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Le grandi opere
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Le grandi opere

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• Poesie giovanili • Odi e sonetti • Dei Sepolcri • Dalle Grazie • A Bonaparte liberatore: dedica dell’oda • Ultime lettere di Jacopo Ortis (con l’edizione del 1798) • Dell’origine e dell’ufficio della letteratura • Sull’origine e i limiti della giustizia • Notizia intorno a Didimo Chierico • Saggi sul Petrarca • Epoche della lingua italiana • Lettera apologetica • Lettere d’amore

A cura di Giuseppe Leonelli

Il volume, curato da Giuseppe Leonelli, raccoglie le opere maggiori di Foscolo e una scelta di quelle che in genere vengono classificate come minori: i lettori troveranno alcune delle più interessanti poesie giovanili, quindi le due famose odi (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, All’amica risanata), i dodici sonetti pubblicati nel 1803, Dei Sepolcri e Le Grazie: il tutto corredato da un puntuale commento, il quale, oltre a fornire i necessari apparati esplicativi e filologici, propone una lettura aggiornata e nuova della poesia foscoliana. Il testo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, l’opera attraverso la quale la letteratura italiana riscopre il romanzo e si allinea ai grandi esemplari europei, è dato anche nella prima edizione bolognese del 1798. Assieme all’Ortis, la Notizia intorno a Didimo Chierico, il magistrale scritto con il quale, nel 1813, Foscolo rovescia l’immagine di sé e ne rilancia una nuova, ritagliata sulla lettura delle opere di Sterne. Ampio spazio è riservato all’opera saggistica, fra cui le bellissime orazioni pavesi Dell’origine e dell’ufficio della letteratura e Sull’origine e i limiti della giustizia. Seguono i Saggi sul Petrarca, grande esempio, prima del De Sanctis, di una vena di critico-scrittore tuttora da riscoprire e configurare nei suoi aspetti più moderni e illuminanti, e le Epoche della lingua italiana, geniale ricognizione dei rapporti fra lingua e letteratura italiana nel corso dei secoli. Chiudono la raccolta l’appassionata e appassionante Lettera apologetica e un florilegio delle lettere d’amore, fra le più belle che siano mai state scritte nella nostra lingua.

Ugo Foscolo

nacque a Zante nel 1778. Ebbe vita intensa e avventurosa, amori appassionati e disordinati, in un’epoca di grandi crisi sociali. La speranza in una rivoluzione che portasse il riscatto dei popoli e la restaurazione che deluse ogni aspirazione innovativa condussero il poeta a comprendere che le promesse della politica e della religione sono un’illusione, a proclamare che l’unico conforto vero e sincero in grado di rispondere alle esigenze della gente è la poesia. Letterato, polemista, politico e soldato, deve la sua fama soprattutto alle Ultime lettere di Jacopo Ortis, al carme Dei Sepolcri e al poema Le Grazie. In esilio dal 1815, morì in povertà a Londra nel 1827. Di Foscolo la Newton Compton ha pubblicato Ultime lettere di Jacopo Ortis, Lettere d’amore e la raccolta Le grandi opere.
LanguageItaliano
Release dateNov 18, 2013
ISBN9788854160040
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    Le grandi opere - Ugo Foscolo

    254

    Di Ugo Foscolo in queste edizioni

    Ultime lettere di Jacopo Ortis

    La traduzione (1904) dall’inglese di Un antico inno alle grazie

    è curata da Giuseppe Chiarini. La traduzione (1824) dall’inglese dei Saggi sul Petrarca è di Camillo Ugoni.

    L’edizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis qui riprodotta è quella Newton Compton del 2010,

    a cura di Paolo Mattei.

