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Durante il viaggio non mi resi conto di quanto papà corresse per


arrivare con meno ritardo possibile. Mamma era decisamente alterata
e continuava a dirgli di affrettarsi. Era stata colpa mia per quel
incredibile ritardo, non avevo nessun intenzione di andare a
quell’ennesima festa, ma ogni decisione che riguardava me veniva
presa da uno dei miei famigliari. Svoltò bruscamente nel viale
d’ingresso addobbato come non mai. Quanto avrei desiderato non
dover partecipare a quel party. Guardai fuori dal finestrino tutte le
braci che i nonni avevano fatto sistemare per illuminare il viale e il
portone principale. Una delle poche cose che mi piaceva del castello
dei nonni era che così distanti dalla città le stelle brillavano con il
doppio dell’intensità e con il cielo privo di luci artificiali erano
stupende. Ormai, la mia famiglia è l’unica a dare delle feste del
genere a Verona.
Un brivido mi percorse la schiena quando scesi dalla macchina, un
freddo inatteso per la notte di ognissanti.
«Stai bene?». Chiese gentilmente papà.
«Sì», risposi bruscamente.
Stava per arrivare la parte che odiavo in assoluto. Non appena
varcammo il portone una schiera infinita di fotografi iniziò a scattare.
Ci posizionammo davanti al cartello pubblicitario e insieme
posammo per le foto di rito sul red carpet. Poi arrivarono le domande
dei giornalisti locali. Un infinità di banalità venivano dette e ridette

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ad ogni festa. Non ne potevo più. Per giunta, tutti i giornalisti
volevano sapere della mia vita. Tutti i magazine e i quotidiani erano
decisi a trasformarmi nella Paris Hilton locale. Chiunque conoscessi
non riusciva a capire come mai non volessi abbandonarmi a questo
roseo destino. Per molta gente se sei ricca e famosa rientri in una
certa categoria, quella “non lavorerò mai”. Puoi avere tutto quello
che vuoi e puoi non preoccuparti per il tuo futuro.
«Andiamo Elena», mi ammonì mamma.
Era arrabbiata con me, come ogni volta che mi costringeva a fare
qualcosa che non volevo assolutamente fare.
«Spera che non inventino una storia sul nostro ritardo».
Per mia madre l’apparenza era tutto. La sua frase preferita era
“Sorridi e fa’ finta di nulla”.
L’unica mia consolazione quando andavamo ad una festa al castello
era che mia madre avrebbe dovuto fare i conti con mia nonna. Infatti,
se lei era la mia spina nel fianco lei era quella di mia nonna. Si erano
odiate fin dal primo istante. Mio padre fece scoppiare un tale
scandalo quando la sposò incinta di me che i Veronesi ne parlarono
per quasi un anno. Per giunta il matrimonio arrivò a tre mesi dalla
morte prematura della prima moglie e questo fece sfiatare gli abitanti
di questa stupenda cittadina per anni e anni.
Mi sistemai il vestito non appena entrata nell’atrio e consegnai il
soprabito ad una ragazza della mia età che mi squadrò per bene.
Sperai che non fosse una studentessa della mia scuola, ricordavo
ancora l’incubo del primo giorno.
Avevo sempre frequentato delle scuole private e dopo la terza
media fu deciso di mandarmi a studiare in un collegio privato di
Mantova. Tentai per tutta l’estate di non farmi mandare ma a
settembre accompagnata da un acquazzone di fine stagione fui
condotta da un autista al ginnasio Leone XIII. Fortunatamente venni
accolta molto bene. Trovavo rassicurante quell’antico palazzo e
l’istruzione privilegiata e senza lacune che vi veniva impartita. Mi
abituai velocemente a quella routine e i due anni finirono molto
rapidamente.

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Purtroppo il trauma avvenne il primo giorno al Liceo Maffei di
Verona. Stupida come ero vidi come una benedizione il ritorno a
casa, ma in una scuola pubblica se la ragazza più ricca della città si
presenta davanti all’istituto con una Mercedes e un autista in livrea è
scontato che non avrà amici. Fu nell’istante in cui feci roteare le
gambe e scesi dalla macchina che capii che il mio arrivo non era
affatto gradito. Era stato mio padre a decidere di farmi finire le
scuole in una pubblica, nonostante il dissenso di tutta la mia famiglia.
Voleva che vedessi quanto ero fortunata.
«Elena», disse nonna con la sua voce stridula alle mie spalle,
«Finalmente siete arrivati! Scommetto che la colpa del vostro ritardo
è della mamma?».
«Buonasera nonna», dissi senza risponderle.
«Vieni, devo presentarti assolutamente qualcuno».
Questa era un'altra delle cose spiacevoli che capitavano ad ogni
festa. Mia nonna era seriamente intenzionata a trovarmi un fidanzato
o almeno un cavaliere che mi tenesse compagnia durante la serata.
Mi prendeva sottobraccio e mi presentava o ripresentava tutti i
ragazzi presenti alla festa. Non solo lei aveva questa ossessione.
Anche la mamma avrebbe fatto lo stesso ma presentandomi i suoi
preferiti. Nonna optava per i figli di dottori, indus triali, politici o
professori, mentre mia madre aveva una forte predilezione a
presentarmi i figli di giudici o avvocati. Forse pensava ad una futura
espansione dello studio legale di papà a livello familiare. Le cose
cambiarono improvvisamente da quando compii sedici anni e tornai a
Verona. Divenne importante e fondamentale trovarmi un ragazzo, o
meglio, che mi trovassero un ragazzo.
«Elena lui è Andrea Coccini». Mi spinse verso un ragazzo che
aveva la mia età ma di venti centimetri più basso di me. «Suo padre è
l’assessore all’urbanistica di Bevilacqua». Precisò strizzandomi
l’occhio.
«Piacere», gli dissi stringendogli la mano.
«Forse più tardi avrete occasione di ballare insieme». Il tono di
nonna divenne civettuolo.

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Salutammo educatamente e iniziò a portarmi da un altro ipotetico
spasimante.
Fortunatamente i pettegolezzi sulla famiglia del nanetto erano
abbastanza scialbi. «Sai cara, il padre si è fatto portare via dalla
concessionaria l’auto della moglie perché aveva dimenticato di
pagare le rate». La nonna ci teneva particolarmente a farmi sapere
tutte le scabrosità sugli invitati. Di solito mi si avvicinava di punto in
bianco, mi elencava le caratteristiche fisiche del soggetto di cui
voleva parlarmi e dopo avermi presa sottobraccio iniziava con i
pettegolezzi. Questo era il suo comportamento ad ogni festa e mia
madre si comportava allo stesso modo, solo che la mamma aveva un
briciolo in più di discrezione, mentre la nonna era parecchio
spudorata e soprattutto udibile da tutti i presenti.
Adoravano questo strano gioco. Forse ritenevano che fosse meglio
per me che avessi una relazione. Anche la reazione di mio padre a
questi modi inusuali mi lasciava sempre un po’ perplessa, faceva
spallucce e si girava dall’altra parte. Ma era chiaramente percepibile
un disagio, qualcosa nello sguardo. Forse era la classica gelosia
paterna che lui cercava di mascherare al meglio.
«Alessandro lei è mia nipote Elena». Ci avvicinammo ad un
ragazzo che aveva bisogno di uno sciampo.
«Piacere Elena».
La nonna mi diede un colpetto sulla spalla. «Suo padre è il primario
di pediatria dell’ospedale di Verona e lui diventerà medico come i
suoi fratelli».
Il ragazzo sorrise compiaciuto. «Devo ancora finire le superiori
signora Marchesini».
Nonna rise cosi forte che il ragazzo si spaventò. Non si aspettava
una risata tanto rumorosa.
Papà venne verso di noi accompagnato dal padre del ragazzo.
«Tesoro!», squittì la nonna. «Lui e il padre di Alessandro, il dottor
Michele Bazzani».
Anche il signore aveva urgente bisogno di uno sciampo. Forse era
un qualcosa di ereditario.

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«Che nipote incantevole», disse stringendomi la mano.
«Stavo appunto presentandole suo figlio».
«Bene, sono sicuro che mio figlio sarebbe onorato di farle fare
qualche ballo signorina».
La nonna lo guardò felice. Aveva trovato un alleato.
«Più tardi, tra poco inizia la cena».
Tutti si guardarono sereni e la nonna iniziò a portarmi da un altro
pretendente.
Poco prima che mi presentasse un ragazzo che mi stava già
squadrando il seno da lontano arrivò il nonno.
«Ciao Elena». Mi abbraccio e la nonna fu costretta a lasciarmi
libero il braccio.
«Pietro ti prego». Lo ammonì lei mentre mi trascinava via.
«Rita andiamo, glielo presenti più tardi».
La nonna incrociò le braccia in segno di protesta ma il nonno fece
finta di non vederla e la ignorò.
«Quanti te ne ha presentati stasera?».
Mi accostai a lui. «Due ragazzi solamente».
«Due soltanto!», disse in tono sarcastico. «Ha invitato almeno una
decina di aitanti fanciulli stavolta».
«Davvero?». Solo l’idea di dover fare ancora otto presentazioni per
la nonna e chissà quante per la mamma mi faceva davvero
ammattire.
«Andiamo al tavolo, ok?».
«Ok».
Quando arrivammo mancavamo solo noi per completare la famiglia.
La nonna aveva raggiunto immediatamente la sua postazione di
controllo e già era persa nella conversazione con la moglie del
sindaco. Mamma parlava con il rettore dell’università e papà parlava
animatamente con il sindaco.
«Vuoi un po’ di antipasto?». Nonno spinse il caviale verso di me.
Non ero mai stata golosa di quella roba ma la mamma mi aveva già
messo due abbondanti cucchiaiate nel piatto. Presi i piccoli blinis ed
incominciai a mangiare.

