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Khyentse Norbu
Dzongsar Jamyang Khyentse Rinpoche, conosciuto anche come Khyentse Norbu, è un lama
originario del Bhutan, maestro di aspiranti monaci buddhisti tibetani in Asia, a partire dall'originario
monastero di Dzongsar, poi in Tibet, India, Bhutan, Australia e Nord America; in Italia è noto per
due suoi film, “La coppa” e “Maghi e viaggiatori”. Ha studiato in Asia e in Occidente. Ha fondato
associazioni non profit per la diffusione del buddhismo, tra cui Siddhartha's Intent e Khyentse
Foundation.
Introduzione
Una volta ero seduto in aereo sulla poltrona centrale della fila intermedia di un volo
transatlantico, e il simpatico passeggero accanto a me fece un tentativo di mostrarsi gentile. Dalla
mia testa rasata e dalla camicia color arancio-porpora dedusse che fossi buddhista. Quando fu
servito il pasto, l'uomo premurosamente si offrì di ordinare per me cibo vegetariano. Ritenendomi,
giustamente, buddhista, si aspettava che non mangiassi carne. Fu l'inizio della nostra conversazione.
Il volo era lungo e, per ingannare la noia, parlammo di buddhismo.
Con il tempo, mi sono reso conto che spesso la gente associa il buddhismo e i buddhisti alla
pace, alla meditazione e alla non violenza. Molti in realtà sembrano pensare che, per fare un
buddhista, bastino tuniche arancio-porpora o color zafferano e un sorriso serafico. Da buddhista
convinto quale sono, dovrei essere fiero di una simile reputazione, soprattutto per l'aspetto non
violento, così raro in quest'epoca di guerra dell'umanità, la religione non ha mai smesso di generare
efferatezze. Ancora oggi le violenze associate ai fondamentalismi religiosi monopolizzano
l'informazione. Eppure, posso dire con certezza che finora noi buddhisti non ci siamo disonorati.
Nel diffondere il nostra credo, la violenza non ha mai avuto alcun ruolo. Ciò nonostante, da
buddhista preparato quale sono, mi sento leggermente contrariato quando il buddhismo è correlato
soltanto alla pratica vegetariana, alla non violenza, alla pace e alla meditazione. Il principe
Siddharta, che rinunciò a tutti gli agi e i lussi della vita di corte, sicuramente cercava qualcosa di più
della passività e della vita nei boschi quando si mise in viaggio per raggiungere l'illuminazione.
Molto semplice nelle sue linee essenziali, il buddhismo non può essere spiegato tanto
facilmente. Rivela, infatti, una complessità, una ricchezza e una profondità che appaiono quasi
insondabili. Intrinsecamente non religioso e non teistico, il buddhismo richiede un'esposizione in
cui è difficile non sembrare speculativi e religiosi. Diffusosi in molte parti del mondo, ha via via
acquisito caratteristiche culturali che complicano ancor più il tentativo di interpretazione.
Decorazioni squisitamente teistiche quali incenso, campanelle e copricapo multicolori attraggono
l'attenzione della gente, e nel contempo costituiscono un inconveniente. Si finisce con il pensare che
il buddhismo è tutto lì e si è distolti dalla sua essenza.
A volte per la frustrazione originata dalla sensazione che l'insegnamento di Siddharta non si
sia sufficientemente radicato, a volte per la mia stessa ambizione, mi trastullo con l'idea di riformare
il buddhismo, di renderlo più semplice, più rigoroso. È fuorviante e illusorio immaginare (come
talvolta mi capita) che sia possibile semplificare il buddhismo riducendolo a pratiche ben definite e
prestabilite, come il fatto di meditare tre volte al giorno, aderire a un certo modello di abbigliamento
e sostenere convinzioni ideologiche come quella che il mondo intero deve essere convertito al
buddhismo. Se grazie a queste pratiche fossimo in grado di garantire risultati immediati e tangibili,
credo che al mondo i buddhisti sarebbero assai più numerosi. Quando però mi riscuoto da queste
fantasie (che peraltro faccio raramente), ragiono a mente lucida: un mondo di persone che si
autodefiniscano buddhiste non sarebbe necessariamente un mondo migliore.
Molti credono a torto che Buddha sia il “Dio” del buddhismo; perfino in paesi
tradizionalmente buddhisti come la Corea, il Giappone e il Bhutan, tale approccio spiccatamente
teistico al Buddha e al buddhismo ha i suoi adepti. Per questo motivo, nel libro ci serviremo del
nome Siddharta e di Buddha in modo intercambiabile, perché la gente ricordi che Siddharta era solo
un uomo e che quest'uomo è diventato Buddha.
È comprensibile che alcuni credano che i buddhisti siano i seguaci dell'uomo fisico chiamato
Buddha. Lo stesso Buddha tuttavia ha sottolineato che non dobbiamo venerare una persona, bensì la
saggezza che costei va insegnando. Inoltre, si dà per scontato che la reincarnazione e il karma siano
i concetti fondamentali del buddhismo. E persistono molte altre convinzioni errate, tutte piuttosto
grossolane. Per esempio, il buddhismo tibetano è accostato al lamaismo e lo zen in certi casi non è
neppure considerato buddhismo. Le persone un po' più informate, ma pur sempre in errore, si
servono di parole come vuoto o nirvana senza comprenderne appieno il significato.
In una conversazione come quella con il mio vicino sull'aereo, può darsi che l'interlocutore
non buddhista incidentalmente chieda: “Che cosa esattamente fa sì che un buddhista sia tale?”. È la
domanda più difficile cui rispondere. Se la persona in questione è animata da un interesse autentico,
una risposta esauriente non è adatta alla conversazione poco impegnativa che ravviva una cena e le
generalizzazioni generano spesso fraintendimenti. Immaginate di dare la risposta vera, quella che si
rifà ai fondamenti esatti di una tradizione che risale a duemilacinquecento anni fa.
Si è buddhisti quando si accettano le seguenti quattro verità:
Queste quattro affermazioni, che furono pronunciate dal Buddha in persona, sono note come
“i quattro sigilli”. Tradizionalmente, per sigillo si intende una sorta di marchio che conferma
l'autenticità. Per amor di semplicità e di scioltezza in questo testo le quattro affermazioni saranno
chiamate in differentemente sigilli e “verità”, senza confonderle con le quattro nobili verità del
buddhismo che si riferiscono esclusivamente ai diversi aspetti della sofferenza. È noto che i quattro
sigilli abbracciano il buddhismo nel suo complesso, eppure la gente non desidera affatto sentirne
parlare. Senza spiegazioni più approfondite, servono solo a scoraggiare gli animi e in molti casi,
non riescono a suscitare un più vivo interesse. Cambia il soggetto della conversazione e tutto finisce
lì.
Il messaggio dei quattro sigilli deve essere inteso letteralmente, non a livello metaforico o
mistico – e deve essere preso sul serio. I sigilli non sono tuttavia editti né comandamenti. Con un
po' di riflessione, ci si accorge che non hanno nulla di moralistico o di rituale, né alludono a
comportamenti buoni o cattivi. Sono verità secolari basate sulla saggezza, e la saggezza è l'interesse
primario di un buddhista. La morale e l'etica passano in secondo piano. Qualche aspirata di sigaretta
e un po' di frivolezza non impediscono di diventare buddhisti, anche se non significa che abbiamo il
permesso di essere sregolati o immorali.
In senso lato, la saggezza deriva da una mente che possiede quel che il buddhista definisce
una “giusta visione”, per quanto non ci sia affatto bisogno di considerarsi buddhisti per avere una
visione giusta. In definitiva è questa visione che determina le nostre motivazioni e le nostre azioni.
È il modo di vedere che ci guida lungo il sentiero del buddhismo. Se oltre ai quattro sigilli, siamo in
grado di adottare tutto un insieme di comportamenti idonei, diventiamo buddhisti migliori. Quali
sono invece le condizioni per le quali non si è buddhisti?
Se non siete in grado di accettare che tutte le cose composite o fabbricate sono transitorie, se
credete che esiste una sostanza o un concetto fondamentale dotato di permanenza, allora non siete
buddhisti.
Se non riuscite ad accettare che tutte le emozioni sono dolore, se credete che esistano
emozioni autenticamente piacevoli, allora non siete buddhisti.
Se non potete ammettere che tutti i fenomeni sono illusori e insignificanti, se pensate che
alcune cose esistano intrinsecamente, allora non siete buddhisti.
Se infine pensate che l'illuminazione esiste nell'ambito del tempo, dello spazio e del potere,
allora non siete buddhisti.
Che cosa fa di voi un buddhista? Forse non siete nati in un paese buddhista o in una famiglia
buddhista, non indossate la tunica, non vi rasate il capo, mangiate carne e siete dei fan di Eminem e
di Parsi Hilton. Ciò non significa che non possiate essere buddhisti. Per essere buddhista, bisogna
accettare che tutti i fenomeni compositi sono impermanenti, che tutte le emozioni sono dolore, che
tutte le cose sono prive di esistenza intrinseca e che l'illuminazione trascende tutti i concetti.
Non è necessario che vi preoccupiate costantemente di queste quattro verità, basta che siano
presenti nella vostra mente. Non andate in giro pensando continuamente al vostro nome, ma se
qualcuno ve lo chiede lo ricordate all'istante. Non c'è alcun dubbio. Anche a prescindere dagli
insegnamenti di Buddha, anche senza aver mai sentito il nome Shakyamuni Buddha, chiunque
accetti i quattro sigilli può considerarsi in cammino sul suo stesso sentiero.
Mentre provavo a spiegare queste cose all'uomo seduto accanto a me in aereo, cominciai a
sentire un ronfare discreto e mi accorsi che si era addormentato. La nostra conversazione non era
riuscita a risparmiargli la noia.
Mi piace generalizzare e, leggendo questo libro, troverete moltissime generalizzazioni. Mi
giustifico pensando che oltre alle generalizzazioni noi esseri umani non abbiamo molti altri
strumenti di comunicazione. Di per sé, questa è già una generalizzazione.
L'obiettivo di queste pagine non è di convincere i lettori a seguire Shakyamuni Buddha, a
diventare buddhisti e a praticare il dharma. Ho intenzionalmente evitato di citare qualsiasi tecnica di
meditazione, pratica o mantra. Il mio scopo principale è sottolineare l'aspetto incomparabile, unico
del buddhismo, che lo differenzia dalle altre concezioni. Cosa disse dunque quel principe indiano
per guadagnarsi rispetto e ammirazione, persino da parte di scienziati moderni pervasi da
scetticismo come Albert Einstein? Cosa disse per indurre migliaia di pellegrini a prostrarsi per tutta
la durata del tragitto dal Tibet a Bodh Gaya? Che cosa distingue il Buddhismo dalle altre religioni?
Io credo che la differenza essenziale sia contenuta nei quattro sigilli e ho tentato di esporre questi
difficili concetti in un linguaggio il più semplice possibile.
Il vero scopo di Siddharta era di giungere alla radice del problema. Il buddhismo non ha
vincoli culturali: non riserva i suoi benefici a una società data e non trova spazio nei governi e nella
politica. Siddharta non era interessato ai trattati accademici e a teorie scientificamente dimostrabili:
non si curava che la Terra fosse piatta o rotonda. Egli mirava a una realtà di tutt'altro tipo: voleva
arrivare al nocciolo della sofferenza. Una cosa, spero di chiarire: i suoi insegnamenti non
costituiscono una grandiosa filosofia intellettuale, che è possibile leggere e poi mettere da parte, ma
rappresentano una concezione logica e funzionale che chiunque può mettere in pratica. A questo
scopo ho cercato di servirmi di esempi tratti dai molteplici aspetti delle svariate condizioni di vita –
dall'infatuazione romantica alla formazione della civiltà come la conosciamo. Anche se questi
esempi sono diversi da quelli utilizzati da Siddharta, il messaggio da lui espresso rimane adeguato
al mondo di oggi.
Siddharta, inoltre, ha raccomandato di non dare per scontate le sue parole senza analizzarle.
Indubbiamente, anche una persona comune come me deve essere sottoposta a esame e io vi invito a
soppesare con attenzione quel che troverete in queste pagine.
1.
Fabbricazione e impermanenza
Buddha non era una creatura celeste. Era un semplice essere umano. Non troppo semplice,
tuttavia, dato che era un principe. Prese il nome di Siddharta Gautama e la sua fu una vita
privilegiata – un palazzo sontuoso a Kapilavastu, una moglie e un figlio affettuosi, genitori che lo
adoravano, sudditi fedeli, giardini lussureggianti in cui correvano liberi i pavoni e uno stuolo di
prestanti cortigiani. Suo padre, Suddhodana, si premurava che all'interno delle mura del palazzo
ogni sua esigenza venisse soddisfatta e ogni suo desiderio esaudito. Quando Siddharta era ancora un
bambino, un astrologo predisse che, diventato adulto, avrebbe potuto scegliere una vita da eremita,
mentre Suddhodana era fermamente determinato a farne l'erede al trono. La vita di corte era fastosa,
protetta e sostanzialmente pacifica. Siddharta non ebbe mai screzi con i famigliari; se ne prendeva
cura e li amava moltissimo. Aveva rapporti affabili con tutti, tranne qualche rara, sporadica tensione
con uno dei cugini.
Crescendo cominciò a provare un'intensa curiosità per il proprio paese e per il mondo
circostante. Ascoltando le suppliche del figlio, il re gli consentì di cimentarsi in un viaggio fuori
dalle mura del palazzo, ma diede precise istruzioni a Channa, il conducente del cocchio, affinché il
principe vedesse solo cose belle e salutari. Siddharta rimase estasiato dai fiumi e dai monti e da tutti
gli spettacoli naturali offerti dalla sua terra. Sulla via verso casa, s'imbatterono in un contadino che
gemeva sul ciglio della strada, prostrato dal dolore provocato da una qualche devastante malattia.
Per tutta la vita Siddharta era stato circondato da guardie del corpo vigorose e da floride dame di
corte; il suono di quei gemiti e la vista del corpo straziato dalla malattia furono per lui fonte di
intenso turbamento. Essere testimone della vulnerabilità del corpo umano lo scosse profondamente
e ritornò a palazzo con il cuore pesante.
Con il trascorrere del tempo, il principe sembrava tornato alla normalità, ma desiderava
ardentemente compiere un altro viaggio. Suddhodana acconsentì, a malincuore. Questa volta
Siddharta vide una vecchietta sdentata che procedeva zoppicando, e ordinò immediatamente a
Channa di fermarsi.
Chiese al suo cocchiere: “Perché quella donna cammina in quel modo?”.
“È vecchia, mio signore,” rispose Channa.
“Cosa significa 'vecchia'?” domandò allora Siddharta.
“Gli organi del suo corpo con il tempo si sono consumati e logorati,” disse Channa. Sconvolto
da quello spettacolo, il principe lo pregò di riportarlo a casa.
Ormai Siddharta non poteva più tenere a freno la sua curiosità – cos'altro c'era là fuori?
Ripartì con Channa per un terzo viaggio. Godette ancora delle bellezze della regione, dei monti e
dei fiumi. Ma sulla strada del ritorno incontrarono quattro becchini che trasportavano su un
palanchino un corpo senza vita. In tutta la sua esistenza Siddharta non aveva mai visto una cosa
simile. Channa spiegò che quel corpo fragile in realtà era morto.
Siddharta chiese: “La morte verrà anche per gli altri?”.
Channa rispose:”Sì, mio signore, verrà per tutti”.
“Per mio padre? Per mio figlio?”
“Sì, per tutti. Ricco o povero, di casta superiore o inferiore, nessuno può sfuggire alla morte.
È il destino di tutti coloro che sono nati su questa Terra.”
Ascoltando come si manifestarono in Siddharta i primi segni di presa di coscienza, potremmo
pensare che fosse davvero molto ingenuo. È sconcertante che un principe, destinato a governare un
intero regno, ponga domande tanto semplicistiche. Ma siamo noi gli ingenui. In questa nostra epoca
dell'informazione, siamo circondati da immagini di decadimento e di morte – decapitazioni, corride,
sanguinosi omicidi – che, lungi dal rammentarci il nostro destino, sono sfruttate a fini di
intrattenimento e di profitto. La morte è diventata un bene di consumo. Di solito non ci fermiamo a
meditare profondamente sulla natura della morte. Non siamo affatto disposti a riconoscere che il
nostro corpo e l'ambiente intorno siano costituiti da elementi instabili, suscettibili di andare in pezzi
alla minima provocazione. Certo, sappiamo che un giorno moriremo. Ma, a meno che non ci sia
stata diagnosticata una malattia terminale, per il momento ci riteniamo al sicuro. Nelle rare
occasioni in cui pensiamo alla morte, ci chiediamo: “Quanto denaro riceverò in eredità? Dove
verranno disperse le mie ceneri?”. In questo senso anche noi siamo ingenui.
Dopo il terzo viaggio, Siddharta fu colto da un autentico sconforto, perché non poteva far
nulla per proteggere dall'ineluttabilità della morte i sudditi, i genitori e soprattutto la sua adorata
moglie Yashodhara e suo figlio Rahula. Disponeva degli strumenti per porre fine a calamità quali la
povertà, la fame e la mancanza di un tetto, ma non poteva preservare i suoi cari dalla vecchiaia e
dalla morte. Logorato da questi pensieri, Siddharta cercò di affrontare con il padre il problema della
mortalità. Il re era comprensibilmente perplesso dal fatto che il principe fosse dilaniato da quello
che lui considerava un dilemma puramente teorico. Inoltre temeva fortemente che si realizzasse la
profezia e che il figlio, invece di prendere il suo posto come legittimo erede del regno, scegliesse il
sentiero dell'ascetismo. All'epoca non era affatto insolito che indù facoltosi e privilegiati
diventassero asceti. Pur tentando di sdrammatizzare l'idea fissa di Siddharta, Suddhodana in realtà
non aveva dimenticato la profezia.
Non erano riflessioni malinconiche di natura passeggera. Siddharta era preda di un'ossessione.
Per impedire che il figlio sprofondasse nella disperazione, Suddhodana gli disse di non uscire più
dal palazzo e, in gran segreto, istruì il seguito regale affinché tenesse il principe sotto stretta
sorveglianza. Come ogni padre trepidante, intanto, faceva il possibile per rimediare alla situazione,
nascondendo alla vista del figlio ogni altro segno di morte e di decadimento.
Sotto molti aspetti, siamo tutti come Suddhodana. Nella vita quotidiana proviamo anche noi
l'impulso di proteggerci e tutelare gli altri dalla verità. Di fronte ai segni inequivocabili del
decadimento rimaniamo impassibili, imponendoci di “passare oltre” mentre ci consoliamo con
rassicuranti affermazioni positive. Festeggiamo il nostro compleanno soffiando sulle candeline,
ignorando che le candeline spente sono anche un simbolo che rammenta che siamo più vicini alla
morte di un anno. A Capodanno festeggiamo con petardi e champagne, senza pensare che l'anno
appena trascorso non tornerà mai più e che quello nuovo si profila pieno di incertezza – può
succedere di tutto.
Se “qualcosa” è spiacevole, distogliamo deliberatamente l'attenzione, come fa una madre che
distrae il suo bambino con sonagli e altri trastulli. Quando siamo giù di morale, usciamo a fare
compere, ci svaghiamo, andiamo al cinema. Ci lanciamo in fantasie e congetture, vagheggiando una
vita di successi – case al mare, premi e trofei, una pensione anticipata, belle macchine, una famiglia
felice, veri amici, celebrità: il tutto adatto al Guinness dei primati. Con il passare degli anni,
desideriamo un compagno devoto, con cui andare in crociera o allevare barboncini di razza pura. Le
riviste e la televisione propongono e promuovono tali modelli di felicità e successo, escogitando
sempre nuove illusioni per farci cadere nella trappola. Queste idee di successo sono i nostri sonagli
di adulti. Quel che facciamo durante la giornata, con pensieri e azioni, non dimostra affatto che
siamo consapevoli della fragilità della vita: passiamo il tempo a fare cose insulse, come aspettare
che finalmente sullo schermo abbia inizio un brutto film. Oppure ci precipitiamo a casa per seguire
un reality show in televisione. Mentre siamo seduti a guardare la pubblicità, sempre aspettando, il
nostro tempo in questa vita continua a fuggire via.
Bastò un'occhiata fugace alla vecchiaia e alla morte a far nascere in Siddharta il desiderio di
conoscere la verità nella sua interezza. Dopo il terzo viaggio tentò diverse volte di lasciare il
palazzo per proprio conto, ma sempre invano. Poi, in una notte indimenticabile, dopo la consueta
serata di intrattenimenti e baldoria, il palazzo fu avvolto in un misterioso incantesimo, che soggiogò
tutti tranne Siddharta. Il principe si aggirava per i saloni, scoprendo che chiunque, dal re
Suddhodana ai più umili servitori, era caduta in un sonno profondo. I buddhisti credono che questa
sonnolenza generale fosse il frutto del valore collettivo di tutti gli esseri umani, perché fu l'evento
iniziale che portò alla creazione di un essere straordinario.
Senza più l'obbligo di compiacere la famiglia reale, i cortigiani russavano a bocca aperta, in
un disordinato scompiglio di membra, con le dita ingioiellate che ricadevano mollemente nelle
pietanze. Come fiori appassiti, avevano perso ogni bellezza. Siddharta non si precipitò a ristabilire
l'ordine, come avremmo potuto fare noi; questo spettacolo non fece che rafforzare la sua
determinazione: la perdita della loro bellezza era soltanto una prova ancora più evidente
dell'impermanenza. Poiché tutti dormivano, il principe poté finalmente Andarsene senza essere
visto. Dopo un ultimo sguardo a Yashodhara e Rahula, Siddharta uscì furtivamente nella notte.
Sotto molti aspetti noi siamo come Siddharta. Non siamo principi con tanto di pavoni, ma
abbiamo le nostre rispettabili carriere, i gattini a casa le nostre innumerevoli responsabilità.
Abbiamo i nostri palazzi – monolocali in quartieri degradati, villette a schiera in periferia, attici a
Parigi – e abbiamo le nostre Yashodhara e i nostri Rahula. E le cose continuano ad andare male. Gli
elettrodomestici si rompono, i vicini litigano, il tetto lascia filtrare la pioggia. I nostri cari muoiono;
oppure sembrano solo morti, la mattina prima di svegliarsi, con le mascelle lasche come i cortigiani
di Siddharta. Forse emanano un odore stantio di sigaretta o di salsa all'aglio della sera prima. Ci
infastidiscono e masticano tenendo la bocca aperta. Eppure, è per nostra volontà che siamo bloccati
lì, e non facciamo il minimo tentativo di sfuggire. Se poi ne abbiamo davvero abbastanza e
pensiamo “Quel che è troppo è troppo”, magari tronchiamo una relazione, per riallacciarne
immediatamente una nuova con un'altra persona. Non ci stanchiamo mai di questo ciclo, perché
continuiamo a sperare che là fuori ci sia l'anima gemella o il paradiso terrestre. Di fronte alle
seccature quotidiane, il nostro primo riflesso è di pensare che tutto si aggiusterà, i denti si possono
lavare, noi possiamo tornare a star bene.
Forse crediamo anche che un giorno, grazie alle lezioni che la vita ci ha impartito,
raggiungeremo la maturità perfetta. Ci aspettiamo di diventare dei vecchi saggi come Yoda, senza
renderci conto che la maturità è solo un altro aspetto del decadimento. Inconsciamente, siamo
attratti dall'idea di raggiungere uno stadio in cui non sarà più necessario aggiustare nulla. Siamo
certi che un giorno “vivremo felici e contenti” e affascinati dall'idea che alla fine “tutto si risolve”.
È come se quando abbiamo fatto finora, tutte le nostre vite fino a questo momento, fossero solo una
prova generale. Convinti che debba ancora avere inizio lo spettacolo vero e proprio, che sarà
grandioso, non viviamo mai nel presente.
Per la maggior parte di noi questo incessante manovrare, riorganizzare, migliorare è la
definizione stessa di “vita”. In realtà stiamo aspettando che la vita cominci. In genere non abbiamo
difficoltà ad ammettere che stiamo lavorando per un momento di perfezione futuro – ritirarci in una
capanna di tronchi d'albero a Kennenbunkport o in un casotto sulla spiaggia in Costa Rica. O forse
sogniamo di vivere i nostri anni futuri in un idealizzato paesaggio silvestre tipico dei dipinti cinesi,
a meditare in totale serenità in una casa da tè, con vista su una cascata e su un laghetto in cui
guizzano carpe ornamentali.
Abbiamo anche la tendenza a credere che, dopo la nostra morte, il mondo andrà avanti. Lo
stesso sole brillerà in cielo e i medesimi pianeti continueranno a girare, come pensiamo abbiano
fatto sin dagli inizi del tempo. I nostri figli erediteranno la Terra. Questo dimostra fino a che punto
ignoriamo la continua trasformazione di questo mondo e di tutti i fenomeni. I figli non sempre
sopravvivono ai genitori e, se rimangono in vita, non necessariamente realizzeranno i nostri ideali. I
nostri teneri bambini beneducati possono diventare dei mascalzoni che sniffano cocaina e si portano
a casa ogni sorta di compagnia. I genitori più rigidi e severi di questo mondo generano gli
omosessuali più vistosi, proprio come gli hippy pacifici e indolenti finiscono per avere figli
“neocon”. Tuttavia, continuiamo ad aggrapparci al nostro modello di famiglia e al sogno che il
sangue, i lineamenti, il nome e le tradizioni siano immortalati nella nostra prole.
