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CHE COS'E' L'INTERCULTURA?

"Intercultura" dovrebbe voler dire rapporto tra due o più culture che comporta l'arricchimento
reciproco. Ma un arricchimento reciproco di valori, usi, costumi, tradizioni implica la possibilità
e anzi la necessità di una reciproca modificazione. Si è quel che si è, ma quando si viene a
contatto con qualcuno diverso da noi, si diventa quel che si diventa.

Oggi tuttavia quando noi parliamo di "intercultura" dobbiamo per forza intenderla come frutto
di una situazione economica basata su rapporti iniqui tra Stati forti e Stati deboli o, se si
preferisce, tra "sviluppo" (capitalistico) e "sottosviluppo" (coloniale o neocoloniale, intendendo
con questo termine una dipendenza soprattutto di tipo economico).

Sono più le cosiddette "culture altre" (cioè non occidentali, non capitalistiche) a integrarsi con
noi, che non noi con loro. Le "culture altre" vengono da noi come "perdenti", come già sconfitte
dal confronto culturale (che prima di essere "culturale" è economico, tecnologico, militare).

Non è un confronto alla pari, proprio perché l'intercultura è soltanto il frutto di un processo di
immigrazione unilaterale, da Sud a Nord, e ora anche da Est a Ovest.

Chi viene da noi non è particolarmente interessato a conservare la propria cultura, al massimo
tende a conservare la propria religione e, finché gli riesce facile, conserva la propria lingua. Se
i figli degli stranieri sono nati in Italia, tendono a non ricordare neppure la lingua dei propri
genitori.

Quando i processi immigratori sono definitivi, senza soluzione di continuità, cioè da Sud a Nord
e da Est a Ovest, l'intercultura non è che un'integrazione all'interno della cultura dominante.

L'intercultura sarebbe un processo d'integrazione reciproca se i processi migratori non fossero


irreversibili, e se fossero bidirezionali.

Nella storia delle civiltà non esistono processi d'intercultura democratici: sono tutti avvenuti in
maniera forzata, causati da motivi oggettivi: miseria, fame, persecuzioni politiche o religiose,
tratta di schiavi...

Se vogliamo ch'esistano processi d'integrazione democratici dobbiamo fare in modo che non
esistano processi di condizionamento oggettivo che obbligano a emigrare.

L'intercultura dovrebbe diventare l'esito di una scelta libera e consapevole, in cui tutti i soggetti
coinvolti si sentono uguali, con gli stessi diritti fondamentali (il primo dei quali è il diritto ad
essere se stessi ovunque si vada).

Senza libertà diventa un'utopia o una forma di fanatismo il desiderio di conservare la propria
cultura venendo a contatto con le altre. Senza libertà reciproca, uguale per tutti, non può
nascere il desiderio di accettare volontariamente le culture diverse dalla propria.

La percezione che l'integrazione culturale non sia un atto costrittivo o limitativo viene meno
quando si avverte l'integrazione come un arricchimento della propria cultura di appartenenza.
Senza libertà ci sarà soltanto la vergogna di possedere una cultura inferiore, perdente e quindi,
a seconda dei casi, maturerà o la rassegnazione nei confronti delle culture dominanti o il
risentimento che porta al rifiuto della diversità.

Sicché mentre gli "altri" dovranno fare lo sforzo d'integrarsi alla nostra cultura, "noi" dovremo
soltanto fare lo sforzo di accettare una presenza ingombrante, imprevista, che mentre sul
piano culturale non ha niente da dirci, su quello economico può anche apparirci come
occasione per realizzare nuovi profitti (vedi lo sfruttamento della manodopera a basso costo).
Noi raramente ci chiediamo cosa rappresentino le "culture altre", diverse dalla nostra. Non ce
lo chiediamo perché siamo convinti che la cultura "borghese" (che non definiamo neppure con
questo termine, in quanto essa ci appare come cultura qua talis, senza aggettivi, in quanto
unica vera cultura), che è quella industriale, capitalistica, sul piano storico o, geograficamente
parlando, "occidentale", sia la migliore del mondo, sicuramente la migliore di tutte le culture
espresse dalle civiltà che ci hanno preceduto.

Per noi, accettare le altre culture significa soltanto aver la pazienza di sopportare una diversità
giudicata obsoleta, superata dalla storia, che per noi coincide con la "nostra storia". Noi
dobbiamo sopportare che altri siano più indietro di noi, nella consapevolezza della nostra
superiorità.