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Mi guardai alle spalle, mi sentivo osservata. Erano tutti seduti ai
loro posti. Chi mangiava, chi conversava, ma nessuno mi stava
guardando.
«Elena, cos’hai?», mi richiamò nonno.
Mamma e papà portarono subito lo sguardo su di me per vedere che
stava succedendo.
«Niente», dissi frettolosa.
«Non vorrai già andarti a rinchiudere?». Mamma era capace di
indispormi con quattro parole in croce.
«No, niente!». La guardai con un alone di rabbia che lei percepì
all’istante.
«Finisci l’antipasto». Ordinò.
Purtroppo però quella sensazione continuava a persistere. Decisi di
non farci caso e di prestare più attenzione alla conversazione.
Parlavano del vantaggio che qualche grande evento in più avrebbe
potuto portare alla città con un affluenza di turisti per più giorni.
L’argomento non mi interessava affatto e quando la conversazione si
spostò verso i cavilli burocratici celati dietro l’organizzazione di un
nuovo festival mi persi nei miei pensieri.
Mamma aveva ragione, volevo già andarmi a rinchiudere. Era
diventata un abitudine per loro vedermi sgattaiolare, con la
complicità del nonno, nello studio sulla torre. A volte non arrivavo
nemmeno alla seconda portata che mi rifugiavo lì. Al riparo da occhi
indiscreti a leggere una delle prime edizioni del nonno o
semplicemente a aspettare che la festa arrivasse al termine.
Fortunatamente il nonno era mio complice. Non apprezzava tutta
quella mondanità a cui la nonna lo costringeva ma si piegava alla
volontà della sua inarrestabile consorte. Però lasciava che la sua
unica nipote non fosse costretta a dover stare impalata fino alle ore
piccole per far divertire degli sconosciuti che anche lui non
sopportava.
«Signorina Elena!». Mi chiamò la moglie del sindaco.
«Sì».

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«Mio figlio più piccolo ha appena finito le medie e vorrebbe
frequentare il liceo. Lei come si trova al Maffei?».
Come accadeva sempre le risposte vennero date da mia madre.
«Signora Corsi mia figlia ha frequentato i due anni del ginnasio nel
collegio Leone XIII e sta per terminare l’ultimo anno del liceo al
Maffei».
Anche gli altri commensali si unirono al conversazione.
«Secondo me l’istituto dovrebbe essere ristrutturato». Trillò la
nonna fissando il sindaco.
«A volte è un po’ stancante…». La mamma mi interruppe. «È
sempre a studiare».
«Probabilmente avrei preferito…». Mi interruppe di nuovo. «Il
liceo è molto duro per uno studente».
Capì che la mamma non voleva che la imbarazzassi con la verità. Al
liceo era stato impossibile ambientarsi ed ero riuscita ad avvicinarmi
solo con una ragazza.
«È un liceo ottimo, suo figlio si troverà benissimo», dissi per
chiudere il discorso.
Mamma fece un piccolo respiro di sollievo e si affrettò a portare la
conversazione di nuovo lontana da ciò che mi riguardava.
Arrivò il risotto. La nonna aveva dato al menu un’inclinazione
russa.
«Elena», disse il nonno a mezza voce. «Non prendertela per la
mamma». Sapeva che quando mia madre si comportava in quel modo
infantile io mi irritavo parecchio.
«Non preoccuparti».
Di colpo ritornò quella sensazione. Ne ero sicura, mi osservavano.
«Questo risotto è ottimo!». Esclamò il sindaco.
La nonna saltellò sulla sedia contenta per l’approvazione del suo
menù.
In effetti le feste della nonna non avevano mai niente che non fosse
perfetto. La location era stupenda in tutte le stagioni. Faceva
addobbare la sala da pranzo e quella da ballo in modo diverso per
ogni festa. I menù possibili erano provati per settimane e le

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combinazioni di ospiti ai tavoli erano studiate per non far languire le
conversazione.
Anche questa volta la nonna aveva realizzato un capolavoro di
eleganza e raffinatezza. La festa occupava quasi tutti i locali del
piano terra. L’entrata sulla sala rosa era stata adibita a sala da ballo.
Dopo il primo corridoio nobile c’era la sala da pranzo e la sala
spagnola era stata attrezzata per fungere da armadio con le due
guardarobiere sempre pronte. La sala della musica era diventata il
salotto per i fumatori e arredata con dei mobili che non avevo mai
visto prima di allora. Ma la trasformazione più sbalorditiva la
subirono la sala dei poeti e quella degli affreschi che erano diventate
rispettivamente sala da gioco e zona cocktail bar. Quasi tutto il
mobilio originale era stato portato via e sostituito con nuovi mobili
ma la particolarità era che nonostante fossero in stile classico i colori
dei legni e gli abbinamenti fra le stoffe o le pelli erano moderni. Un
tocco di stravaganza che la nonna non aveva mai osato. In ogni
angolo c’erano composizione floreali in perfetta tinta con tutto il
resto. Persino le sedie che venivano usate per le feste erano cambiate,
sostituite con un modello laccato bianco con pelle panna e intarsi in
ottone. I centritavola erano una meraviglia e tra i fiori erano
appuntate delle miniature in cristallo che grazie alle luci delle
candele brillavano dando un tono da favola alla tavolata. Il castello
era diventato quello di Cenerentola e l’atmosfera era davvero
fiabesca.
«Non ti piace?». La moglie del sindaco mi fece ritornare sul pianeta
Terra.
«Dovete scusarla», disse mia madre. «Spesso si perde fra le
nuvole».
Guardai il mio piatto ancora intatto e i loro vuoti già per oltre la
metà.
«Scusate». Presi la forchetta e osservai per un istante mia madre.
Forse ci godeva. Le piaceva la mia goffaggine o il fatto che fossi
poco socievole. Amava sbattere in faccia a tutti i nostri conoscenti o

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a tutti i nostri amici di famiglia quelle che riteneva fossero mie
mancanze.
«Smettila di giocherellare e mangia!», mi ordinò.
Stufa la guardai in silenzio ma pronta a dare di matto. Una sola
parola di più e gliele avrei cantate.
«Elena, sù, balliamo».
«Come?». Lo guardai sorpresa.
Di solito il nonno mi chiedeva sempre di ballare durante le feste.
Diciamo che era il suo modo di divertirsi, non eravamo portati per
nulla ma lui ogni volta voleva ballare con me e mi costringeva a
farlo.
«D’accordo», dissi alzandomi dal tavolo. Gli altri commensali non
si erano neanche accorti che stava per avvicinarsi una burrascosa
pubblica lite di famiglia.
«Andiamo allora». Mi prese per mano e mi trascinò a passo svelto
lontano dal tavolo.
Una volta entrati nel corridoio nobile per raggiungere la sala da
ballo ci tenne a puntualizzare. «La mamma fa cosi solo perché…».
«Perché altrimenti si annoierebbe», disse guardando diritto di fronte
a me.
«I genitori fanno sempre cosi».
Girai la testa e lo fulminai con o sguardo. «Ogni festa la stessa
cosa».
«Non lo fa mica ad ogni festa». Il nonno provava a essere
diplomatico ma era come difendere un cane rabbioso che aveva
appena morso un bambino.
«Si comporta così sempre», sbuffai sfinita. «Anche a casa fa lo
stesso». Ripensai in un attimo a tutte le volte che mi era toccato
sentirla lamentarsi di quanto fossi asociale o di quanto fossi
imbranata e di mille altre cose che mi rimproverava alla prima
occasione.
«Qui è diverso però». Voleva proprio difenderla.

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«Vedi nonno credo che lei dica tutte queste cose o che parli per me
perché si vergogna di come mi comporto o di quello che dico o di
come la penso». Mi sentii il cuore battere più forte.
«No Elena. Non pensare così, la mamma ti vuole bene».
In fondo sapevo che quello che pensavo non era vero e che la
mamma mi voleva bene ma era anche vero che si vergognava, in un
qualche modo inconscio o forse semi-conscio, di me. Non era una
teoria da accertare ma una già convalidata da anni. Non poteva essere
altrimenti.
Prima di entrare nella sala mi girai di scatto. Non c’era nessuno nel
lungo corridoio eppure mi sentivo due occhi puntati addosso.
«Non ti va più di ballare?», chiese il nonno vedendomi ferma sulla
porta.
«No», ritornai con lo sguardo su di lui. «È dall’inizio della serata
che mi sento particolarmente osservata».
Il nonno rise rumorosamente. «È colpa di quel vestito».
Risi anch’io. «Lo ha scelto la mamma».
Avevo trovato steso sul mio letto un elegante abitino con biancheria
in tono e una piccola borsa. Appeso all’anta dell’armadio un trench
nero era pronto a coprirmi in caso di freddo. Era qualcosa che
accadeva ad ogni party o a ogni festa comandata, si materializzavano
per la stanza questi oggetti e se non li indossavo erano guai. Almeno
ero riuscita a convincerla a lasciarmi truccare e acconciare i capelli
da me, ma anche per quelli trovavo indicazioni attaccate con un post-
it sulla specchiera del bagno.
«Ti sta davvero bene ma non puoi sperare di non attirare
l’attenzione».
Mi mise un po’ in imbarazzo ma ero felice di apparire carina ai suoi
occhi.
«Sù andiamo», disse prendendomi per mano.
Nonostante la cena fosse in svolgimento c’erano diverse coppie che
ballavano, avevo creduto che saremmo stati solo io ed il nonno.
«Andiamo al centro». Sulle note del valzer il mio cavaliere preferito
mi fece volteggiare.