Il principe non venne meno alle sue responsabilità famigliari, occorre sottolinearlo; non si
sottrasse ai suoi doveri per far parte di una comunità dedita alla coltivazione biologica o per
inseguire un sogno romantico. Abbandonò la propria casa con la determinazione di un marito che
rinuncia agli agi per guadagnare il necessario per la famiglia, anche se i famigliari non la vedevano
nello stesso modo. Possiamo solo immaginare il dolore e la delusione di Suddhodhana il mattino
seguente. È lo stesso dispiacere dei genitori moderni quando scoprono che i loro ragazzi sono partiti
per Kathmandu o per Ibiza a rincorrere un ideale, un'utopia, come i figli dei fiori degli anni sessanta
(molti dei quali provenivano anch'essi da famiglie agiate e da case lussuose). Invece di indossare i
pantaloni a zampa d'elefante, farsi piercing e tatuaggi, tingersi i capelli di viola, Siddharta si ribellò
rinunciando a ogni orpello principesco. Spogliandosi di quei capi che facevano di lui un
aristocratico colto, indossò una veste rudimentale e diventò un mendicante errabondo.
La nostra società, avvezza a giudicare le persone per quel che possiedono e non per quel che
sono, si sarebbe aspettata che Siddharta rimanesse a palazzo, conducesse la sua esistenza
privilegiata e perpetuasse il nome della famiglia. Il nostro modello di successo è Bill Gates e
raramente pensiamo a Gandhi e alla sua vittoria. In alcune società asiatiche, così come in Occidente,
i genitori premono per la riuscita scolastica dei figli, al di là di ogni ragionevole considerazione per
la salute. I bambini devono ottenere ottimi voti per essere accettati alle scuole della Ivy League e
poi conseguirne i diplomi per assicurarsi impieghi prestigiosi in banca. Solo così la famiglia riesce a
tramandare la sua eterna dinastia.
Immaginate che vostro figlio, dopo aver preso coscienza della morte e della vecchiaia, rinunci
improvvisamente a una luminosa e remunerativa carriera. Per lui non ha più senso lavorare
quattordici ore al giorno, adulare il suo capo, sbaragliare i concorrenti, inquinare l'ambiente,
contribuire allo sfruttamento del lavoro minorile e vivere tra continue tensioni per godere ogni anno
solo di qualche settimana di vacanza. Vi annuncia che vuole vendere le azioni, donare il ricavato a
un'istituzione di beneficenza e fare il vagabondo. Cosa fareste? Gli date la vostra benedizione e vi
vantate con gli amici della sua ritrovata saggezza? O gli dite piuttosto che è totalmente
irresponsabili e lo mandate da uno psichiatra?
Non fu solo una semplice repulsione per la morte e la vecchiaia che indusse il principe a
disdegnare la vita di corte e ad andare incontro all'ignoto. Siddharta fece una scelta tonto cruciale
perché non riusciva a capacitarsi che questo fosse il destino di tutti gli esseri umani, nati e ancora da
nascere. Se tutto ciò che nasce deve poi degradarsi e morire, nulla ha più significato: non hanno più
significato i pavoni nel giardino, i gioielli, i baldacchini, l'incenso e la musica, la mensola d'oro su
cui posava le pantofole, le preziose caraffe di importazione, il legame con Yashodhara e Rahula, con
la famiglia e con la sua terra. Qual era dunque lo scopo di tutto questo? Perché una persona sana di
mente avrebbe versato lacrime e sangue in nome di una realtà che sapeva destinata a dissolversi o a
essere abbandonata? Come poteva Siddharta rimanere nella beatitudine artificiosa del suo palazzo?
Potremmo chiederci quale fosse la sua meta. Nel palazzo o fuori, non c'era modo di sfuggire
alla morte. Il patrimonio regale non gli avrebbe procurato una dilazione. Cercava forse
l'immortalità? Quant'è futile! Siamo affascinati dai miti fantastici degli dèi greci immortali, dalle
leggende del Sacro Graal e dall'elisir di lunga vita, oppure dalla storia di Ponce de Leòn, che
condusse i conquistadores nella vana ricerca della fonte della giovinezza. Ci diletta la storia del
leggendario imperatore cinese Qin Shi Huang, che mandò in terre lontane una spedizione di giovani
e fanciulle vergini alla ricerca di pozioni di lunga vita. Potremmo pensare che è questo che cercava
Siddharta. È vero che lasciò il palazzo con totale candore (come poteva far vivere in eterno moglie e
figlio?), ma la sua ricerca non fu vana.
Per natura, l'atto di aggregare le cose è in relazione al tempo – un inizio, uno stadio
intermedio e una fine. Questo libro prima non esisteva, ora c'è e alla fine cadrà in pezzi. Allo stesso
modo, l'Io che esisteva ieri – cioè, tu – è diverso dall'Io che esiste oggi. Il cattivo umore è passato,
avete imparato qualcosa, emergono nuovi ricordi, la sbucciatura sul ginocchio si sta rimarginando.
La nostra esistenza, apparentemente continua, è costituita da una serie di inizi e di punti finali in
relazione con il tempo. Anche l'atto della creazione richiede tempo: un tempo prima di esistere, un
tempo per venire alla luce e la fine della creazione stessa.
Coloro che possiedono la fede in un Dio onnipotente di solito non mettono in discussione il
concetto di tempo, perché Dio è considerato indipendente dal tempo. La fede in un creatore
onnipotente, però, presuppone l'elemento del tempo. Se il mondo è sempre esistito, non c'è bisogno
di creazione. È quindi necessario che il mondo non sia esistito per un periodo precedente alla
creazione, imponendo così la sequenza temporale. Poiché il creatore – Dio – inevitabilmente si
attiene alle leggi del tempo, è lui stesso soggetto al cambiamento, anche se l'unica trasformazione
subita dovesse essere l'atto di creazione del mondo. Benissimo. Poiché un Dio permanente e
onnipresente non può cambiare, è meglio avere un Dio impermanente, che esaudisce le preghiere e
modifica le condizioni atmosferiche. Finché le azioni di Dio sono un alternarsi di inizio e di fine
egli è impermanente, in altre parole inaffidabile e soggetto all'incertezza.
Se non c'è carta, non ci sono libri. Se non c'è acqua, non c'è ghiaccio. Se non c'è inizio, non
c'è fine. L'esistenza dell'uno dipende dall'altro, perciò non c'è una vera indipendenza. In virtù
dell'interdipendenza, se in un elemento – per esempio la gamba di un tavolo – si verifica anche solo
un mutamento impercettibile, l'integrità del tutto è compromessa, instabile. Anche se crediamo di
essere in grado di controllare il cambiamento, in genere non è possibile, in virtù delle innumerevoli
influenze invisibili di cui non siamo consapevoli. Per questa continua interdipendenza, la
disgregazione di tutte le cose nel loro stato attuale o originario diventa inevitabile. Ogni
cambiamento contiene in sé un elemento di morte. L'oggi è la morte di ieri.
Le persone accettano che ogni cosa che nasce alla fine morirà; tuttavia differiscono le
definizioni di “ogni cosa” e di “morte”. Per Siddharta, la nascita si riferisce alla creazione nel suo
complesso – non solo fiori e funghi e uomini, ma tutto ciò che è nato o in qualche modo si aggrega.
E la morte si riferisce a ogni forma di disgregazione o di scomposizione. Siddharta non aveva
assegni di ricerca o assistenti, soltanto la torrida polvere dell'India e i bufali indiani di passaggio
come testimoni. Così semplicemente equipaggiato, comprese a livello profondissimo la verità
dell'impermanenza. La sua rivelazione non fu spettacolare come la scoperta di una nuova stella, non
intendeva dare giudizi morali né si proponeva di fondare un movimento sociale o una religione, e
non lasciò neppure una profezia. L'impermanenza è un semplice fatto mondano; è assai improbabile
che uno di questi giorni un elemento composito, una qualche cosetta capricciosa, diventi
permanente. Ancora meno probabile sarebbe la nostra capacità di dimostrarlo. Eppure oggi, con la
nostra tecnologia avanzata, deifichiamo Buddha o tentiamo di raggirarlo.
Duemilacinquecentotrentotto anni dopo che Siddharta ebbe varcato le porte del palazzo – nel
momento dell'anno in cui molti milioni di persone celebrano, festeggiano e anticipano un nuovo
inizio, alcuni ricordando Dio, altri approfittando dei saldi di stagione – uno tsunami spaventoso ha
sconvolto il mondo. Perfino i più freddi e indifferenti tra noi sono rimasti senza fiato per l'orrore.
Mentre la notizia veniva trasmessa in TV, si sperò che Orson Welles d'incanto la interrompesse per
annunciare che era tutto un montaggio o che la discesa dell'Uomo Ragno, per magia, ci potesse
risparmiare quell'orrore.
Non c'è dubbio che il cuore del principe Siddharta si sarebbe spezzato nel vedere le vittime
dello tsunami trascinate a riva. Il suo dolore tuttavia sarebbe stato più intenso nel constatare che
siamo stati colti di sorpresa, dimostrando il nostro continuo rifiuto dell'impermanenza. Il pianeta è
costituito da un magma esplosivo. Ogni blocco della Terra – Australia, Taiwan, le Americhe – è
come rugiada, in procinto di gocciolare sull'erba. Il disboscamento sconsiderato, che alimenta la
produzione di bastoncini cinesi e di pubblicità indesiderate, non fa che accelerare il processo di
impermanenza. Non dovrebbe stupirci. Non è difficile scorgere i segni della fine di ogni fenomeno,
eppure difficilmente ce ne convinciamo.
L'eloquente messaggio dello tsunami, con il suo carico di devastazioni, non ha tuttavia
impedito di mascherare e dimenticare morte e distruzione in pochissimo tempo. Nei luoghi in cui le
famiglie accorrevano a identificare i corpi dei loro cari, sorgeranno lussuosi impianti balneari.
Ovunque, nel mondo, si continuerà a essere prigionieri di una realtà di fenomeni compositi e
fabbricati, nella speranza di realizzare una felicità duratura. Augurarsi di “vivere felici e contenti” è
un semplice desiderio di permanenza, anche se forse non esplicito. Ed è un'altra dimostrazione del
bisogno di impermanenza la creazione di concetti come “amore eterno”, “felicità senza fine” e
“redenzione”. Intenzioni e risultato sono in contraddizione. Desideriamo installarci e rendere stabile
il nostro universo, eppure dimentichiamo che i primi segni di erosione sono presenti già al momento
della creazione. Il declino, ovviamente, non è il nostro scopo, ma ogni nostro gesto inevitabilmente
lo provoca.
Per lo meno dovremmo aver chiaro il concetto di impermanenza, invece di negarlo
deliberatamente, ammonisce Buddha. Se siamo consapevoli della continua aggregazione dei
fenomeni, ne comprendiamo l'interdipendenza. Una volta accettata l'interdipendenza, riconosciamo
l'impermanenza. E se ricordiamo che tutto è impermanente, siamo meno disposti ad aderire a
posizioni inflessibili, rigide convinzioni (religiose e secolari), sistemi di valore vincolanti o a una
fede cieca. La consapevolezza ci permette di non coinvolgerci in drammi personali, politici e
relazionali. Accettiamo che le cose non siano e non saranno mai interamente sotto il nostro controllo
e viene meno l'aspettativa che tutto possa avvenire in base alle nostre speranze e alle nostre paure.
Non c'è bisogno di accusare nessuno quando le cose vanno male, perché ci sono infinite cause e
condizioni di cui tener conto. Possiamo applicare la consapevolezza dai più astratti territori
dell'immaginazione sino ai livelli subatomici. Neppure gli atomi danno certezza.
Instabilità
Il pianeta Terra, su cui comodamente leggete questo libro un giorno sarà un luogo senza vita
come Marte – a meno che non sia stato disintegrato prima da un meteorite. Oppure un super-
vulcano potrebbe oscurare la luce del sole, estinguendo ogni traccia di vita. Molte delle stelle che
contempliamo romanticamente nel cielo notturno sono già spente da tempi immemorabili: godiamo
del bagliore di astri che si sono estinti milioni d'anni fa. Sulla superficie di questa fragile Terra, i
continenti continuano a trasformarsi: trecento milioni di anni fa, le Americhe come le conosciamo
oggi facevano parte di un unico super-continente, che i geologi chiamano Pangea.
Non c'è bisogno di aspettare trecento milioni di anni per scorgere i cambiamenti. Anche nel
breve arco di tempo rappresentato da una vita, possiamo testimoniare del dissolversi di un concetto
grandioso come quello di “impero”, che svanisce come una goccia d'acqua sulla sabbia rovente. Un
tempo, per esempio, l'India era governata da una regina che viveva in Inghilterra, le cui bandiere
sventolavano trionfanti in molti paesi del mondo. Oggi il sole è tramontato sull' Union Jack. Le
cosiddette nazionalità e razze con cui ci identifichiamo tenacemente sono in continuo mutamento.
Per esempio, i guerrieri Maori o Navajo, che per centinaia di anni hanno dominato le loro terre, ora
vivono come minoranze in esigue riserve, mentre gli emigranti provenienti dall'Europa, che si sono
insediati negli Stati Uniti duecentocinquanta anni fa, costituiscono la classe dominante. Per i cinesi
Han, il popolo Manciù era “il diverso”, poi la Cina si è proclamata una repubblica che riunisce
gruppi etnici diversi, e i Manciù sono diventati “uguali”. Tuttavia, questa continua trasformazione
non ci ha impedito di sacrificare vite e martoriare corpi per creare nazioni potenti, erigere confini e
costituire società. Quanto sangue è stato versato, nel corso dei secoli, in nome dei sistemi politici?
Ogni sistema è determinato e formato da innumerevoli fattori sostanzialmente instabili –
l'economia, i raccolti, l'ambizione personale, le condizioni del sistema cardiovascolare del leader,
l'avidità, l'amore e la fortuna. Anche in disgrazia perché fumano, ma non inalano; altri ottengono il
potere grazie alle schede perforate*.
* I due esempi si riferiscono a casi di uomini politici che sono stati screditati per uno spinello fumato in gioventù;
oppure al caso di Al Gore, che ha perso le elezioni presidenziali, perché in Florida vi sono stati errori dovuti ai bordi
L'impermanenza e l'instabilità di tutti i fenomeni compositi diventano sempre più complesse
nell'ambito dei rapporti internazionali, perché la definizione di “alleato” e “nemico” è soggetta a
continui mutamenti. Ci fu un'epoca in cui gli Stati Uniti si scagliavano ciecamente contro un
nemico chiamato “comunismo”. Perfino Che Guevara, un grande eroe popolare, fu etichettato come
terrorista perché apparteneva a un certo partito che esibiva una stella rossa sul berretto. Avrebbe
potuto benissimo non essere il perfetto comunista che noi ci rappresentiamo. Alcuni decenni più
tardi, la Casa Bianca corteggia la Cina, il più grande stato comunista, assegnandole l'appellativo di
“nazione favorita” e finge di ignorare situazioni per le quali un tempo avrebbe gridato allo scandalo.
Deve essere stato a causa della precarietà che contraddistingue la nozione di amicizia e
inimicizia che quando Channa lo implorò di accompagnarlo nella sua ricerca della verità Siddharta
rifiutò. Anche l'amico più intimo e fidato è soggetto al cambiamento. Noi tutti, nel corso della vita,
ci siamo trovati nelle condizioni di modificare le alleanze nelle nostre relazioni personali. L'amico
più caro, con il quale avete condiviso i segreti più profondi, può diventare il vostro peggiore
nemico, perché è in grado di ritorcere contro di voi l'intimità raggiunta. Il presidente Bush, Osama
bin Laden e Saddam Hussein Hanno avuto alle spalle un'infinità di rotture imbarazzanti. Il terzetto
ha goduto per molto tempo di un rapporto di alleanza, per incarnare poi il prototipo dell'ostilità.
Servendosi dell'intima conoscenza che avevano acquisito l'uno dell'altro, si lanciarono in una
crociata sanguinaria costata migliaia di vite umane soltanto per far rispettare le loro diverse
interpretazioni di “morale”.
Fieri dei nostri principi, spesso li imponiamo agli altri e il concetto di morale perde allora
ogni valore. La definizione di “morale”, d'altronde, si è trasformata nel corso della storia
dell'umanità, mutando in base all'air du temps di una determinata epoca. Negli Stati Uniti, sono
impressionanti le fluttuazioni del “barometro” che definisce quel che è o non è politicamente
corretto. Non importa a quale etnia o gruppo culturale ci si riferisca: c'è sempre qualcuno che è
ancora offeso. Le regole continuano a cambiare. Un giorno invitiamo a pranzo un amico e poiché è
rigorosamente vegetariano dobbiamo preparare il menu apposta per lui. La volta dopo, invece,
chiede dov'è la carne, perché ormai segue scrupolosamente una dieta a base di proteine. C'è poi chi
raccomanda l'astinenza prima del matrimonio e diventa improvvisamente promiscuo dopo aver
provato il sesso.
L'antica arte asiatica raffigura donne a seno nudo, e anche nella storia recente alcune società
in Asia tolleravano che le donne esibissero il petto. Con l'influenza della televisione e dei valori
occidentali, è stata introdotta una nuova morale. All'improvviso non portare il reggiseno è un
comportamento sconveniente: se la donna non copre il seno, è considerata immorale e può persino
essere arrestata. Paesi che una volta mostravano una grande apertura di spirito ora si preoccupano di
far applicare questa e altre norme etiche, raccomandando l'uso del reggiseno e prescrivendo un
abbigliamento casto perfino nella più torrida stagione dei monsoni. Il seno non è cattivo in sé e non
è cambiato, è la morale che si è modificata. Il mutamento della morale lo rende peccaminoso,
atteggiamento che ha spinto addirittura la Federal Communications degli Stati Uniti a comminare
una multa di 550.000 dollari a Janet Jackson, che aveva mostrato un seno per tre secondi!
Quando parlava di “tutte le cose aggregate”, Siddharta pensava non solo ai fenomeni
percepibili più evidenti, come il DNA, il tuo cane, la Tour Eiffel, le uova e lo sperma. Anche la
mente, il tempo, la memoria e Dio sono aggregati. È ogni componente così associata si basa su
numerosi strati di aggregazione. Allo stesso modo, quando insegnò il concetto di impermanenza,
Siddharta superò il pensiero convenzionale sulla “fine”, come l'idea che la morte arriva una volta
per tutte. La morte è continua, sin dal momento della nascita, sin dall'attimo della creazione. Ogni
cambiamento è una forma di morte e quindi ogni nascita porta con sé la morte di qualcos'altro.
Immaginati di cuocere un uovo. La cottura di un uovo non può avvenire senza un continuo
cambiamento. Il risultato, l'uovo cotto, dipende da cause e condizioni essenziali. É necessario avere
Molti sono i vantaggi che derivano dalla comprensione della nozione di aggregazione, come
per esempio la consapevolezza che per preparare un uovo alla coque sono implicati tanti fenomeni.
Quando capiamo la natura aggregata delle cose e delle situazioni, impariamo a coltivare il perdono,
la comprensione, l'apertura mentale e il coraggio. Per esempio, alcuni continuano a considerare
Mark Chapman l'unico colpevole dell'omicidio di John Lennon. Se la nostra venerazione delle
celebrità non fosse così forte, Mark Chapman non avrebbe concepito la patologica fantasia di
uccidere John Lennon. Vent'anni dopo l'avvenimento, Chapman ha ammesso che, quando ha sparato
a Lennon, non lo considerava un essere umano reale. La sua instabilità mentale era dovuta a un
insieme di fattori (chimica del cervello, educazione, sistema di cura psichiatrica negli Stati Uniti).
Se riusciamo a comprendere l'insieme di elementi che costituiscono una mente malata e tormentata,
e riconosciamo le condizioni in cui agisce, allora siamo in grado di capire meglio e perdoniamo tutti
i Mark Chapman del mondo. Come nel caso dell'uovo alla coque, anche se avessimo pregato perché
non avvenisse l'omicidio, esso barese stato inevitabile.
Nonostante la comprensione acquisita, forse temiamo ancora Mark Chapman per la sua
imprevedibilità. La paura e l'ansia sono gli stati psicologici dominanti della mente umana. Dietro la
paura, si annida una costante brama di certezza. Temiamo l'ignoto. L'ardente desiderio di conferme
della mente ha le sue radici nella paura dell'impermanenza.
Il coraggio nasce quando si è in grado di apprezzare l'incertezza, quando si è convinti
dell'impossibilità che le diverse componenti interconnesse tra loro possano essere statiche e
permanenti. Dovrete prepararvi al peggio mentre vi cimentate per raggiungere il meglio. Acquisirete
dignità e autorevolezza, qualità che miglioreranno la capacità di lavorare, preparare la guerra,
costruire la pace, creare una famiglia, e godere dell'amore e dei rapporti personali. Sapendo che un
pericolo è in agguato proprio dietro l'angolo, accettando le innumerevoli potenzialità che possono
presentarsi da questo momento, sarete capaci di consapevolezza e previdenza, come quelle di un
generale di gran talento, non offuscato da paure irrazionali, ma preparato e lungimirante.
Per Siddharta, se non c'è impermanenza, non c'è progresso, né cambiamento verso il meglio.
Dumbo, l'elefante volante, è riuscito a capirlo. Da piccolo, era escluso a causa delle sue enormi
orecchie. Era solo, depresso e temeva di essere cacciato dal circo. Poi scoprì che la sua “deformità”
era unica e preziosa, perché gli permetteva di volare. Diventò molto popolare. Se si fosse basato
sull'impermanenza sin dall'inizio, non avrebbe sofferto tanto. La comprensione dell'impermanenza è
la chiave per liberarsi dalla paura di rimanere bloccati per sempre in una situazione, in un'abitudine,
in uno schema.
I rapporti interpersonali sono gli esempi più perfetti e mutevoli dei fenomeni aggregati e
dell'impermanenza. Alcune coppie credono di riuscire a mantenere il loro rapporto “finché morte
non ci separi” leggendo manuali o consultando terapeuti. Sapere che Marte influisce sugli uomini e
Venere sulle donne permette di interpretare solo alcune delle cause e delle condizioni più ovvie
della disarmonia. In una certa misura, queste modeste conoscenze possono contribuire a creare una
pace temporanea, ma non tengono conto dei numerosi fattori nascosti che creano l'insieme del
rapporto. Se siamo in grado di vedere l'invisibile, allora forse potremo avere una relazione perfetta –
o forse non ne cominceremo mai una.
Applicare ai rapporti la conoscenza dell'impermanenza suggerita da Siddharta offre un piacere
simile a quello descritto nelle commoventi parole che Giulietta disse a Romeo: “La separazione è
una pena così dolce...”. In un rapporto, i momenti di separazione sono spesso i più profondi. Ogni
relazione è destinata a finire, non fosse che a causa della morte. Con questo pensiero, si affina la
nostra valutazione delle cause e delle condizioni che hanno provocato ogni diversa relazione. È
tanto più evidente se uno dei partner è colpito da una malattia terminale. Senza l'illusione del “per
sempre”, la situazione è straordinariamente liberatoria; affetto e sollecitudine sono prodigati senza
riserva e la gioia si prova nel presente. Se il nostro partner ha i giorni contati, dare amore e sostegno
non costa sforzi e offre serenità.
Tuttavia dimentichiamo che i nostri giorni sono sempre contati. Anche se intellettualmente
sappiamo che ogni cosa nata deve morire e che ogni cosa aggregata alla fine si disgregherà, a livello
emotivo finiamo per convincerci della permanenza, dimenticando completamente l'interdipendenza.
Questa abitudine incoraggia ogni sorta di stato negativo: paranoia, solitudine, senso di colpa. Ci
sentiamo ingannati, minacciati, maltrattati, abbandonati – come se il mondo fosse ingiusto solo nei
nostri confronti.
Quando Siddharta lasciò Kapilavastu non era solo. Prima dell'alba, mentre i famigliari e i
servitori dormivano, andò sino alle stalle, dove Channa, il cocchiere e suo più fedele amico, stava
riposando. Channa rimase senza parole all'arrivo dell'inatteso Siddharta, ma, su sua istruzione, sellò
il suo cavallo preferito, Kathanka. Varcarono le porte della città senza essere visti. Quando furono a
una distanza di sicurezza, Siddharta smontò e cominciò a togliersi i bracciali, le cavigliere e tutti gli
orpelli principeschi. Li consegnò a Channa, gli ordinò di prendere Kathanka e ritornare in città.
Channa lo supplicò di accompagnarlo, ma il principe fu irremovibile: doveva tornare indietro e
continuare a servire la famiglia.