E in questo atteggiamento s'interseca, più o meno consapevolmente, la percezione che nelle


sofferenze degli stranieri vi sia una qualche responsabilità dell'occidente. I più consapevoli
infatti sanno che l'immigrazione è spesso frutto di rapporti economici iniqui (i cosiddetti
"profughi economici" prevalgono nettamente su quelli "politici").

Il fatto è che fino a quando gli immigrati saranno costretti o si sentiranno costretti a venire da
noi o se si sentiranno indotti dalle circostanze a diventare come noi, noi non capiremo mai se
nelle loro culture (pre-borghesi o pre-capitalistiche) potevano o avrebbero potuto esserci
elementi di critica o comunque di vera diversità nei confronti della nostra cultura o civiltà.

Noi possiamo partire dall'interscambio culturale per comprendere e affrontare i problemi


socioeconomici che determinano i fenomeni migratori, che ci "costringono" in un certo senso
all'intercultura. Ma possiamo anche affrontare da subito i suddetti problemi, per far sì che i
fenomeni d'interscambio culturale avvengano nella maniera più spontanea e naturale possibile.

Ciò che fa problema non è il rischio di perdere la propria identità culturale nell'interscambio
delle popolazioni, ma è il fatto che in tale interscambio alcune popolazioni sono costrette ad
emigrare, altre no.

Noi occidentali, costringendo queste popolazioni, in un modo o nell'altro, a emigrare,


dimostriamo soltanto di non possedere una cultura democratica. Non possiamo pertanto
pretendere che gli stranieri si integrino nella nostra cultura.

Se siamo consapevoli dei processi iniqui che determinano i fenomeni migratori, e se questa
consapevolezza è supportata dalla cosiddetta "buona fede", noi potremmo anche accettare le
"culture altre" come occasione per rivedere i principi fondamentali della nostra cultura.

Nella misura in cui sono "pre-borghesi", le "culture altre" potrebbero aiutarci a recuperare non
un passato definitivamente scomparso da noi, ma a impostare in maniera democratica la
società del futuro, che deve avere dei principi autenticamente democratici, quei principi che
nella nostra cultura non siamo stati capaci di formulare in maniera adeguata o che non siamo
stati capaci di realizzare in maniera coerente.

Se decidessero di emanciparsi anche economicamente dall'occidente (e non solo politicamente,


come dal dopoguerra ad oggi è avvenuto), i paesi del cosiddetto "terzo mondo" renderebbero
più facile o più difficile l'integrazione culturale con l'occidente? cioè l'integrazione culturale tra i
loro immigrati e noi nativi?

Se l'occidente vuole restare legato al proprio standard di benessere, è indubbio che


l'integrazione sarà molto più difficile, anzi tenderà ad aumentare la xenofobia, il razzismo
culturale, come sta aumentando adesso nei confronti dei cinesi, che di tutti gli stranieri sono
quelli che più mettono in crisi la nostra economia di benessere.

Viceversa, se l'occidente vuole superare i principi del capitalismo, l'emancipazione dei paesi in
via di sviluppo non può che favorire l'integrazione culturale.
Importante è dunque la coesistenza di diverse comunità linguistiche e la conoscenza di più lingue, principi
che si estrinsecano con il multilinguismo. La capacità di conoscere varie lingue migliora la nostra abilità
cognitiva e fornisce maggiore consapevolezza nell’utilizzo della madrelingua. La capacità di comprendere
e comunicare in più di una lingua è un’esigenza quotidiana per la maggioranza degli abitanti del pianeta
ed è un obiettivo auspicabile per tutti i cittadini europei. La possibilità di comprendere altre culture deriva
dall’apprendimento delle lingue che le esprimono. Il multilinguismo è uno dei principi fondamentali
dell’Unione Europea, sin dall’inizio del processo di integrazione. Ogni volta che un nuovo paese aderisce
all’UE, la sua lingua entra a far parte di quelle ufficiali dell’Unione. La realtà, però, non è questa. A partire
dalle istituzioni europee, spesso non viene rispettato il principio del multilinguismo, il tutto a vantaggio di
una sola lingua, l’inglese. Infatti, di recente la tendenza a favorire l’apprendimento delle lingue straniere
si identifica, sempre più spesso, con la sola conoscenza dell’inglese. Di fatto essa è la lingua straniera più
conosciuta, seguita dal tedesco e dal francese. Anche se nell’articolo 2 della Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo viene proibita la discriminazione linguistica, sono proprio le istituzioni europee a non
rispettarlo, privilegiando i soli conoscitori della lingua inglese. La conoscenza linguistica è necessaria
anche nei settori di vendita, di pubbliche relazioni, di marketing, di comunicazione, di logistica, di
pubblicità, di giornalismo, bancari, turistici, editoriali. Per questo motivo i programmi di formazione delle
scuole superiori devono essere sempre aggiornati per garantire agli studenti le basi di una nuova
primavera economica, gli strumenti e le competenze che gli garantiscano, sia concrete condizioni
lavorative, sia competitività a livelli internazionali. Nell’ambito del mercato globale e delle strategie di
vendita, l’abilità comunicativa ed interculturale sta assumendo grande importanza rendendo l’economia
europea altamente competitiva.
Il retaggio storico-culturale di ogni stato europeo è ricco, complesso e la lingua ne è la viva espressione.
E come il passato non può essere cancellato, anche la caratterizzazione linguistica non può essere
eliminata.