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Rise al primo affondo del mio tacco sul suo piede destro. «Scusa»,
gli sussurrai.
Il nonno era l’unico che non si lamentava degli attentati che gli
facevo involontariamente mentre ballavamo, o meglio, mentre lui
ballava.
«Non preoccuparti». Si fermò e portò la mia mano più in alto sulla
sua spalla poi contò ad alta voce “Uno, due e tre”.
Era inutile ma si sforzava al massimo nonostante il mio corpo
morto.
Al secondo volteggio notai un ragazzo che mi stava fissando. Era
vicino alla cabina del dj con un cocktail in mano.
«Il ritmo: un, due e tre», mi ripeté il nonno.
Distolsi lo sguardo e mi nascosi dietro la sua schiena. Mi chiedevo
se fosse stato lui a darmi la sensazione di essere osservata durante
tutta la serata.
Feci un altro girò e fui costretta dal mio corpo a riportare lo sguardo
su di lui che continuava a guardarmi.
Continuai così per tutto il tempo. Ad ogni giro che il nonno mi
faceva fare ritornavo al più presto a controllare se continuava a
fissarmi. Quasi immediatamente immaginai che fosse il solito
maleducato figlio di papà, ma nel suo sguardo non c’era un briciolo
di arroganza. Lui mi guardava come nessun ragazzo mi aveva mai
guardata, mi sentii ribollire il sangue, quello sguardo dolce ma al
contempo deciso e intrigante mi faceva quasi piegare le ginocchia.
Fortunatamente il nonno non si accorse della costante distrazione
che era apparsa ad animare la mia serata.
«Torniamo a tavola?».
«No rimango un po’ qui». Il nonno mi guardò con il suo sguardo
gentile nonostante sapesse che la mamma non avrebbe permesso il
mio ritiro dalla cena così presto.
«Ok, dieci minuti».
Annuii senza rispondere.
Mi sistemai il vestito e mi misi davanti all’entrata del corridoio da
cui potevo vedere il lontananza il mio tavolo.

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Non appena nonno andò via quel ragazzo iniziò ad avvicinarsi a me.
Il passo era sicuro e forte. Improvvisamente fui invasa dalla paura e
per salvarmi da chissà che cosa iniziai a battere in ritirata. Lo sentii
accelerare il passo e a metà del corridoio, «Ciao». Era lui che mi
teneva la mano sinistra per fermare la mia maratona da vera fifona
verso il mio tavolo.
«Scusami, perdona la mia sfacciataggine, volevo invitarti a ballare».
Iniziò a girarmi la testa, le guance presero a bruciarmi, sicuramente
avevo un aspetto davvero ridicolo ai suoi occhi. Dovevo
rispondergli: lui era lì che aspettava. «No... Sì, va bene», balbettai.
Sorrise abbassando la sguardo.
Eravamo sulla soglia della sala da pranzo ed ero terrorizzata che la
mamma mi vedesse parlare con lui, fece finta di non accorgersi del
mio nervosismo e mi riportò nella sala da ballo.
Esitai al pensiero di fargli del male con i miei tacchi ma mi trascinò
al centro della pista, prese entrambe le mie mani e le portò piano
dietro la sua nuca, sussultai quando le risenti sui fianchi. Il cervello
smise letteralmente di funzionare, sentivo solo il cuore battermi nelle
orecchie, le mani iniziarono a sudarmi e quando lui avvicino le
labbra al mio orecchio e mi sussurrò. «Che maleducato che sono!
Non ti ho chiesto nemmeno qual è il tuo nome»
Con un filo di voce risposi. «Io sono Elena, non ci hanno mai
presentati?». Mentre parlavo distolsi il mio sguardo dal suo, i sui
occhi erano di un marrone intensissimo, erano cosi scuri che non
riuscivo a scorgere le pupille.
Questa mia reazione lo fece sorridere di nuovo e io non potei fare a
meno di ritornare a fissarlo non appena rividi le sui labbra muoversi.
«Se proprio vuoi saperlo, mi sono imbucato!», disse con una
splendida voce melodiosa.
«Ah!». Cercai di rimettere in moto il cervello, un imbucato alla
festa di mia nonna!
Dopo la mia reazione cosi sorpresa sottolineò, «Di solito non
frequento ambienti del genere, ho fatto una scommessa con un mio
amico e credo di aver vinto»

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«Che genere di scommessa?», gli chiesi incuriosita. Alzò lo sguardo
e ricomparve quel sorriso tanto bello da inebetirmi completamente.
«Non sai che questa festa è più blindata di un G20?».
«Quindi la scommessa era riuscire ad imbucarsi?», chiesi,
fissandolo negli occhi.
«Si», disse trionfante, «Lui è rimasto fuori e io ballo un lento con la
più bella ragazza di tutta la festa».
Arrossii come un peperone «Non essere bugiardo», fu l’unica cosa
che riuscii a dire.
«Io non sono un bugiardo», dal tono che aveva sembrava lo avessi
offeso.
«È il vestito», dissi quasi senza fiato.
«Non credo proprio», spiegò, parlando lentamente. «Ti avrei notata
anche se avessi indossato un sacco della spazzatura».
«Sarebbe stato impossibile non notarmi con un sacchetto di plastica
al posto del mio abito da sera», dissi in tono sarcastico.
«Ma come hai fatto ad entrare?».
«Ho parcheggiato la macchina sulla parte posteriore e mi sono
semplicemente mescolato alla folla all’ingresso». Mia nonna sarebbe
saltata in aria se avesse saputo che era cosi facile entrare ad uno dei
suoi esclusivissimi party.
«E con i ragazzi all’ingresso?», gli chiesi incuriosita.
«La security non mi ha degnato di uno sguardo ma il mio amico è
stato pizzicato». Le sue labbra si allungarono in un perfetto sorriso e
io fini per dimenticare la domanda che gli volevo fare.
«Lui ha voluto aspettare che si disperdesse la folla ma uno dei
gorilla l’ha beccato all’ingresso ovest e gli ha chiesto l’invito».
«Poverino», dissi sincera. «E ora dov’è?».
«Credo sia nella mia macchina a farsi un pisolino». Riapparve quel
sorriso e per me fu la fine.
Ballammo in silenzio altre due canzoni guardandoci
reciprocamente. Non sapevo cosa dire, lui mi incantava con il suo
sguardo, con il suo sorriso, persino il suo profumo mi faceva
impazzire.

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All’improvviso pensai che quello non era il mio comportamento
abituale, io non ero mai stata il tipo di ragazza che si faceva
ammaliare da un bel ragazzo e che impazziva senza nemmeno sapere
chi lui fosse. Non avevo idea di cosa fosse l’innamoramento al primo
sguardo. Ma non potevo fare a meno di ballare con lui, non volevo
che mi lasciasse, non volevo assolutamente che la musica finisse. Ero
sua, persa nei suoi occhi, bramosa delle sue labbra e ansiosa di
sentire, di nuovo, la sua voce.
Poi d’un tratto gli chiesi: «Come ti chiami?».
Prima di rispondermi lui alzò lo sguardo oltre il mio volto e corrugò
la fronte.
«Ci sono due signore in abito da sera che ci stanno fissando, credo
che vogliano qualcosa da me».
Merda, lo avrebbero sbattuto fuori.
«La più anziana indossa un abito blu e l’altra uno nero e bianco?»,
gli chiesi.
Speravo che dicesse di “No” ma invece. «Le conosci?».
«Sono rispettivamente mia nonna e mia madre, che stanno
facendo?».
«Puoi vederlo con i tuoi occhi!», e iniziò a cullarmi per farmi
cambiare visuale. «Fermo!», dissi con un tono di voce troppo alto.
Temetti che mi avessero sentito anche loro.
«Parlano fra di loro. Non vuoi farti vedere?», chiese lui pensieroso.
«Se mi giro mia madre mi ordinerà di andare da lei e mia nonna ti
farà sbattere fuori in un istante».
Sembrava divertito dalle mie parole, probabilmente la sua famiglia
non era composta da fredde arpie manipolatrici.
«È un problema se balli con me?»
Non sapevo come rispondere, non volevo fare la figura dell’idiota
proprio con lui.
«È... una storia lunga», mi affrettai a dire.
«Non sarai promessa o roba del genere».
«Fidati, non è il momento giusto per scherzare».