Siddharta gli chiese di trasmettere un messaggio ai suoi famigliari. Non dovevano
preoccuparsi per lui, perché stava intraprendendo un viaggio molto importante. Aveva già dato a
Channa tutti i suoi ornamenti tranne uno, il simbolo supremo dello splendore, della casta e del
portamento regale: i suoi magnifici lunghi capelli. Li tagliò e, dopo averglieli consegnati, partì da
solo. Siddharta stava iniziando la sua esplorazione dell'impermanenza. Ormai gli sembrava sciocco
utilizzare tanta energia per la bellezza e la vanità. Non criticava la bellezza e una cura adeguata del
corpo, bensì la convinzione che fossero sostanzialmente permanenti.
Spesso si dice che “la bellezza è negli occhi di chi guarda”. Si tratta di un'affermazione più
profonda di quel che sembra superficialmente. Il concetto di bellezza è mutevole; le cause e le
condizioni delle tendenze della moda cambiano in continuazione, così come cambia l'osservatore.
Ancora nella metà del ventesimo secolo, i piedi delle ragazze cinesi venivano fasciati molto stretti e
non crescevano più di otto o dieci centimetri. Il risultato di questa tortura era considerato “bello”, e
gli uomini provavano addirittura un godimento erotico nell'annusare le fasce utilizzate per bendare i
piedi. Ora le cinesi si sottopongono ad altre forme di sofferenza, con trattamenti mirati a distendere
la pelle per assomigliare alle donne di “Vogue”. Le ragazze indiane patiscono la fame per ridurre i
loro corpi voluttuosi – torniti e procaci come nei dipinti di Ajanta – per poter emulare i lineamenti
ossuti delle modelle parigine. Le dive del cinema muto in Occidente erano ammirate per le labbra
minute, non più grandi degli occhi, ma oggi vanno di moda bocche generose con labbra carnose.
Forse la prossima stella dello spettacolo avrà labbra da lucertola e occhi da pappagallo. A quel
punto tutte le donne con le labbra turgide dovranno sottoporsi a costose operazioni.
Buddha non era un pessimista o un uccello del malaugurio; era un realista, mentre noi
abbiamo la tendenza a evadere dalla realtà. Quando affermava che tutte le cose aggregate sono
impermanenti, non intendeva darci brutte notizie; è un semplice fatto scientifico. Se lo capiamo e lo
assimiliamo nel modo giusto, può condurci all'ispirazione e alla speranza, alla gloria e al successo.
Per esempio, il surriscaldamento terrestre e la povertà sono le conseguenze delle condizioni di
insaziabilità del capitalismo: queste calamità possono essere radicalmente trasformate grazie alla
natura impermanente dei fenomeni aggregati. Invece di dipendere da poteri sovrannaturali, come il
volere di Dio, per invertire queste tendenze negative, basta una semplice comprensione della natura
dei fenomeni aggregati. Una volta compresi, è possibile manipolarli, e quindi incidere su cause e
condizioni. Sarete sorpresi nell'apprender che un piccolo gesto, come quello di rinunciare ai
sacchetti di plastica, è in grado di rallentare il riscaldamento globale.
Riconoscere l'instabilità di cause e condizioni ci permette di aver il potere di trasformare gli
ostacoli e di rendere possibile l'impossibile. Questo vale in ogni settore della vita. Se non possedete
una Ferrari, potete benissimo creare le condizioni per averne una. Se volete vivere più a lungo,
potete smettere di fumare e fare esercizio fisico. È una speranza ragionevole. La disperazione –
come il suo opposto, la cieca speranza – è il risultato della fede nella permanenza.
Potete cambiare non solo il vostro universo fisico, ma anche quello emotivo. Per esempio
mutando l'agitazione in pace della mente attraverso la rinuncia all'ambizione, oppure trasformando
la scarsa stima di sé in fiducia grazie a gesti di gentilezza e altruismo. Se noi tutti ci abituiamo a
metterci nei panni altrui, coltiveremo la pace all'interno delle nostre case, con i vicini e con gli altri
paesi.
Questi sono tutti esempi di come possiamo incidere sui fenomeni aggregati a un livello
mondano. Siddharta ha scoperto che perfino le condizioni più temute dell'inferno e della dannazione
eterna sono impermanenti, perché anch'esse sono aggregate. L'inferno non esiste come stato
permanente nell'oltretomba, dove i dannati soffrono l'eterna tortura. Assomiglia piuttosto a un
incubo. Se sognate di essere calpestati da un elefante, intervengono numerose condizioni, fra queste
innanzitutto il sonno e forse un'esperienza negativa con gli elefanti avvenuta in passato. Non
importa quando dura l'incubo; in quel momento siete all'inferno. Poi, se suona la sveglia o se
semplicemente avete dormito abbastanza, vi ridestate. Il sogno è un inferno temporaneo, e non è
dissimile dalla nostra idea di inferno “reale”.
Allo stesso modo se odiate qualcuno e vi comportate in modo aggressivo o vendicativo, si
tratta di un'esperienza infernale. L'odio, la manipolazione politica e la vendetta hanno provocato
l'inferno su questa Terra. Un ragazzo – più basso, più esile e più leggero dell'AK-47 che è costretto
a imbracciare – che non ha nemmeno un giorno di libertà per svagarsi o festeggiare il suo
compleanno perché troppo occupato a fare il soldato. È un inferno. Viviamo in queste condizioni
infernali per precise cause e condizioni e, di conseguenza, possiamo abbandonarle, con l'amore e la
compassione come antidoto alla rabbia e all'odio, secondo quanto prescritto da Buddha.
Il concetto di impermanenza non annuncia l'Armageddon o l'Apocalisse, né costituisce un
castigo per le nostre colpe. Non è intrinsecamente positivo né negativo, è soltanto parte del processo
di composizione delle cose. Di solito, apprezziamo solo una metà del ciclo dell'impermanenza.
Accettiamo la nascita, ma non la morte, la vincita, ma non la perdita, la fine degli esami, ma non
l'inizio. La vera liberazione deriva dalla capacità di riconoscere il valore dell'intero ciclo e non delle
singole cose piacevoli. Ricordando il carattere mutevole e impermanente di cause e condizioni, sia
positive sia negative, le sfruttiamo a nostro vantaggio. La salute, la ricchezza, la pace, il successo
sono temporanei quanto i loro opposti. Naturalmente Siddharta non accordava maggior valore al
paradiso e alle esperienze meravigliose: sono altrettanto impermanenti.
Potremmo chiederci perché Siddharta ha precisato che “tutte le cose aggregate” sono
impermanenti. Per quale motivo non ha semplicemente detto “tutte le cose” sono impermanenti?
Non sarebbe stato corretto affermare che sono impermanenti tutte le cose, senza l'aggettivo
qualificativo aggregate? Ogni occasione dovrebbe invece ricordarci il primo termine,
l'aggregazione, per non perdere di vista la logica di questa affermazione. “Aggregazione” è un
concetto molto semplice, ma si intreccia a tali livelli che abbiamo bisogno di ricordarlo
costantemente per capirlo meglio.
Nulla di quanto esiste o funziona nel mondo, nessun costrutto dell'immaginazione o
dell'ambito fisico e materiale, nulla di quanto ci passa per la mente, neppure la mente stessa,
dureranno per sempre. Le cose permangono per la durata della nostra vita, o fino alla generazione
successiva; ma possono dissolversi più rapidamente di quanto crediate. Nei due casi, il
cambiamento finale è inevitabile. Non è una questione di probabilità o di fortuna. Se vi sentite
disperati, pensateci, e non avrete più motivo di sconforto, perché qualsiasi cosa provochi la vostra
disperazione è destinata a cambiare. Non è inconcepibile che l'Australia diventi un giorno parte
della Cina o che l'Olanda sia annessa alla Turchia. Non è impossibile che un giorno provochiate la
morte di un altro essere umano o che vi troviate inchiodati su una sedia a rotelle. Forse diventerete
miliardari, redentori dell'umanità, premi Nobel o saggi illuminati.
2.
Emozione e dolore
Chiedere a un buddhista: “Qual è lo scopo della vita?” è assurdo. La domanda presuppone che
da qualche parte là fuori in cima a una montagna o in una grotta, esista uno scopo ultimo. La
domanda suggerisce che possiamo decifrare l'enigma studiando con l'aiuto dei saggi, leggendo libri
o praticando l'esoterismo. Se la domanda si basa sul presupposto che qualche dio, milioni di anni fa,
ha concepito il progetto di finalità, è squisitamente teista. I buddhisti non credono nell'esistenza di
un creatore onnipotente e non pensano che lo scopo della vita sia stato deciso o definito, o debba
essere tale.
A un buddhista è più opportuno chiedere semplicemente: “Cos'è la vita?”. Grazie alla nostra
conoscenza dell'impermanenza, la risposta dovrebbe essere ovvia: “La vita è una lunga serie di
fenomeni aggregati, quindi è impermanente”. È un cambiamento continuo, una successione di
esperienze transitorie. Esistono miriadi di forme di vita diverse, ma abbiamo tutti in comune una
cosa sola: nessun essere vivente desidera soffrire. Vogliamo tutti essere felici, presidenti e
miliardari, formiche e api, gamberi e farfalle.
Naturalmente, la definizione di “sofferenza” e di “felicità” subisce notevoli variazioni tra le
diverse forme di vita, anche nel relativamente ristretto ambito umano. La definizione di
“sofferenza” di alcuni corrisponde a quella di “felicità” di altri e viceversa. C'è colui a cui basta
riuscire a sopravvivere per essere felice; oppure chi vuole possedere settecento paia di scarpe. Ci
sono persone appagate dall'avere l'effigie di David Beckham tatuata sui bicipiti. Per altri il prezzo
della felicità è la vita di altri esseri: impadronirsi della pinna di uno squalo, della coscia di un pollo
o del pene di una tigre. Alcuni considerano erotico il leggero solletico di una piuma, mentre altri
prediligono strumenti di tortura, fruste e catene. Il re Edoardo VIII preferì sposare un'americana
divorziata piuttosto che portare la corona del potentissimo impero britannico.
Perfino in uno stesso individuo, le definizioni di “felicità” e di “sofferenza” sono soggette a
mutamenti. Lo spensierato periodo di un flirt improvvisamente non basta più, quando si desidera
una relazione più seria e più stabile; la speranza diventa paura. Per un bambino sulla spiaggia,
felicità è costruire castelli di sabbia. Per gli adolescenti, è guardare le ragazze in bikini e i ragazzi
che fanno surf a torso nudo. Nella mezza età, il denaro e la carriera rappresentano la felicità.
Quando invece avete superato gli ottant'anni, vi rende felici collezionare saliere di ceramica. Per
molte persone, lo “scopo della vita” è quello di attenersi a queste innumerevoli e mutevoli
definizioni.
Spesso assorbiamo le definizioni di “felicità” e “sofferenza” che ci propone la società in cui
viviamo; è l'ordine sociale a dettarci il modo con cui valutare l'appagamento. È una questione di
valori condivisi. Due esseri umani agli antipodi sulla Terra possono provare sentimenti identici –
piacere, disgusto, paura – basati su antitetici indici culturali di felicità. Le zampe di pollo sono una
prelibatezza per i cinesi, mentre i francesi adorano spalmare foie gras sulle tartine. Provate a
immaginare come sarebbe il mondo se il capitalismo non fosse mai esistito e gli stati e gli individui
vivessero secondo la pragmatica ideologia comunista di Mao Tse-tung: saremmo perfettamente
felici senza centri commerciali, senza macchine di lusso, senza Starbucks*, senza competitività,
senza l'enorme divario tra ricchi e poveri, con l'assistenza sanitaria per tutti – e le biciclette
sarebbero più preziose degli Humvee. Invece, impariamo a forgiare i nostri desideri. Dieci anni fa,
nel remoto regno himalaiano del Bhutan, i videoregistratori erano il simbolo di opulenza più
ambito. Poi il club Toyota Land Cruiser ha sostituito il club VCR e lo ha rimpiazzato come simbolo
di prosperità e felicità.
L'abitudine di far coincidere i modelli del gruppo con i propri si forma a un'età molto precoce.
Se alla scuola elementare tutti gli altri bambini hanno lo stesso tipo di portapenne, per essere uguali
a loro cominciate anche voi a crearvi il “bisogno” di possederne uno. Lo dite a vostra madre e la
felicità dipende dalla sua volontà o possibilità di acquistarlo. Questo schema prosegue nell'età
adulta. I vicini della porta accanto hanno la TV al plasma o un nuovo SUV, e li desiderate anche voi
– solo più grandi e di ultimo modello. La competizione e il desiderio di eguagliare quello che hanno
gli altri esiste anche a livello culturale. Spesso consideriamo le abitudini e le tradizioni di un'altra
cultura superiori alle nostre. Recentemente un insegnante a Taiwan ha deciso di farsi crescere i
capelli come per secoli fu consuetudine in Cina. Era elegante come un antico guerriero cinese, ma il
direttore della scuola minacciò di licenziarlo se non avesse adottato un “comportamento corretto”,
cioè un taglio di capelli corto, di stile occidentale, adatto al ventunesimo secolo. Adesso, con quei
capelli rasati, sembra che abbia ricevuto una scossa elettrica.
È sorprendente l'imbarazzo che i cinesi provano talvolta per le proprie origini, eppure in Asia
sono frequenti i casi di complesso di inferiorità-superiorità. Da una parte, gli asiatici sono orgogliosi
della propria cultura, dall'altra la trovano arretrata e inadeguata. L'hanno sostituita con la cultura
occidentale in quasi tutti i campi – abbigliamento, musica, morale e persino nel sistema politico,
influenzato da quello occidentale.
Per raggiungere la felicità e alleviare la sofferenza, sia a livello personale che culturale,
adottiamo metodi stranieri o esteriori, senza capire che i risultati possono rivelarsi opposti a quelli
Molto prima di raggiungere il celebre Bodh Gaya, Siddharta rimase seduto sotto un altro
albero per sei anni. Era molto provato da una dieta che si limitava a pochi chicchi di riso e alcune
gocce d'acqua. Non faceva il bagno né si tagliava le unghie; per questo motivo, era preso a modello
dai compagni che come lui cercavano la verità spirituale. Era così disciplinato che i figli dei
mandriani del luogo che si dilettavano a fargli il solletico sulle orecchie con i fili d'erba e a
suonargli la trombetta proprio all'altezza del viso non riuscirono mai a turbarlo. Un giorno, tuttavia,
dopo molti anni di privazioni estreme, egli capì: Non è giusto. Questa è una strada estrema, un'altra
trappola come prima i cortigiani, i pavoni e le posate incastonate di gemme. Decise così di porre
fine alla penitenza e si bagnò nel vicino fiume Nairanjana (ora conosciuto come Phalgu). Con
grande sorpresa dei suoi compagni, accettò anche un po' di latte da una mungitrice di nome Sujata.
Si racconta che essi abbandonarono Siddharta, temendo la sua influenza morale negativa e
considerando la sua compagnia impedimento alla loro pratica.
Che gli asceti desiderassero separarsi da Siddharta perché aveva infranto i suoi voti è
perfettamente comprensibile. Da sempre gli uomini perseguono la ricerca della felicità non solo con
guadagni materiali, bensì con mezzi squisitamente spirituali. La storia del mondo, in molti dei suoi
aspetti essenziali, ruota intorno alla religione. Le religioni uniscono gli uomini offrendo loro una
strada verso l'illuminazione e prescrivendo precisi codici di comportamento – amare il prossimo,
praticare la generosità e la Regola D'Oro, la meditazione, il digiuno, il sacrificio. Principi in sé utili,
ce tuttavia possono trasformarsi in rigidi dogmi, intrisi di puritanesimo, causa di sterili sensi di
colpa e scarsa autostima. Non è raro che l'intollerante e inflessibile credente disprezzi le altre
religioni, servendosi del proprio credo per giustificare il genocidio culturale e perfino fisico.
Frequenti sono i casi di tale devozione distruttiva, in ogni parte del mondo.
Per raggiungere la felicità e lenire le sofferenze, gli esseri umani fanno affidamento non solo
sulle religioni istituzionalizzate, ma anche sulla saggezza popolare -e perfino sugli slogan politici.
Theodore Roosevelt disse: “Se devo scegliere tra la morale e la pace, scelgo la morale”. La morale
di chi? A quale interpretazione dobbiamo dar credito? L'estremismo è semplicemente l'adesione a
una forma di morale che esclude tutte le altre.
Un altro esempio: la saggezza di Confucio esercita una grande attrazione. Prescrive il rispetto
e l'obbedienza verso gli anziani, e la totale discrezione sui vizi e il disonore che affliggono la
famiglia e la nazione. Si tratta di una saggezza eminentemente pragmatica, che si rivela utilissima
nel far funzionare il mondo. I criteri sono oculati, ma spesso le regole hanno conseguenze nefaste,
come la censura e la repressione sistematica di ogni opposizione. Per esempio, l'ossessione di voler
a tutti i costi “salvare la faccia e mostrare deferenza verso gli anziani ha provocato secoli di inganni
e menzogne, che hanno compromesso vicini di casa e nazioni intere.
Se teniamo conto di questa situazione storica, non sorprende l'inveterata ipocrisia che vige in
molti stati asiatici, quali Cina e Singapore. La classe dirigente di molti paesi condanna il
feudalesimo e le monarchie e si vanta di aver scelto la democrazia o il comunismo. Questi stessi
leader, tuttavia, riveriti dai sudditi, ma colpevoli di misfatti accuratamente occultati, mantengono il
potere fino all'ultimo respiro o fin quando non li sostituisce un erede scelto con oculatezza. Poco è
cambiato dagli antichi sistemi feudali. La legge e la giustizia dovrebbero mantenere la pace e creare
una società armoniosa, eppure spesso il sistema giuridico protegge ricchi e disonesti, vessando
poveri e innocenti con leggi ingiuste.
Noi uomini inseguiamo la felicità e ci prodighiamo a metter fine al dolore, dedicandovi più
tempo ed energie di quelli consacrati agli hobby e alla vita professionale, avvalendoci di
innumerevoli metodi e strumenti. Per questo motivo, possediamo ascensori, computer portatili,
batterie ricaricabili, lavastoviglie, tostapane che abbrustoliscono il pane al punto giusto, aspiratori
per le cacche di cane, taglia-capelli a batteria, toilette con sedili riscaldati, Novocaina, telefoni
cellulari, Viagra, moquette che ricoprono ogni superficie... Nonostante ciò tutti questi agi finiscono
inevitabilmente per provocarci fastidi in uguale misura.
Le nazioni perseguono la ricerca della felicità e la lotta contro il dolore su vasta scala,
scatenando conflitti per il territorio, il petrolio, lo spazio, i mercati finanziari e il potere.
Intraprendono guerre preventive per sconfiggere il male ancor prima che si manifesti. Dal punto di
vista individuale, abbiamo lo stesso atteggiamento quando seguiamo cure mediche preventive,
assumiamo vitamine, ci sottoponiamo a vaccinazioni e ad analisi del sangue e scandagliamo con la
TAC ogni parte del corpo. Cerchiamo i sintomi del male incombente e, appena li troviamo, tentiamo
immediatamente di trovare la cura. Ogni anno, tecniche sempre nuove, cure all'avanguardia, libri di
self-help offrono soluzioni contro il dolore che si vogliono durature e, idealmente, si prefiggono di
eliminare il problema alla radice.
Anche Siddharta si propose di sopprimere il dolore alla radice. Le sue soluzioni, però, non
contemplavano rivoluzioni politiche, migrazioni su altri pianeti o la creazione di una nuova
economia mondiale. Non intendeva neppure fondare una religione o stabilire codici di
comportamento che avrebbero portato pace e armonia. Esplorò la sofferenza con mente aperta, e
grazie alla sua assidua meditazione scoprì che sono le nostre emozioni la radice della sofferenza. Le
emozioni sono dolore. In un modo o nell'altro, direttamente o indirettamente, tutte le emozioni
nascono dall'egoismo, vale a dire implicano un attaccamento all'Io. Inoltre, egli capì che per quanto
possano sembrare reali le emozioni non sono una parte intrinseca, essenziale dell'essere. Non sono
innate, e tanto meno il frutto di una maledizione o una sorta di seme che qualcuno o un Dio ha
impiantato dentro di noi. Le emozioni nascono quando concorrono cause e condizioni precise: per
esempio, quando temi che qualcuno ti critichi, ti ignori, o ti sottragga un qualche utile, ecco allora
che scaturiscono le emozioni corrispondenti. Se accordiamo loro spazio e valore, perdiamo la
consapevolezza e l'equilibrio. Ci “coinvolgiamo”. Siddharta trovò la sua soluzione: la
consapevolezza. Se volete davvero eliminare la sofferenza, dovete raggiungere la consapevolezza,
controllare le emozioni e imparare a non lasciarvi coinvolgere.
Passando al vaglio le emozioni come fece Siddharta, identificandone l'origine, capirete che
esse nascono da un fraintendimento, e quindi sono sostanzialmente difettose, imperfette. Tutte le
emozioni sono essenzialmente una forma di pregiudizio e l'elemento di giudizio è presente in
ciascuna di esse.
Per esempio, se si fa ruotare una torcia a una certa velocità, sembra di vedere un cerchio di
fuoco. Al circo, questo spettacolo incanta e diverte stuoli di bambini ingenui e perfino qualche
adulto. I bambini molto piccoli non si rendono conto che la mano e il fuoco della torcia sono due
elementi ben distinti e separati. Pensano che quello che vedono sia reale e sono affascinati
dall'illusione ottica che crea il cerchio. Ne sono convinti indipendentemente dalla durata, che può
essere quella di un attimo. Analogamente, molti di noi sono ingannati dall'aspetto del proprio corpo.
Quando lo guardiamo, non lo consideriamo in termini di organi separati: molecole, geni, vene e
sangue. Pensiamo al corpo nel suo insieme e crediamo che esista davvero un organismo chiamato
“corpo”. Ancorati alla nostra convinzione, desideriamo un ventre piatto, mani da artista, una statura
imponente, lineamenti aggraziati o una silhouette tutta curve. Diventiamo ossessionati, ci iscriviamo
a una palestra e spendiamo una fortuna in lozioni idratanti, tè dimagrante, diete, yoga, ginnastica
addominale e oli profumati.
L'aspetto e il benessere del nostro corpo ci suscitano emozioni contrastanti e ci sentiamo come
quei bambini assorti, eccitati e perfino sgomenti davanti al cerchio di fuoco. In genere, gli adulti
sanno che si tratta di una semplice illusione e non si lasciano coinvolgere. Grazie alla ragione,
comprendiamo che il cerchio è creato dalle sue parti aggregate – il movimento di una mano che
tiene una torcia. Un fratello maggio impaziente potrebbe esasperarsi di fronte al piccolo o trattarlo
con condiscendenza. Noi, che siamo adulti consapevoli, vediamo il cerchio e capiamo il fascino che
esercita sul bambino, soprattutto di notte, quando ballerini, musica travolgente e altri divertimenti
accompagnano lo spettacolo.
Man mano che la sua meditazione acquisiva profondità, Siddharta cominciò a cogliere la
natura eminentemente illusoria di tutti i fenomeni e, grazie a questa consapevolezza, tornò con la
mente alla sua passata vita a palazzo, alle feste e ai pavoni che scorrazzavano in giardino, agli amici
e alla famiglia. Realizzò che quella che noi chiamiamo famiglia è molto simile a una foresteria o a
un albergo, in cui i viaggiatori si registrano e abitano temporaneamente. Questo transitorio
assembramento di persone alla fine si disperde – al momento della morte, se non molto prima. Nel
breve periodo di frequentazione, il gruppo intreccia rapporti di fiducia, responsabilità e amore e
condivide successi e fallimenti, situazioni dalle quali scaturisce ogni sorta di dramma.
Siddharta capì con chiarezza quant'era facile essere ammaliati dall'immagine idilliaca di
famiglia, dall'idea di solidarietà e dall'incanto della vita di corte. Gli altri non avevano questa sua
stessa visione, quella di un adulto che coglie il cerchio di fuoco nella sua vera natura: un insieme
illusorio e privo di sostanza di elementi aggregati. Ma come un genitore sollecito, invece di
esasperarsi o guardare con condiscendenza il fascino che il fenomeno esercita sul bambino, capì che
all'interno di questo ciclo non esisteva il male o il bene; non c'era errore, non c'era biasimo, e provò
soltanto una profonda compassione.
Dopo aver guardato oltre la superficialità della vita di palazzo, ora Siddharta era in grado di
vedere anche il suo corpo fisico come un elemento privo di sostanza. Cerchio di fuoco e corpo
avevano la stessa natura per lui. Finché si crede che una cosa esiste davvero (momentaneamente o
“per l'eternità”), la convinzione si fonda su un fraintendimento. Questo malinteso non è altro che
mancanza di consapevolezza. Quando la consapevolezza è smarrita, si instaura quella che i
buddhisti definiscono ignoranza. Ed è da questa ignoranza che scaturiscono tutte le nostre emozioni.
Come vedrete, si può spiegare tutto questo processo, che va dalla perdita di consapevolezza al
progressivo emergere delle emozioni, servendosi delle quattro verità.