La conoscenza di altre lingue predispone l’uomo al dialogo, ad aprirsi a culture e a mentalità diverse,
contribuendo alla formazione di un clima di tolleranza e comprensione, fondamentale per un futuro di
pace, sempre a condizione, però, che nulla intacchi la sacralità delle identità linguistiche nazionali.

***

Qualunque offesa sia stata recata da parte dell'uomo bianco, europeo o americano, alle altre
popolazioni del mondo, foss'anche essa voluta per ignoranza o pregiudizio, costituisce un freno
allo sviluppo del senso di umanità che dovrebbe caratterizzare ogni essere umano.

Chi pensa che le offese possano trovare una qualche giustificazione storica appellandosi alla
grande superiorità tecnica, scientifica, economica, culturale dell'uomo bianco, diventa eo ipso
complice, suo malgrado, di ogni passo indietro dell'umanità.

La storia infatti si preoccuperà di dimostrare che l'unico vero progresso dell'umanità sta nello
sviluppo dei rapporti umani, che prescindono totalmente dalle forme in cui si manifestano.

La verità dei rapporti umani sta nell'umanità di questi rapporti - e questa è cosa che può
essere compresa solo vivendola.

Quando prenderemo sul serio i guasti provocati dalla nostra disumanità, quando cominceremo
a rapportarci in modo equilibrato nei confronti della natura, quando il diverso non sarà più
considerato un nemico, quando i nemici del genere umano verranno affrontati con coraggio e
non con rassegnazione - ecco, allora si sarà compiuto un altro passo lungo il cammino che
porta alla dignità e alla libertà di tutti gli esseri umani.

L'educazione interculturale, infatti, offre a ciascuno una nuova grammatica per costruire la civiltà del convivere, l'unica
Uno degli obiettivi che
in grado di assicurare l'integrazione sociale e la compresenza dei diversi simboli cultur

si tenta di perseguire all’interno della società contemporanea è quello di trasformare


l’attuale realtà storica della convivenza più o meno pacifica delle varie culture in un
complesso armonioso che, nel rispetto reciproco delle identità, arricchisca la società
stessa nel suo insieme. Il problema sostanziale alla base di questo obiettivo, però, sta
proprio nei mezzi per raggiungerlo.

E’ un dato di fatto: viviamo in una società multiculturale, in cui la cultura si


manifesta in molte forme, dove più culture coesistono; ma la cosa veramente
importante riguarda non tanto l’accettare in modo più o meno positivo questa
coesistenza, quanto il far entrare in relazione e confrontare queste diverse culture: in
altre parole, è necessario avviarsi a ciò che viene chiamato interculturalità. Ma questo
non è molto facile.