    Prima edizione ebook: novembre 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6004-0

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di Librofficina

    Ugo Foscolo

    Le Grandi opere

    Poesie giovanili, Odi e sonetti, Dei Sepolcri, Dalle Grazie,

    A Bonaparte: dedica dell’oda, Ultime lettere di Jacopo Ortis (con la Notizia bibliografica e l’edizione del 1798),

    Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, Sull’origine e i limiti della giustizia,

    Notizia intorno a Didimo Chierico, Epoche della lingua italiana,

    Saggi sul Petrarca, Lettera apologetica, Lettere d’amore

    A cura di Giuseppe Leonelli

    Introduzione

    Nel 1871, l’anno che vide la pubblicazione del secondo volume della Storia della letteratura italiana, il grande libro in cui doveva essere offerto a un pubblico più vasto la summa del pensiero letterario elaborato fino a quel momento, Francesco De Sanctis concludeva la sua opera con un capitolo denso e veloce, La nuova letteratura. Un titolo che suonava, oltreché un rendiconto, come un vero e proprio auspicio, il luogo in cui l’impianto storiografico del suo lavoro si trasformava improvvisamente, e si esaltava, in un saggio di critica militante. De Sanctis, per il salto verso una modernità che si proietta al di là di se stesso e del proprio tempo, prende la rincorsa da lontano. Si comincia con il Metastasio, che sembra una forza del passato, ma che ci narra un presente in cui campeggia «la dissoluzione della vecchia società», nella quale sta incubando la nuova. Contemporaneamente, fiorisce una nuova critica (il Bettinelli con le Lettere virgiliane, la Difesa del Gozzi, riviste come la «Frusta letteraria», il «Caffè», l’«Osservatore»), da cui risalta «l’esempio di una nuova letteratura, gittando in circolazione molte idee nuove in una forma rapida, nutrita, spiritosa, vicino alla conversazione, in una forma che prendea dalla logica il suo organismo e dal popolo il suo tuono».

    Sono anni di rapide trasformazioni: ecco il Goldoni, «artista nato»: può essere considerato «il Galileo della nuova letteratura», il cui telescopio è «l’intuizione netta e pronta del reale, guidata dal buon senso».¹ Nel 1763 appare l’Ossian del Cesarotti, che va a cercare «una nuova mitologia nelle selve calidonie», facendo girare «la testa a tutti». La vecchia letteratura «era assalita non solo nella lingua e nel suo stile, ma ancora nel suo contenuto».² Viene il momento di Parini:

    La poesia riacquista la serietà di un contenuto vivente nella coscienza. E la forma si rimpolpa, si realizza, diviene essa medesima l’idea, armonia tra l’idea e l’espressione… La base del contenuto è morale e politica, è la libertà, l’uguaglianza, la patria, la dignità, cioè la corrispondenza tra il pensiero e l’azione. È il vecchio programma di Machiavelli, divenuto europeo e tornato in Italia. La base della forma è la verità dell’espressione, la sua comunione diretta col contenuto, risecata ogni mediazione.³

    Accanto al Parini, che s’esprime, nel Giorno, attraverso la satira, l’Alfieri, che fa rinascere la tragedia in Italia

    non accademica e letteraria, com’erano le tragedie francesi e italiane, ma politica e sociale, fondata su di un’idea maneggiata allora in tutti gli aspetti degli scrittori; ed era questa, che la società apparteneva al più forte e che giustizia, virtù, libertà giacevano sotto l’oppressione di un doppio potere assoluto e irresponsabile, la tirannide regia e la tirannide papale, il trono e l’altare. Più tardi l’Alfieri vi aggiunse la tirannide popolare.

    Gran parte del lavoro di questi scrittori s’era già concluso o andava concludendosi quando, nel 1796, a sette anni dallo scoppio della Rivoluzione, il giovanissimo generale Napoleone Bonaparte assunse il comando dell’armata Italia e cominciò la sua impressionante serie di vittorie che cambiò l’assetto militare e politico della penisola. Solo da qualche anno, e precisamente dal 1792, il giovane Foscolo, appena quindicenne, s’era trasferito a Venezia dalla natia isola di Zante, raggiungendo la madre e i fratelli. Comincia il periodo della prima giovinezza del poeta, in una delle zone più povere di Venezia, il Campo delle gatte, ubicato nel sestiere di Castello, presso l’Arsenale: anni di vita grama, ma anche di studio che da un certo momento in poi procede vertiginosamente, se è vero che il ragazzo trascorreva anche dieci ore al giorno alla Biblioteca Marciana e sul quale sembra proiettarsi in anteprima un’ombra che viene dal futuro, dall’immagine del giovane Leopardi.

