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LE TRASFORMAZIONI DEI SISTEMI PRODUTTIVI LOCALI

Seminario svoltosi il 19/02/2013

Interventi di: Daniele Franco della Banca d'Italia, direttore per l'area economica e relazioni internazionali "il progetto di ricerca"; Giovanni Iuzzolino, Banca d'Italia sede di Napoli, "la geografia delle agglomerazioni produttive"; Marcello Pagnini, Banca d'Italia sede di Bologna "produttivit e competenza"; Valter di Giacinto, Banca d'Italia filiale di L'Aquila, "imprese e filiere tra globalizzazioni e crisi"; Giuseppe Mauro, universit degli studi d'annunzio, "cambiamenti e prospettive dei distretti industriali in Abruzzo". LA GEOGRAFIA DELLE AGLLOMERAZIONI PRODUTTIVE
La distribuzione geografica delle unit produttive allinterno delle filiere industriali, si presume molto pi concentrata nel nostro paese che altrove. La teoria economica ha ben descritto come il progressivo addensamento di imprese in un territorio possa determinare sia un autorafforzamento di vantaggi localizzativi preesistenti sia una loro ri-produzione in forme nuove. Di conseguenza, lesistenza (e la persistenza) di agglomerazioni industriali dovrebbe essere la regola, piuttosto che leccezione, in ogni sistema economico. La semplice mappa delle agglomerazioni industriali italiane, rilevata su scala nazionale, rischia infatti di sopravvalutarne lincidenza. La costruzione di una mappa delle agglomerazioni costruita su scala europea consente di selezionare le aree specializzate italiane che resistono a un test di agglomerazione particolarmente severo e pu giustificare, in modo probabilmente pi convincente, ladozione di misure di policy volte a contrastare la scomparsa dei vantaggi agglomerativi o ad agevolarne la ri-produzione in forme nuove. Alla met degli anni duemila circa il 60 per cento dei 27 milioni di occupati manifatturieri dellUE a 15, erano concentrati in Germania, Italia e Francia, con quote rispettivamente pari al 28, 13 e 12 per cento. Il confronto della composizione settoriale e dimensionale dellindustria nei tre paesi mostra le note peculiarit dellItalia, assai poco dotata di grandi imprese (la quota di addetti in imprese con almeno 250 addetti del 21 per cento, contro il 52 della Germania e il 47 della Francia) e meno presente nei settori a medio-alta tecnologia (chimica, metal meccanica e mezzi di trasporto concentrano da noi il 53 per cento degli occupati, contro il 67 e 58 per cento di Germania e Francia).

LE IMPRESE ITALIANE TRA CRISI E NUOVA GLOBALIZZAZIONE


Il lavoro analizza le caratteristiche delle imprese italiane inserite in catene globali del valore (imprese intermedie), utilizzando i dati dellindagine della Banca dItalia sulle imprese industriali. I risultati mostrano come esse si differenzino mediamente dalle imprese finali per una serie di caratteristiche peggiori: minore dimensione e terziarizzazione, minore produttivit, minore quota di esportazioni. Si osserva tuttavia fra loro una forte eterogeneit, a seconda della capacit (e delle modalit) di avanzamento (upgrading) allinterno della catena del valore di appartenenza. Fra le imprese intermedie che avanzano (evolute) e quelle immobili (marginali) le differenze in termini di dimensione, efficienza, capitale umano, competitivit internazionale sono in media notevoli. La performance osservata