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Feci un respiro profondo, poi iniziai a valutare tutte le possibilità
che non l’avrebbero fatto cacciare. Chiedere alla nonna di farlo
restare era fuori discussione, non avrebbe mai acconsentito ad un
ragazzo che non era nella rosa dei prediletti di ballare con la sua
nipotina. Convincere il nonno? Neanche lui avrebbe accettato, dato
ce si trattava di un imbucato. Anche papà non mi avrebbe
appoggiata. Mamma poi.
«Sto per essere sbattuto fuori?», disse in tono divertito con le labbra
ferme in un sorriso malizioso.
Incrociai di nuovo il suo sguardo. Furono i suoi occhi a suggerirmi
l’idea e parlai senza pensare.
«Fai un giro della pista da ballo, poi sali la scala dopo la sala da
pranzo, ti troverai un una stanza rettangolare. Entra nella porta sul
lato destro, là c’è lo studio, aspettami lì!».
Ero stupefatta della mia incredibile audacia, avevo appena dato un
appuntamento ad uno sconosciuto in un posto in cui saremmo stati
solo io e lui.
Mi baciò sulla guancia e io rimasi inebetita al centro della pista
mentre lui si allontanava, contai fino a cinque e mi voltai per andare
verso le mie due civette.
«Chi era quel ragazzo?», mi urlò mamma, piombandomi alle spalle.
Non avevo avuto il tempo di escogitare una giusta bugia. Con quel
bacetto mi aveva offuscato tutte le idee.
«Cara, quel bellimbusto non era sulla lista degli invitati», ribatté
nonna.
Io aspettavo muta che parlassero loro. Questa era sempre la mia
tecnica quando erano abbastanza vicine da sentire l’una quello che
diceva l’altra, prima o poi una avrebbe detto qualcosa che non
piaceva all’altra e la discussione da avere me come soggetto sarebbe
passata a tutt’altro argomento. Purtroppo quella volta non fu cosi.
«Lo conosci?».
«Sai il suo nome?», sbraitò mamma.
«Ti ha detto dove andava?».

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Nonna aveva un orribile sguardo accusatore, non sapevo come
cavarmela.
«Ti sei morsa la lingua signorinella?».
«Non so come si chiama…», dissi a mezza voce.
Non appena parlai mi resi conto che non ero riuscita a sapere nulla,
non era riuscito nemmeno a dirmi il suo nome.
«Mi ha chiesto di ballare». Poi il colpo di genio.
«Non sapevo come dirgli di no e quando ha visto voi è corso via
senza dire nulla».
Sembravano soddisfatte delle mie bugie, di solito non ero cosi
convincente.
«Va bene, ora è meglio che torni al nostro tavolo», mi ammonì
mamma.
«Ti dispiace se vado nello studio del nonno, non vorrei che quel
maleducato si ripresentasse», rimasero pensierose per un istante.
«Va bene! Ma prima devi mangiare almeno una portata», disse
nonna.
Immediatamente mamma alzò un sopracciglio, ma prima che
potesse replicare mi diressi verso l’uscita della sala.
In effetti stavo letteralmente morendo di fame. Ma avevano appena
portato la prima portata. Avrei dovuto aspettare prima di potermene
andarmene. Arrivammo tutte e tre al tavolo quasi nello stesso
momento e senza pensare avvicinai il vassoio del caviale e mi
riempii di nuovo il piatto, poi un blinis dopo l’altro, non ero mai stata
cosi golosa di quella robaccia.
Aspettai con ansia l’arrivo del secondo portata, non vedevo l’ora di
andare da lui. Ero letteralmente impazzita.
La conversazione era tornata alla scuola e la moglie del sindaco mi
ritirò in ballo.
«Signorina che media ha lei?». Disse appoggiando i gomiti sul
tavolo.
«Ho la media del nove ma sono un vero disastro in matematica e
fisica». Mi sistemai sulla sedia.

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«Quindi é un ottima studentessa». Aveva un tono un po’ troppo
sorpreso, «Buon per lei signorina».
«Veramente la matematica e la fisica non sono materie molto
importanti per chi frequenta il liceo classico». Precisò il nonno.
«Io ho il sette di media in quelle materie ma faccio molta più fatica
ad apprenderle del latino o del greco».
Spalmai il caviale ed imburrai per bene.
«Ma crede che il liceo classico dia una buona preparazione?». A
questa domanda sapevo non sarebbe stato necessario rispondere.
«Sicuramente è la miglior scuola insieme al liceo scientifico per chi
vuole intraprendere una carriera universitaria». La mamma dava
quella risposta ogni volta che qualcuno mi poneva quella domanda.
Era una routine per noi aspettare che fosse lei a rispondere quando ci
venivano rivolte certe domande.
Quando vidi arrivare i camerieri con delle strane portate mi alzai in
piedi e andai verso la mamma.
«Io vado», le sussurrai all’orecchio.
La sua risposta fu un rimprovero, «Non è stato molto educato
mangiare tutto quel caviale».
«Scusate mia figlia ma ha un po’ di mal di testa».
La moglie del sindaco mi guardò perplessa. «Ci lascia?».
Anche questa volta non era compito mio rispondere.
«Andrà in una delle camere da letto del castello per riposarsi ma
tornerà verso la fine della serata». Mi guardo in cerca di un segno di
assenso ma stizzita e incapace di rispondergli mi allontanai
lentamente.
Dopo aver attraversato la sala da pranzo iniziai ad avere paura,
sentivo le gambe molli. Forse era meglio tornare indietro e prendere
il soprabito. Mi fermai nella sala da ballo ormai vuota. Cosa stavo
facendo? Ero davvero cosi fifona! Mi rimisi diritta e mi aggiustai i
cappelli per tenere le mani occupate. Davanti alla rampa di scale il
cuore iniziò a martellarmi nel petto. Le salii piano, ad ogni gradino
facevo un respiro profondo. Nella sala felicia l’adrenalina mi faceva
tremare le mani, tentavo di fermarle ma non ci riuscivo.

17
Poi, mi ritrovai davanti alla porta dello studio.
Fu a quel punto che esitai, volevo scappare via. Mille domande
nacquero nella mia mente ma tutte chiedevano sostanzialmente la
stessa cosa. “È lui?”
Non avevo mai incontrato qualcuno che mi colpisse in quel modo
dal primo momento. Infatuazioni ne avevo avute durante la mia vita,
ma non ne ricordavo nessuna lontanamente paragonabile a questa.
Sentire le farfalle nello stomaco era un sensazione nuova e
impazientemente attesa. Ma ora che si era verificata era
incredibilmente potente, paurosa e forte. Quando avevo letto
dell’amore nei libri mi ero commossa e il cuore aveva galoppato con
la fantasia per le storie lette, mi ero illusa che l’amore assomigliasse
a quella sensazione.
Non ero sicura che fosse amore ma mi rifiutai di credere che non lo
fosse.
Guardinga spinsi piano la pesante porta. Si aprì lentamente,
accompagnata da un infinità di scricchiolii.

18
2
Varcata la soglia furono sufficienti due passi a farmi girare la testa.
Sentivo il cuore massacrarmi il petto.
«Stai bene?». Scattò in piedi non appena mi vide sulla porta.
<No, non è nulla>, dissi in fretta. Sentivo i nervi a fior di pelle. La
tensione e il nervosismo mi avevano fatto calare la pressione
sanguigna, sentivo che le gambe stavano per cedere.
Non ero riuscita a convincerlo. Mi si avvicinò e dopo avermi
afferrata da sotto il braccio mi portò sulla poltrona dalla quale si era
appena alzato.
<Oddio, scusami!>, dissi mentre mi aiutava con estrema
delicatezza. La fronte mi si riempì di goccioline di sudore.
<Non preoccuparti, è solo un giramento di testa>. Mi appoggiò alla
poltrona e si inginocchiò di fronte a me.
<Vuoi un po’ d’acqua?>. chiese lui nervoso.
Non ci credevo! Solo a me poteva capitare una cosa del genere.
Svenire dall’emozione.
<Non preoccuparti>. Per dargli la prova che mi stavo riprendendo
tentai di tirarmi su e mettermi diritta. Neanche stavolta sembrava
molto convinto che stessi meglio ma riuscivo solo a pensare che
avevo il volto tutto sudato e che dovevo sembrare davvero un stupida
imbranata.
<Non mi hai detto come ti chiami>, dissi per distrarlo.

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Lui si alzò e andò vicino alla scrivania per prendere una delle sedie.
Questo diversivo mi diede il tempo di asciugarmi la fronte con il
braccio. Un ottimo diversivo pensai.
<Mi chiamo Luca>. Sistemò la sedia di fronte a me e si sedette.
Lo guardai ancora stranita ma riuscii a dire, nonostante la saliva
azzerata, <E il cognome?>.
Sorrise. <Cordioli, Luca Cordioli>.
<Allora>, mi guardò ancora sorridente. <Cosa hai detto alla nonna e
alla mamma?>.
Cercai di fare chiarezza tra le mie idee. Non riuscivo a ricordare che
bugia avevo rifilato loro e il suo sorridermi mi annebbiava ancora di
più la mente.
<Sei sicura che qui non ci troveranno?>.
Dovevo stare attenta. L’unica cosa che mi rimbalzava in mente era
che mi aveva detto che non frequentava feste come questa.
<Hai ripreso colore>, non appena lo disse mi toccò con le dita
affusolate la guancia. Ebbi un fremito!
<Scusami>, si affrettò a dire. <Non volevo>.
Per cercare di riprendermi dall’ennesima figuraccia che l’istinto mi
aveva procurato tentai di rispondere alle sue domande. <La mamma e
la nonna non vengono mai qui>. Parlavo guardando il nodo perfetto
del suo papillon.
<Come sapevi di questa stanza?>.
Mi ero già fregata con le mie mani. Soppesare le parole non era
servito a nulla, la domanda fatidica mi veniva già rivolta.
<Questo è lo studio di mio nonno>. Biascicai piano ancora incapace
di guardarlo negli occhi.
<Lo studio di tuo nonno?>. Ero sicura, anche se non gli guardavo il
volto, che le sue sopracciglia erano schizzate in alto come due
proiettili.
<Sì, il castello appartiene alla mia famiglia>.
Mi mise la mano sotto il mento e con leggerezza mi costrinse ad
incrociare i suoi occhi con i miei.