    In questi anni, scrive il De Sanctis, con una felicità di animazione della situazione politica e culturale che fa restare tuttora ammirato il lettore,

    l’Italia, secondo il solito, se la contendevano francesi e tedeschi. Ritornava la storia, ma con altri impulsi. Non si trattava più di dritti territoriali. La sete del dominio e dell’influenza era dissimulata da motivi più nobili. Venivano in nome delle idee moderne. Gli uni gridavano libertà e indipendenza nazionale: dietro alle loro baionette ci era Voltaire e Rousseau. Gli altri, proclamatisi prima difensori del papa, e ristoratori del vecchio, finivano promettitori di vera libertà e di vera indipendenza. Le idee marciavano appresso a’ soldati e penetravano ne’ più umili stati della società. Propaganda a suon di cannoni, che compì in pochi anni quel che avrebbe chiesto un secolo. Il popolo italiano ne fu agitato ne’ suoi più intimi recessi: sorsero nuovi interessi, nuovi bisogni, altri costumi. E quando dopo il 1815 parve tutto ritornato nel primo assetto, sotto a quella vecchia superficie fermentava un popolo profondamente trasformato da uno spirito nuovo, che ebbe, come il vulcano, le sue periodiche eruzioni, finché non fu soddisfatto.

    Il giovane Foscolo, la cui prima formazione s’era compiuta a Zante, ove il suo nome, bilingue, era ancora Nicoleto-Nikolaki, si trova improvvisamente immerso in un mondo che appare completamente nuovo, non solo per lui, che aveva trascorso, nella sua isola, una sorta di isola d’Arturo morantiana, anni quasi di preistoria, ma anche per chi, suo coetaneo, era nato e cresciuto in Italia e addirittura in Italia fosse invecchiato. Le idee, portate sulla punta delle baionette, sembrano potersi inverare nella storia, se è vero che Hegel, allorché Napoleone entrò vittorioso a Jena il 13 ottobre 1806, scrisse in una lettera di aver visto nell’imperatore a cavallo l’immagine dello Spirito, l’anima del mondo: Napoleone, il giovanissimo generale che dà un colpo mortale alle tradizioni feudali, introducendo il codice civile, la proprietà privata, il divorzio. Rapidamente, nel giro di pochissimi anni, Ugo, come si fa ora chiamare, struttura la propria Weltanschauung assorbendo quanto di meglio, di più congeniale era nella cultura del suo tempo e muovendosi con sicurezza fra antico e moderno. È difficile, se non impossibile, classificarlo in un movimento di pensiero, sigillarlo nell’esclusività di un gusto, dargli una tessera di appartenenza. La sua devozione ai classici antichi, profonda, addirittura mitizzata fin dalle prime prove poeticheè strutturale, ma mai intesa come precetto di pedantesca o superficiale imitazione. Il culto dell’antico non esclude la modernità, ma implica sempre la coscienza di visitarla da una diversa, più profonda e radicata dimensione del tempo e quindi della cultura. Non a caso la prima letteratura romantica italiana, quella dei Pellico, di Breme, e probabilmente anche del Manzoni neoclassico, ma già a suo modo naturaliter romantico, dell’Urania, guarda all’opera del Foscolo come a quella di un maestro, più che di un precursore, il quale, secondo un’affermazione felicissima di Gavazzeni, «nella Chioma di Berenice (1803) aveva animosamente teorizzato (nel Discorso