L’impegno ormai di tutti noi è intorno alla costruzione di una società solidale,
pacifica e ricca di convivenza democratica: dobbiamo lavorare per realizzare una
realtà interculturale. Abbiamo intorno tanti bambini di colore, di altre culture, asiatici,
africani, dell’America Latina…che sono venuti nel nostro Paese, come in altre parti
del mondo, perché spinti dal bisogno di sopravvivenza, dal desiderio di fuggire da
una realtà ostile, per ricominciare, insieme alle loro famiglie, una vita più serena, per
poter avere un futuro migliore. Dunque, è nostro dovere accoglierli pacificamente e
garantire loro un’adeguata formazione, perché essi sono “gli uomini del domani”, e
dobbiamo fare in modo che questi bambini siano nelle condizioni di avere tutti le
stesse opportunità, senza discriminazioni di razza, religione, lingua…

Indubbiamente, un forte contributo per la loro formazione individuale viene dato


dall'ambito scolastico. E’ a questo punto che gioca un ruolo importante l’insegnante,
che nel rapporto con l’allievo deve costruire una buona relazione educativa. Infatti, la
presenza di bambini immigrati nella scuola italiana, ad esempio, ha comportato per
gli insegnanti la necessità di formare persone con difficoltà di comprensione della
nostra lingua e cultura, la necessità di riconoscere l’identità diversa di questi nuovi
alunni e allo stesso tempo di dare loro strumenti adatti per vivere nella nostra realtà.
Ciò implica, nel lavoro con questi bambini, appunto, il confronto con la psicologia di
chi viene da altri mondi e da altre storie, la necessità di possedere una varietà di
abilità diverse nel costruire gli ambienti educativi e la consapevolezza di creare
qualcosa che, in un certo senso, modifica la stessa comunità di cui si è parte.
ali e religiosi. In una parola, il futuro della famiglia umana.

I figli di immigrati nati nel paese ospitante, e quindi cittadini di pieno diritto di quel paese, in
quanto “immigrati di seconda generazione” sono considerati – nel “discorso dominante”
che vede le “culture” come “realtà” compatte e reciprocamente impenetrabili –
precariamente “sospesi tra due culture” (Baumann, 1996). “Questo proprio non lo capivo.
Non capivo proprio perché essi dovessero essere sospesi tra due culture, invece che
appartenere a entrambe", commenta Baumann riferendosi alla sua esperienza di ricerca a
Southall, un sobborgo della Grande Londra. L’ idea che il giovane nato in Inghilterra da
una famiglia sikh o pachistana non è in realtà ne un “vero” inglese né un “vero” sikh, o un
“vero” pachistano, è la manifestazione di una sottostante, implicita concezione della
“cultura”, che chiameremo “reificata” perché tratta la “cultura” non come uno strumento
che costruiamo per comprendere certi fatti sociali ma come una “cosa”, una “realtà”
esterna della cui esistenza dobbiamo prendere atto come si prende atto dell’ esistenza
delle montagne, dei fiumi e dei laghi.

Questa concezione “reificata” della cultura vede in essa il marcatore dell' “identità” di
un gruppo sociale. I gruppi sociali sono visti come omogenei al loro interno e separati dall’
esterno da confini rigidi, che durano nel tempo e sono attentamente vigilati da custodi
della “tradizione”; della “purezza” del gruppo, delle sue “radici”. Gli scambi tra i gruppi
dovrebbero essere ridotti al minimo e sono considerati essenzialmente come negativi,
poiché costituirebbero una minaccia alla sua integrità e compattezza. Questa concezione
può tollerare la multiculturalità, in cui diversi gruppi coesistono fianco a fianco senza
mescolarsi, preservando ciascuno la propria “identità” sotto il controllo delle proprie
autorità “tradizionali”, ma non può apprezzare in alcun modo l’ interculturalità, una
situazione in cui le barriere tra “noi” e “loro” si attenuano fino quasi a svanire (in cui,
secondo la felice espressione di Geertz, 1994, siamo “noi in mezzo a loro e loro in mezzo
a noi”). Essa infatti comporterebbe, secondo questa concezione, un abbassamento dello
standard di “civiltà”, “purezza”, “ortodossia” ecc. del gruppo.

Si comprende facilmente come mai secondo questa concezione i figli di immigrati,


anche se sono nati sul territorio del paese e sono a tutti gli effetti cittadini del paese, non
sono “veramente” né inglesi (o italiani) né sikh né pachistani. Essi sono un ibrido, una
mescolanza, qualcosa che in questa prospettiva costituisce una imperfezione, in alcuni
casi una “impurità”, come risulta evidente nelle scelte matrimoniali operate dalle famiglie
più legate alle tradizioni, che preferiscono sistematicamente una ragazza (o un ragazzo)
cresciuta in India o in Pachistan ad una ragazza di famiglia indiana o pachistana nata in
Inghilterra (o in Italia). Per entrambe le “comunità”, sia quella di origine della famiglia che
quella acquisita con la nascita – nella misura in cui esse adottano la concezione “reificata”
della cultura - le “seconde generazioni” sono problematiche perchè non stanno né del tutto
al di qua né del tutto al di là dell’ immaginario confine che dovrebbe separare rigidamente
le “comunità”, le “culture”, le “identità”.