Nel nostro universo terreno esiste una varietà insondabile di emozioni. A ogni istante, si
generano emozioni senza fine basate su malintesi, pregiudizi e sulla nostra ignoranza. Ben
conosciamo l'amore e l'odio, la colpa e l'innocenza, il pessimismo, la gelosia e l'orgoglio, la paura,
la vergogna, la tristezza e la gioia, ma la lista si può estendere all'infinito. Alcune culture
possiedono parole per emozioni che in altre società rimangono vaghe e quindi non esistono. In
alcune regioni dell'Asia, non esiste la parola che indica l'amore romantico, mentre per gli spagnoli
ci sono molte definizioni per differenti sfumature d'amore. Secondo i buddhisti, esistono
innumerevoli emozioni che ancora non hanno un nome e altre che trascendono la nostra capacità
logica di definizione. Ci sono emozioni che sembrano razionali, ma la maggioranza è
completamente irrazionale. Alcune, di natura pacifica e quieta, sono in realtà basate
sull'aggressività. Altre sono quasi impercettibili. A volte abbiamo l'impressione che qualcuno sia
impassibile o distaccato, mentre in realtà è un groviglio di emozioni.
Le emozioni a volte sono puerili. Vi succede addirittura di arrabbiarvi perché un altro non
prova la vostra stessa rabbia e pensate che dovrebbe farlo. Un giorno siete sconvolti perché il vostro
compagno è troppo possessivo, e il giorno dopo perché non lo è abbastanza. A un osservatore
occasionale, alcune emozioni possono apparire divertenti, come quando il principe Carlo, in un
momento intimo che si voleva senza testimoni, fece notare a Camilla Parker Bowles, che allora era
la sua amante, che non gli sarebbe dispiaciuto reincarnarsi sotto forma di tampone interno per suo
uso personale. Altre emozioni manifestano presunzione e superbia, come quelle dei legittimi
residenti della Casa Bianca, che impongono al mondo intero la loro idea di libertà. Anche obbligare
gli altri ad adottare le nostre opinioni con la forza, i ricatti, l'inganno o una sottile manipolazione, fa
parte del nostro universo emotivo. Non pochi cristiani e musulmani si infervorano per convertire i
pagani ed evitare loro l'inferno e la dannazione eterna, mentre gli esistenzialisti si accingono con
zelo a trasformare in atei tutti i credenti. Le emozioni emergono sotto forma di un risibile orgoglio,
come quegli indiani che danno prova di un incrollabile patriottismo verso un'India ormai
completamente identificata con le caratteristiche del britannico oppressore. Molti patrioti americani
si sono compiaciuti quando il presidente Bush, dal ponte della portaerei statunitense Abraham
Lincoln, ha dichiarato la vittoria sull'Iraq, anche se in realtà la guerra era a malapena iniziata.
L'estremo bisogno di riconoscimento è un'emozione: guardate la Malesia, Taiwan e la Cina, in
strenua competizione tra loro per chi costruirà il più alto grattacielo del mondo, come se si trattasse
di una dimostrazione di virilità. Le emozioni possono essere malsane e contorte, e portare alla
pedofilia e alla zoofilia. Ci fu addirittura il caso di un uomo che mise un annuncio su Internet alla
ricerca di giovanotti che desiderassero essere uccisi e divorati. Ricevette numerose risposte e alla
fine trucidò davvero uno dei suoi corrispondenti, cibandosi poi del suo corpo.
La più straordinaria scoperta nella storia dell'umanità fu forse quella di Siddharta, che capì
che l'Io non esiste come entità indipendente, che è una semplice etichetta ed è pura ignoranza farvi
affidamento. Per quanto erronea, tuttavia, non è compito facile distruggere l'etichetta dell'Io.
Quest'etichetta chiamata “Io” è il concetto più difficile da eliminare.
La scoperta di Siddharta della fallacia dell'Io trova il suo simbolo più eloquente nella storia
dell'annientamento di Mara. Considerato tradizionalmente il signore malefico del regno del
desiderio, Mara rappresenta lo strenuo aggrapparsi di Siddharta ai tentacoli dell'Io. È significativo il
fatto che Mara sia dipinto come un guerriero elegante e invincibile che non ha mai subìto disfatte.
Come Mara, l'Io è imperante e insaziabile, egocentrico e menzognero, avido di attenzioni, astuto e
vanitoso. È difficile ricordare che, come l'illusione del cerchio di fuoco, l'Io è un aggregato, non ha
un'esistenza indipendente ed è soggetto a continui cambiamenti.
Le abitudini ci rendono poco resistenti nei confronti dell'Io. Persino le consuetudini più
semplici e ovvie sono dure a morire. Sapere che fumare è nocivo alla salute non basta a farvi
smettere, soprattutto quando il rituale del fumo diventa un delizioso piacere: la forma affusolata
della sigaretta, il lento consumarsi del tabacco, le fragranti volute di fumo che vi si attorcigliano fra
le dita. Le abitudini dell'Io, tuttavia, sono una cosa ben diversa dalla semplice assuefazione, come
quella per il fumo. Da tempi immemorabili, siamo completamente assuefatti all'Io. È ciò con cui
c'identifichiamo, quanto più amiamo, quanto più detestiamo a volte. La conferma della sua
esistenza è il fine ultimo dei nostri sforzi. Azioni, pensieri e averi, persino il cammino verso la
spiritualità, sono spesso modi per attestarne la realtà. È l'Io che teme lo scacco e aspira al successo,
che paventa l'inferno e brama il paradiso. L'Io aborre la sofferenza, ma ama le sue cause. Dichiara
scioccamente guerra in nome della pace. Desidera l'illuminazione, ma disdegna ogni percorso che
potrebbe avvicinarvisi. Vorrebbe comportarsi da socialista, eppure vive come un capitalista. Quando
l'Io si sente solo, aspira all'amicizia, ma l'atteggiamento possessivo nei confronti di colo che ama si
manifesta con passioni che possono provocare aggressività. I suoi presunti nemici – come i
cammini spirituali destinati a sconfiggerlo – spesso vengono corrotti e diventano suoi alleati.
L'abilità con cui l'Io si presta a giocare il gioco dell'inganno è praticamente perfetta. Si avvolge in
un bozzolo, come il baco da seta, ma, a differenza da quest'ultimo, non sa trovare la strada per
uscirne.
Nel corso della battaglia che ebbe luogo a Bodh Gaya, Mara dispiegò contro Siddharta ogni
sorta di armamenti. In particolare, possedeva una serie di frecce speciali, dotate di poteri
straordinari: la freccia che suscitava il desiderio, quella che provocava apatia e torpore, un'altra che
risvegliava l'orgoglio, oppure frecce che causavano gravi conflitti, prepotenza e arroganza,
ossessioni cieche o ancora la freccia che annullava ogni consapevolezza. Nei sutra buddhisti,
leggiamo che in ciascuno di noi Mara rimane invincibile e continua a scagliarci le sue frecce
avvelenate. Quando ne veniamo colpiti, all'inizio siamo intorpiditi, poi il veleno si diffonde in tutto
il nostro essere e lentamente ci distrugge. Quando perdiamo la consapevolezza e ci aggrappiamo al
nostro Io, agisce il veleno ottenebrante di Mara. Lentamente ma inevitabilmente, si fanno strada in
noi potenti emozioni distruttive.
Se ci colpisce la freccia del desiderio, svaniscono buon senso, temperanza ed equilibrio e
s'instillano indegnità, corruzione e immoralità. Ormai intossicati, non ci fermiamo di fronte a nulla
pur di ottenere quel che vogliamo. Se la passione ci divora, una prostituta grossa come un
ippopotamo ci sembra sexy e affascinante, anche se a casa ci aspetta una fanciulla graziosa e piena
di premure. Come le farfalline attratte dalla luce o i pesci che abboccano all'esca, molti sulla Terra
rimangono intrappolati dalla passione per il cibo, la celebrità, le lodi, il denaro, la bellezza e la
deferenza.
La passione si manifesta anche con la sete di potere, che acceca i leader del mondo intero,
indifferenti di contribuire così alla distruzione del pianeta. Se non fosse per l'avidità di ricchezza di
taluni, le autostrade sarebbero gremite di automobili alimentate a energia solare e nessuno
morirebbe più di fame. Sono innovazioni realizzabili dal punto di vista tecnologico e materiale, ma
impossibili a livello emotivo. E nel frattempo, deploriamo l'assenza di giustizia e critichiamo
aspramente personaggi come George W. Bush. Avvelenati anche noi dalle frecce della cupidigia,
non ci accorgiamo che i nostri desideri – concludere affari acquistando economiche apparecchiature
elettroniche di importazione, e possedere beni di lusso come le Humvee – in realtà sostengono le
guerre che stanno devastando la Terra. Ogni giorno a Los Angeles, durante l'ora di punta, la corsia
preferenziale per i mezzi pubblici è vuota, mentre il resto della strada è intasato da migliaia di
automobili con a bordo una sola persona. Perfino coloro che aderiscono alle marce di protesta:
“Non più sangue per il petrolio” fanno affidamento sul petrolio per l'importazione dei kiwi che
servono a preparare i loro deliziosi frappè di frutta.
Le frecce di Mara suscitano conflitti inesauribili. Nel corso della storia, le autorità religiose,
ritenute esenti da ogni desiderio, modelli di integrità e di decoro a cui ispirarci, si sono dimostrate
altrettanto assetate di potere. Manipolano i seguaci con la minaccia dell'inferno e la promessa del
paradiso. Analogamente, i politici manovrano elezioni e campagne elettorali al punto da non avere
scrupoli a bersagliare un paese inerme di missili Tomahawk, se questo può servire a influenzare
l'opinione pubblica in loro favore. A chi importa che vinciate la guerra, purché abbiate vinto le
elezioni? Altri politici esibiscono ipocritamente la religione, sparano anche loro, costruiscono
artificialmente i propri eroi o allestiscono catastrofi a effetto, tutto per soddisfare il loro desiderio di
potere.
Quando l'Io è rigonfio d'orgoglio, si manifesta in innumerevoli modi – meschinità, razzismo,
fragilità, paura del rifiuto o di essere feriti, assenza di sensibilità, per citarne soltanto alcuni. A causa
del loro orgoglio virile, gli uomini hanno soffocato l'energia e le risorse dell'altra metà dell'umanità:
le donne. Durante il corteggiamento, le due parti danno libero sfogo all'orgoglio, sempre attente a
scrutare se l'altro è sufficientemente degno o, viceversa, a mostrarsi alla sua altezza. Famiglie
tronfie d'orgoglio per un'unione che non si sa quanto durerà sperperano un patrimonio per una
cerimonia nuziale di un giorno, mentre proprio in quel momento, in quello stesso villaggio, la gente
muore di fame. Un turista elargisce una mancia di dieci dollari al portiere che spinge la porta
girevole e, dopo pochi minuti, contratta per una maglietta a cinque dollari con una povera
ambulante che lotta per mantenere la famiglia.
Orgoglio e commiserazione sono strettamente correlati. Credere che la propria vita sia più
triste e più dura di quella degli altri non è nient'altro che una manifestazione di attaccamento al
proprio Io. Quando l'Io elabora forme di autocommiserazione, non permette agli altri di provare una
compassione autentica. In questo mondo imperfetto ci sono molti che hanno sofferto e continuano a
soffrire. Il dolore di alcuni, tuttavia, è considerato più “speciale”. Anche se non disponiamo di vere
e proprie statistiche, sembra ragionevole affermare che il numero di nativi americani trucidati
durante la colonizzazione europea dell'America del Nord eguaglia quello di altri genocidi
riconosciuti come tali. Ciò nonostante per questo inammissibile eccidio non esiste alcun termine di
uso corrente, come “antisemitismo” o “olocausto”.
Neanche ai massacri perpetrati da Stalin e Mao Tse-tung è accordata una definizione chiara e
adeguata; e non sono neppure commemorati con musei moderni e documentati, rivendicazioni da
azioni legali che condannino i colpevoli o rievocati da film e documentari esaurienti. I musulmani
insorgono contro le persecuzioni, dimenticando la distruzione messa in atto dai loro antenati
Moghul, che conquistarono ampie porzioni di Asia in veste di missionari. I segni di tanta
devastazione sono ancora visibili – le rovine dimenticate di monumenti e templi un tempo eretti per
amore di un Dio diverso.
C'è anche l'orgoglio di appartenere a una certa scuola o a una certa religione. Cristiani, ebrei e
musulmani credono tutti nello stesso Dio e in un certo senso sono fratelli. Invece, a causa
dell'intrinseco orgoglio di ciascuna confessione e della convinzione di “avere ragione”, la religione
ha provocato più morti delle due guerre mondiali messe insieme.
Dalla freccia avvelenata dell'orgoglio stilla anche il razzismo. Molti asiatici e africani
accusano gli occidentali bianchi di essere razzisti, ma il razzismo è un'istituzione anche in Asia. In
Occidente, per lo meno, esistono leggi antirazziste e il razzismo viene pubblicamente condannato.
Invece, una ragazza di Singapore non ha il diritto di portare a casa il marito belga a conoscere la
famiglia. In Malesia, le persone appartenenti alle etnie cinese e indiana non possono accedere allo
stato di Bhumiputra, neppure dopo generazioni. Molti coreani di seconda generazione residenti in
Giappone non sono ancora stati naturalizzati. Anche se molti bianchi adottano bambini di colore, è
improbabile che una famiglia benestante asiatica sia disposta ad adottare un bambino bianco. In
genere gli asiatici considerano contro natura questo miscuglio di razze. Ci si chiede come si
sentirebbero se la situazione fosse capovolta: se i bianchi dovessero emigrare a milioni in Cina,
Corea, Giappone, Malesia, Arabia Saudita e India. Cosa succederebbe se installassero le proprie
comunità, se fossero assunti nei posti di lavoro locali, se portassero con sé le mogli, se
continuassero a parlare la propria lingua per generazioni rifiutando di adottare quella del paese che
li ospita – e per giunta sostenessero le correnti religiose fondamentaliste del loro paese d'origine?
L'invidia è un'altra delle frecce di Mara. È una delle grandi emozioni di chi si sente un
perdente. Si manifesta in modo irrazionale e per confondervi architetta storie di fantasia. Può
colpire improvvisamente quando meno ve lo aspettate, addirittura mentre vi state godendo una
sinfonia. Anche se non avete intenzione di diventare violoncellisti, se non avete mai neppure tenuto
in mano un violoncello, improvvisamente invidiate l'ignara violoncellista che non avete mai
incontrato prima. Il semplice fatto che è piena di talento basta ad avvelenarvi lo spirito.
Gran parte del mondo invidia gli Stati Uniti. Molti estremisti politici e religiosi, che mettono
in ridicolo gli Stati Uniti e li condannano, accusando gli americani di essere “satanici” e
“imperialisti”, cadrebbero in ginocchio pur di avere un permesso di soggiorno per quel paese, se
non ne hanno già uno. Per pura invidia, la società – spesso istigata dai media – tenta di rovesciare
coloro che hanno successo, sia esso economico, materiale o intellettuale. Alcuni giornalisti
sembrano voler difendere diseredati e poveracci, ma spesso temono di rivelare che alcuni di questi
“diseredati” sono dei veri e propri fanatici. Si rifiutano di renderne pubbliche le trasgressioni e i
pochi che parlano apertamente corrono il rischio di essere tacciati di estremismo.
Per il suo egoistico desiderio di avere molti seguaci, Mara predica astutamente la libertà. Ma
se qualcuno tenterà di applicarla, Mara non lo apprezzerà affatto. In realtà, vogliamo avere la libertà
soltanto per noi stessi, non per gli altri. Se ci prendessimo ogni libertà non ci sarebbe da
meravigliarsi se non ci invitassero più a tutte le feste. La cosiddetta libertà e la cosiddetta
democrazia sono solo altri strumenti di controllo nelle mani di Mara.
Si potrebbe pensare che non tutte le nostre emozioni siano sofferenza – che ne è dell'amore,
della gioia, dell'ispirazione creativa, della devozione, dell'estasi, della pace, della concordia, della
realizzazione, del conforto? Siamo convinti che l'emotività sia necessaria per la poesia e per l'arte, o
per comporre canzoni. La nostra definizione di “sofferenza” non è rigorosamente stabilita ed è
limitata. Quella di Siddharta invece è molto più ampia e, nello stesso tempo, più specifica e più
chiara.
Alcuni ti pi di sofferenza come la rabbia, la gelosia e il mal di testa hanno ovvie connotazioni
negative, mentre altri contengono sfumature molto più sottili. Per Siddharta, tutto ciò che porta con
sé incertezza e imprevedibilità è sofferenza. Per esempio, l'amore può essere piacevole e
soddisfacente, ma non scaturisce indipendentemente dal resto. È in rapporto con qualcuno o con
qualcosa ed è quindi imprevedibile. Come minimo, si è dipendenti dall'oggetto amato e in un certo
senso si è sempre tenuti al guinzaglio. Concorrono poi innumerevoli altre condizioni, molto meno
evidenti. Per questa ragione, è vano considerare i genitori responsabili della nostra infanzia infelice
o sentirci in colpa per il disaccordo tra loro, perché non siamo consapevoli delle molte altre
condizioni non evidenti che queste situazioni comportano.
I tibetani utilizzano le parole rangwang e shenwang per indicare “felicità” e “infelicità”. Sono
termini difficili da tradurre con precisione; rang significa “Io” e wang “potere”, “diritti” o “legittima
ragione”, mentre shen significa “altro”. In senso lato, finché si possiede il controllo, si è felici, ma
se è qualcun altro a tenere il guinzaglio, si diventa infelici. “Felicità” significa quindi posseder il
pieno controllo, la libertà, i propri diritti, in tempo libero, e non avere nessun impedimento, nessun
guinzaglio introno al collo. Significa avere la libertà di scegliere o di non scegliere, la libertà di
essere attivi o di prendersela con calma.
Ci sono alcune cose che possiamo fare per piegare a nostro favore le condizioni, per esempio
assumere regolarmente vitamine per irrobustirci o bere una tazza di caffè per svegliarci. Non è in
nostro potere, tuttavia, quietare la Terra in modo che non scateni un altro tsunami. Non possiamo
impedire che un piccione vada a sbattere contro il parabrezza della macchina. Non possiamo tenere
sotto controllo gli altri automobilisti in autostrada. Una parte consistente della nostra esistenza ruota
intorno al tentativo di appagare gli altri, soprattutto perché così possiamo sentirci a nostro agio. Non
è piacevole vivere con qualcuno che tiene il broncio di continuo. Ma tuttavia non è possibile fare in
modo che gli altri siano sempre allegri. Possiamo provarci, riuscirci talvolta, anche se questa sorta
di manipolazione richiede resistenza e notevoli attenzioni. Non basta dire “Ti amo” all'inizio di una
relazione. Dovete continuare a comportarvi in modo conseguente – mandare fiori, mostrarvi
premurosi e gentili – fino alla fine. E se fallite, anche solo per un'unica volta, tutto quello che avete
costruito può andare in frantumi. Magari, anche se gli dedicate la più totale devozione, l'oggetto
della vostra attenzione può fraintenderla, non saper più accettarla oppure smettere di essere
ricettivo. Un giovanotto si pregusta una cenetta a lume di candela con la ragazza dei suoi sogni,
immagina come si svolgerà la serata, il modo in cui la corteggerà e come riuscirà a sedurla. Ma è
solo una fantasia, una congettura. In realtà non siamo mai davvero pronti al cento per cento per ogni
possibile situazione. Basta un unico un per cento perché ostacoli e avversari riescano a far danno:
un lapsus, un'esplosione accidentale di gas, un'occhiata distratta che non si concentra del tutto
sull'apparecchio a raggi X al check-point dell'aeroporto.
Forse crediamo di non soffrire davvero e che, anche se soffriamo, non è poi così terribile.
Dopotutto, non viviamo nei bassifondi e non siamo vittime del genocidio in Ruanda. Molti pensano,
Sto bene, Sto respirando, Sto facendo colazione, Tutto va come dovrebbe andare, Non sto affatto
male. Ma cosa significa? Ne sono davvero convinti? Per star meglio hanno smesso di prepararsi a
ogni eventualità? Hanno eliminato le insicurezze? Un atteggiamento che deriva da un appagamento
autentico e dalla capacità di apprezzare pienamente quello che già si possiede è quello
raccomandato da Siddharta. Raramente, tuttavia, sperimentiamo tanta pienezza. Vi è sempre in
agguato la costante, tormentosa sensazione che per vivere ci voglia di più, e questo scontento
provoca sofferenza.
La soluzione di Siddharta fu di raggiungere la consapevolezza delle emozioni. Se quando si
manifestano ne siete anche soltanto parzialmente consapevoli, limitate il loro raggio di azione: ecco
allora le emozioni trasformate in fanciulle controllate dal loro chaperon. Se qualcuno controllasse
con attenzione il potere di Mara, questo si indebolirebbe. Siddharta, consapevole che fossero
semplici illusioni, era immune al veleno dell frecce. In questo modo, le nostre emozioni più violente
diventano innocue come petali di fiori. Quando le apsaras si avvicinarono a Siddharta, egli percepì
con chiarezza che erano solo fenomeni aggregati, come il cerchio di fuoco, e quindi persero ogni
attrattiva. Non riuscirono a provocare in lui alcuna reazione. Comprendendo che gli oggetti del
nostro desiderio sono in realtà solo fenomeni aggregati, riusciamo a spezzare l'incantesimo della
tentazione.
Quando cominciate a rendervi conto del danno provocato dalle emozioni, la consapevolezza si
affina. Una volta consapevoli – per esempio se sapete di essere in cima a una scogliera – potete
valutare il pericolo che avete di fronte. Potete continuare ad andare avanti; camminare su una
scogliera in piena consapevolezza non è più tanto terribile, anzi è eccitante. La vera origine della
paura è l'ignoranza. La consapevolezza non vi impedisce di vivere, rende la vita molto più piena. Se
vi godete una tazza di tè e siete in grado di cogliere il dolce e l'amaro insiti in tutte le cose
temporanee, assaporerete pienamente il vostro tè.
3.
Tutto è vuoto
Subito dopo l'illuminazione di Siddharta, le sue parole, che chiamiamo dharma, cominciarono
a pervadere tutti gli ambienti della vita indiana. Il dharma trascendeva il sistema delle caste e faceva
appello ai ricchi e ai poveri in uguale misura. Uno dei massimi imperatori del III secolo a.C. Fu il re
Ashoka, tiranno e guerriero instancabile che non si era fatto scrupoli a uccidere i suoi parenti più
stretti per consolidare il potere. Perfino il re Ashoka alla fine trovò la strada del dharma e diventò
pacifista. Oggi è noto come uno dei più influenti sostenitori del buddhismo.
Grazie a mecenati della sua tempra, il dharma continuò a diffondersi, espandendosi in ogni
direzione, e propagandosi ben oltre le frontiere dell'India. Nel primo millennio dell'era cristiana, a
circa seicento miglia da Bodh Gaya, nel villaggio tibetano di Kya Ngatsa, nacque un altro uomo
comune dotato di poter straordinari. Dopo aver trascorso un'infanzia di stenti e aver avuto una
precoce iniziazione alla magia nera, questo giovane inquieto trucidò decine di membri della
famiglia e di vicini per placare la sua sete di vendetta. Abbandonò la propria casa e alla fine
incontrò un contadino di nome Marpa, un valente maestro e traduttore di dharma che insegnava la
natura dell'esistenza e la condotta di vita come un tempo erano state esposte da Siddharta. Il giovane
ne uscì trasformato. Divenne celebre come Milarepa, uno dei più famosi santoni yogi del Tibet, i cui
canti poetici e le cui vicende ancora oggi ispirano centinaia di migliaia di persone. L'eredità della
sua saggezza è stata trasmessa da una successione ininterrotta di maestri e allievi.
Milarepa insegnò ai suoi studenti che le parole di Siddharta non sono come le altre filosofie,
che leggiamo per diletto o curiosità intellettuale e poi riponiamo in appositi scaffali. Possiamo
applicare il dharma alla nostra realtà e alla vita quotidiana. Nella prima generazione di seguaci di
Milarepa, ci fu un brillante studioso di nome Rechungpa. Milarepa gli aveva raccomandato che
l'integrazione della pratica alla vita è più importante del semplice studio dei testi, eppure Rechungpa
partì per l'India, deciso a ricevere un'istruzione tradizionale presso una delle massime istituzioni
filosofiche buddhiste dell'epoca. Rechungpa si applicò scrupolosamente, seguendo l'insegnamento
di molti grandi studiosi e santi indiani. Dopo molti anni, ritornò in Tibet, e il suo vecchio maestro
Milarepa andò ad accoglierlo su un arido altopiano. Dopo che si furono scambiati i saluti ed ebbero
parlato per qualche tempo degli studi di Rechungpa, dal cielo si rovesciò improvvisamente una
violenta grandinata. In quella sconfinata pianura, non c'era un solo luogo ove rifugiarsi. Milarepa
vide sul terreno il corno di uno yak e si riparò svelto al suo interno, senza che il corno si ingrandisse
né lui si rimpicciolisse. Dal suo nascondiglio all'asciutto, Milarepa intonò una canzone per far
sapere a Rechungpa che c'era ancora molto spazio nel corno di yak... se solo il suo discepolo avesse
capito la natura del vuoto.