    IV

    ), ripetendo, a modo suo, la lezione della Scienza Nuova, il costante riflettersi d’ogni vera espressione di poesia nei grandi archetipi della classicità».Insomma, a rileggere una frase pascoliana di molti anni dopo, Foscolo, come tutti i grandi italiani, è «antico sempre nuovo» (che implica anche il contrario). È già un concetto che possiamo trovare, a ben leggere, nel Discorso di un italiano sulla poesia romantica di Leopardi, composto nel 1818 e pubblicato soltanto postumo, definito dal Flora «la difesa più profonda che un latino, un italiano anzi, potesse fare della poesia classica, che per lui era la sola poesia». Il quale, aggiungeva lo studioso, non mancava di esprimere «pur nella critica perfino passionale contro la nuova scuola, quasi a gara con essa, alcune tra le più intense e positive esigenze del romanticismo». Basta un’occhiata al Piano di studi redatto dal Foscolo diciottenne nel 1796 (EN,

    VI

    ), in cui sono appuntati elenchi di libri letti o da leggere e opere compiute, in fieri, o progettate, per farsi una ragione di una scarsa sensibilità, confessata in seguito dal poeta più di una volta, alle dispute fra classicisti e romantici, tipica di chi guarda da una prospettiva più ampia e profonda.¹⁰ Nel Piano, nelle sezioni di morale, politica, metafisica e teologia troviamo accostati il Vangelo, il De officiis di Cicerone, Montesquieu e il Contratto sociale di Rousseau, Locke, Bacone, le cui opere «sono la chiave universale d’ogni filosofia»¹¹; Per la storia, i libri letti o da leggere sono Tacito, Raynal, innanzitutto, quindi Tucidide, Senofonte, Sallustio, Livio e Plutarco. Fra i moderni un certo Midleton, autore della Storia delle Brettagne, autore mai esistito, che probabilmente è George Lyttelton, autore di una History of England uscita nel 1764. Quanto ai letterati, sono imparzialmente rappresentati scrittori classici e moderni: fra gli epici, Omero e Ossian, Virgilio e Dante, Tasso e Milton. Pindaro e Orazio fra i lirici, ma anche Guidi, Gray, Frugoni, Haller. Quindi Metastasio, fra i tragici Shakespeare, Voltaire, Alfieri. Fra i pastorali Teocrito, ma anche Sannazzaro e Gesnéro, ossia Gessner. Fra i romanzi, Ariosto, Cervantes, La Nouvelle Heloïse. Infine anche Monti, Klopstock e Young. Quanto alle arti, sono fatti i nomi di Mengs e del Winchelmann della Storia dellarte dell’antichità. Come si vede, antichi e moderni si incontrano e corrispondono: Foscolo, nelle sue opere, saprà farli dialogare fra loro.

    Egli sarà il prediletto fra gli uomini definiti «nuovi» dal De Sanctis. Una qualifica però che, da parte sua, il Foscolo riservava solo a se stesso. Di questa novità che gli apparteneva e non poteva essere condivisa con nessun altro nel suo tempo, egli si mostra perfettamente cosciente. Intanto per una inoppugnabile ragione anagrafica, che espone ad apertura dell’ultimo paragrafo del saggio sulla letteratura contemporanea in Italia, dedicato al proprio profilo:

    Quando la rivoluzione del 1795 sconvolse i principj da secoli stabiliti in Italia agitando gli spiriti e gli interessi degli abitanti d’ogni provincia, gli scrittori fin qui menzionati avevano tutti pubblicate le opere per le quali hanno ottenuto stabile reputazione presso i connazionali.

    In quel tempo Ugo Foscolo era giovanetto, ma non tanto da non avvantaggiarsi dell’amicizia e dell’esempio de’ suoi contemporanei più segnalati. Se non che il totale rivolgimento nelle condizioni del paese, la sua educazione militare, la parte che egli ebbe nelle cose pubbliche, svilupparono il suo ingegno e formarono il suo carattere in maniera del tutto diversa da quella de’ suoi predecessori; inoltre le condizioni nelle quali egli ebbe a scrivere si formarono troppo tardi per influire sullo stile di quelli, ed essendo ormai passate, potranno forse richieder secoli a riprodursi.¹²

    Non c’è male per un’autovalutazione, che suona come una serena, posata, affermazione della propria unicità al presente, ma, probabilmente, anche per il futuro, almeno prossimo, forse anche lontano: quando mai si sarebbero ripetuti tempi simili, tali da cambiare gli uomini e le loro idee come mai s’era visto prima, il loro modo di pensare e quindi di scrivere?