durante la crisi del 2008-09 conferma la maggiore difficolt delle marginali; mostra inoltre come, di fronte a un improvviso collasso del commercio internazionale, le imprese che stavano avanzando nelle rispettive catene del valore soprattutto ampliando la rete di rapporti internazionali abbiano subito contraccolpi maggiori di quelle che stavano invece battendo la strada di una maggiore articolazione funzionale. LIndagine Invind della Banca dItalia, condotta nella primavera del 2009 presso un campione di 4.000 imprese dellindustria e dei servizi ha mostrato come le imprese per il 70 cento di quelle industriali e il 60 quelle dei servizi abbiano risentito notevolmente della crisi. Esse denunciavano di avere subito in un semestre un calo del fatturato in media del 20 per cento nellindustria, del 14 nei servizi. Il calo del fatturato era pi alto (25 per cento) per le imprese industriali esportatrici (cio quelle per cui le esportazioni rappresentano pi dei due terzi del fatturato), con punte superiori al 50 per cento per i produttori di beni strumentali. Fra le difficolt principali che venivano denunciate spiccavano, oltre al calo della domanda, i ritardi nei pagamenti della clientela, sottolineando quindi il carattere anche fortemente finanziario, di rarefazione della liquidit, della crisi in corso. Lo stato di salute del sistema produttivo italiano sotto preoccupata osservazione da oltre un decennio. Pur con le ambiguit tuttora presenti nelle statistiche aggregate se ne denunciano da tempo la dinamica insoddisfacente della produttivit, soprattutto nella componente total factor; una crescente difficolt a competere con successo nei confronti dei produttori emergenti; una ridotta capacit di ricerca e sviluppo. Imprese piccole e poco dinamiche (nelle produzioni esposte alla concorrenza internazionale), poco efficienti (nei settori al riparo dalla concorrenza, soprattutto nei servizi), tendono a generare disavanzi negli scambi con lestero, salari reali stagnanti, domanda nazionale asfittica, stasi delleconomia . La recessione del 2008-09 ha acuito le preoccupazioni. Ci si chiede se i segni di vitalit che il sistema aveva mostrato, in alcune sue parti, alla vigilia della crisi non si siano spenti. Evidenze parziali e preliminari inducono a ritenere di no, ma le prospettive generali delleconomia non sono rassicuranti. Gli scenari macroeconomici di medio termine che i principali centri di analisi prospettano per lItalia ne indicano un ritorno, dopo la crisi, alla bassa crescita degli anni precedenti, una condizione insufficiente a conseguire i due obiettivi prioritari per la nostra economia: far progredire loccupazione, soprattutto quella giovanile, al tempo stesso riducendo lincidenza del debito pubblico sul prodotto. Questo lavoro avverte come le prospettive del sistema produttivo italiano vadano oggi analizzate in un contesto pi ampio, tenendo conto del fatto che, nel mondo, i termini del produrre e la divisione internazionale del lavoro stanno cambiando di nuovo, secondo paradigmi delineati in una ormai ampia letteratura; li abbiamo qui riassunti nel termine nuova globalizzazione: i processi produttivi si frammentano (unbundling) in sequenze o catene (value chains) di compiti, molti dei quali possono essere delocalizzati allestero (offshoring), sicch le catene del valore divengono globali (global value chains) e il commercio internazionale tende a mutarsi da trade-in-goods in trade-intasks. In un tale contesto le imprese finali, cio quelle che mettono insieme tutti gli anelli della catena per collocare il bene o il servizio sul mercato finale, si avvierebbero a diventare minoranza. Molte imprese divengono intermedie, nel senso che costituiscono anelli intermedi della catena: si approvvigionano di input da imprese a monte e forniscono il loro output a imprese a valle. Occorre chiedersi che ruolo le imprese italiane stiano giocando, e possano in prospettiva giocare, in questo nuovo mondo. Numerose imprese italiane si sono orientate da anni a fornire input intermedi ad altre imprese, piuttosto che a produrre beni finali. In origine poteva essere un segno di debolezza, ma negli anni pi recenti le esperienze si sono diversificate; sono anche emerse storie di successo.

CAMBIAMENTI E PROSPETTIVE DEI DISTRETTI INDUSTRIALI IN ABRUZZO


I distretti costituiscono uno degli assi portanti della struttura industriale italiana, un fenomeno al quale la letteratura economica ha dedicato ampio spazio, discutendone luci e ombre. I caratteri fondamentali di tali sistemi sono lelevata diffusione di piccole e medie imprese, la specializzazione nelle tradizionali produzioni del Made in Italy, la stretta relazione con la comunit locale di appartenenza.

I distretti hanno certamente sostenuto la crescita delleconomia italiana nellultimo trentennio del secolo scorso, in un contesto in cui la piccola dimensione garantiva unelevata flessibilit e consentiva di sviluppare linnovazione di processo, mentre lo scarso sfruttamento delle economie di scala non costituiva ancora uno svantaggio rilevante. Negli anni pi recenti, tuttavia, il cosiddetto effetto distretto vale a dire il vantaggio di performance consentito alle aziende dallappartenenza ai distretti si almeno affievolito, se non del tutto eroso.

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