Forse penserete che la storia del corno di yak sia una semplice favola. Oppure, se siete
creduloni, immaginerete che si tratti di un caso di stregoneria escogitato dallo yogi tibetano. Non si
tratta né dell'uno né dell'altra eventualità, come vedremo.
Aggrapparsi al vuoto
Vincendo su Mara e il suo esercito, Siddharta comprese il vuoto dell'esistenza. Capì che ogni
cosa che vediamo, ascoltiamo, sentiamo, immaginiamo e che crediamo esista è semplicemente
vuoto, al quale abbiamo attribuito e riconosciuto una certa “verità”. Tale attività di identificare o
percepire il mondo come vero è scaturita da una tenace abitudine individuale e collettiva – lo
facciamo tutti. La forza dell'abitudine è così ostinata e il nostro concetto di vuoto talmente poco
attraente, che pochi hanno la volontà di raggiungere il tipo di comprensione di Siddharta. Vaghiamo
invece nel deserto, come viandanti disorientati che intravedono in lontananza un'oasi
lussureggiante. L'oasi, in realtà, è soltanto il riflesso del calore sulla sabbia, ma per disperazione,
sete e speranza, il pellegrino pensa che sia acqua. Esaurendo le sue ultime forze per raggiungerla,
scopre che si tratta di un miraggio ed è sopraffatto dalla delusione.
Anche se non pensiamo di essere tanto disperati, e riteniamo di essere persone colte, sane di
mente e lucide, quando crediamo che tutto esiste davvero ci comportiamo come l'uomo nel deserto.
Ci affanniamo per trovare amici autentici, sicurezza, riconoscimenti e successo o semplicemente
pace e quiete. Magari riusciamo perfino ad aggrapparci a qualche parvenza di desiderio. Ma, come
il viandante, se dipendiamo da una conferma esterna, alla fine siamo delusi. Le cose non sono come
sembrano. Sono impermanenti e mai interamente sotto il nostro controllo.
Se intraprendiamo un'analisi approfondita, come fece Siddharta, troveremo che definizioni
come “forma”, “tempo”, “spazio”, “direzione” e “dimensione” possono venire facilmente demolite.
Siddharta capì che perfino l'Io esiste solo a un livello molto relativo, proprio come un miraggio.
Questa comprensione gli permise di spezzare il ciclo di aspettative, delusioni e sofferenza. Al
momento della sua liberazione, pensò: Ho travato un cammino che è profondo, pieno di pace, non
estremistico, chiaro, soddisfacente e delizioso. Ma se tento di esprimerlo, se cerco di insegnarlo,
non c'è nessuno capace di ascoltare, di prestare attenzione o di comprendere. Quindi rimarrò in
questo stato di beatitudine nella foresta. Si racconta che, avendo sentito i progetti di Siddharta,
apparvero il dio Indra e il dio Brama, che gli chiesero di non isolarsi nella foresta, ma di diffondere
il suo insegnamento per amore del prossimo. “Anche se non tutti capiranno completamente il tuo
insegnamento,” dissero, “ce ne saranno alcuni che ci riusciranno e sarà una cosa preziosa essere
d'aiuto anche soltanto a costoro.”
Per rispettare i loro desideri, Siddharta partì per Varanasi, che anche a quell'epoca era una
grande città in cui si riunivano intellettuali e pensatori sulla riva del Gange. Quando raggiunse
Sarnath, in prossimità di Varanasi, Siddharta incontrò i suoi compagni di un tempo, quelli che tanti
anni prima lo avevano abbandonato dopo che lui aveva infranto i voti e bevuto il latte che gli offriva
Sujata. Appena lo videro avvicinarsi, si accordarono in tutta fretta per ignorarlo. Non vollero
salutarlo e tanto meno alzarsi e inchinarsi davanti a lui. “Ecco che arriva l'ipocrita,” sogghignarono.
Per chi, come Siddharta, aveva compreso il vuoto, concetti come la lusinga e la critica, la
venerazione e il disprezzo, il bene e il male erano assolutamente irrilevanti. Erano questioni
soggette a interpretazioni inconsistenti e non c'era quindi alcun bisogno di reagire come se fossero
fondate. Siddharta allora si avvicinò senza ombra di vanità, esitazione o orgoglio. Priva di ogni
imbarazzo, la sua andatura era così solenne che i cinque saggi non poterono fare a meno di alzarsi.
Siddharta pronunciò sul momento il primo dei suoi sermoni, con i suoi compagni di un tempo come
i primi discepoli.
Siddharta non si sbagliava quando pensava che questo insegnamento non sarebbe stato
compito facile. In un mondo dominato dall'avidità, dall'orgoglio e dal materialismo, anche solo
insegnare principi di base come l'amore, la compassione e l'altruismo è molto difficile, per non
parlare della verità ultima, quella del vuoto. Siamo paralizzati da un sistema di pensiero “a breve
termine” e vincolati alla concretezza. Per essere degne di un investimento in tempo ed energia, le
cose per noi devono essere tangibili e immediatamente utili. Secondo questi criteri, il vuoto come lo
definisce Buddha sembra completamente inutile. Pensiamo: Qual è dunque il vantaggio di meditare
sull'impermanenza e sul vuoto del mondo fenomenico? Come può il vuoto essere produttivo?
All'interno della nostra logica limitata, abbiamo una definizione chiara di ciò che ha senso e
scopo – e il vuoto ne è al di fuori. Semplicemente, l'idea di “vuoto” non si adatta alla nostra mente.
La mente umana, infatti, agisce basandosi su un sistema logico inadeguato, anche se ne esistono
molti altri. Agiamo con la convinzione che migliaia di anni di storia hanno preceduto questo
momento, e se qualcuno ci dicesse che l'evoluzione umana è stata breve come l'atto di inghiottire un
sorso di caffè, non lo capiremo. Una giornata all'inferno equivale a cinquecento anni, secondo la
dottrina buddhista: eppure per noi l'unica funzione di queste immagini religiose è quella di
spaventarci e sottometterci. Provate a immaginare una settimana di vacanza con la persona amata –
è breve come uno schiocco di dita. Una notte trascorsa in prigione con un violento stupratore
sembra invece durare un'eternità. Così percepito, il nostro concetto di tempo comincia a non
apparire più tanto stabile.
Alcuni lasciano penetrare un po' di ignoto nel proprio sistema concettuale, dando spazio ad
altri possibili mondi di chiaroveggenza, intuizione, fantasmi, anime gemelle, ma in genere ci
affidiamo a una logica rigida e scientificamente fondata. Una minoranza di persone dotate di talenti
particolari ha forse il coraggio o la capacità di sfidare le convenzioni e, se il loro modo di pensare
non è troppo eccessivo, riescono a passare per artisti, come Salvador Dalì. Ci sono anche alcuni
yogi famosi che deliberatamente vanno solo un po' oltre quel che è tradizionalmente accettato e
sono venerati come “folli divini”. Se tuttavia oltrepassate troppo i limiti comunemente accettati, se
accettate il vuoto, sarete considerati anormali, pazzi o irrazionali.
Siddharta non era irrazionale. Sosteneva soltanto che il pensiero convenzionale e razionale è
limitato. Noi non possiamo, o non vogliamo, capire ciò che esula dagli spazi a noi familiari. È
molto più pratico agire in base al concetto lineare di “ieri, oggi e domani”, invece di affermare: “Il
tempo è relativo”. Non siamo programmati per pensare: Posso entrare in un corno di yak senza
cambiare né forma né dimensioni. Non siamo in grado di demolire concetti come “piccolo” e
“grande”. Continuiamo invece a rinchiuderci nelle nostre anguste ma confortanti prospettive
tramandate per generazioni. Sottoposte ad analisi rigorosa, queste prospettive tuttavia non reggono.
Per esempio, il concetto di tempo lineare su cui ampiamente riposa il mondo non tiene conto che il
tempo non ha né inizio né fine.
Servendoci di una tale logica – imprecisa nella migliore delle ipotesi – misuriamo o definiamo
le cose, considerandole “realmente esistenti”. Funzione, continuità e consenso hanno un ruolo
fondamentale nel nostro processo di conferma. Pensiamo che se qualcosa ha una funzione – per
esempio, la vostra mano serve a tenere questo libro – allora deve esistere, e in modo permanente,
valido, definitivo. La rappresentazione di una mano non funziona nello stesso modo, perché
sappiamo che non è davvero una mano. Se esiste una continuità in un fenomeno – per esempio se
ieri abbiamo visto una montagna e oggi è ancora lì – abbiamo la certezza che sia “reale” e che ci
sarà domani e il giorno dopo. Se gli altri poi ci assicurano di vedere le stesse cose che vediamo noi,
ci convinciamo ancora di più che esistono realmente.
Certo, non passiamo il tempo a razionalizzare consapevolmente, a confermare e a definire la
reale esistenza delle cose – questo è un libro che esiste davvero nelle mie mani che esistono
davvero. Inconsciamente agiamo con la convinzione che il mondo esiste su solide basi e questo
influisce su quel che pensiamo e sentiamo in ogni momento della giornata. Solo in rare occasioni,
quando ci guardiamo allo specchio o assistiamo a un miraggio, ci rendiamo conto che alcune cose
sono pure apparenze: non c'è carne e sangue nello specchio, non c'è acqua nel miraggio.
“Sappiamo” che le immagini allo specchio non sono reali, che sono prive di una natura
intrinsecamente esistente. Questo genere di comprensione ci potrebbe portare molto lontano, ma
arriviamo solo fino al punto in cui lo permette la nostra mente razionale.
Di fronte all'idea di un uomo che entra in un corno di yak senza mutare le proprie dimensioni
abbiamo poca scelta. O siamo “razionali” e confutiamo il fatto dicendo che semplicemente non è
possibile. Oppure ci affidiamo a una qualche sorta di credenza mistica nella stregoneria o a una
cieca devozione e diciamo: “Oh, si. Milarepa era un grande yogi, naturalmente poteva fare questo e
ben altro”. In entrambi i casi, la nostra visione è distorta, perché la negazione è una forma di
sottovalutazione e la fede cieca è una forma di sopravvalutazione.
Attraverso la sua infaticabile meditazione, Siddharta colse con chiarezza i difetti di queste
forme convenzionali di valutazione, razionalizzazione e definizione. In una certa misura,
ovviamente funzionano – il nostro mondo va avanti proprio in virtù di queste convenzioni.
Riferendoci a un fenomeno realmente esistente, lo consideriamo ben definito, non immaginato,
reale, dimostrabile, immutato e incondizionato. Naturalmente ammettiamo che qualcosa possa
cambiare. La gemma si trasforma in fiore, e continuiamo a pensare che si tratti di un fiore realmente
esistente, anche se cambia. La crescita e il cambiamento fanno parte della nostra idea prestabilita
della natura del fiore. Saremmo molto più sorpresi se rimanesse permanente. In questo senso, le
nostre aspettative di cambiamento sono immutabili.
Un fiume scorre con la sua acqua fresca, sempre mutevole e continuiamo a chiamarlo fiume.
Se ci ritorniamo dopo un anno, pensiamo che si tratti dello stesso fiume. Come può essere lo stesso?
Se isoliamo anche solo un suo aspetto o una sua caratteristica, quest'identità si sgretola. L'acqua è
diversa, la Terra è in un altro punto della sua rotazione nella galassia, le foglie sono cadute e si sono
rinnovate – ciò che rimane è l'apparenza di un fiume simile a quello che abbiamo visto l'ultima
volta. L'”apparenza” è una base piuttosto instabile per la “verità”. A un semplice sguardo, i puntelli
della nostra realtà convenzionale si rivelano vaghe generalizzazioni e ipotesi. Anche se Siddharta
utilizzava parole simili a quelle che la gente normale userebbe per definire la “verità” - non
immaginata, definita, immutata, incondizionata – il modo con cui se ne serviva era molto più
preciso; non sono generalizzazioni. Dal suo punto di vista, “immutato” significa immutabile in tutti
gli aspetti, senza eccezione, anche dopo il vaglio di un'analisi rigorosa.
La nostra normale definizione di “verità” è il risultato di un'analisi parziale. Se l'analisi
fornisce una risposta adeguata, se ci dà quel che vogliamo, non andiamo oltre. Questo è davvero un
panino? Ha il gusto di un panino, quindi lo mangio. L'analisi finisce qui. Un ragazzo cerca
compagnia, adocchia una ragazza, è carina, si ferma a studiarla un po' e poi si avvicina. L'analisi di
Siddharta continua ad affinarsi, finché il panino e la ragazza diventano semplici atomi e alla fine
neppure gli atomi possono reggere alla sua analisi. Non trovando nulla a questo livello, egli è libero
da ogni delusione.
Siddharta scoprì che l'unico modo di confermare che qualcosa esiste realmente è di dimostrare
che esiste indipendentemente, scevro da interpretazioni, dalla fabbricazione o dal cambiamento. Per
Siddharta, tutti i meccanismi apparentemente funzionali della nostra sopravvivenza quotidiana –
fisica, emotiva e concettuale – non corrispondono a questa definizione. Sono tutti costituiti da parti
instabili e impermanenti e quindi sono sempre mutevoli. Quest'affermazione può far breccia anche
nel nostro mondo di convenzioni. Per esempio, sapete che il vostro riflesso nello specchio in realtà
non esiste, perché dipende dal fatto che siete lì davanti. Se fosse indipendente, ci sarebbe un riflesso
anche senza il vostro viso. Analogamente, nessuna cosa può esistere davvero senza dipendere da
un'innumerevole quantità di condizioni.
Guardiamo un cerchio di fuoco e ammettiamo senza difficoltà le condizioni della sua
creazione. Accettiamo che, finché concorrono tali condizioni, è davvero un cerchio di fuoco... per
adesso. Perché non pensiamo nello stesso modo del libro che stiamo tenendo in mano o del letto su
cui ci corichiamo? Sembra un libro, gli altri lo considerano un libro, funziona come un libro; ma se
lo analizzate bene anche in questo caso si applica il principio del “per adesso”. Le cose esistono per
il momento; è solo che non abbiamo il coraggio o la volontà di applicare questo sistema di pensiero.
Poiché non abbiamo la perspicacia di vedere le cose nelle loro parti, ci accontentiamo di
considerarle come un tutto. Se un pavone è spennato da tutte le sue piume, non ci affascina più. Non
siamo affatto disposti ad arrenderci a vedere il mondo in questo modo. È come rimanere
raggomitolati nel letto dopo un bel sogno, solo vagamente coscienti che era soltanto un sogno e
senza nessun desiderio di alzarsi. Oppure vedere uno splendido arcobaleno e non volersi avvicinare
perché scomparirà. Avere il coraggio di svegliare il nostro spirito e di analizzare le cose è quello che
i buddhisti chiamano “rinuncia”. Contrariamente alla credenza popolare, la rinuncia buddhista non è
autoflagellazione o austerità. Siddharta fu pronto e capace di vedere che tutto, nella nostra esistenza,
è una semplice serie di etichette poste su fenomeni che non esistono realmente, e in questo modo
sperimentiamo il risveglio.
Molte persone con una vaga idea di quel che insegnava Buddha pensano che il buddhismo sia
morboso, che i buddhisti neghino la felicità e pensino solo alla sofferenza. Credono che i buddhisti
evitino la bellezza e il godimento fisico in quanto tentazioni e debbano essere puri e misurati. In
realtà l'insegnamento di Siddharta non ha prevenzioni contro la bellezza e il godimento più di
quanto non ne abbia verso altri concetti – finché non ci lasciamo trasportare dal pensiero che queste
cose esistono realmente.
Siddharta aveva un discepolo laico, un guerriero di nome Manjushri, noto come incantatore e
per avere uno spirito molto arguto. Fra gli altri allievi compagni di Manjushri c'era un monaco
zelante e rispettato, conosciuto per la sua “meditazione sulla bruttezza”, un metodo prescritto, fra
molti altri, a coloro che sono disorientati e travolti dalla passione. Consiste nell'immaginare tutti gli
esseri umani come un ammasso di vene, cartilagini, intestini e simili. Manjushri decise di Mettere
alla prova il monaco zelante servendosi dei suoi poteri sovrannaturali. Si trasformò in una
bellissima ninfa e comparve di fronte al monaco per sedurlo. Per qualche tempo, il monaco rimase
impassibile, senza muovere neppure un muscolo. Manjushri esercitò tutto il suo fascino e il monaco
cominciò a cedere al suo sortilegio. Era sorpreso: durante quei lunghi anni di meditazione aveva
resistito stoicamente ad alcune tra le più belle donne della regione. Turbato e deluso da se stesso, il
monaco si diede alla fuga. Ma la ninfa Manjushri lo inseguì finché lui, esausto, crollò a terra.
Mentre l'attraente fanciulla gli si avvicinava, pensò: Ecco, questa bella ragazza sta per abbracciarmi.
Chiuse ermeticamente gli occhi e aspettò, ma non successe nulla. Quando finalmente li riaprì, la
ninfa si era scomposta in frammenti e comparve Manjushri ridendo. “Pensare che qualcuno è bello è
un concetto,” disse. “Aggrapparti a questo concetto ti limita, ti lega a un nodo e ti imprigiona.
Anche pensare che qualcosa è brutto è un concetto altrettanto vincolante.”
Ogni anno spendiamo enormi somme di denaro per farci belli e per rendere piacevole
l'ambiente in cui viviamo. Cos'è dunque la bellezza? Anche se affermiamo che è nell'occhio
dell'osservatore, milioni di persone assistono al concorso Miss Universo per sapere chi è la più bella
del mondo, secondo il giudizio di una commissione di esperti. A quanto si dice, la giuria stabilirà il
criterio definitivo di bellezza. Naturalmente alcuni non saranno d'accordo, perché tra le bellezze di
tutto il pianeta questi giurati stanno ignorando le bellissime donne della Papuasia e le eleganti
fanciulle delle tribù africane che indossano anelli introno al collo affusolato.
Se Siddharta presenziasse al concorso Miss Universo, per lui la bellezza suprema sarebbe di
tutt'altro tipo. Ai suoi occhi, colei che è incoronata non può possedere la bellezza suprema, perché la
bellezza dipende dall'osservatore. La definizione di Siddharta di “supremo” esige l'indipendenza da
qualsiasi condizione: la condizione del concorso non è necessaria a eleggere la donna più bella,
perché chiunque concorderebbe spontaneamente sulla sua bellezza suprema. Se è davvero bella,
neanche per un momento potrebbe essere anche solo leggermente non-così-bella. Dovrebbe essere
bella quando sbadiglia, quando russa, quando le fuoriesce dalle labbra un filo di saliva, quando si
accovaccia sul water, quando è vecchia – sempre.
Invece di vedere una pretendente più o meno bella delle altre, Siddharta vedrebbe che tutte le
donne sono prive di bruttezza e di bellezza. La bellezza che Siddharta scorge sta nelle centinaia di
milioni di prospettive da cui può essere contemplata ciascuna delle pretendenti. Tra i molteplici
punti di vista dell'universo, qualcuno è geloso, qualcuno la considera l'amante, la figlia, la sorella, la
madre, l'amica, la rivale. Per un coccodrillo rappresenta il cibo, per un parassita è un'ospite. Per
Siddharta, è bello di per sé tale assortimento, mentre se la ragazza fosse realmente e definitivamente
bella dovrebbe essere raggelata per sempre nel suo stato di bellezza. Non sarebbero necessari abiti
da sera e costumi da bagno, riflettori e rossetti. Ma così stanno le cose, c'è tutta l'esibizione del
concorso e per adesso lo spettacolo è bello, come il nostro vecchio cerchio di fuoco, aggregato e
impermanente.
Nella filosofia buddhista, ciò che è percepito dalla mente non esiste prima che la mente lo
percepisca; dipende dalla mente. Non esiste indipendentemente, quindi non esiste davvero. Ciò non
significa che non esiste in un certo senso. I buddhisti definiscono il mondo percepito come una
verità “relativa” - una verità valutata e classificata dalle nostre menti ordinarie. Per essere definita
come “suprema”, una verità non deve essere fabbricata, non deve essere prodotto
dell'immaginazione e deve essere indipendente dalle interpretazioni.
Anche se Siddharta aveva compreso il vuoto, il vuoto non era stato costruito da lui né da
nessun altro. Il vuoto non è il risultato della sua rivelazione, né è stato elaborato teoricamente per
aiutare la gente a essere felice. Sia che Siddharta l'abbia insegnato sia che non l'abbia fatto, il vuoto
è sempre stato vuoto, anche se, paradossalmente, non possiamo neppure affermare con certezza che
è sempre esistito, perché trascende il tempo e non ha forma. Né il vuoto potrebbe essere interpretato
come negazione dell'esistenza – cioè, non possiamo neppure sostenere che questo mondo relativo
non esiste – perché, per negare una cosa, bisogna innanzitutto aver ammesso che esiste qualcosa da
negare. Il vuoto non annulla la nostra esperienza quotidiana. Siddharta non ha mai detto che esiste
qualcosa di spettacolare, di migliore, di più puro o di più divino di quanto percepiamo. Non era
neppure un anarchico che rifiutava l'apparenza o la funzione dell'esistenza mondana. Non disse che
non c'è l'immagine di un arcobaleno o che non esiste una tazza di tè Possiamo godere della nostra
esperienza, ma il solo fatto di esperire qualcosa non significa che esista davvero. Siddharta suggerì
semplicemente di esaminare la nostra esistenza e di pensare che potrebbe essere solo un'illusione
temporanea, come un sogno a occhi aperti.
Se qualcuno vi chiedesse di sbattere le braccia e di volare, rispondereste: “Non posso”, perché
nella nostra esperienza del mondo relativo non è fisicamente possibile volare, come non è possibile
nascondersi in un corno di yak. Supponiamo invece che stiate dormendo e che sogniate di volare in
cielo. Se qualcuno nel nostro sogno dicesse: “Gli esseri umani non possono volare”, rispondereste:
“Sì, io posso farlo, non vedi?”. E volereste via. Siddharta concorderebbe su entrambe le
argomentazioni – non potete volare quando siete sveglie potete volare quando dormite. La
spiegazione sta nel concorso o meno di cause e condizioni; una condizione necessaria alla
possibilità di volare è sognare. Se non sognate, non potete volare, se sognate, potete farlo. Se
sognate di volare e continuate a credere di poterlo fare anche da svegli, allora è un problema.
Finirete per cadere e sarete molto delusi. Siddharta dice che anche quando ci svegliamo nel mondo
relativo in realtà dormiamo, e siamo preda dell'ignoranza, come i cortigiani di palazzo la notte in
cui egli abbandonò la sua vecchia vita. Quando concorrono le cause e le condizioni giuste, può
apparire qualsiasi cosa. Ma quando queste condizioni si sono esaurite, l'apparenza si dissolve.
Considerando come un sogno la nostra esperienza in questo mondo, Siddharta scoprì che
l'abitudine a focalizzarci sulle mere apparenze del nostro mondo relativo e fantastico, convinti che
esista davvero, ci proietta in un ciclo senza fine di dolore e angoscia. Siamo immersi in un sonno
profondo, in letargo come il baco da seta nel suo bozzolo. Abbiamo tessuto una realtà basata su
proiezioni, immaginazioni, speranze, paure e illusioni. I nostri bozzoli sono diventati solidi e
complicati. Le nostre fantasticherie ci appaiono talmente reali che il bozzolo ci imprigiona.
Possiamo liberarci semplicemente realizzando che è solo frutto della nostra immaginazione.
I modi per svegliarci da questo sogno sono infiniti. Perfino sostanze come il peyote e la
mescalina ci danno una vaga idea dell'aspetto illusorio della “realtà”. Una droga, tuttavia, non può
provocare un risveglio assoluto, anche perché dipende da una sostanza esterna la cui efficacia, una
volta esaurita, fa cessare anche l'esperienza. Immaginate di fare un sogno terrificante. Per svegliarvi
vi basta essere anche solo vagamente consapevoli di sognare. La scintilla può scaturire dal sogno
stesso. Se in sogno fate qualcosa di strano, capite che state dormendo. Il peyote e la mescalina
possono suscitare un'effimera comprensione, rivelando il potere della mente e dell'immaginazione.
Le allucinazioni ci aiutano a riconoscere temporaneamente fino a che punto le illusioni possono
essere tangibili e credibili. Ma queste sostanze non sono consigliabili, perché consentono solo
un'esperienza artificiale, che in realtà può nuocere al corpo. Invece dovremmo aspirare a un
risveglio definitivo, senza dipendere da uno stimolo esterno. È meglio quando la comprensione
proviene dall'interno. Abbiamo bisogno di risvegliarci dai nostri schemi abituali, come
l'immaginazione e l'avidità. Un addestramento della mente e la meditazione sono i metodi più
rapidi, più sicuri e più efficaci per agire dall'interno sul flusso dei pensieri. Come disse Siddharta:
“Sei il maestro di te stesso”.
