passioni, per i loro interessi. Sul mercato la merce non manca mai. Del resto, come dai campi, dalle vigne, dalle banche, perch, dice l'uomo, non trarre denari anche dalle parole? Eppure negli uomini innato il pudore della parola: e quando la vedono tradita, quando la vedono venduta, tutti coloro che non hanno perduto il senso della dignit umana provano dentro un profondo dolore, come se qualcuno li avesse feriti nella loro realt e sostanza di uomini. Anche i letterari sono spesso mercanti di belle parole: e considerano la parola il loro frumento, la loro vigna, il loro podere. Vivono di lei. Ma quante volte sentono la responsabilit delle loro parole? Quante volte riflettono su che cosa pu far nascere nei cuori l'armonioso incanto delle loro parole? La parola opera: suscita il bene, suscita il male; sa risvegliare ogni fermento nascosto nelle profondit dell'essere, ogni sentimento dimenticato o sopito, ogni lento dolore. Scatena le passioni o le placa, suscita il riso o il pianto, pone l'arma in mano o la strappa, trascina o frena le folle, conduce all'eroismo e all'infamia, al delitto o alla gloria. Vi sono parole d'amore e di perdono che danno frutti di serenit e di pace: vi

sono parole di odio e di rancore che danno frutti d'inquietudine e di tormento. Una sola parola pu orientare un'intera vita, una sola parola pu rovinarla: con una sola parola si pu salvare un uomo, con una parola ucciderlo. Per non dire una parola si pu rinunciare alla vita, per mantenere una parola si pu andare alla morte. Alla parola unita, in certo senso, la nota dell'eterno: una volta detta, essa entra nel numero delle cose irrevocabili, di quelle cio che si padroni di fare, non di richiamare: ed opera movimenti, azioni o pensieri o sentimenti, di cui siamo responsabili. Vi sono parole alle quali si pu o si deve opporre il silenzio, l'azione, la vita stessa; vi sono parole alle quali si deve opporre parole, come ferro a ferro, urto a urto. Da san Paolo in poi la parola anche nella Chiesa arma di battaglia, di conquista: e c' un apostolato della parola, parlata e scritta. Vi sono uomini che hanno rinunciato, per amor di Dio, al dono della parola, nel silenzio di eremi e di celle solitarie: ma, per chi capisce, quel silenzio parola, la pi preziosa delle parole. Altri vi sono che tale dono hanno deposto, con la loro volont di bene, nelle mani del divino Donatore: il quale, ricevendo un giorno, invece che d'incensi, offerta di parole, rispose all'offerente: Hai scritto bene di me, Tommaso. Vi sono uomini che si servono della parola per tradire, e ve ne sono di quelli che, per tradire, si servono di parole d'amore, come Giuda del bacio: non c' maggior infamia per la parola. Vi sono parole che pronunciate da un uomo sono pronunciate per tutti gli uomini; che pronunciate in un momento sono pronunciate per sempre. L'umanit fa come l'uomo: fissa alcune parole e le custodisce per tutti coloro che verranno nei secoli. Cos s' formato un patrimonio di parole che accompagna il genere umano nella sua storia come lo accompagna la terra dalla quale trae il cibo per tutte le generazioni. Chi arricchisce questo patrimonio ha diritto alla riconoscenza di tutti. Anche la Chiesa ha un suo patrimonio di parole oltre il deposito sacro della parola di Dio; la Chiesa che ha riconosciuto la nobilt della parola imponendo la preghiera vocale e usandola nella sua liturgia: la parola detta insieme con altri simbolo di comune fratellanza in comuni ideali. Vi sono parole pesanti e leggere, ruvide e lisciate, opache e terse. Vi sono parole fisse che si attaccano agli occhielli della giubba o del pastrano come simbolo di un'idea. Vi sono parole nelle quali ci si avvolge come in un mantello per nascondere ci che non si vuol far vedere: anche gli abissi del vuoto e del male si possono ricoprire con una lastra sottile di parole. C' chi gioca con le parole come fa il bambino con i sassolini che getta in aria e poi ripiglia con rapida mano, per rilanciarli ancora. Spesso questo gioco si fa con le parole inutili; ma talora si fa con le parole sante. Ne nasce allora quella retorica della santit che formata di parole disgiunte dalla vita, di belle parole di carit, di perdono, di speranza, di fede, d'amore: per questa retorica sono scritte nel Vangelo le pagine degli ipocriti. La parola arte. la somma delle arti: la pi semplice e perci la pi difficile. Non si fissa n sulla tela n sul marmo, si fissa sulla sostanza degli uomini. E' formata da un accostamento di suoni, come la musica, ma usa pure i colori della pittura, viene modellata come la creta sotto il pollice dello scultore. Pu diventare artificio e svanire nei toni magniloquenti, pu gonfiarsi a dismisura senza dire nulla, pu assottigliarsi come la punta di un ago. Gli artisti della parola sono insofferenti di ogni mediocrit: sanno piegare la parola a qualunque espressione, a qualunque effetto, e penetrare con essa fino nelle pi riposte profondit dei cuori. Essi, pi che ogni altro, dovrebbero uniformare le loro parole alla parola di Dio: ridonare al donatore il dono ineffabile e tremendo avuto da Lui. Per essere angeli di luce, non

angeli delle tenebre. Case delle parole sono i libri, teatro delle parole sono i giornali: teatro con scena che ogni giorno si muta. Ci sono libri cattivi scritti bene, formidabili armi del male: ma sanno sempre il pianto della parola contaminata, tradita, venduta. Sanno il pianto di anime fatte opache dal loro alito contaminatore. Ci sono libri buoni scritti male: c' in essi la melanconia d'un traguardo mancato. Si possono colorare le parole come i palloncini delle fiere, e venderle a poco prezzo al passante frettoloso: giornali. Se pungete quei palloncini non restano che poche gocce sulla mano: ma possono essere gocce di rugiada, o gocce di veleno. Prigione dell'anima la parola, ha scritto sant'Ambrogio, che ben sapeva l'ansia dei desideri e dei pensieri infiniti da chiudere dentro il breve giro di parole finite, pur con tutta la potenza dell'arte; e per questo insegn ai suoi cristiani a cantare: perch trovassero nel canto la strada che porta il cuore dalla prigione della parola agli spazi senza limiti e senza confini delle divine armonie. Anche sopra il guscio della chiocciola v' la volta del cielo. Quante parole si pronunciano ogni giorno nel mondo? Esse sono come il ronzo di un alveare in sommossa; non cessa di giorno, non cessa di notte. Forse anche alle stelle, se qualche essere vivente c' lass, giunge un sordo rumore: le parole degli uomini. L'uomo che si corica alla sera si corica su di un letto di parole: udite e dette, sue e degli altri. Quando muore scende sotterra con miliardi di parole. Con esse si presenter al tribunale di Dio: di ciascuna di esse gli sar chiesto conto. Possano le parole racchiuse in queste pagine fare un po' di bene a qualcuno: e anche a me, davanti a quel tribunale. FINE.

Das könnte Ihnen auch gefallen