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<Della tua famiglia>, sottolineo con le labbra allungate in un
sorriso.
Annuii con un espressione di convenienza.
Rise divertito. <Altre sorprese?>.
Decisi di cogliere la palla al balzo. <Di solito io vengo qui quando
una festa mi annoia>. Ripresi a guardare in basso.
<Guardami negli occhi>, mi sussurrò a mezza voce.
Più che guardarlo, non appena finì di parlare lo fissai con le pupille
sgranate. Mi aveva sorpresa.
Annuì col capo. <Continua>.
<L’unica persona che potrebbe venire è mio nonno o mio padre
alla fine della serata>.
Sorrise con un espressione beata in volto. <E queste feste quando
finiscono di solito?>.
<Mai tornata a casa prima delle tre>.
Apparve una fila perfetta di denti bianchi. <Bene allora!>
Si allontanò un attimo per poi riavvicinarsi e chiedermi. <Lo so che
è da maleducati ma…>.
Anch’io mi avvicinai al suo volto.
<Sei molto ricca?>.
Quasi saltai sulla sedia. <I miei sono ricchi>.
Piegò la testa e annui divertito. <Bella risposta>.
<Come mai la mamma e la nonna non volevano che ballassi con
me?>.
Non volevo fare la figura dell’idiota e raccontargli tutto, dovevo
glissare almeno su questo argomento.
<Credo sapessero che non eri stato invitato>.
<Tua nonna ricorda tutti quelli invitati alle sue feste?>. Mi guardava
incredulo.
<Si, lei e la mamma hanno una memoria da elefante per quanto
riguarda gli invitati>.
<Ed è un problema se balli con uno sconosciuto?>.
Stavolta fui io a sorridergli. <Si! Per loro è decisamente un
problema>.

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<Bene! Non voglio metterti nei guai, se vuoi posso sgattaiolare
fuori…>.
<Sono già nei guai!>, l’affermazione mi uscì molto meno languida
di quanto avessi voluto ma almeno un sorrisetto riapparve sulle sue
labbra.
<Allora, posso farti un'altra domanda?>.
Mi misi più comoda sulla sedia è annuii.
<Quanti anni hai?>, chiese in tono serio.
Per il nervoso mi morsi il labbro. <Tu quanti ne hai?>, dissi per
prendere un po’ di tempo.
Si sistemò i capelli con un mezzo sorriso sulle labbra, <Io ne ho
ventitre. Su avanti, tu quanti ne hai? Ventuno? Ventidue?>.
Merda nera! Sei anni di differenza, gli sarebbe preso un colpo.
Dovevo immaginarmelo che la mia sfiga non finisce mai. Sembrava
più grande di tutti i miei compagni di classe e di tutti i ragazzi che le
arpie mi presentavano ma con i miei diciassette lo avrei fatto
scappare.
<Quest’anno ne farò diciotto>, sorrisi mentre pronunciavo quelle
parole.
La sua reazione fu quella che avevo previsto. La sua espressione
passò dal sorpreso al divertito mentre dentro di me pregavo che non
si mettesse a ridere.
<Hai diciassette anni…>, non ci credeva, <Tu hai diciassette
anni!>.
<Sì!>, dissi contrita, <È il vestito che mi fa più grande… se vuoi
andartene non mi offendo>.
Era meglio non illudersi che un ragazzo ventitreenne bello come un
dio perdesse il suo tempo con una liceale vergine e mezza sfigata.
<Cosa ti fa pensare che voglia andarmene?>, disse con uno sguardo
molto contrariato.
Mi affrettai a rispondere, <Beh, io vado ancora a scuola e tu sei più
grande di me>.
<Più grande!>, mi guardava fisso negli occhi mentre parlava, <Ti
sembro troppo vecchio per farti la corte?>.

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Mi stava facendo la corte? Le guance dovevano essersi colorate
perché le sentivo ardere.
<Forse ho esagerato, sei diventata dello stesso colore della sedia>,
disse mordendosi le labbra per soffocare una risata.
Ero seduta sulla sedia preferita del nonno, quella da lettura.
Naturalmente era quella che anch’io prediligevo per le mie serate di
“divertimento” da festa mal riuscita. Lo studio del nonno era la
stanza che più mi piaceva di tutto il castello. Le pareti dipinte di
verde e il soffitto affrescato mi facevano sentire come una
principessa da salvare. I mobili erano tutti antichissimi,
appartenevano al mobilio originale del castello. Quattro librerie di
massiccio ebano con eleganti decorazioni, tutte stracolme di libri. Il
nonno era famoso per la sua collezione di manoscritti rari e ogni
anno professori universitari, studiosi e laureandi chiedevano di poter
visionare alcuni dei suoi pezzi più introvabili. Lui non lo concedeva
mai a nessuno, solo noi due avevamo la possibilità di leggerli,
osservarli e studiarli in qualunque momento. Era felicissimo che io
avessi la sua stessa passione per la lettura, tanto da avermi detto che
la sua collezione e tutto ciò che era contenuto nello studio sarebbero
andati direttamente a me e non prima a mio padre. L’aveva scritto nel
suo testamento.
D’un tratto un rumore vicino alla porta ci fece uscire da quel
momento di silenzio imbarazzato. Entrambi ci precipitammo per
vedere chi fosse. Misi la mano sulla maniglia e lentamente aprii.
La sala era molto buia ma riuscivo ad osservare ogni angolo fino
alla scala abbastanza chiaramente. Non c’era nessuno. Probabilmente
un po’ di vento doveva aver fatto scricchiolare qualche finestra.
Mi affrettai a richiuderla, la luce che proveniva dallo studio
illuminava l’androne delle scale. Qualcuno poteva notarla. Mentre
accompagnavo la porta questa iniziò a scricchiolare e lui mise la sua
mano sulla mia per farmi chiudere più lentamente. Lo guardavo, non
ne potevo fare a meno. La sua bellezza mi faceva dimenticare la
buona educazione e mi perdevo a fissarlo. Dopo che mi aveva

23
chiesto di guardarlo negli occhi non avevo perso un minuto per
squadrarlo di continuo. Non riuscivo a far star calmo il cuore.
Anche lui mi guardava con attenzione mentre lo fissavo attonita,
incapace di qualunque gesto se non fissare la perfezione del suo
volto.
Era molto più alto di me. Il fisico atletico e slanciato si notava
benissimo sotto lo smoking nero. La mascella volitiva e il naso
perfettamente diritto mi ricordavano la statua di lucifero vista in una
chiesa in Belgio durante una gita scolastica.
Forse lui era li per tentarmi. Faceva dire bugie ad una ragazzina che
non aveva mai mentito in vita sua. Con lo sguardo le faceva
desiderare cose assai peccaminose e mai provate prima. Il suo corpo
riusciva ad infuocare e a riempirle la mente di una tale bramosia di
lussuria che nessun altro era mai riuscito, anche solo lontanamente, a
suscitare.
Ero spaventata da me stessa. Le mie reazioni mi terrorizzavano. Ero
certa che a qualunque cosa mi avesse chiesto non avrebbe ricevuto
una risposta negativa.
Non capivo cosa mi stesse succedendo. Ormai ero del tutto al di
fuori da ogni controllo.
Stavamo ancora impalati ad osservarci quando lui ruppe il silenzio.
<Di cosa stavamo parlando?>.
Tornò al suo posto con i mie occhi fissi sulla schiena.
<Che scuola frequenti?>.
Mentre mi sedevo risposi automaticamente, <Il Maffei>.
<Come mai hai scelto il classico?>.
Corrugai le labbra, <Perché odio la matematica!>.
Continuai, <Tu che scuola hai fatto?>.
<Ho fatto il liceo scientifico ma ora studio pittura all’accademia>.
Nel momento in cui disse la parola “accademia” pensai al
sopracciglio inarcato di mia madre se mai avesse saputo che mi stavo
innamorando di un artista spiantato o al fatto che mia nonna fosse
l’unica persona sulla faccia della terra a ritenere che la parola
“accademia” faccia rima con “fannullone”.

