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MARCO TRAINITO
È luogo comune presso i giallisti che l’embrione del genere poliziesco sia quel
luogo celeberrimo del Genesi (4, 1-16) in cui l’ignoto autore racconta dell’assassinio
di Abele da parte del fratello più grande Caino e della conseguente scoperta e
punizione del colpevole da parte dell’investigatore, che in quel testo è chiamato ora
“il Signore” ora “Dio”. Una riprova dell’attrazione che questo episodio biblico
esercita sugli autori di storie di detection è costituita ad esempio dal fatto che una
volta Andrea Camilleri ha fatto dire al suo commissario Montalbano che, se
dipendesse da lui, riaprirebbe il caso Caino. Perché? Perché, osservava il
commissario, Caino ha subito un ingiusto processo, visto che è stato condannato,
senza poter ricorrere a un avvocato, per un delitto commesso in assenza di testimoni
oculari umani e, si potrebbe aggiungere, a seguito di una confessione estorta da un
inquisitore troppo minaccioso e potente. Senza contare che, nell’occasione, un unico
soggetto riuniva in sé i ruoli di testimone oculare (sovrumano e onniveggente),
pubblico ministero e giudice. Se si aggiunge infine che tale soggetto era anche
l’autore onnisciente e il puparo dell’opera inscenata, e che quindi sapeva in anticipo
come avrebbero agito i suoi pupi, si comprende facilmente come Caino sia stato
semplicemente incastrato e in che senso il suo caso meriti di essere riaperto.
A riaprirlo in grande stile, quello stesso stile unico e personalissimo che gli è
valso il premio Nobel per la letteratura nel 1998, è stato l’ottantottenne scrittore
portoghese José Saramago, il cui mirabile Caino, pubblicato in lingua originale
nell’ottobre del 2009, è uscito in Italia alla fine dell’aprile scorso presso Feltrinelli,
nella consueta e sempre puntuale traduzione di Rita Desti. Saramago, però, non è
propriamente un giallista e la sua rivisitazione provocatoria dell’antico mito ebraico
mira a rovesciare i ruoli e a mettere sotto accusa non il fratricida ma il suo creatore,
inquisitore e giudice, cioè Dio. Questo artificio retorico del rovesciamento di un
luogo comune relativo al profilo morale di un ben noto personaggio dell’immaginario
collettivo, va detto, non è originalissimo. Già nel V secolo avanti Cristo, infatti, il
filosofo Gorgia da Lentini, servendosi di una raffinata argomentazione logica (e
praticamente codificandone la struttura formale, ancora valida), aveva assolto Elena
di Troia dall’accusa proverbiale di adulterio nel suo Encomio di Elena. E, tanto per
fare un altro esempio famoso, nel 1962, l’appena trentenne Umberto Eco aveva
messo in piedi un indimenticabile "Elogio di Franti" (poi incluso nel Diario minimo)
e aveva mostrato come il proverbiale bullo reietto di Cuore potesse essere visto sotto
una luce ben diversa, evidenziandone il carattere positivamente ilare, vitale,
anticonformista e addirittura rivoluzionario. Ma il merito di Saramago è quello di
alzare il tiro e di mettere in discussione uno dei pilastri della nostra cultura, emulando
così in audacia il blasfemo “Abel et Caïn” di Baudelaire, che si conclude con il
memorabile «Race de Caïn, au ciel monte, / Et sur la terre jette Dieu» (Les Fleurs du
Mal, CXIX, 31-32).
Con la sua prosa ironica e leggera, infine, Saramago rende il lettore sempre
vigile sul fatto che si sta facendo letteratura su letteratura, e che il processo a Dio
intentato da Caino, il quale ci insegna che gli dèi non si venerano ma si denunciano e
si demistificano, non ha velleità teologico-filosofiche, né assume come anche solo
ipoteticamente vere l’ipotesi di un Dio siffatto e la sua cosiddetta “parola”, cioè il
testo biblico. Quello che Saramago ci sta dicendo tra le righe, molto più
semplicemente e, forse, molto più seriamente, è che ad essere sotto accusa è
quell’umanità capace non solo di concepire favole così stupide, assurde e crudeli, ma
di prestarvi ancora fede e di fondare irresponsabilmente su di esse istituzioni
politiche, agenzie ideologiche e codici morali.
MT 1.5.10