E’ chiaro che questa concezione "reificata” della cultura stigmatizza le persone che
sono significativamente definite come “immigrati di seconda generazione”, sottolineando
anche in queste espressioni la loro “estraneità” ed insinuando dubbi sulla loro fedeltà al
paese di cui pure sono cittadini di pieno diritto. Esse sono, per questo motivo, considerate
come persone “a rischio”, secondo il linguaggio imbarazzato, ipocrita e politically correct
degli educatori, degli psicologi e dei politici. A rischio di che? A rischio di cadere nel vuoto,
di finire entre deux chaises, di non appartenere né a una “cultura” né all’ “altra”. E’
importante comprendere che il rischio più evidente – nel caso delle “seconde generazioni”
– è proprio quello di essere contagiati da questa visione essenzialista e fondamentalista
della “cultura”, dell’ “appartenenza” e dell’ “identità”. Se questi giovani arriveranno ad
accogliere la visione “reificata” della cultura – con tutta l’ annessa paccottiglia di pseudo-
tradizioni inventate ieri, di “identità” strumentalmente improvvisate, di “radici” immaginate
come univoche – essi percepiranno non solo, intorno a sé, la disapprovazione che la
concezione reificata e fondamentalista della cultura riserva gli ibridi, ma anche, dentro di
sé, la separazione inconciliabile tra due (o più) mondi, l’ impossibilità di essere fedeli ad
entrambi, la difficoltà di una integrità personale e sociale.

Paradossalmente, è proprio la teoria reificata della cultura, che segnala il “rischio” che
correrebbero le “seconde generazioni” di immigrati, a produrre la situazione di “rischio” che
denuncia. Uno dei non rari casi di malattia che tenta di spacciarsi per la medicina. Due
conclusioni per questo paragrafo. La prima è che poche cose sono concrete e generatrici
di effetti come le “teorie” e le formule linguistiche che le veicolano. La seconda è che il
problema delle “seconde generazioni” è un problema costruito – non nel senso che non
esista nella realtà ma nel senso che il modo in cui ce lo poniamo risente del framework
teorico, metodologico ed etico-politico in cui noi lo collochiamo. Entrambe queste
conclusioni mettono noi stessi – come studiosi, come amministratori, come operatori
sociali, come politici - dentro il problema. In altri termini: non siamo di fronte ad una “cosa”
esterna a noi che è il problema delle “seconde generazioni”; siamo noi stessi al centro
della scena ed è nostra responsabilità nello scegliere se concepire le “seconde
generazioni” come “sospese tra due culture” o invece come “appartenenti a due culture”
che dà al problema un significato oppure un altro. Nel primo caso vedremo in queste
persone un pericolo, nel secondo vedremo in esse una preziosa opportunità- E la nostra
visione, in quanto esplicitata e manifesta agli interessati, li renderà dei forestieri mal
tollerati, nel primo caso, o dei concittadini apprezzati, nel secondo caso.

“Appartenenti a due (o più) culture”: una concezione aperta della cultura

Per vedere negli “immigrati di seconda generazione” dei concittadini dotati di risorse
preziose occorre sviluppare un modello di “cultura” diverso da quello “reificato”. Per questa
concezione alternativa la “cultura” non è un contenitore omogeneo, separante e
deresponsabilizzante ma un insieme di risorse a disposizione delle persone, che sono i
veri ed unici attori sociali. Al centro di questa concezione stanno l’ iniziativa, l’ innovazione,
la responsabilità personale, la agency delle persone. Le persone non sono “cloni” culturali
ma attori situati in contesti specifici. Il gruppo è aperto all’ interazione con l’ esterno,
interessato agli scambi che avvengono sulle frontiere. I confini tra le “culture” sono
permeabili e arrivano fino al cuore delle “culture”, che crescono nel confronto con le altre. I
confini, gli scambi, l’ interazione sono tutto, in una società aperta, come scriveva Bachtin:
"non dobbiamo immaginare il regno della cultura come uno spazio con delle frontiere e un
territorio al suo interno. Il regno della cultura è completamente distribuito lungo le frontiere.
Le frontiere sono dappertutto, attraversano ogni suo aspetto. Ogni atto culturale vive
essenzialmente sulle frontiere. Se viene separato da esse perde il suo fondamento,
diventa vuoto e arrogante, degenera e muore" (1981, p.87).