24
<Sei all’ultimo anno, giusto?>.
Feci su e giù con la testa consapevole della domanda che stava per
seguire.
<Cosa vuoi fare dopo il diploma?>
<Non lo so>, dissi in fretta.
<I tuoi cosa vogliono che faccia?>.
Aveva colpito di nuovo nel segno. Secondo il pensiero di mio padre
avevo insistito tanto per frequentare il liceo classico perché volevo
laurearmi in giurisprudenza e lavorare con lui nel suo studio legale.
Non aveva mai espresso ad alta voce questo suo desiderio ma sapevo
che ci sperava. Per la mamma e la nonna un diploma valeva l’altro
tanto dovevo sposarmi e fare figli. Secondo le donne della mia
famiglia se hai la vagina la tua massima ambizione deve essere
sposare un uomo ricco che ti copra di roba costosissima e che ti
faccia sempre scegliere il ristorante.
L’unico membro della famiglia a conoscere le mie vere aspirazioni
era il nonno. Era stato l’unico a darmi abbastanza fiducia da farmi
confidare apertamente su come volevo che fosse il mio futuro.
Neanche ad Emma, la mia migliore amica, avevo avuto il coraggio
di raccontare “quello che volevo fare da grande”.
Del resto se la tua ambizione è diventare scrittrice eviti di urlarlo ai
quattro venti e farti coglionare a vita se fallisci.
Il nonno assecondava le mie passioni. Non appena gli confessai il
mio segreto iniziò a regalarmi libri ad ogni occasione. Mi fece
pubblicare su diverse riviste letterarie alcuni racconti brevi e aveva
iniziato a ricercare la miglior facoltà di lettere italiana.
Fortunatamente non credevo che i miei sarebbero stati contrari se
mi fossi laureata in lettere e gli avessi chiesto di mandarmi alla
scuola Holden di Torino.
<Mio Padre credo voglia che mi iscriva a giurisprudenza ma io
preferirei lettere>, mi resi conto che mi tremava la voce.
Mi guardò con un espressione beffarda. <Ma tu cosa vuoi fare?
L’insegnante?>
Avevo la pelle d’oca solo all’idea.

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<Non sei mai stato in un liceo pubblico ultimamente?>. Tentai di
prenderlo in giro.
Sorrise. <Allora cosa vuoi fare?>. Era molto interessato.
Non sapevo ancora se potevo fidarmi. Raccontare i mie sogni ad
uno sconosciuto mi sembrava abbastanza sciocco. Cosa avrebbe
detto della mia folle ambizione? Mi avrebbe derisa?
<Vorrei diventare scrittrice>, l’avevo detto tutto d’un fiato ed ora
aspettavo di vedere cosa dicesse immersa nella vergogna.
<Bene!>. Disse mentre tentavo di decifrare la sua espressione.
<Dovresti essere più sicura però>.
Non sapevo cosa dirgli. Avevo sempre immaginato che le prime
espressioni che avrei visto sui volti delle persone a cui avrei
raccontato i miei sogni sarebbero state lo stupore e l’incredulità.
Nei suoi occhi invece c’era un espressione strana. Sembrava che
fosse orgoglioso che puntassi al massimo.
<Avevo paura…>, aggiunse sorridente, <Che mi avresti detto che
volevi fare la velina o la showgirl> .
Mi squadrò e puntualizzò, <Per via del vestito!>.
Risi con lui portandomi le mani sul corpetto.
In effetti con quel vestito mia madre aveva esagerato. Avevo
d’avvero l’aspetto di una velina in trasferta.
<Sei sempre vissuta a Verona?>. Cambiò discorso.
<Sì sono sempre..>, ci pensai su un attimo, <No!>.
Ogni volta dimenticavo di aver vissuto a Mantova per due
lunghissimi anni.
<Ho vissuto da sola a Mantova durante gli anni del ginnasio>.
<Da sola?>, mi guardò sorpreso.
Mi corressi subito. <Non ero davvero sola. Ero in un collegio>.
<Intendevi senza la tua famiglia?>.
<Si! Esatto, senza la mia famiglia>. Ero diventata incapace di
parlare.
<Ti piaceva Mantova?>.
Ci riflettei anche se sapevo benissimo cosa rispondere. <È una città
stupenda>.

26
<Anche se non uscivamo spesso da quel posto>, mi affrettai a
precisare.
<Scusami, ma come funziona in collegio?>.
Rimasi colpita dalla domanda. <Bé, studi dall’alba al tramonto>.
<Davvero?>. Non ci credeva.
<Allora, ci si sveglia alle sette e dalle otto a l’una si fa lezione
come in una scuola normale>.
<Poi?>, chiese curioso.
<Pausa fino alle tre e i compiti fino alle sei>.
Corrugò la fronte stranito.
<Dalle sei in poi si possono fare diverse attività: ginnastica, nuoto,
recitazione, dizione, canto, musica o qualsiasi altra cosa si possa fare
in un posto al chiuso>.
<E a che ora si dormiva?>.
<Alle dieci e trenta a nanna!>.
Soffoco un sorriso. <Tutte ragazze?>.
Sorrisi anch’io mentre rispondevo. <Sì, dalla prima all’ultima
persona nell’edificio>.
<E i tuoi non li vedevi mai?>.
Nessuno mi aveva mai chiesto una cosa del genere. Davano tutti per
scontato che ci vedessimo per le feste comandate.
<La domenica si alternavano mamma e papà con nonno e nonna.
Mi portavano al ristorante e poi una lunga passeggiata>.
<E le feste?>.
<Tornavo per le feste!>.
<Oh! Non avevo capito. La domenica venivano a trovarti loro da
Verona?>.
Annui leggermente mentre pensavo a come poteva essere strano per
lui sentire un discorso del genere.
<Ok!>.
<Ti sembra strano?>.
Mi guardò sereno. <No, forse e un po’…>.
<Sì è strano!>, dissi ridendo.
Ora fu lui ad annuire divertito.

27
<In quale posto sei mai andata oltre Verona e Mantova?>.
Mi piaceva il tono della sua voce. Era molto soave, sembrava
musica e mi incantava come tutto il resto.
<Sono stata molte volte a Roma e a Milano. Spesso andiamo in
vacanza in posti esotici>.
<Dove?>.
Speravo non me lo chiedesse ma era impossibile che non lo facesse.
Se non era scappato quando gli avevo detto che il castello era dei
miei nonni potevo conservare la speranza che non si impressionasse
per tutto il resto.
<Bali, Bora Bora, Maui, Nevis, Surat Thani, Sharm El Sheikh e un
sacco di volte alle Mauritius>, purtroppo il suo sguardo era stranito,
<Cosa c’è?>. Chiesi coraggiosa.
Fece un sospiro. <Niente! Sono solo un po’ sorpreso>
<Sorpreso>. Gli feci eco.
Forse avrei dovuto tenere la bocca chiusa. Potevano impressionarlo
quei posti.
Sorrise un attimo e poi si sporse verso di me. <Mete da milionari!>.
Feci un sorriso di convenienza.
<Vivi in un castello!>.
Sgranai gli occhi. <Non è casa mia!>.
<Non preoccuparti! È come parlare con una testa coronata>.
Sorrisi nervosa, voleva prendermi in giro.
<Se hai un isola nel mediterraneo come la Casiraghi giuro che vado
via>. Disse ridendo.
<Spiritoso!>.
<Almeno uno yacht che porta il tuo nome ce lo’avete?>.
Risi. <Eufedia>.
<Come?>. Chiese lui.
<Il nome del nostro yacht>.
Rimase di sale.
<La barca a vela del nonno porta il mio nome>.
Ora era sotto shock.
<Io scherzavo!>. Si affrettò a precisare lui.

28
<Lo avevo capito>, poi aggiunsi per dargli il colpo finale,
<Comunque lo yacht di famigli assomigli molto al Pacha III>.
Alzò le sopracciglia. <Il Pacha III?>
Ridendo gli spiegai la mia battuta che credevo avrebbe colto senza
bisogno di aiuti. <Sì, il Pacha III. Lo yacht di Caroline di Monaco>.
<Oh!>, esclamo lui sorridente.
Abbassai gli occhi per un istante divertita del suo modo di reagire.
<Tu, dove sei stato?>.
Alzò lo sguardo per riordinare le idee. <Dopo la fine della scuola
superiore ho fatto un viaggio in giro per l’Europa…>.
<Davvero!>.
<Sì! Per tutta l’estate>.
Ero molto incuriosita. <Dove sei stato?>.
<Sono stato a Salisburgo, Monaco, Berlino, Amburgo, Copenhagen
e poi… poi sono finiti i soldi>.
Aveva fatto quello che avrei voluto fare io. Odiavo stare in quei
posti esotici dove non si esce mai dal resort. Prendere il sole per tutto
il giorno o fare il bagno, per quanto fosse paradisiaco il posto era di
una noia mortale. Solo una volta sono riuscita a convincere i miei a
fare un escursione alle vere Mauritius.
<Sei andato all’avventura!>. Ero affascinata, <Sei partito solo?>.
<Sì, era qualcosa che dovevo fare per me stesso senza nessuno fra i
piedi>.
Fui contenta che non avesse detto che si era portato dietro una
ragazza.
<Come è stato vivere senza rete?>.
Si morse il labbro, <Non è stato difficile sopravvivere. Io sono
partito con mille euro>.
<Quanto sono durati?>.
Portò gli occhi verso destra cercando di ricordare. <Sono arrivato ad
Amburgo con meno di duecento euro in tasca. Di Copenhagen non
ho visto molto>.
<Dove dormivi?>.