Siddharta era perfettamente conscio che, nel mondo relativo, si può preparare una tazza di tè
oolong e sorseggiarla; non diceva: “Questo non è tè” oppure “Il tè è il vuoto”. Semmai, avrebbe
potuto suggerire che il tè non è quello che sembra ed è costituito da foglie essiccate infuse in acqua
bollente. Ci sono tuttavia appassionati di tè che si entusiasmano per queste foglioline, e preparano
miscugli speciali, inventando nomi altisonanti come Iron Dragon, di cui vendono piccole quantità
per centinaia di dollari. Per loro, non si tratta semplicemente di una foglia immersa nell'acqua. Per
questa ragione, circa millecinquecento anni dopo che Siddharta ebbe impartito il suo insegnamento,
uno dei suoi eredi dharma, di nome Tilopa, disse al suo allievo Naropa: “Non è l'apparenza che ti
vincola, ma l'attaccamento all'apparenza”.
Una volta, esisteva una bella monaca di nome Utpala. Un uomo s'innamorò pazzamente di lei
e cominciò a corteggiarla con insistenza. Le sue pressioni le creavano disagio e Utpala cercava di
evitarlo, ma lui era implacabile. Un giorno infine, con gran sorpresa dell'uomo, la monaca gli si
avvicinò e lo affrontò. Stentando a trovare le parole giuste, lui le dichiarò tutto d'un fiato che amava
i suoi occhi. Senza esitazione, la monaca se li tolse e glieli diede. Lo shock gli permise di capire con
quanta facilità ci si lascia coinvolgere e ossessionare dalle parti aggregate. Una volta superata la
violenta emozione e il raccapriccio iniziali, l'uomo diventò il suo discepolo.
In un'altra parabola buddhista giapponese, due monaci zen in viaggio si apprestavano a
guadare un fiume, quando una fanciulla chiese loro di essere portata oltre quella rapida corrente.
Entrambi i monaci avevano già preso i voti definitivi e non era loro consentito toccare una donna,
eppure senza esitazione il monaco più anziano la sollevò, se la mise sulla schiena e cominciò ad
attraversare il fiume. Quando raggiunsero la sponda opposta, fece scendere la donna, poi, senza
parlare, entrambi i monaci ripresero a camminare. Dopo qualche ora il monaco più giovane sbottò:
“Non siamo monaci? Perché ti sei preso in spalla quella donna?”.
Il monaco anziano rispose: “L'ho presa molto tempo fa. Perché tu la stai portando ancora
adesso?”.
In un momento di chiarezza, siamo in grado di vedere il vuoto dei concetti astratti come la
bellezza e la bruttezza – sono aperti a qualsia interpretazione, dopotutto – ma ci è molto più difficile
capire il vuoto di cose non astratte, come la macchina da riparare, le fatture da pagare, la cura
contro l'ipertensione, la famiglia che ci sostiene o che ha bisogno del nostro sostegno. È
comprensibile la nostra scarsa propensione o l'incapacità di considerare illusorie queste cose. È più
assurdo lasciarsi affascinare da futilità quali l'alta moda, la haute cuisine, il prestigio sociale o
l'appartenenza a club esclusivi. Molte persone sono così viziate che ritengono indispensabile avere
un televisore in ogni stanza o duecento paia di scarpe. Desiderare un paio di Nike o un completo di
Armani visto in una boutique alla moda trascende ampiamente l'impulso concreto alla
sopravvivenza. Nei negozi la gente arriva addirittura a contendersi delle borsette. I fenomeni
aggregati delle confezioni accattivanti e delle ricerche di mercato sono così complessi e ben studiati
che diventiamo dei cultori delle grandi marche e accettiamo prezzi esorbitanti, che non hanno
nessun rapporto con il valore reale.
Poiché la maggioranza della gente accorda valore a questi oggetti, è difficile che una fanatica
del marchio Louis Vuitton capisca la totale mancanza di significato della sua ossessione per una
borsetta di autentica pelle. Amplificati dalla cultura popolare, lo status borghese e le grandi marche
acquistano potere nelle nostre menti, rendendo sempre più artificiale il nostro universo.
Oltre a essere manipolati dai maniaci della pubblicità e dai prodigi del marketing, siamo
condizionati da sistemi politici come la democrazia e il comunismo, da concetti astratti, come i
diritti dell'individuo, e da posizioni morali, come la scelta antiabortista e l'eutanasia. L'universo
politico è costellato di queste etichette e le probabilità di avere leader politici sinceri sono quasi
ridotte a zero. Gli esseri umani hanno sperimentato diversi tipi di leadership, ognuna delle quali ha i
propri vantaggi, ma la gente in realtà continua a soffrire. Ci sono politici veramente integri, ma per
vincere le elezioni fingono di sostenere la causa gay oppure le si oppongono tenacemente, anche se
non hanno posizioni definite sull'argomento. Ci troviamo spesso ad assecondare involontariamente
le opinioni della maggioranza, perfino se si tratta di una posizione folle, soltanto per conformaci
alla società cosiddetta democratica.
Molto tempo fa, in un paese devastato dalla siccità, un veggente molto rispettato predisse che
dopo sette giorni finalmente sarebbe piovuto. La sua previsione si rivelò esatta e la gioia fu
immensa. Poi annunciò una pioggia di gioielli e l'avvenimento puntualmente si verificò. La gente
era ricca e felice. Predisse poi che dopo sette giorni sarebbe piovuto ancora, ma una pioggia
maledetta questa volta, e che chiunque avesse bevuto l'acqua piovana si sarebbe ammalato. Il re
ordinò di far ingenti provviste d'acqua non contaminata in modo che nessuno fosse obbligato a bere
l'acqua inquinata. I sudditi però non avevano i mezzi per far scorte d'acqua. Quando venne la
pioggia, la bevvero e impazzirono. Solo il re era rimasto “sano di mente”, ma non poteva più
governare il suo popolo impazzito e, come ultima risorsa, bevve l'acqua anche lui. Per poter
governare i suoi sudditi, doveva essere in grado di condividere il loro mondo illusorio.
Come al concorso di Miss Universo, quanto facciamo o pensiamo in questo mondo è basato
su un sistema molto limitato di logica condivisa. Diamo al consenso un'importanza eccessiva. Se la
maggioranza concorda sulla verità di un fenomeno, tale fenomeno in genere assume valore. Quando
guardiamo uno stagno, noi uomini vediamo solo uno stagno; per il pesce nello stagno si tratta
invece del suo universo. Assumendo una posizione democratica, i residenti acquatici vinceranno,
perché sono molto più numerosi di noi, che siamo gli osservatori dello stagno. Non sempre le regole
della maggioranza funzionano. Orribili film di cassetta fanno incassi straordinari, mentre uno
splendido film indipendente è guardato solo da uno sparuto gruppetto di spettatori. Per la
deplorevole fiducia nelle opinioni del gruppo, il mondo è spesso retto dai governanti più limitati e
corrotti: la democrazia, infatti, fa appello al minimo comune denominatore.
È difficile capire il vuoto per chi, come noi, ha la mente condizionata dal pragmatismo; ecco
perché la storia di Milarepa che trova rifugio nel corno dello yak è quasi sempre considerata una
favola. Non penetra nelle nostre menti limitate, così come l'oceano non può entrare in un pozzo.
C'era una volta una rana che viveva in una pozza d'acqua sorgiva. Un giorno incontrò una
rana dell'oceano, che le raccontò storie fantastiche sul suo ambiente oceanico e si vantò della sua
immensità. Ma la rana della sorgente non le credeva; pensava che la sua pozza fosse lo specchio
d'acqua più grande e più favoloso del mondo, perché non aveva altri punti di riferimento, nessuna
esperienza e nessuna ragiona di pensare altrimenti. Allora la rana oceanica portò la rana dello stagno
sulle rive dell'oceano. Di fronte a tanta immensità, la rana dello stagno morì per un attacco di cuore.
La presa di coscienza non è necessariamente letale. Non dobbiamo essere come la rana dello
stagno, capaci di morire per lo sgomento all'incontro con il vuoto. Se la rana dell'oceano avesse
dimostrato una maggiore compassione e una maggiore accortezza, sarebbe stata una guida migliore
e la rana dello stagno non sarebbe morta. Forse, alla fine, si sarebbe stabilita sull'oceano. Non ci
servono doni sovrannaturali per capire il vuoto. È una questione di formazione e una volontà di
guardare le cose considerandone le diverse componenti, le cause e le condizioni nascoste. In questo
modo è come andare al cinema con lo stesso spirito di uno scenografo o un cameraman. I
professionisti guardano ben oltre quel che si vede realmente. Capiscono com'è collocata la
cinepresa, sanno quali obiettivi e quali luci sono stati utilizzati, si rendono conto delle simulazioni
al computer e di tutte le altre tecniche cinematografiche di cui il pubblico non è consapevole: per
loro l'illusione svanisce. I professionisti tuttavia sono ancora in grado di divertirsi moltissimo
quando vanno al cinema. Questo è un esempio del senso dell'umorismo trascendente di Siddharta.
Il classico esempio buddhista di cui ci si serve per illustrare il vuoto è quello del serpente e
della corda. Immaginiamo un uomo di nome Jack con la fobia dei serpenti. Jack entra in una stanza
fiocamente illuminata, vede un serpente attorcigliato in un angolo ed è colto dal panico. In realtà
quello che vede è una cravatta a strisce di Armani, ma, nel suo irrazionale terrore, fraintende ciò che
vede al punto che potrebbe addirittura morire di paura – una morte provocata da un serpente che
non esiste realmente. Mentre è preda dell'impressione che il serpente esista davvero, il dolore e
l'angoscia che prova costituiscono quello che i buddhisti chiamano “samsara”, una sorta di trappola
mentale. Fortunatamente per Jack, la sua amica Jill entra nella stanza. Jill è calma e lucida e sa che
Jack è convinto di aver visto un serpente. Accende la luce e spiega che non c'è nessun serpente e
che si tratta solo di una cravatta. Quando Jack si convince di essere al sicuro, il sollievo è quello che
i buddhisti chiamano “nirvana” - liberazione e libertà. Il sollievo di Jack, tuttavia, è basato sulla
credenza errata di aver evitato il male, anche se non c'era nessun serpente e nulla che provocasse
dolore.
È importante capire che accendendo la luce e dimostrando che non c'è nessun serpente Jill
afferma anche che non esiste una “mancanza” del serpente. In altre parole, non può dire “il serpente
se n'è andato”., perché non c'è mai stato. Non ne ha provocato la scomparsa, esattamente come
Siddharta non ha creato il vuoto. Questo è il motivo per il quale Siddharta insisteva di non poter
eliminare la sofferenza altrui con un semplice cenno della mano. E neppure la liberazione poteva
essere data per scontata o condivisa poco per volta, come una sorta di ricompensa. L'unica cosa che
poteva fare era spiegare, in base alla sua esperienza, che non esiste affatto la sofferenza, il che
equivale ad accendere la luce al nostro posto.
Quando Jill trova jack paralizzato dal terrore, le si apre un ventaglio di possibilità. Potrebbe
dire esplicitamente che non ci sono serpenti oppure servirsi di un metodo astuto, come quello di
fingere di scortare il “serpente” fuori dalla stanza. Ma se Jack è così terrorizzato da essere incapace
di distinguere un serpente da una cravatta, anche con la luce accesa, e se Jill non agisce con cautela,
potrebbe solo peggiorare la situazione. Se gli facesse penzolare la cravatta davanti al viso, per
esempio, Jack potrebbe avere un attacco di cuore. Ma se si comporta con prudenza e capisce che
Jack è in preda a una fissazione, può dire: “Sì, vedo il serpente”, e portar via con precauzione la
cravatta dalla stanza, in modo che Jack si senta temporaneamente al sicuro. A quel punto forse,
Quando si è calmato, può essere condotto con circospezione davanti alla cravatta in modo che possa
vedere che non c'è mai stato alcun serpente.
Se Jack non fosse mai entrato nella stanza, se non si fosse mai creato un simile equivoco,
allora la situazione di vedere o meno il serpente sarebbe stata inesistente. Jack, invece, ha visto il
serpente ed è stato coinvolto dalla situazione: paralizzato per la paura, ha cercato una via di fuga.
Gli insegnamenti di Siddharta costituiscono un metodo per ottenere la liberazione da situazioni del
genere. A volte si parla del “dharma” come di un percorso “sacro”, anche se, a rigor di termini, nel
buddhismo non esiste divinità. Un percorso è un metodo, o uno strumento, che ci conduce da un
posto a un altro; in questo caso, il percorso ci porta dall'ignoranza all'assenza di ignoranza.
Utilizziamo la parola “sacro” o “venerabile”, perché la saggezza del dharma può liberarci dalla
paura e dalla sofferenza, facoltà che in genere è compito del divino.
La nostra esperienza quotidiana è colma di incertezze, gioie inattese, ansie ed emozioni, che si
avvolgono intorno a noi come un serpente. Speranze, paure, ambizioni e una diffusa isteria creano
quel buio e quelle ombre che rendono ancora più vivida l'illusione del serpente. Come il fobico
Jack, cerchiamo una via di scampo in tutti gli angoli della stanza buia. Il vero obiettivo
dell'insegnamento di Siddharta è quello di aiutare le creature pavide quali noi siamo a capire che la
sofferenza e le ossessioni sono basate su semplici illusioni.
Anche se Siddharta non poteva eliminare la sofferenza con un semplice gesto della mano o
con il potere divino, quando fu il momento di accendere la luce si dimostrò molto accorto. Suggerì
percorsi e metodi diversi per scoprire la verità e infatti all'interno della tradizione buddhista ci sono
decine di migliaia di sentieri da seguire. Allora perché non semplificarla con un unico metodo?
Come nel caso della molteplicità di farmaci necessari a curare le diverse malattie, esistono molti
metodi per arrivare al risveglio, ognuno dei quali si adatta ai diversi tipi di consuetudine, di cultura
e di atteggiamento. Decidere di sceglierne uno dipende dallo stato mentale del discepolo e
dall'abilità di cui dà prova il maestro. Invece di sconvolgere sin dall'inizio i suoi seguaci con l'idea
del vuoto, Siddharta insegnò loro dei metodi accessibili, come la meditazione, e dei precisi codici di
comportamento: “Fate la cosa giusta, non rubate, non dite bugie”. In base alla natura del discepolo,
prescrisse la rinuncia e l'austerità a diversi livelli, dalla semplice rasatura del capo a quello di
astenersi dalla carne. Norme rigorose e apparentemente religiose si adattano perfettamente a coloro
che, all'inizio, non sono in grado di ascoltare o capire il vuoto, come pure a coloro la cui natura è
conforme all'ascetismo.
Alcune persone pensano che regole rigorose e azioni virtuose costituiscano l'essenza del
buddhismo, in realtà sono un aspetto infimo dei numerosi metodi di saggezza proposti da Buddha.
Egli sapeva che non tutti sono in grado di capire le verità ultime sin dall'inizio. A prescindere dal
concetto di vuoto, per molti di noi è difficile elaborare idee come “l'inferno è semplicemente la
percezione della propria aggressività”. Buddha non vorrebbe che Jack fosse irretito in un suo
“inferno” personale, ma non può nemmeno proporgli di elaborare le proprie percezioni e la propria
aggressività, perché, per di più, Jack è ignorante. Per amore di jack, Buddha insegna che esiste un
inferno esterno a noi e che, per evitare di precipitarvi e di bruciare nel ferro fuso, egli deve smettere
di lasciarsi coinvolgere da azioni ed emozioni negative e non virtuose. Questo genere di
insegnamento pervade tutto il pensiero buddhista; molto spesso vediamo dipinti sulle pareti dei
templi buddhisti i regni dell'inferno, brulicanti di corpi in fiamme e di strapiombi terrificanti colmi
di acqua ghiacciata. Queste immagini possono essere prese alla lettera o in modo figurato, a
seconda della capacità del discepolo. Coloro che possiedono attitudini superiori sanno che la fonte
dell'inferno quotidiano e del dolore è rappresentata dalle nostre percezioni. Sanno che non esiste il
giorno del giudizio e che non c'è un giudice. Quando Milarepa apparve nel corno dello yak,
Rechungpa era già sulla strada per diventare a sua volta un grande maestro. A livello intellettuale,
possedeva un'enorme capacità di capire il vuoto e aveva sufficiente intuizione per vedere realmente
Milarepa nel corno dello yak; ma la sua comprensione si bloccò nel momento in cui avrebbe dovuto
essere in grado di raggiungere il maestro. L'obbiettivo finale di Buddha è quello di far capire a Jack,
e a questi discepoli di livello superiore, che non esiste altro regno degli inferi oltre la loro
aggressività e la loro ignoranza. Riuscendo a ridimensionare temporaneamente le sue azioni
negative, Jack evita un coinvolgimento più profondo nelle percezioni, apprensioni e ossessioni che
lo tormentano.
In una discussione con il suo discepolo Subhuti, Siddharta disse: “Chi vede Buddha come una
forma e chi ascolta Buddha come un suono, ha un'opinione sbagliata”. Quattrocento anni dopo, il
grande studioso indiano buddhista Nagarjuna si disse d'accordo. Nel suo famoso trattato sulla
filosofia buddhista, dedicò un intero capitolo ad “analizzare il Buddha” e concluse che in definitiva
non c'è un Buddha che esiste esteriormente. Ancora oggi non sono inconsueti detti buddhisti, come:
“Se incontri Buddha sul tuo cammino, uccidilo”, che evidentemente è da intendere in senso
figurato. È ovvio che non lo si potrebbe uccidere. Significa invece che il Buddha reale non è un
redentore che esiste esteriormente, vincolato al tempo e allo spazio. D'altra parte, è comparso su
questa Terra un uomo di nome Siddharta, conosciuto poi come Gautama Buddha, che camminava a
piedi nudi per le strade di Magadha Chiedendo l'elemosina. Questo Buddha teneva sermoni, curava
gli ammalati e andava perfino a far visita alla sua famiglia a Kapilavastu. La ragione per cui i
buddhisti non contestano l'esistenza di questo Buddha fisico che ha vissuto nel quinto secolo a.C. In
India – e non nell'attuale Croazia, per esempio – è dovuta al fatto che abbiamo testimonianze
storiche che attestano che egli ha rappresentato per secoli la fonte di ispirazione in India. Era un
grande maestro, il primo di una lunga serie di maestri e discepoli colti. Nient'altro. Ma per chi
s'incammina seriamente sulla strada della ricerca, l'ispirazione è tutto.
Siddharta si serviva di molti metodi ingegnosi per risvegliare l'ispirazione nella gente. Un
giorno un monaco notò uno strappo sulla tunica di Gautama Buddha e si propose di cucirlo, ma
Buddha rifiutò la sua offerta. Continuò a camminare e a chiedere l'elemosina con la tunica
strappata. Quando poi bussò alla porta di una donna indigente, il monaco rimase sconcertato perché
sapeva che essa non aveva alcun obolo da porgergli. Quando vide la sua tunica strappata, la donna
si offrì di rammendarla con un piccolo spago. Siddharta accettò e dichiarò che la sua virtù le
avrebbe permesso di rinascere nella prossima vita come regina dei cieli. Molte persone, ascoltando
questa parabola, trovarono l'ispirazione a compiere a loro volta atti di generosità.
In un'altra parabola, Siddharta ammonì un macellaio dicendogli che uccidere avrebbe
generato un karma negativo. Il macellaio ribatté: “È tutto ciò che so fare, è il mio mezzo di
sussistenza”. Siddharta lo esortò a fare almeno il voto di non uccidere dal tramonto all'alba. Non gli
diede il permesso di uccidere durante il giorno, ma lo guidò gradualmente a ridurre le sue azioni
malsane. Questi sono esempi dei metodi accorti di cui si serviva Buddha per insegnare il dharma.
Non disse che la povera donna sarebbe andata in paradiso perché aveva rammendato la sua tunica,
come se lui fosse divino. Era la generosità della donna all'origine della sua buona sorte.
Forse penserete che si tratti di un paradosso. Buddha si contraddice: prima afferma che lui
stesso non esiste, che ogni cosa è vuoto e poi insegna la morale e la redenzione. Ma questi sono i
metodi necessari a non sgomentare le persone ancora impreparate ad affrontare il vuoto. In questo
modo, si tranquillizzano e si preparano al vero insegnamento. In un certo senso, equivale a dire che
c'è il serpente e a buttare la cravatta dalla finestra. Questi molteplici metodi costituiscono il
cammino. Tuttavia, il percorso in sé alla fine deve essere abbandonato, proprio come si abbandona
una barca quando si raggiunge la sponda opposta. Una volta arrivati, dovete sbarcare. Nel momento
della comprensione assoluta, dovete abbandonare il buddhismo. Il percorso spirituale è una
soluzione temporanea, un placebo, che deve essere utilizzato finché il vuoto non è compreso.
Poiché aveva compreso il vuoto, per Siddharta era indifferente rimanere sdraiato sull'erba
kusha sotto l'albero bodhi oppure sui cuscini di seta del palazzo. Il pensiero che i cuscini intessuti
d'oro valgano di più nasce solo dall'ambizione e dal desiderio degli uomini. In realtà, un eremita di
montagna può trovare l'erba kusha molto più morbida e pulita e considerarla il giaciglio migliore,
senza doversi preoccupare che si consumi. Non avete bisogno di spruzzarle un liquido repellente
per impedire ai gatti di farsi le unghie. La vita di corte è ricolma di “oggetti preziosi”, che rendono
necessaria una manutenzione. Se fosse stato obbligato a fare una scelta, Siddharta avrebbe scelto lo
stuoino di erba per non doversene occupare.
Noi uomini consideriamo la larghezza di vedute una virtù. Per ampliare la mente è importante
non accontentarsi di comodità e abitudini. Bisogna avere il coraggio di andare oltre le norme e di
non rimanere bloccati alle comuni frontiere della logica. Se riusciamo a superare questi confini,
capiremo che il vuoto è davvero molto semplice. Il fatto che Milarepa abbia trovato rifugio dentro il
corno di yak non dovrebbe sorprenderci più di quanto ci sorprenda una persona che indossa un paio
di guanti. È necessario sfidare l'attaccamento alla vecchia logica, alla grammatica, all'alfabeto e alle
equazioni numeriche. Se ci ricordiamo della natura composita di queste consuetudini, simo in grado
di superarle. Non è impossibile mandarle in frantumi. Tutto ciò che serve è una situazione in cui le
condizioni siano quelle giuste e in cui venga fornito l'elemento opportuno di informazione;
improvvisamente capirete che tutti gli strumenti su cui vi basate non sono così rigidi ma elastici e
adattabili. Il vostro punto di vista può cambiare. Se qualcuno di cui vi fidate vi dice che vostra
moglie, per la quale in tutti questi anni avete provato risentimento, in realtà è una dea di bellezza
sotto mentite spoglie, cambierà il modo in cui la guarderete. Analogamente, se state assaporando
una deliziosa bistecca guarnita di ogni sorta di salse in un bel ristorante e vi gustate ogni boccone, e
lo chef vi dice che in realtà si tratta di carne umana, l'esperienza improvvisamente si capovolgerà.
La sensazione di delizia si trasformerà in disgusto.
Quando vi svegliate dal sogno dei cinque elefanti, non è la loro ipotetica irruzione nella stanza
a sconcentrarvi, perché non esistevano né prima, né durante o dopo il sogno. Mentre li sognate,
invece, sono assolutamente reali. Un giorno capiremo, non solo a livello intellettuale, che i concetti
come “grande” e “piccolo”, “guadagno” o “perdita”, non esistono e che tutto è relativo. Allora
saremo in grado di entrare nel corno di yak e che un tiranno come il re Ashoka si è inchinato e
sottomesso a questa verità.
4.
Il nirvana trascende ogni concetto
Molti di noi credono che il risultato finale del percorso spirituale si raggiunga solo dopo il
termine di questa vita. L'ambiente fisico e i corpi, impuri, ci bloccano e, per una perfetta riuscita,
dobbiamo morire. Solo dopo la morte sperimenteremo lo stato divino o illuminato. Quindi la cosa
migliore che possiamo fare in questa vita è prepararci; ciò che facciamo ora determinerà l'accesso in
paradiso o all'inferno. Alcune persone hanno già perso la speranza. Hanno la sensazione di essere
intrinsecamente cattive o malvagie e di non meritare il paradiso: sono predestinate agli inferi. Allo
stesso modo molti buddhisti intellettualmente sanno che tutti hanno lo stesso potenziale e la stessa
natura di Gautama Buddha, ma a livello emotivo sentono di non avere le qualità o le capacità di
raggiungere le porte del paradiso o l'illuminazione. Per lo meno, non in questa vita.
Secondo Siddharta, il luogo di definitivo riposo, il paradiso o il nirvana, non è affatto un
luogo: è il sollievo dalla costrizione dell'illusione. Se pretendete che venga specificato un luogo
fisico, può essere benissimo quello dove siete seduti in questo momento. Per Siddharta, era la
superficie di una pietra piatta e un po' di erba kusha essiccata sotto un albero bodhi nello stato
indiano di Bihar. Nessuno, neppure oggi, può visitare questa località fisica. La versione di Siddharta
della libertà è non-esclusiva. Può essere raggiunta in questa vita, grazie al coraggio, alla saggezza e
all'impegno dell'individuo. Non c'è nessuno che non abbia questo potenziale, comprese le creature
intrappolate nel regno degli inferi.