La seconda concezione è stata proposta con formulazioni diverse ma convergenti:


come un sistema di mediazione fondato su artefatti sia fisici che immateriali (Cole, 1996;
Mantovani, 1998, 2000), come un set di risorse per l’ azione (Mantovani, 2004 a), come
una collezione di “narrazioni condivise, contestate e negoziate” (Benhabib, 2002). Due
elementi sono comuni a queste differenti versioni. Il primo è la centralità del linguaggio –
inteso come strumento di cui le persone si servono nella vita quotidiana per intendersi con
gli altri, per programmare le proprie attività, per dare senso ad esperienze spesso confuse
e contraddittorie (Ochs e Capps, 2001; Ochs e Sterponi, 2003). Il secondo è la polifonicità,
la pluralità di voci e di prospettive che è intrinseca alla concezione aperta della “cultura”.
Ogni attore sociale ha una sua posizione, unica, nella sua “cultura”. I sistemi di mediazioni
sono specifici per ogni partecipante al contesto; le risorse per l’ azione mutano a seconda
degli attori e dei loro obiettivi; le narrazioni sono polivocali non solo perché i partecipanti
riflettono posizioni differenti ma anche perché la voce narrante (quando c’ è una voce
narrante) contiene incoerenze, discontinuità, contraddizioni.

Mentre la prima visione della cultura porta al mulitculturalismo, la coesistenza più o


meno pacifica di “comunità” che rimangono reciprocamente estranee e che immaginano (o
fingono) di mantenersi inalterate, omogenee e “pure”, la seconda concezione introduce
alla interculturalità, in cui le persone si incontrano sui confini tra mondi diversi. Nelle
situazioni più favorevoli, i confini diventano così porosi da non costituire più linee di
separazione ma aree di scambio e di influenza reciproca. Baumann descrive così questo
spazio di scambio nella Southall degli anni novanta: “per quanto riguardava la musica,
chiaramente c’era il rap, una musica della comunità nera che era stata fatta propria senza
problemi dagli asiatici. Poi c’era il bhangra, la danza del Punjab che era diventata disco-
music ed era suonata meglio – stando al risultato di una recente gara – da un ragazzo
caraibico che la mischiava con il body popping e con la breakdance. … Se si trattava di
«uscire» con qualcuno, cross-community sarebbe stato il modo giusto per descrivere un
giovane asiatico che flirtava con una ragazza caraibica o con una bianca, oppure si poteva
usare per un ragazzo sikh che flirtava con una indù, o per un sikh di una famiglia
dell’Africa orientale che flirtava con una sikh di una famiglia che veniva dal Punjab. Ma
qualche genitore non avrebbe considerato cross-cultural questa combinazione perché
erano entrambi sikh. [corsivi dell’autore] (Baumann, 1996, 3).

Se condividiamo questa concezione della “cultura” non abbiamo alcuna difficoltà a


vedere gli “immigrati di seconda generazione” come “appartenenti a due o più comunità”.
Le persone “appartengono” a molti gruppi nrllo stesso tempo ed attraversano di continuo
dei confini nella loro vita quotidiana. Ancora Baumann racconta che “la stessa persona
poteva parlare e agire come membro della comunità musulmana in un dato contesto, in un
altro contesto prendere posizione contro altri musulmani come membro della comunità
pachistana, e in un altro contesto ancora considerarsi parte della comunità delle persone
del Punjab che escludeva altri musulmani ed includeva indù, sikh e persino cristiani. Le
cose diventavano più confuse con il progredire della ricerca. Alcuni genitori indù dicevano
«tutti i sikh sono indù»; alcuni genitori sikh si dissociavano dalla comunità sikh e
descrivevano la loro cultura come «anglo-asiatica, in sostanza indipendentemente dalla
religione da cui vieni»; e alcuni amici musulmani erano fieri di dire che la moschea locale
era una comunità multiculturale” (ibidem, 5-6).