29
<Ho dormito negli ostelli della gioventù e due volte su una
panchina>. Parlava con un mezzo sorriso sulle labbra.
Su una panchina! Immaginai me stessa in una situazione del genere,
non credevo che sarei mai stata capace di dormire all’aperto, in una
città straniera e in un paese dove non conosco nessuno. Sarei morta
dalla paura.
<Io non potrei mai farlo>. Ormai ero completamente persa nei suoi
occhi, <Come è stato stare li all’aperto senza nessuno che
conoscevi?>.
<Beh! Decisamente è un esperienza liberatoria!>.
<Liberatoria?>, ripetei con un evidente tono di incredulità nella
voce.
<Sì! Può farti un po’ paura ma è una sensazione che ti fa sentire
completamente libero>.
Ero completamente affascinata da lui. Continuavo ad
immaginarmelo con le braccia dietro la testa disteso su una panchina
di un parco mentre dormiva con il viso illuminato dalle stelle.
<Cosa ti ha colpito di più?>.
<Forse>, ci pensò un istante, <Non credo che avessi bisogno di
contemplare quadri nei musei o di rimanere estasiato da uno scorcio
suggestivo in qualche angolo cittadino del nord Europa. I momenti
che mi sono rimasti più impressi sono quelli passati in treno>.
Ancora una volta mi sorprendeva. <I viaggi in treno>.
<Sì. Credo che più che viaggiare volessi sentirmi spensierato, non
ho un ottimo rapporto con i miei, volevo sentirmi libero>.
<Ti capisco>, mormorai cupa.
<Non hai un bel rapporto con i tuoi?>, chiese.
Non volevo raccontargli proprio tutto. Aveva capito certamente di
quanto fossero “iperprotettive” mia nonna e la mamma ma di
raccontargli nel dettaglio anche di papà mi sembrava troppo. Cercai
le parole giuste per rispondergli ma mentre pensavo mi fece un'altra
domanda.
<Quindi questo è lo studio del nonno?>. Si era reso conto che la
domanda sui miei mi aveva messo in difficoltà.

30
<Già!>, poi pensai a cosa potevo dirgli per sorprenderlo.
<È stupendo qui!>.
<Sai il nonno mi ha detto che tutto quello che è in questa stanza
andrà direttamente a me e non a mio padre quando lui…>.
Luca increspò le labbra. <…Morirà>.
<Esatto!>. Mi ritenevo incapace di dire quella parola fui contenta
che l’avesse detta lui.
<Sai il nonno è un famoso collezionista di libri rari, in questa stanza
sono concentrati libri per un valore di…>.
Lui sorrise. <Brava! Meglio che ti fermi!>.
Ridemmo entrambi divertiti da quel piccolo momento di imbarazzo
comune.
Mi affrettai a trovare un'altra domanda da fargli.
<Parlami dei tuoi>.
<Mio padre è professore di matematica in una scuola media e mia
madre lavora come grafica impaginatrice per una piccola tipografia>,
poi guardò verso la finestra e disse, <Non vado d’accordo solo con
lui, sai com’è>.
Purtroppo sapevo benissimo come si poteva sentire. Il mio era il
padre più protettivo del mondo. Era convinto che se avesse
continuato a trattarmi come una bambina lo sarei rimasta per sempre.
<Per caso vuole spingerti nella direzione “giusta”?>, azzardai.
<Diciamo che vuole che non commetta i suoi stessi errori e tenta di
impormi ciò che vuole lui>, rise fra sé, <Quando gli dissi che volevo
fare l’accademia…>.
<Litigaste?>.
Rise. <Sì, diciamo cosi>
Forse anche lui stava omettendo qualche particolare che riteneva
imbarazzante.
Si era un po’ intristito ma io morivo dalla curiosità. <Cosa voleva
che facessi?>.
<Ero il più bravo della mia classe e voleva che mi laureassi in
economia alla Bocconi>, mi lanciò un occhiata da complice, <Ma il
giorno dopo il mio esame orale ero già in treno per Salisburgo>.

31
Tornò serio. <Fu mia madre a farlo calmare e a fargli digerire il
boccone amaro>.
<Allora poi gli è passata?>.
<Diciamo che…>, rise, <No! Non gli è passata>.
Poi mi guardò negli occhi e disse, <Credi che avrai la stessa sorte
che ho avuto io?>.
Mi prese in castagna, <Probabilmente sarà ancora più problematica
la questione>.
<L’unica consolazione…>, mi rassicurò lui, <È che alla fine se ne
faranno una ragione>.
Lo guardai con un sorriso ironico, <Tu non conosci mia madre>.
<Perché dici cosi?>. La mia famiglia lo incuriosiva.
<Non ci siamo mai capite>.
<Che strano!>, disse portandosi un dito verso le labbra.
<Ho più cose in comune con te che con tutti i miei coetanei>, rise
divertito, <Chi avrebbe pensato di avere tanto in comune con una
ragazzina>.
Risi anch’io della sua battuta ma con un tono meno divertito. Forse
mi vedeva come una bambinona?
<Ehi!>, disse dandomi un colpetto sulla mano, <Scherzavo!>.
Nonostante il tentativo di trattenermi mi illuminai in un sorriso alla
Berlusconi.
<Io però non ho un bel rapporto nemmeno con mio padre>, dissi
per riprendere il discorso.
Si morse le labbra per non ridere, <Di preciso c’è qualcuno con il
tuo stesso Dna con cui vai d’accordo? Magari un fratello? Una zia
eccentrica?>.
<Sono figlia unica e lo sono anche mio padre e mia madre>.
Abbassò lo sguardo e piano il silenzio si fece spazio tra i secondi.
Sentivo nell’aria che qualcosa stava per accadere. Risentii quei
formicolii che avevo avuto quando mi era vicinissimo accanto alla
porta. Stava per accadere! Il mio primo vero bacio.
Ero li impalata mentre lui si avvicinava. Non riuscivo a muovermi,
ero diventata un corpo comune con la sedia. I pensieri vorticosi che

32
avevo fino ad un istante prima si fermarono lasciando spazio solo ai
battiti del mio cuore.
Mi alzai piano quando mi accorsi che mi stava porgendo la mano.
La afferrai e mi resi subito conto di quanto la mia fosse sudata
rispetto alla sua. Tentai di non pensarci e mi concentrai per tenere
ferme le gambe che ormai tremavano in maniera impercettibile.
Sentii i suoi muscoli sul mio corpo quando mi avvicinò a sé e smisi
di respirare.
Iniziò ad avvicinarsi. Sentivo le sue braccia stringersi su di me e
d’improvviso mi prese l’impazienza di sentirlo sulle mie labbra. La
paura scomparve e il desiderio di toccarlo divenne la mia unica
ragione d’esistere.
Ma prima che potessimo sfiorarci bussarono. Sperai fosse uno dei
ragazzi del catering ma la porta si aprì con quello scricchiolio che nei
film dell’orrore è presagio di guai.
<Elena ti ho portato un po’ da mangiare>, sentii la voce del nonno e
vidi il piatto stracolmo di leccornie che preannunciava il suo
ingresso.
<Non sei sola, vedo>, il tono era calmo. Mi aspettavo che cadesse a
terra stecchito, invece sembrava che la presenza di Luca non gli
facesse né caldo né freddo.
<No>, dissi leggermente in imbarazzo, <Lui è Luca, Luca lui è
nonno Pietro>.
Si strinsero la mano educatamente. Il nonno non sembrava affatto
infastidito dal fatto che avevo portato un ragazzo nel suo studio.
<Forse è meglio che vi lasci soli>, posò il piatto vicino all’interfono
e si defilò.
Prima di chiudesi la porta alle spalle non poté fare a meno di farmi
l’occhiolino. Quel ragazzo gli piaceva! Sperai che lui non se ne fosse
accorto.
<Sembra che io piaccia a tuo nonno>. Alzò lo sguardo in cerca del
mio viso.
Ero stata sfortunata, quando lo guardai stava tentando di trattenere
le risate e non ci riusciva per nulla.

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Quella splendida risata mi fece risentire le ginocchia leggere e con
tutta la grazia della ragazza più goffa del mondo tornai a sedermi.
Lo osservavo con la coda dell’occhio. Se ne stava vicino alla
libreria a leggere i dorsi degli antichi libri quasi del tutto scoloriti dal
tempo.
<Trovato qualche titolo interessante?>, dissi svelta per darmi un
tono.
Passò oltre la mia poltrona e si mise ad osservare il quadro di caccia
appeso sulla parete alle mie spalle.
<Anche questi quadri andranno a te?>.
Mi alzai e mi misi al suo fianco. Trascinavo i piedi, dovevo ancora
riprendermi dall’ultima volta che eravamo stati vicini.
<Francamente non mi sono mai piaciuti>.
<Non ti piace la caccia?>, mi guardò ancora con quello sguardo
penetrante e curioso.
<Decisamente no!>.
<Sono solo quadri!>, aggiunse lui.
Per divertirlo dissi la verità. <Mi terrorizzano i cavalli>.
<Come?>.
<Mi fanno paura!>, dissi con un tono infantile.
<Perché?>.
<Quando ero bambina mi hanno regalato un cavallo>.
Alzò un sopraccigli. <Un cavallo vero? Non uno di quelli di
Barbie?>.
<Avevo anche quello di Barbie ma quello di cui ti parlo era vivo>.
Annuii in attesa del racconto.
<Mi fece cadere e mia madre…>.
Lui iniziò ridere a crepapelle.
<Smettila, non è carino>.
<Mi stai dicendo che vi siete mangiati il tuo pony?>.
Mi vergognavo a raccontare quella storia ma era la verità. <Non lo
abbiamo mangiato!>.
<Allora cosa?>, disse lui ancora ridendo.
<L’abbiamo mandato al macello e basta!>.