Lo scopo di Siddharta non era essere felice. Il suo percorso non conduce alla felicità. Si tratta
invece di una strada diretta verso la liberazione dalla sofferenza, verso la libertà dall'illusione e dalla
confusione. Il nirvana, quindi, non è né felicità né infelicità, esso trascende questi concetti
dualistici. Il nirvana è pace. Lo scopo di Siddharta nell'insegnare il dharma è liberare
completamente le persone come Jack, che hanno paura dei serpenti. Ciò significa che Jack deve
andare oltre il momentaneo sollievo in cui capisce che non è assediato da un serpente, e
comprendere che non c'è mai stato un serpente, solo una cravatta di Armani. In altre parole, lo
scopo di Siddharta è di alleviare la sofferenza di Jack e poi aiutarlo a capire che non c'è una causa di
sofferenza che esiste intrinsecamente.
Potremmo dire che il semplice fatto di capire la verità permette di raggiungere l'illuminazione.
Nella misura in cui comprendiamo la verità, possiamo progredire attraverso gli stadi
dell'illuminazione, chiamati “livelli bodhisattva”. Quando un bambino a teatro è terrorizzato da un
terribile mostro, se gli si presenta l'attore senza il costume di scena la sua paura sarà mitigata.
Grazie alla capacità di guardare oltre i fenomeni e di comprendere la verità, si raggiunge la libertà.
Perfino se l'attore si limita a togliersi la maschera, la paura diminuisce. Così, se si comprende anche
solo parzialmente la verità, vi è uno stato di liberazione equivalente.
Uno scultore può creare una bellissima donna di marmo, ma dovrebbe avere la saggezza di
evitare di innamorarsi della sua creatura. Come Pigmalione con la sua statua di Galatea, ci creiamo
amici e nemici, ma poi dimentichiamo di esserceli creati da soli. Per mancanza di attenzione, le
nostre creature diventano qualcosa di solido e reale e ci lasciamo coinvolgere a livelli sempre più
profondi. Se capite davvero, non solo a livello intellettuale, che ogni cosa è semplicemente una
vostra creazione, sarete liberi.
Anche se la felicità è considerata un semplice concetto, i testi buddhisti utilizzano ancora
termini quali “perfetta beatitudine” per descrivere l'illuminazione. Il nirvana può quindi essere
inteso come uno stato gioioso, poiché senza confusione né ignoranza, senza felicità né infelicità, c'è
beatitudine. Ancora meglio sarebbe capire che la fonte della confusione e dell'ignoranza, per
esempio il serpente, non è mai esistita. Quando vi risvegliate da un incubo, provate un profondo
sollievo. La beatitudine sarebbe invece non aver mai sognato. La beatitudine, in tal senso, non
equivale alla felicità. Ai suoi discepoli che si applicavano seriamente per liberarsi dal samsara,
Siddharta sottolineava la futilità di ogni ricerca della pace e della felicità, in questo mondo o
nell'aldilà.
La storia di Nanda illustra fino a che punto siamo irretiti dalle soddisfazioni e dai piaceri.
Come Nanda, non ci pensiamo due volte a tralasciare un piacere, quando se ne presenta uno
migliore all'orizzonte. La scimmia con un occhio solo aveva confermato a Nanda la suprema
bellezza della moglie, ma non aveva esitato ad abbandonarla alla visita delle dee. Se l'illuminazione
fosse mera felicità, quando si profila qualcosa di più allettante potrebbe facilmente venire scartata.
La felicità è una bel labile premessa su cui basare la propria vita.
Noi uomini abbiamo la tendenza a raffigurarci una creatura illuminata partendo dal nostro
contesto mentale. È più facile immaginarcela persa in vaghe lontananze, piuttosto che qui davanti a
noi, che vive e respira, perché, nelle nostre menti, un essere simile deve essere spettacolare, con
caratteristiche e talenti superiori, a cui si aggiungono le migliori qualità squisitamente umane.
Alcuni di noi pensano di poter raggiungere l'illuminazione mettendocela tutta. Ma con un'immagine
mentale tanto elevata, “mettercela tutta” probabilmente significa continuare a esercitarsi e a
sacrificare ogni sorta di piacere per la durata di milioni di vite. Questi pensieri nascono quando ci
prendiamo la pena di pensarci, ma il più delle volte questo non accade. È troppo faticoso. Quando ci
accorgiamo della difficoltà di sbarazzarci delle nostre vecchie abitudini mondane, l'illuminazione
sembra davvero irraggiungibile. Se non riesco nemmeno a smettere di fumare, come posso pensare
di eliminare abitudini come la passione, la rabbia o il rifiuto? Molti pensano di designare un
redentore o guru, che compia la purificazione in vece loro, perché non credono di poterci riuscire da
soli. Questo pessimismo diventa inutile, se sappiamo abbastanza sulla verità dell'interdipendenza e
possediamo un po' di disciplina per applicarla.
Come si può individuare la natura buddha fra tanta ignoranza, oscurità e confusione? Il primo
segno di speranza dei marinai dispersi in mare è quello di scorgere un raggio di luce che scintilla
nell'oscurità tempestosa. Navigando in quella direzione, i marinai vanno verso la fonte della luce,
verso il faro. Amore e compassione sono come la luce che emana dalla natura buddha. In un primo
tempo, la natura buddha è un semplice concetto che va oltre la nostra portata, ma, generando amore
e compassione, alla fine riusciamo ad avvicinarci. È arduo scorgere la natura buddha in chi è perso
nel buio dell'avidità, dell'odio e dell'ignoranza. La natura buddha è così lontana che la crediamo
inesistente. Ma perfino nelle persone più sinistre e violente ci sono lampi di amore e compassione,
per quanto rapidi e fiochi. Se si colgono questi rari bagliori e s'investe energia per andare nella
direzione della luce, la loro natura buddha può essere rivelata.
Per questa ragione, amore e compassione sono considerati il sentiero più sicuro per
raggiungere l'assenza totale di ignoranza. Il primo atto di compassione di Siddharta avvenne durante
un'incarnazione precedente in un luogo improbabile – non come bodhisattva, ma come residente del
regno degli inferi, dove si era ritrovato in conseguenza di un cattivo karma. Era costretto a
trascinare un carro tra le fiamme con un suo compagno di sventura, incalzati entrambi da un capo
demone che li frustava senza pietà. Siddharta era sufficientemente vigoroso, ma il suo compagno
era molto debole e questa sua fragilità lo rendeva, sadicamente, il bersaglio preferito.
La vista del compagno frustato provocò in Siddharta uno spasimo di compassione. Egli
implorò il demone: “Per favore, liberalo, lascia che porti io il peso per due”. Adirato, il demone lo
colpì con violenza alla testa e Siddharta morì, per incarnarsi poi in un regno superiore. La scintilla
di compassione nel momento della morte continuò a crescere e a diventare più brillante nelle
successive reincarnazioni.
Oltre all'amore e alla compassione, esistono miriadi di possibili percorsi per consentirci di
capire meglio la natura buddha. Pur comprendendo solo a livello intellettuale la nostra
fondamentale bontà e quella di tutte le creature, tale comprensione ci avvicina al compimento. È
come se non riuscissimo a trovare un prezioso anello di diamanti, per poi ricordare alla fine che è al
sicuro nel nostro scrigno dei gioielli, che non è stato smarrito in qualche sconfinata regione
montuosa.
Anche se utilizziamo parole come “realizzare”, “desiderare” e “pregare”, l'illuminazione non
è raggiungibile tramite una fonte esterna. Un modo più corretto di presentarla è scoprire che
l'illuminazione è sempre stata presente, che è parte della nostra vera natura. La nostra vera natura è
come una statua d'oro, appena plasmata nello stampo, che rappresenta le contaminazioni e
l'ignoranza. Poiché l'ignoranza e le emozioni non sono una parte intrinseca della nostra natura,
come lo stampo non è parte della statua, esiste qualcosa che è purezza primordiale. Quando lo
stampo viene infranto, appare la statua. Quando sono eliminate le nostre contaminazioni, si rivela la
nostra vera natura buddha. È importante capire, tuttavia, che la natura buddha non è un'anima o
un'essenza divina realmente esistente.
Potremmo chiederci: Cos'è l'illuminazione se non è felicità o infelicità? Come può presentarsi
e funzionare? In che cosa consiste scoprire la nostra natura buddha?
Nei testi buddhisti, quando sono poste queste domande, la risposta suggerisce che
l'illuminazione è qualcosa di inesprimibile, che va oltre le nostre concezioni. Molti la fraintendono,
come fosse un'astuzia per evitare di rispondere alla domanda. In realtà questa è la risposta. La
logica, il linguaggio e i simboli che possediamo sono molto limitati, non possiamo neppure
esprimere qualcosa di terribilmente terreno come il senso di sollievo; le parole sono inadeguate a
trasmettere pienamente l'esperienza globale del sollievo provato dal prossimo. Se perfino i fisici
quantistici hanno difficoltà a trovare le parole per esprimere le loro teorie, come possiamo aspettarci
di trovare il vocabolario adatto all'illuminazione? Nella nostra vita corrente e quotidiana, in cui è
utilizzata solo una quantità limitata di logica e di linguaggio e in cui le emozioni continuano a far
presa su di noi, possiamo solo immaginare cosa significhi essere illuminati. A volte, tuttavia, con
l'impegno e con la logica deduttiva, possiamo raggiungere una buona approssimazione: quando
vedete il fumo dalla cima di una montagna, per esempio, potete dedurre che si tratta di fuoco.
Servendoci di quello che abbiamo, possiamo iniziare a capire e ad accettare che i punti oscuri sono
dovuti a cause e condizioni ben precise, che possono essere manipolate e infine purificate.
Raffigurarsi l'assenza di emozioni contaminate e di negatività è il primo passo per capire la natura
dell'illuminazione.
Immaginate di avere mal di testa. Il vostro desiderio immediato è quello di provare sollievo. È
un desiderio legittimo, perché siete in grado di riconoscere che il mal di testa non è parte del vostro
essere innato. Cercate poi di capire ciò che lo ha provocato – mancanza di sonno, per esempio. Poi
prendete il farmaco adatto contro il mal di testa, per esempio un'aspirina, oppure vi concedete un
sonnellino.
Nel suo primo sermone, a Varanasi, Siddharta insegnò i quattro stadi seguenti, noti come le
quattro nobili verità: conosci la sofferenza, abbandonane le cause, segui il percorso che porta alla
sua cessazione, sappi che la sofferenza può avere un termine. Alcuni potrebbero chiedersi perché
Siddharta volle precisare “Conosci la sofferenza”. Non siamo forse abbastanza intelligenti da capire
quando soffriamo? Purtroppo solo quando il dolore è all'apice lo riconosciamo come tale. È difficile
convincere qualcuno che assapora spensierato un cono gelato che sta soffrendo. Egli ricorda poi le
raccomandazioni del medico, che gli ha consigliato di diminuire il livello di colesterolo e di perdere
peso. Analizzando più da vicino questo piacere apparente, da quando il nostro amico ha cominciato
a desiderare un gelato sino al progressivo insinuarsi di preoccupazioni per il grasso e per il
colesterolo, vi accorgerete che si tratta di un periodo di tempo caratterizzato dall'ansia.
È facile accettare che le emozioni, come la rabbia, possano essere frenate con il giusto
accorgimento magari soltanto per un pomeriggio, ma è difficile immaginare che un'emozione possa
scomparire per sempre. Possiamo raffigurarci una persona calma e tranquilla, capace di controllare
in parte la sua collera, ma è necessario fare un ulteriore progresso e immaginare qualcuno che l'ha
eliminata in modo definitivo. Come si comporta chi è in grado di superare tutte le emozioni? Il
fedele incondizionato può figurarsi una qualche docile creatura, forse seduta su una nuvola a gambe
incrociate. Gli scettici, tuttavia, pensano che una persona di questo tipo viva come un vegetale,
insensibile e intorpidita... se mai esista davvero.
Anche se lo stato di illuminazione è inesprimibile e gli esseri illuminati non possono essere
concepiti da una mente normale, possiamo continuare a chiederci: “Chi era Siddharta? Cos'ha fatto
di così sorprendente e straordinario? Quali meravigliose prodezze ha compiuto?”. Nel buddhismo,
un essere illuminato non è giudicato per i suoi poteri sovrannaturali, come il fatto di volare, o per i
suoi attributi fisici, come un terzo occhio. Spesso Buddha è descritto come una creatura serena, dai
colori dorati, con mani delicate e un portamento regale, ma questi ritratti fanno presa soprattutto su
ingenui contadinotti e persone come Jack. Nei testi buddhisti rigorosi, le capacità di Buddha di
volare e di compiere magie non sono contemplate. In realtà, più volte nella dottrina di base si
consiglia ai seguaci di Buddha di non lasciarsi impressionare da questi aspetti illogici. Anche se
simili talenti non sono da escludere, non furono mai considerati le sue imprese supreme. La sua vera
grande opera fu la comprensione della verità, la quale ci libera dalla sofferenza una volta per tutte.
Questo è il miracolo. Buddha sperimentò la vecchiaia, la malattia e la morte proprio come noi, ma
riuscì a trovarne le cause che ne costituiscono il fondamento; e anche questo è un miracolo. Capire
che tutte le cose composite sono impermanenti fu la sua splendida vittoria. Invece di trionfare su un
nemico esterno, scoprì che il vero nemico è il nostro attaccamento all'Io; neutralizzare questo
attaccamento all'Io è un'impresa ben superiore a tutti i miracoli sovrannaturali, reali o immaginati.
Gli scienziati moderni si attribuiscono il merito di aver scoperto che il tempo e lo spazio sono
relativi, eppure Siddharta giunse alla stessa conclusione ben duemilacinquecento anni fa, senza
assegni di ricerca – e laboratori scientifici e anche questo è un miracolo. A differenza di molti dei
suoi contemporanei (e di molti di noi oggi) convinti che la libertà dipende dalla benevolenza altrui,
Siddharta scoprì che ogni essere umano è costituito da una natura pura. Grazie a questa conoscenza,
tutti gli esseri umani hanno il potere di liberarsi. Invece di ritirarsi in una vita di contemplazione,
Buddha trovò la compassione necessaria a condividere, con tutte le creature, le sue scoperte
straordinariamente innovative, indipendentemente dalla difficoltà di insegnarle e farle capire. Indicò
un sentiero, proponendo decine di migliaia di metodi, dai più semplici, come offrire incenso, stare
seduti con la schiena eretta e concentrasi sulla respirazione ai più complicati, come le
visualizzazioni e le meditazioni complesse. Fu questo il suo straordinario potere.
I vantaggi di andare oltre lo spazio e il temporanea
Le qualità di Buddha sono inesprimibili. Sono come il cielo, che non ha fine nello spazio. Il
nostro linguaggio e le nostre capacità analitiche non vanno oltre il concetto di universo. A un certo
punto, un uccello che vola sempre più in alto per raggiungere l'estremità del cielo toccherà i suoi
limiti e dovrà ritornare sulla Terra.
La migliore metafora per la nostra esperienza in questo mondo è quella di un sogno epico,
composto di innumerevoli storie che si intersecano, di alti e bassi, di drammi e colpi di scena. Se un
episodio del sogno brulica di diavoli e di mostri, speriamo di scappare. Siamo molto sollevati,
quando apriamo gli occhi e vediamo il ventilatore che gira sul soffitto. Per il piacere della
conversazione, raccontiamo: “Ho sognato il diavolo che m'inseguiva”, e ci conforta l'esser sfuggiti
alle sue grinfie. Ma non è il diavolo che se n'è andato. Il diavolo non è mai entrato nella nostra
stanza durante la notte, e mentre vivevamo con lui quella terribile esperienza non era affatto
presente. Quando vi risvegliate in uno stato d'illuminazione, non siete mai stati esseri senzienti, non
avete mai lottato. Da questo momento in poi, non dovete stare in guardia contro il ritorno del
diavolo. Quando raggiungete l'illuminazione, non potete ripensare a quando eravate creature
ignoranti. Non è più necessaria nessuna meditazione. Non c'è nulla da ricordare, perché non avete
dimenticato nulla.
Come Buddha disse nella Prajnaparamita Sutra, tutti i fenomeni sono come un sogno e
un'illusione, perfino l'illuminazione è come un sogno e un'illusione. Se ci fosse qualcosa di
superiore o di più importante dell'illuminazione, anche questo sarebbe come un sogno e un'illusione.
Il suo discepolo, il grande Nagarjuna, scrisse che Buddha non disse mai che dopo l'abbandono del
samsara esiste il nirvana. Il nirvana è la non esistenza del samsara. Un coltello si affila in
conseguenza del consumo di due oggetti: quello della cote e quello del metallo. Analogamente,
l'illuminazione è il risultato del consumo delle contaminazioni e dell'antidoto delle contaminazioni.
Alla fine, si deve abbandonare il sentiero verso l'illuminazione. Se continuate a definirvi buddhisti,
non lo siete affatto.
Conclusione
In questa nostra epoca ci sono persone che mescolano religioni diverse, in una sorta di
sincretismo, per adattarle alla loro situazione individuale. Nel tentativo di non essere settarie, queste
persone interpretano i concetti cristiani alla luce del buddhismo o trovano analogie tra il buddhismo
e il sufismo, o tra lo zen e il mondo della finanza. Naturalmente si possono sempre trovare sottili
somiglianze tra due fenomeni esistenti, ma non credo che questi paragoni siano necessari. Anche se
tutte le religioni hanno come punto di base un obiettivo filantropico in qualche modo comune – in
genere il conforto alla sofferenza – ci sono differenze fondamentali. Le religioni sono come i
farmaci e, come tali, destinate a lenire la sofferenza, ma variano in base al paziente e alla malattia.
Se siete vittima di un avvelenamento da anacardio nordamericano, il trattamento adatto è la lozione
di calamina. Se soffrite di leucemia, non servirà a nulla trovare analogie tra la lozione di calamina e
la chemioterapia per giustificare l'assunzione di calamina, molto più accessibile. Allo stesso modo,
non c'è alcun bisogno di confondere le religioni.
In queste pagine ho intrapreso una rapida analisi dei fondamenti della concezione buddhista.
In tutte le religioni l'idea è la base della pratica, perché dall'idea scaturiscono motivazioni e azioni.
È anche vero che “le apparenze possono essere deludenti”. Non possiamo giudicare il nostro vicino
di casa semplicemente dal modo in cui si presenta. Con la stessa ovvietà, non possiamo giudicare
qualcosa di così personale come la religione in base all'apparenza superficiale. Non possiamo
neppure giudicare le religioni dalle azioni, dall'etica, dalla morale o dai codici di comportamento
che prescrivono.
Tutti i diversi approcci del buddhismo possono essere spiegati con i quattro sigilli – tutti i
fenomeni compositi sono impermanenti, tutte le emozioni sono dolore, tutte le cose sono prive di
esistenza intrinseca e l'illuminazione trascende ogni concetto. Ogni azione e comportamento,
incoraggiati dalle scritture buddhiste, sono basati su queste quattro verità o sigilli.
Nei sutra Mahayana, Buddha consiglia ai suoi seguaci di non mangiare carne. Non solo non è
virtuoso nuocere a un altro essere vivente, ma l'atto di mangiare carne non si accorda ai quattro
sigilli. Infatti, se mangiate carne, a un certo livello lo fate per sopravvivere, per sostenervi. La
volontà di sopravvivere corrisponde a un desiderio di permanenza: vivere più a lungo a spese della
vita di un altro essere vivente. Se mangiando un pezzo del corpo di un animale volete assolutamente
garantirvi un prolungamento della vita allora, da un punto di vista strettamente egoistico, ci sono
ragioni per farlo. Tuttavia, indipendentemente dalla qualità di cadaveri di animali di cui vi siete
cibati, morirete lo stesso un giorno o l'altro.
Si può anche nutrirsi di carne per ragioni squisitamente borghesi o assaporare il caviale
perché è esotico, mangiare il pene di tigre per potenziare la virilità, consumare nidi di uccello bolliti
per mantenere una pelle giovane. Non esiste comportamento più egoistico: per la vostra vanità una
vita viene estinta. Capovolgendo la situazione, noi uomini non siamo neppure capaci di sopportare
la puntura di una zanzara, ma immaginate di essere rinchiusi in gabbie sovraffollate, con il becco
chiuso, in attesa di essere macellati, oppure confinati in un recinto per essere ingrassati e diventare
poi degli hamburger umani.
Pensare che la vostra vanità sia degna della vita altrui significa attaccarsi all'Io.
L'attaccamento all'Io è ignoranza; e come abbiamo visto l'ignoranza conduce al dolore. Nel caso di
mangiare carne provoca anche il dolore altrui. Per questa ragione, i sutra Mahayana consigliano la
pratica di mettersi al posto di queste creature e di astenersi dal mangiare carne per compassione.
Quando Buddha vietò il consumo di carne, intendeva tutte le carni. Non scelse la carne di bue per
ragioni sentimentali, o quella di maiale perché impura, né disse che si può mangiare il pesce perché
è privo di anima.
La splendida logica dei quattro sigilli
Nel buddhismo, qualsiasi azione riconosca o migliori le quattro verità è un percorso giusto.
Perfino le pratiche in apparenza rituali, come accendere incenso, dedicarsi a meditazioni esoteriche
e recitare mantra, sono destinate ad aiutarci a concentrare l'attenzione su una o su tutte le verità.
Qualsiasi cosa contraddica le quattro verità, comprese talune azioni apparentemente
caritatevoli e compassionevoli, non fa parte di questo cammino. Perfino la meditazione sul vuoto
diventa pura negazione, null'altro che un percorso nichilistico, se non avviene in armonia con le
quattro verità.
Per amor di semplicità possiamo dire che le quattro verità sono la spina dorsale del
buddhismo. Le chiamiamo “verità” perché sono semplicemente dei fatti. Non sono fabbricate, non
sono una rivelazione mistica del Buddha. Non hanno acquistato valore solo dopo che Buddha ha
iniziato a insegnarle. Vivere in conformità di questi principi non è un rituale o una tecnica. Non li si
può definire morali o etici e non si può apporre loro un marchio o possederli. Non ci sono elementi
come “infedele” o “blasfemo” nel buddhismo, perché non c'è nessuno da imprecare, nessuno in cui
credere e di cui dubitare. Tuttavia, chi non ha consapevolezza o non crede in questi quattro fatti per
i buddhisti è ignorante. Quest'ignoranza non legittima tuttavia il giudizio morale. Uno scienziato
considererebbe ignorante, non blasfemo, che non crede che gli uomini siano atterrati sulla luna, o
pensa che la Terra sia piatta. Analogamente, chi non crede nei quattro sigilli non è un infedele. Se
qualcuno dovesse dimostrare che la logica dei quattro sigilli è fallace, che l'attaccamento all'Io non
provoca dolore e che esiste anche solo un elemento che sfida l'impermanenza, i buddhisti
continuerebbero comunque di buon grado a seguire il loro percorso: infatti quel che cerchiamo è
l'illuminazione, e illuminazione significa comprensione della verità.
Se ignorate i quattro sigilli, ma insistete nel ritenervi buddhisti semplicemente perché siete
innamorati delle tradizioni, la vostra è una devozione superficiale. I maestri buddhisti credono che
per quanto scegliate di definirvi tale se non avete fede in queste verità, continuerete a vivere in un
mondo illusorio, convinti invece che sia solido e reale. Anche se questo genere di credenza offre
temporaneamente la beatitudine dell'ignoranza, alla fine conduce sempre a una qualche forma di
angoscia. Allora passerete il tempo a tentare di risolvere problemi e a cercare di sbarazzarvi
dall'angoscia. Il vostro continuo bisogno di risolvere problemi diventerà una forma di dipendenza.
Quanti problemi dovete risolvere per poi vederne altri che si profilano all'orizzonte? Se siete felici
di questo ciclo, allora non c'è motivo di lamentarvi. Se invece intuite che non giungerete mai alla
fine della risoluzione dei problemi, sarà l'inizio della ricerca della verità interiore. Anche se il
buddhismo non è la risposta a tutti i problemi temporali e a tutte le ingiustizie sociali di questa
Terra, se cominciate la ricerca ed entrate in contatto con Siddharta, queste verità vi sembreranno
piacevoli. Se è così, dovrete prendere in considerazione l'idea di seguirlo seriamente.