Che fare perché le “seconde generazioni” non siano un “rischio” ma una risorsa

Che cosa possiamo fare perché le “seconde generazioni” non siano, non diventino, un
“rischio” per se stesse e per gli altri? Abbiamo visto che il “rischio” maggiore è costituito
dalla diffusione della visione “reificata”, fondamentalista, della cultura. Guardandosi in
questo specchio le “seconde generazioni” si percepiranno come sempre inadeguate, in
qualche modo sempre “non-pure” rispetto ad entrambe le “comunità” a cui “appartengono”
per nascita e per educazione. Se ciò avvenisse, i fondamentalisti avrebbero successo nel
loro tentativo di spingere questi giovani in un vicolo cieco di confusione, di rabbia e di
risentimento. Chi invece valorizza la posizione delle “seconde generazioni” promuove la
visione dell’ intercultura, che mette l’ accento sui confini, sugli scambi, sulle narrazioni
con molte voci. Occorrerà dunque promuovere con grande chiarezza intellettuale e politica
la visione interculturale contrastandola con quella della multicultura che porta alla
creazione degli “zoo multiculturali”. Anche sul piano della ricerca molto rimane da fare
(Mantovani, 2003): compaiono ora di frequente studi, anche animati dalle migliori
intenzioni, dedicati a “la madre senegalese”, “la donna musulmana”, “la famiglia sikh”
come se queste fossero realtà che vivono al di fuori di un contesto , senza scambi con ciò
che sta loro intorno – sono invece proprio questo scambi, e il nuovo sistema di relazioni
locali che ne nasce, l’ oggetto della ricerca interculturale. Numerose sono anche le
ricerche che non solo ripropongono stereotipi (cosa che il codice deontologico degli
psicologi vieta) ma anche accreditano l’ idea che esistano nella realtà delle “comunità”
omogenee e separate; proprio la situazione in cui le “seconde generazioni” sarebbero
sempre in difetto.
Non è però sufficiente vigilare perché nei media, nella scuola, nelle scelte politiche non
prevalga la concezione fondamentalista. Perché non si istituisca la contrapposizione “noi” -
“loro”, “occidentali” – “orientali” (oppure “occidentali” – “resto del mondo”), con tutti i suoi
corollari negativi tra cui l’ esaltazione della immaginaria “omogeneità” del “nostro” gruppo e
della sua “superiorità” rispetto agli altri gruppi (Mantovani, 2004 a,b, 2005) , dovremo
abitare davvero – riempiendolo di contenuti – il confine che le persone della “seconda
generazione” abitano. Dovremo passare da un politica di accoglienza e di benevola
tolleranza verso “gli altri” ad una politica in cui essi diventino veramente “noi” (e viceversa).
Questo significa che le “loro” storie devono diventare “nostre”, e solo a questa condizione
le “nostre” storie diventeranno anche le “loro”. Questo significa non solo che deve
cambiare il baricentro della “nostra” storia, della “nostra” geografia, della “nostra” arte
eccetera ma anche che deve cambiare la prospettiva da cui guardiamo la storia, la
geografia, l’ arte in generale. La “nostra” storia dovrà includere anche l’ Egitto, il Marocco,
il Mali, il Senegal, la Palestina e persino il Pachistan, l’ India, la Cina, l’ Ecuador e il Perù
(ma come si farà? come è possibile anche solo pensare a questo tipo di compito?) ma
soprattutto dovrà adottare le prospettive degli “altri” che ora sono tra “noi”, anzi sono “noi”.
Si tratta di cose molto concrete, anche se difficili da digerire per molti di “noi”.

Come fare la storia della schiavitù dei neri includendo il punto di vista degli africani di
allora e di oggi? Come fare la storia delle imprese coloniali europee dando voce anche ai
colonizzati? Come raccontare l’ “ammutinamento” che insanguinò l’ India a metà dell’
Ottocento? Si parlerà di “ammutinamento” o di “guerra di liberazione”? E come si
racconterà la battaglia di Adua, in cui un esercito italiano fu ignominiosamente sconfitto all’
esercito del negus? E come narrare le imprese coloniali italiane in Libia, che videro in
alcune regioni lo sterminio del novanta per cento della popolazione, o in Etiopia, in cui
furono usati massicciamente i gas, già allora proibiti dagli accordi internazionali? Imprese
impossibili, se rimaniamo chiusi nel nostro vecchio guscio, ma per nulla impossibili se
daremo voce – nella scuola, nei media, negli ambienti di lavoro – a quei nuovi “noi” che
fino a ieri abbiamo chiamato “immigrati di seconda generazione” confinandoli ancora una
volta nello steccato della loro estraneità, del loro essere venuti da “fuori”, del loro non
essere veramente “dei nostri”. In una scuola, in un ambiente di lavoro, in un comitato di
quartiere sarà chiaramente visibile se adotteremo la visione fondamentalista o quella
narrativa della cultura. Se adotteremo la prima concezione, alle “seconde generazioni”
verrà concesso un diritto di parola limitato. Se adotteremo la seconda concezione la voce
dei nuovi “noi” sarà quella che ci aiuterà a capire il mondo più grande – non solo in senso
geografico – in cui stiamo entrando.