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Lui riprese a ridere ma stavolta in mia compagnia.
<Ed è per questo che non ti piacciono questi quadri?>.
<Sì, ogni volta che vedo questi cavalli mi viene in mente il mio
povero animaletto condannato a morte per colpa mia>.
<Volevo chiederti se con il nonno vai d’accordo?>.
Mi strinsi nelle spalle. <Certo! Altrimenti perché mi regalerebbe
quadri e libri?>.
Rise. <Quindi ti sta comprando?>.
<No! Io direi più corrompendo!>.
<Beh! Sei l’unica adolescente che si fa corrompere con dei vecchi
libri e non con un nuovissimo paio di scarpe>.
Lo guardai di traverso. <Sono gusti!>
<Capisco benissimo perché ti piace stare qui>, esclamò lui.
<Piace anche a te?>.
<Si, piace anche a me>.
<Mi piace soprattutto che sia nella torre, mi sento come una
principessa>.
<Già, Raperonzolo!>.
Ridemmo insieme.
<No, in realtà mi piace perché è un posto tranquillo>.
<Già. Dà una certa serenità, ti senti al sicuro>.
Aveva capito benissimo come mi sentivo. Era per sentirmi protetta
che sgattaiolavo il prima possibile nello studio. Mi sentivo sempre
così aggredita da tutte quelle attenzioni che era un immenso sollievo
rifugiarsi in un posto dove nessuno mi poteva osservare e criticare.
La mamma e la nonna non intuivano il mio disagio. Mio padre
faceva finta di non vedere il modo in cui si comportavano più per un
suo fastidio che per solidarietà al mio. Il nonno era il mio unico
complice. Probabilmente se non ci fosse stato lui in quella famiglia
di ricchi disadattati sarei finita sul divanetto di uno psichiatra.
<Quindi non ti piacciono i cavalli e la caccia>, riprese il discorso.
<Sì>.
<Posso darti ragione sulla cacci,a ma sui cavalli…>.
Gli piacevano i cavalli?

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<Sai all’accademia c’è un professore che me ne ha fatti disegnare
tantissimi per l’esame di anatomia e sono gli animali più eleganti che
esistano>.
Risi. <Con quel testone?>.
Sorrise anche lui. <Perché? Vogliamo discutere dell’odore?>.
<Dio no! Quello proprio no!>.
Si alzò dalla sedia e si avvicinò alla scrivania.
<Caviale e crostini>.
Mi accigliai per un istante. Avevo ancora fame ma avevo mangiato
già troppa di quella roba.
<Vuoi servirti?>.
Pensai per un istante che probabilmente lui non aveva mangiato
dato che non aveva un posto a sedere. Dovevo immolarmi per non
farlo mangiare da solo come una maleducata.
<Ti piace il caviale?>.
Rise. <Si! Non mangio altro>.
<Bene!>.
<In realtà, non l’ho mai mangiato>.
<Allora questa sarà la prima volta>. Almeno qualcosa di nuovo
anche per lui.
Mi alzai anch’io e con il cucchiaino d’osso sistemai il caviale sul
crostino. Lui osservava l’operazione con attenzione e con il sorriso
sulle labbra.
<Tieni>, glielo porsi educatamente.
Anziché prenderlo con le dita aprì la bocca.
Sorridente lo imboccai.
<Allora ti piace?>.
<Sa di pesce>.
<Già>, dissi sarcastica.
<Però e più amaro>.
Annuii. <Ma ti piace?>.
Alzò le sopracciglia. <Mangiabile>.
Ridemmo assieme. Era la prima persona che definiva il caviale
“mangiabile”.

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<Di solito viene definito “una prelibatezza”>.
Riprese a sorridermi.
<Oppure si inizia una lunghissima conversazione sul caviale
pressato e su quello fresco>.
<La regina dello Storione!>.
Ridemmo ancora guardandoci reciprocamente.
La sua risata era così musicale che era un piacere ascoltarla.
<Posso farti una domanda?>. Ritornò serio.
<Certo>.
<Hai mai portato qualcun altro qui o io sono il primo?>.
Sorrisi imbarazzata. <Sei il primo. Il primo in assoluto>. Arrossii
non appena finii di parlare.
Si avvicinò e con la mano mi sfiorò il viso. Chiusi gli occhi e lo
sfiorare divento una carezza.
<Sei bellissima>, mi sussurrò all’orecchio.
Smisi di respirare. Il suo viso si avvicinò lento al mio e proprio un
istante prima che le nostre labbra si sfiorassero, <Elena!>, disse mio
padre in tono grave.
Non sapevo cosa fare, ero pietrificata.
<Mi scusi signor Marchesini>, disse Luca in tono rilassato, <Io
sono un amico di sua figlia>.
<Che ci fa qui con te?>. Quelle parole mi offesero.
<Papà!>.
Mi guardò arrabbiatissimo. <Perché è qui con te?>.
<È un mio nuovo amico>.
Lo fulminò con lo sguardo ancora più arrabbiato di prima.
<Ho capito! Ma perché è qui?>.
<Papà!>. Stava diventando imbarazzante. Cosa voleva sentirsi dire?
<Niente! Stavamo solo parlando>.
Luca tentò di riprendere le presentazioni. <Luca Cordioli>.
La mano era sospesa a mezz’aria quando l’espressione di papà
divenne di ghiaccio.
<Ripeti il tuo nome!>, ordinò mio padre.
Non stavamo facendo nulla di male. Perché reagiva cosi?

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<Come scusi?>.
<Tuo padre è Enrico Cordioli?>, Luca lo guardava stranito.
Non capivo più di cosa stesse parlando.
<Tuo nonno si chiama Gianpaolo?>.
Papà conosceva la sua famiglia?
<Sì>. Rispose Luca.
<Fuori da casa mia!>, urlò.
<Papà cosa dici?>. Era impazzito!
Mi guardò come se lo avessi pugnalato. <Allontanati da lui!>.
Che cosa stava succedendo?
<Da quanto tempo lo conosci?>, poi aggiunse, <È il tuo ragazzo?>.
Non sapevo cosa fare. Dissi la verità.
<L’ho incontrato per la prima volta stasera. Papà calmati!>, tentai
di rassicuralo.
<Cosa?>.
Ero nei guai!
«Hai portato un ragazzo appena conosciuto in un posto appartato,
cosa ti salta in mente?», il suo viso era paonazzo dalla rabbia.
Dire la verità era stata una pessima idea.
Si avvicinò all’interfono e si portò la cornetta alla bocca,
«Sicurezza!».
<Papà aspetta!>.
<Cosa dovrei aspettare?>. Mi guardò come se fossi una poco di
buono.
«Cosa fai? Vuoi farlo arrestare?». Mi aggrappai al suo braccio,
stavo per scoppiare in lacrime.
Luca era calmo, il suo viso non tradiva emozioni. Forse l’unica cosa
che poteva trasparire dalla sua espressione era quel briciolo di
curiosità negli occhi. Si faceva la stessa domanda che mi stavo
ponendo io.
«Perche vuoi sapere chi sono i suoi?», dissi tutto d’un fiato.
I bodyguard erano appena entrati, seguiti da mia madre e da mia
nonna.
«Portatelo fuori!», disse puntando il dito contro Luca.

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Lui non si scompose ma io iniziai a piangere.
Mi buttai contro papà urlando, «Ti prego non farlo arrestare!».
Mia madre da dietro le sue spalle mi fece un cenno con il capo e
seguì i due scimmioni che portavano via quel ragazzo meraviglioso.
«Avevi detto di non conoscere quel ragazzo», disse la nonna
accigliata.
«È il figlio di Enrico Cordioli».
Non appena lo disse nonna rimase allibita.
<Cosa?>.
Si rivolse a me stranita. <Tu lo conosci?>.
<No! Non ho idea di chi sia!>.
<Che ci faceva qui con te?>.
Papà le lanciò un occhiataccia. <Mamma, vai da Caterina>.
<Scusami, questa è ancora casa mia e voglio sapere se una persona
non gradita entra senza il mio permesso>, era visibilmente nervosa.
Quel ragazzo aveva fatto impazzire tutti.
<Mamma, ti prego, vai da Caterina>.
<Perché? Lascia che tua moglie se la sbrighi da sola>.
Papà serrò le mascelle ancora più arrabbiato.
«Basta! Spiegami!», urlai a squarciagola.
«Tu sei in punizione per una settimana», disse additandomi, «Solo
casa e scuola».
Non riuscivo a capire più nulla. Che c’entrava Luca? Che problema
avevano tutti?
Prima di uscire dalla stanza e di ordinarmi di andare subito a casa
con una delle auto blu della festa mi intimò, «Non dovrai più vedere
quel ragazzo e non voglio più che ti comporti come una sciocca
ingenua!».
«Ma Papà!», dissi, di nuovo in preda ai singhiozzi.
«Non una parola di più o ti rispedisco in quel collegio a Mantova.
Capito?», il suo tono non ammetteva repliche.
Con gli occhi che mi bruciavano ripensai ai due anni di ginnasio
passati in quel posto orribile e rabbrividii al solo pensiero di tornarci.

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<Su, calmati bambina>. La nonna mi prese fra e braccia mente
continuavo a piangere.
<Perché?>, sussurrai fra i singhiozzi.
Se era arrivato alle minacce pesanti doveva essere molto grave
l’astio verso la famiglia di Luca.
Perché papà aveva reagito cosi? Chi sono i Cordioli? Chi è Luca?

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