    Frutto precoce di questa nuova immagine di uomo e letterato è la tragedia Tieste, messa in scena il 4 gennaio 1797, a Venezia, un anno prima della caduta dell’antica repubblica marinara. Un’opera giudicata dall’autore, a distanza di tanto tempo, e malgrado il grande successo ottenuto, non riuscita e quindi rifiutata. Ma scritta, si precisa, con l’intenzione di rivaleggiare «per semplicità e severità», non solo con «il gusto corrotto» che faceva preferire ai Veneziani le tragedie del marchese Pindemonte e del conte Pepoli, ma anche con le opere dell’Alfieri e addirittura con i tragici greci.¹³ Era questa, per dirla con un’espressione che sarebbe stata usata da Italo Calvino, «il midollo del leone» contenuto nel testo del tragediografo diciannovenne, che di lì a tre mesi si sarebbe recato a Bologna per arruolarsi nei Cacciatori a cavallo, con il grado di brigadiere. Esordisce da noi, piuttosto precoce nell’Europa del tempo, la figura del poeta-soldato, un D’Annunzio del

    XVIII

    secolo. Anche se questa esperienza, complice una febbre terzana che non gli dà pace, si conclude presto, con le dimissioni e la speranza di poter essere più utile alla patria con la penna che con la spada¹⁴.

    Ed ecco in azione la penna: a metà maggio viene pubblicata a Bologna l’ode Bonaparte liberatore. Una poesia un po’ goffa, di imitazione montiana, forse del peggior Monti, ma con una carica di entusiasmo che si traduce in una vibrazione sincera. Bellissima la dedica che le sarà aggiunta due anni dopo, nell’occasione della ristampa genovese. Di lì a pochi mesi si apre il cantiere dell’Ortis, che durerà anni. La prima edizione approvata dal Foscolo sarà quella del 1802, poi seguiranno tutte le altre. Nel frattempo si succedono composizione e pubblicazione delle due odi A Luigia Pallavacini caduta da cavallo e All’amica risanata e di alcuni dei dodici sonetti che, assieme alle odi, costituiranno, nella raccolta milanese del 1803, pubblicata presso lo stampatore Agnello Nobile, l’espressione della poesia matura del Foscolo, con punti di eccellenza (Alla sera, A Zacinto, In morte del fratello Giovanni) tali da segnalarlo fra i maggiori poeti, non solo italiani, del tempo. Fra i piccoli miracoli della forma sonetto, inventata dai poeti siciliani nel ’200, agli albori della lirica d’arte italiana, e collaudata ormai da secoli, spicca Alla sera, che possiamo considerare uno dei testi più rappresentativi dell’incipiente Romanticismo europeo. Si tratta di una poesia che nella sua parte figurativa avrebbe potuto esaltare John Ruskin, se l’avesse conosciuta, allorché pubblicò, nel maggio del 1843, il primo volume dei Modern painters. Affascinato da una rappresentazione del vero naturale che ha poco o nulla a che fare con l’imitazione, Ruskin avrebbe definito «grande pittore chi usa con assoluta precisione e forza il linguaggio delle linee, e grande verseggiatore chi usa, con precisione e forza il linguaggio verbale. A rigore, l’appellativo di grande poeta dovrebbe essere applicabile a entrambi, esattamente con lo stesso significato, quando se ne fanno garanti le immagini e i pensieri che l’uno e l’altro trasmettono grazie ai rispettivi linguaggi».¹⁵ Quindi Foscolo, ante litteram, andava considerato grande poeta-pittore, pienamente inserito nel gusto d’epoca («Ci piace immensamente tracciare paralleli di somiglianza fra la poesia e la pittura, tanto è vero che le chiamiamo arti sorelle», scriveva nella prefazione del 1800 alle Ballate liriche un altro poeta-pittore, William Wordsworth).¹⁶ Per la pittura, il riferimento, indicato da Francesco Arcangeli¹⁷, è la grande pittura di Turner, in particolare, il quadro Tempesta di neve, che rappresenta l’esercito di Annibale che attraversa le Alpi e sarebbe stato dipinto nel 1812. Foscolo però non si limita, come farà Turner, a rappresentare l’incombere sovrastante della Natura sulla vita degli uomini («E quando dal nevoso aere inquïete / tenebre e lunghe all’universo meni»). Si spinge fino a rapportare l’interiorità dell’uomo, le «secrete vie» del cuore, con l’infinito naturale, che si rovescia nel «nulla eterno»: il quale entra prepotentemente nella poesia italiana, dopo qualche presenza, di più banale connotazione, riscontrabile nell’Alfieri, preparando l’uso sublime che ne farà Leopardi.