Nuove lingue, nuove storie, nuove narrazioni stanno per entrare nella nostra esperienza
rendendola più diversificata, più negoziata e più interessante di quanto fosse in
precedenza.

Quale è la differenza tra multicultura e intercultura ?


Secondo la mia comprensione, la multiculturalità è un dato di fatto, è uno statement.
L’intercultura è da costruire.
Da quando esiste il pianeta terra con i suoi abitanti, la multicultura è sempre esistita ma da quando il
mondo è diventato un villaggio globale ci siamo trovati davanti alla sfida d’imparare a vivere a volte,
malgrado noi stessi, con un intreccio di culture.
Ho deciso di dedicare la mia vita a questo, di utilizzare ogni mio talento, ogni mia capacità a partecipare
nella costruzione di un mondo interculturale perché questa è una mia convinzione, un mio ideale, una mia
ragione di vita.

Inter perché significa unità tra le varie razze del mondo. Unità nella diversità.
Inter comprende il camminare insieme in stretta collaborazione di donna e uomo.
In tutto questo cambiamento osservato nel mondo negli ultimi cento anni, i grandi protagonisti sono i
bambini, i giovani, i nostri figli.
Una nazione che ha una visione verso il futuro investe nell’educazione e nei bambini e questo
investimento non può mai essere eccessivo.

L’educazione di domani non può escludere nessun componente della razza umana, non può essere
egocentrico, deve essere olistica per contribuire alla crescita equilibrata delle generazioni di domani.

I nostri figli sono dei semi.


Il loro destino è di diventare degli alberi.
Non possiamo, con la nostra negligenza e pigrizia stroncare il loro progresso.
Il nostro silenzio ci renderà colpevoli nella lettura e analisi della storia nei prossimi millenni.
La nostra indifferenza sarà eloquente in quanto segno evidente di un’apatia.
Nel occuparsi del benessere dei bambini non c’è fama, non c’è successo, non c’è profitto. C’è posto
soltanto per la dedizione e l’amore per la vita.

Ognuno di noi sta scrivendo il futuro con le proprie azioni.


Vorrei scrivere qualcosa raccontando una fiaba a un bambino.
Vorrei scrivere delle note di una melodia sul cuore di una bambina.
Vorrei scrivere il mio amore per tutti i bambini della terra.

Ranzie Mensah

Accettare la diversità come valore e come dimensione costitutiva dell’organizzazione sociale e


culturale, comporta lo sviluppo di pensiero aperto, problematico e antidogmatico, capace di:

* distinguere e differenziare ma anche di individuare i caratteri di connessione e di integrazione; *


dominare e affrontare il conflitto derivante dall’assunzione della differenza; * praticare il dubbio
come metodo di ricerca e accettare il rischio implicito nella disponibilità a uscire dai propri
orizzonti culturali e a ristrutturare i propri modi di pensare e di sentire.

Per "pensiero aperto" si intende: pensiero capace di decentrarsi, di allontanarsi dai propri riferimenti
cognitivi e valoriali, di dirigersi verso quelli di altre culture per scoprire e comprendere le differenze
e le connessioni, capace, inoltre, di tornare nella propria cultura arricchito dall’esperienza del
confronto e, pertanto, in grado di riconoscere e valutare con maggiore consapevolezza critica la
propria specificità nei suoi aspetti di positività e negatività.

Intercultura significa: essere disponibili a far parte di più culture senza tradire la propria, anzi
arricchendola e moltiplicandone - con il contatto e il confronto, con le interferenze e i prestiti - le
potenzialità evolutive e creative. aver chiara consapevolezza dei caratteri storici e dinamici della
propria e dell’altrui cultura, degli elementi di ricorrenza e di trasformazione, degli aspetti di
complessità, di processualità, di interazione che collegano culture diverse, le distanziano e le
differenziano ma anche le unificano e le integrano.

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