Come seguace di Siddharta, non dovete necessariamente emulare ogni sua azione – non c'è
bisogno che ve ne andiate di nascosto mentre vostra moglie dorme. Molte persone pensano che il
buddhismo sia sinonimo di rinuncia, che sia necessario abbandonare la propria casa, la famiglia e il
lavoro e seguire la strada dell'ascetismo. In parte quest'immagine di austerità è dovuta al fatto che
molti buddhisti venerano i mendicanti delle dottrine dei testi buddhisti, come i cristiani ammirano
san Francesco d'Assisi. Non possiamo impedirci di essere commossi dall'immagine di Buddha che
cammina a piedi nudi a Magadha con la sua ciotola per gli oboli, o da quella di Milarepa che
sopravvive nella sua grotta con una semplice minestra di ortiche. La serenità di un semplice monaco
birmano che accetta l'elemosina colpisce la nostra immaginazione.
Ma ci sono seguaci di Buddha completamente diversi: il re Ashoka, per esempio, che scese
dalla carrozza regale decorata di perle e d'oro, e proclamò il suo desiderio di diffondere il
buddhadharma attraverso il mondo. Si inginocchiò, afferrò una manciata di sabbia e dichiarò che
avrebbe costruito tante stupa quanti erano i granelli di sabbia nelle sue mani. Mantenne la sua
promessa. Si può essere re, mercanti, prostitute, drogati oppure dirigenti d'azienda e accettare i
quattro sigilli. Non è tanto il fatto di lasciarsi alle spalle il mondo materiale che preme ai buddhisti,
quanto la capacità di comprendere l'abituale attaccamento a questo mondo e a noi stessi e di
rinunciarvi.
Quando cominciamo a capire le quattro verità, non dobbiamo necessariamente rinunciare alle
cose, ma cambiare il nostro atteggiamento verso di esse, modificandone così il valore. Possedere
meno degli altri non significa essere moralmente più puro o più virtuoso. L'umiltà può essere in sé
una forma di ipocrisia. Quando capiamo che il mondo materiale è privo di essenza e impermanente,
la rinuncia non è più una forma di auto-flagellazione. Non c'è bisogno di essere severi con noi
stessi. La parola “sacrificio” assume un significato diverso. Grazie a questa comprensione, ogni
cosa ha lo stesso peso della saliva che sputiamo per terra. Non proviamo inclinazioni sentimentali
verso la saliva. Rinunciare al sentimentalismo è un percorso di beatitudine, la sugata. Considerando
la rinuncia come beatitudine, le storie di principesse, principi e condottieri indiani che un tempo
rinunciarono alla vita di corte diventano meno stravaganti.
L'amore per la verità e la venerazione per coloro che la cercano è una tradizione antica nei
paesi come l'India. Perfino oggi, invece di disprezzare coloro che rinunciano alla vita mondana, la
società indiana li venera con la stessa ammirazione con cui noi stimiamo i professori di Harvard e di
Yale. Anche se la tradizione sta tramontando in un'epoca in cui impera un tipo di cultura
globalizzata, ci succede ancora di incontrare santoni nudi, cosparsi di cenere, che hanno
abbandonato i loro avviati studi da avvocato per diventare mendicanti pellegrini. Mi colpisce molto
vedere che la società indiana li rispetta invece di cacciarli come ignobili accattoni o come appestati.
Non posso impedirmi di immaginarli al Marriot Hotel a Hong Kong. I nuovi ricchi cinesi, che
cercano disperatamente di copiare i modelli occidentali, quali sentimenti nutrirebbero verso questi
santoni cosparsi di cenere? L'usciere aprirebbe loro la porta? E come reagirebbe a un simile
incontro il portiere dell'Hotel Bel-Air di Los Angeles? Invece di onorare la verità e di venerare i
santoni, questa è un'epoca che idolatra le pubblicità e celebra la liposuzione.
Mentre state leggendo queste parole, forse pensate: Io sono generoso e non ho attaccamento ai
miei averi. Forse non siete avari, ma, pur con tutta la vostra generosità, se qualcuno lascia l'ufficio
portandosi via la vostra matita preferita, vi potreste arrabbiare al punto da staccargli un orecchio.
Oppure vi scoraggiate se qualcuno vi dice: “È tutto ciò che siete in grado di dare?”. Quando
doniamo, siamo presi dall'idea stessa di “generosità”. Ci aggrappiamo al risultato – se non si tratta
di una rinascita positiva, almeno di un riconoscimento in questa vita, o forse solo una targa
commemorativa appesa al muro. Ho anche incontrato molte persone che pensano di essere generose
perché elargiscono somme di denaro a un museo, o perfino ai propri figli, dai quali si aspettano
devozione per la vita.
Se non è accompagnata dalle quattro verità, anche la morale può essere distorta. La morale
alimenta l'Io, inducendoci a essere puritani e a giudicare gli altri la cui morale è diversa dalla nostra.
Convinti della nostra versione di morale, disprezziamo gli altri e cerchiamo di imporre loro la nostra
etica, anche se significa privarli della libertà. Il grande studioso indiano e santo, Shantideva, un
principe che aveva rinunciato al suo regno, insegnò che ci è impossibile evitare di coinvolgerci in
situazioni indegne, ma se riusciamo ad applicare anche una sola di queste quattro verità siamo
protetti da qualsiasi mancanza di virtù. Se pensate che l'intero Occidente sia in qualche modo
satanico o immorale, sarà impossibile conquistarlo o riabilitarlo, ma se coltivate una certa
tolleranza, ciò equivale a vincerlo. Potete spianare la terra intera per rendere più facile percorrerla a
piedi nudi, ma se indossate un paio di scarpe vi proteggerete dalle superfici ruvide e sgradevoli.
Se arriviamo a capire le quattro verità, non solo a livello intellettuale, ma anche con
l'esperienza, cominciamo a liberarci dalla fissazione sulle cose illusorie. Questa libertà è definita
saggezza. I buddhisti venerano la saggezza sopra ogni cosa. La saggezza supera la morale, l'amore,
il buon senso, la tolleranza e la pratica vegetariana. Non si tratta di uno spirito divino che cerchiamo
da qualche parte fuori di noi. La applichiamo innanzitutto ascoltando gli insegnamenti sui quattro
sigilli – non prendendoli alla lettera, ma analizzandoli e meditandoli. Se siete convinti che questo
percorso dissiperà parte della vostra confusione e vi apporterà un qualche sollievo, allora siete
davvero in grado di mettere in pratica la saggezza.
In uno dei più antichi metodi di insegnamento buddhisti, il maestro dà ai suoi discepoli un
osso e insegna loro a meditare sulla sua origine. Attraverso questa meditazione, i discepoli alla fine
vedranno l'osso come il risultato della nascita, la nascita come il risultato finale della formazione
karmica, la formazione karmica come risultato finale del desiderio e così via. Ormai convinti della
logica di causa, condizione ed effetto, cominciano ad applicare la consapevolezza a ogni situazione
e a ogni momento. È quanto chiamiamo meditazione. Le persone in grado di offrirci questo tipo
d'insegnamento e di conoscenza sono venerati come maestri perché, anche se possiedono una
comprensione profonda e potrebbero vivere felicemente nella foresta, sono disposti a rimanere tra
gli uomini per spiegare quest'idea a coloro che sono ancora nell'oscurità. Poiché quest'informazione
ci libera da ogni sorta di spasmo superfluo, siamo in grado di apprezzare immediatamente chi ce la
fornisce. In tal modo, noi buddhisti rendiamo omaggio al maestro.
Una volta che avete accettato intellettualmente l'idea, potete applicare qualsiasi metodo che vi
consente di approfondirla. In altre parole, potete servirvi di qualsiasi sistema e di qualsiasi pratica
che vi aiuti a modificare l'abitudine di intendere le cose come solide e cominciare a considerarle
composite, interdipendenti e impermanenti. Questa è la vera meditazione buddhista, la pratica
autentica, non il semplice fatto di stare seduti in silenzio, immobili come un fermacarte.
Anche se intellettualmente sappiamo di morire, questa conoscenza può venire messa in ombra
da qualcosa di irrisorio come un complimento. Qualcuno ci dice che abbiamo delle nocche molto
graziose e subito pensiamo di trovare un modo per mantenerle tali. All'improvviso ci assale la
sensazione di avere qualcosa da perdere. In questa nostra epoca siamo continuamente bombardati da
cose sempre nuove che possiamo perdere e altre che non possiamo ottenere. Più che mai, abbiamo
bisogno di metodi che ci ricordino e ci abituino all'idea della morte, forse perfino appendere un osso
umano allo specchietto retrovisore, se non proprio rasarci il capo e vivere in una grotta. Con
l'ausilio di questi metodi, l'etica e la morale acquistano tutta la loro utilità. L'etica e la morale nel
buddhismo possono essere secondarie, ma, se ci permettono di accostarci alla verità, diventano
molto importanti. Siddharta stesso, tuttavia, ci consigliava di rinunciare a un'azione che sembra
degna e positiva, ma che ci allontana dalle quattro verità.
I quattro sigilli sono come il tè, mentre gli strumenti per realizzare queste verità – pratiche,
rituali, tradizioni e modelli culturali – sono come la tazza. Perizia e metodi sono osservabili e
tangibili, ma così non è per la verità. La difficoltà sta nel non lasciarsi entusiasmare dalla tazza. Le
persone preferiscono sedere in un posto tranquillo con la schiena eretta su un cuscino per la
meditazione invece di riflettere su quel che succederà ora, domani o nella prossima vita. Le pratiche
esteriori sono percepibili, quindi la mente le etichetta rapidamente come “buddhiste”; invece il
concetto “tutte le cose composite sono impermanenti” non è tangibile ed è difficile da catalogare. È
ironico che nonostante ci siano ovunque prove dell'impermanenza essa non ci è affatto evidente.
L'essenza del buddhismo va oltre la cultura, ma è praticata da molte culture diverse, che si
servono delle loro tradizioni come della tazza che contiene gli insegnamenti. Se gli elementi di
questi modelli culturali aiutano il prossimo senza provocarne danni e non contraddicono le quattro
verità, Siddharta li incoraggerebbe.
Nel corso dei secoli, sono stati creati innumerevoli tipi e stili di tazze, ma per quanto ottima
sia l'intenzione e per quanto funzionino bene, se dimentichiamo il tè al loro interno diventano solo
un ostacolo. Tendiamo a focalizzarci sui mezzi e non sul fine, anche se la loro funzione è quella di
contenere la verità. La gente così se ne va in giro con tazze vuote, o dimentica di bere il tè. Ci
succede di essere affascinati, o per lo meno distratti, dalla cerimonia e dalle apparenze delle
pratiche culturali buddhiste. L'incenso e le candele sembrano esotici e attraenti; l'impermanenza e
l'altruismo per niente. Lo stesso Siddharta diceva che il modo migliore di rendere onore consiste
semplicemente nel ricordare il principio dell'impermanenza, la sofferenza provocata dalle emozioni,
il fatto che i fenomeni non hanno esistenza intrinseca e che il nirvana trascende ogni concetto.
A un livello superficiale, il buddhismo può sembrare ritualistico e religioso. Le norme
buddhiste come le tuniche arancio-porpora, i riti e gli oggetti rituali, l'incenso e i fiori, perfino i
monasteri, hanno una forma – possono essere osservati e fotografati – e ci dimentichiamo che sono i
mezzi per un fine preciso. Dimentichiamo che non si diventa seguace di Buddha eseguendo riti o
adottando delle norme, come quelle di essere vegetariani o indossare tuniche. La mente umana
tuttavia adora i simboli e i riti, e quindi essi sono praticamente inevitabili e indispensabili. I
mandala di sabbia tibetani e i giardini zen giapponesi sono splendidi; ci ispirano e possono perfino
essere degli strumenti per la comprensione della verità. La verità in sé, invece, non è né bella né non
bella.
Anche se probabilmente possiamo agire in assenza di oggetti, come copricapo rossi, gialli o
neri, ci sono alcuni riti e alcune discipline che sono universalmente raccomandabili. Non si può dire
in modo tassativo che è sbagliato meditare sdraiati su un'amaca o tenere in mano un cocktail
guarnito di un ombrellino mentre si sta riflettendo sulla verità. Ma accorgimenti come quello di
rimanere seduti con la schiena eretta offrono davvero dei grandi vantaggi. Correggere la propria
posizione non è soltanto un fatto accessibile ed economico, esso ha anche il potere di privare le
emozioni dei loro soliti rapidi riflessi, che vi assorbono e vi mandano alla deriva. Vi offre un
piccolo spazio per acquisire lucidità. Altri riti istituzionalizzati, come le cerimonie di gruppo e le
strutture religiose gerarchiche, possono portare qualche beneficio, ma è importante ricordare che
sono stati oggetto di sarcasmo da parte dei maestri del passato. Personalmente credo che questi
rituali siano la causa per cui molte persone in Occidente catalogano il buddhismo come un culto,
anche se nelle quattro verità non c'è la minima traccia di tendenza al culto.
Ora che il buddhismo sta prosperando in Occidente, alcune persone pensano di alterare gli
insegnamenti buddhisti per adattarli al modo di pensare moderno. Se c'è qualcosa da adattare, si
tratta dei simboli e dei riti, non della verità in sé. Buddha stesso disse che la sua disciplina e i suoi
metodi potevano conformarsi a tempi e spazi diversi. Le quattro verità, invece, non hanno bisogno
di essere aggiornate o modificate; e comunque è impossibile farlo. Potete cambiare la tazza, ma il tè
rimane puro. Dopo essere sopravvissuto per duemilacinquecento anni e aver viaggiato per 12.500
km dall'albero bodhi in India centrale a Times Square, a New York, il concetto “tutte le cose
composite sono impermanenti” continua ad applicarsi. L'impermanenza è sempre impermanenza
anche a Times Square. Non potete modificare queste quattro verità; non ci sono eccezioni sociali o
culturali.
A differenza di altre religioni, il buddhismo non offre un kit di sopravvivenza che impone
quanti mariti una donna deve avere o dove pagare le tasse o come punire i malviventi. In realtà, a
rigor di termini, i buddhisti non hanno neppure un rituale per le cerimonie nuziali. Lo scopo degli
insegnamenti di Siddharta non era quello di dire alla gente quello che voleva sentirsi dire. Si mise a
insegnare in virtù del suo potente impulso a liberare gli altri dalle loro concezioni errate e dagli
infiniti fraintendimenti della verità. Per spiegare correttamente questa verità, Siddharta si avvalse di
metodi e strumenti differenti, in base alle necessità del suo svariato pubblico. Questi diversi modi di
insegnamento ora sono stati definiti specifiche “scuole” di buddhismo. La concezione
fondamentale, tuttavia, rimane la stessa per tutte le scuole.
È normale che le religioni abbiano un capo. Alcune, come la Chiesa cattolica romana,
possiedono un'elaborata gerarchia, retta da una figura con un potere assoluto, che prende le
decisioni ed esprime i giudizi. Contrariamente alle credenze popolari, il buddhismo non possiede
una figura o un'istituzione di questo tipo. Il Dalai Lama è un leader secolare per la comunità
tibetana in esilio e un maestro spirituale per molte persone del mondo intero, ma non
necessariamente per tutti i buddhisti. In tutte le forme e le scuole di buddhismo presenti in Tibet,
Giappone, Laos, Cina, Corea, Cambogia, Thailandia, Vietnam e in Occidente non esiste nessuna
autorità che abbia il potere di decidere chi è un vero buddhista e chi non lo è. Nessuno può
dichiarare chi è punibile e chi non lo è. La mancanza di un potere centrale può forse provocare una
situazione caotica, ma è anche una benedizione, perché in qualsiasi istituzione umana ogni fonte di
potere è corruttibile.
Buddha ha detto: “Sei il maestro di te stesso”. Naturalmente, se un maestro colto fa lo sforzo
di presentare la verità proprio a te, sei un essere fortunato. In certi casi, alcuni maestri possono
essere venerati ancora più del Buddha perché, anche se possono esserci stati migliaia di buddha,
questa persona è l'unica che annuncia la verità proprio alla porta di casa tua. Trovare una guida
spirituale è un fatto personale. Siete liberi di valutarla, che si tratti di un uomo o di una donna. Una
volta convinti che il maestro è quello giusto, accettarlo, sopportarlo, e goderne, fa parte della vostra
pratica.
Spesso si confonde il rispetto con lo zelo religioso. A causa delle inevitabili apparenze
superficiali e anche per l'assenza di competenza di alcuni buddhisti, le persone dall'esterno possono
pensare che adoriamo il Buddha e la stirpe dei maestri come gli dèi.
Nel caso vi chiediate come trovare il percorso giusto, ricordatevi che qualsiasi strada che non
contraddica le quattro verità sarà una strada sicura. In definitiva, non sono i maestri d'alto rango che
custodiscono il buddhismo, sono le quattro verità a esserne custodi.
Non sottolineerò mai abbastanza che la comprensione della verità è l'aspetto fondamentale del
buddhismo. Per secoli, gli studiosi e i pensatori hanno tratto grandi vantaggi dall'invito di Siddharta
ad analizzare le sue scoperte. Le centinaia di libri che esaminano scrupolosamente e discutono le
sue parole ne costituiscono la prova. Se il buddhismo vi interessa, lungi dal rischiare di essere
tacciati di blasfemia, siete incoraggiati a esplorare a fondo qualsiasi dubbio. Un gran numero di
persone colte per prima cosa ha cominciato a rispettare la saggezza e la concezione di Siddharta.
Solo in un secondo tempo essi hanno offerto la loro completa fiducia e devozione. È per questa
ragione che, tanto tempo fa, principi e ministri non ci hanno pensato due volte prima di
abbandonare i loro palazzi alla ricerca della verità.
Oltre alle verità profonde, oggi perfino le verità più concrete e ovvie sono ignorate. Siamo
come le scimmie che abitano nella foresta e defecano sugli stessi rami a cui si appendono. Ogni
giorno ascoltiamo persone che discutono sulle condizioni dell'economia, senza essere in grado di
riconoscere il rapporto tra la recessione e l'avidità. A causa di avidità, invidia e orgoglio, l'economia
non sarà mai abbastanza solida da assicurare a ciascuno i bisogni fondamentali della sopravvivenza.
Il luogo in cui viviamo, la Terra, è sempre più inquinato. Ho incontrato gente che condanna i
governanti e gli imperatori dell'antichità e le religioni delle origini in quanto fonti di ogni conflitto.
Il mondo moderno e secolare è forse migliore? Uno dei principali effetti della scienza e della
tecnologia è stato quello di distruggere più rapidamente il mondo. Molti scienziati sono convinti che
tutti gli organismi viventi e tutte le strutture che sostengono la vita sulla Terra siano in declino.
È giunto il momento che noi uomini moderni dedichiamo qualche pensiero alle questioni
spirituali, anche se non abbiamo tempo di sederci su un cuscino, anche se c'infastidisce chi porta al
collo un rosario e c'imbarazza rivelare agli amici non credenti le nostre inclinazioni religiose.
Riflettere sulla natura impermanente di ogni cosa che viviamo e sul doloroso effetto
dell'attaccamento all'Io crea pace e armonia – se non al mondo intero, per lo meno all'interno della
nostra piccola cerchia.
Accettando e praticando queste quattro verità, sarete “buddhisti praticanti”. Se leggete testi
sulle quattro verità per diletto o esercizio intellettuale, senza metterle in pratica, siete come quei
malati che leggono l'etichetta del flacone di un farmaco, ma non si decidono ad assumerlo. D'altra
parte, se siete praticanti, non avete bisogno di esibire il vostro credo buddhista: anzi, se siete invitati
a qualche ricevimento, è un'ottima cosa tenerlo nascosto. Ricordate sempre, tuttavia, che in quanto
buddhisti avete la missione di astenervi dal nuocere agli altri e di aiutarli il più possibile. Non si
tratta di una responsabilità immensa: se accettate in modo autentico le verità e meditate su di esse,
questi gesti scaturiranno spontaneamente.
È anche importante capire che come buddhisti non avete la missione o il dovere di convertire
il resto del mondo al buddhismo. I buddhisti e il buddhismo sono due cose diverse, come
Democrate e la democrazia. Sono certo che molti buddhisti hanno fatto e stanno facendo cose
terribili a sé e agli altri. Tuttavia è incoraggiante che finora i buddhisti non abbiano dichiarato
guerre o saccheggiato i templi delle altre religioni in nome di Buddha ai fini di proselitismo
religioso.
Se siete buddhisti, è necessario che adottiate la seguente condotta: un buddhista non prenderà
mai parte a uno spargimento di sangue, né mai lo incoraggerà in nome del buddhismo. Non ci è
consentito uccidere neppure un insetto, tanto meno un essere umano. Se venite a sapere che un
singolo buddhista o un gruppo di buddhisti lo ha fatto, dovete protestare e condannarli. Se
mantenete il silenzio, non solo non li dissuadete, ma vi mettete al loro stesso livello. Non siete
buddhisti.
Appendice sulla traduzione dei termini
Una volta ho avuto l'opportunità di chiedere a Kunu Rinpoche, Tendzin Gyaltsen, chiarimenti
sul significato di questo e altri termini buddhisti. Egli ha spiegato innanzitutto il significato di
“persona”, o gangzag, che contiene una delle sillabe della parola “corruttibile”. Gang significa
“qualsiasi” o “chiunque” nel senso di ogni possibile mondo o luogo di rinascita all'interno delle sei
classi di creature, mentre zagpa significa “cadere dentro” uno di questi luoghi o “muoversi” dall'uno
all'altro. Quindi, la parola che indica “persona” significa “soggetta a trasmigrare”. Egli ha anche
parlato del dibattito tradizionale in corso su quest'etimologia, poiché un arhat è anche definito
gangzag, personaggio.
Walpola Rahula, l'autore di L'insegnamento del Buddha, traduce il primo sigillo con “Tutte le
cose condizionate sono dukka (sofferenza)”. Altri dicono: “Tutte i fenomeni contaminati o corrotti
posseggono la natura delle tre sofferenze”. Il dizionario Rangjung Yeshe offre una traduzione
analoga: “Ogni cosa che si deteriora è sofferenza”.
Si può discutere ancora sul fatto se queste traduzioni sono troppo o non abbastanza generiche.
Per comprendere molti di questi termini, gli studenti più seri avranno bisogno di uno studio
maggiormente approfondito e di ulteriori spiegazioni. Essenzialmente, ogni cosa che è soggetta
all'interdipendenza non possiede sovranità; non può controllare pienamente se stessa, e questa
dipendenza crea incertezza, la quale è una delle componenti principali della definizione buddhista di
“sofferenza”. L'uso della parola inglese suffering (sofferenza) richiede quindi molte spiegazioni
precise.
Ho tuttavia deciso di utilizzare la traduzione “Tutte le emozioni sono dolore”, in modo che i
lettori non ricerchino la causa delle loro sofferenze a un livello esterno. Questa traduzione rende
l'espressione più personale: si tratta della nostra mene e delle nostre emozioni.
Un altro aspetto di cui i lettori devono tener conto è che i quattro sigilli come sono stati
esposti in questo libro sono decisamente orientati in senso Mahayana. La tradizione Shravakayana,
come quella Theravada, non possiede questi quattro sigilli; ne ha soltanto tre. I tre sigilli in questo
contesto si sviluppano in quattro. Poiché l'intento di questo libro è una presentazione generale, ho
deciso che è meglio dare di più anziché di meno, tutto anziché soltanto un po', in modo che non ci
sia poi bisogno di aggiungere altro.
Ringraziamenti
Parlando di fenomeni compositi, vorrei dire che non si deve cercare altrove per avere degli
ottimi esempi. Questo libro è un esempio perfetto di fenomeno composito. Anche se alcune delle
indicazioni sono squisitamente moderne, la logica essenziale e la premessa all'argomento e tutte le
analogie sono elementi che sono già stati insegnati. Ho deciso che non devo vergognarmi di
plagiare le idee e gli insegnamenti originali di Buddha e di molti dei suoi antichi seguaci,
specialmente maestri come il grande guru Rinpoche Padmasambhava, Longchenpa, Milarepa,
Gampopa, Sakya Pandita, Rigzin Jigme Lingpa e Patrul Rinpoche. Coloro che hanno trovato una
qualche ispirazione potrebbero quindi cercare di conoscere qualcosa dell'opera di questi grandi
maestri. Vorrei tuttavia ricordare che, se troverete gravi errori o fraintendimenti, sia nelle parole che
nel significato, sono interamente sotto la mia responsabilità e , anche se i commenti sono sempre
benvenuti, direi che si tratterebbe di uno spreco del vostro tempo prezioso.
Il fatto che questo testo per lo meno è di piacevole lettura è dovuto allo sforzo di Noa Jones,
non solo in termini di editing, ma anche perché si è prestata a diventare la cavia del “neofita della
filosofia buddhista”. Le debbo quindi tutta la mia ammirazione e la mia gratitudine. Ringrazio
anche Jessie Wood, con i suoi occhi d'aquila per la punteggiatura. E infine sono grato a tutti i miei
amici – adolescenti, studiosi, bevitori di birra e pensatori – per aver proposto argomenti molto
stimolanti, che hanno contribuito a dar forma a questo libro. È stato concepito in un piacevolissimo
caffè molto informale a Ubud, a Bali, una volta splendido regno indù; si è progressivamente
configurato tra le nebbie e le foreste di cedri sulle rive del lago Daisy; e ha preso la sua forma
definitiva sulla catena dell'Himalaia. Mi auguro che possa destarvi un qualche interesse.