    Romanticismo pieno, dunque, che vibra più che mai nello stilema «spirto guerrier», che conclude il sonetto e si traduce in un ruggito. Ma in quell’ultimo verso sembra sublimarsi anche una forma di pathos apparentemente opposta, ma, in epoca di sincretismi, in realtà connessa, quella espressa dall’arte del primo David, il pittore che rappresenta il mondo antico «veduto con gli occhi di Plutarco»¹⁸. Occhi che, se si concentrano sull’incipiente mondo moderno, possono essere anche quelli del Romanticismo: ne dà prova lo stesso Foscolo in A Zacinto, dove si ripete, con diverso soggetto e argomentazione, il miracolo di Alla sera. L’isola natale è un paradiso perduto per sempre: l’isola del mare greco, della nascita di Venere, del sorriso degli dei che rende feconda la terra. È l’isola dell’infanzia, la propria, ma anche quella dell’umanità, che, in una diversa, assai più amara interpretazione di un pittore come Arnold Böcklin, diventerà, ottanta anni dopo, l’isola dei morti. Un’isola, quella del Foscolo, da cui il mondo era apparso un miraggio; quello che è ora l’isola, inquietante e fascinosa, per chi la contempli dal continente, dove campeggia solo una tomba, quella del poeta. Ed ecco la nuvola che avvolge l’isola, la Sehensucht, l’intraducibile parola tedesca che ha a che fare con un desiderio struggente, nella perfetta coscienza che non potrà mai adempiersi, se non attraverso le vie dell’immaginario. È lì che si costella una concezione dell’arte che sarà oggetto d’uno dei più grandi libri del Novecento, la Recherche di Marcel Proust: la poesia che sconfigge il tempo e protegge la vita dalla morte, proiettando il desiderio su un’acquisizione fantasmatica della vita, eccipiente la memoria, in cui si rifugia quel che Freud definiva il principio di piacere. È da A Zacinto, e da qualche passo di All’amica risanata, che si sviluppa il germe delle Grazie, il grande poema onirico e come ogni sogno frammentario e incompiuto, addirittura indefinito, forse indefinibile, come i veri sogni. L’opera che, sigillata nelle carte foscoliane, ha scelto di svelarsi ai lettori per quello che è solo nel tardo Novecento, quando si è rinunciato a ricostruire qualcosa che non era mai stato costruito. Un’opera struggente e misteriosa, caleidoscopica, il cui senso più intenso si sprigiona, più che dall’essere, dal proprio dissolversi.

    Ma torniamo alla cronologia: nel 1806, tre anni dopo la pubblicazione completa di odi e sonetti, escono I Sepolcri, duecentonovantacinque versi, per la precisione endecasillabi sciolti, così densi da sembrare molti di più. I Sepolcri, ovvero un canto di vita innestato su un paesaggio di morte, quale può essere quello di un cimitero. Ma poco prima, nel 1802, s’era compiuto un altro evento, la pubblicazione della prima edizione dell’Ortis riconosciuta dall’autore. Nel già citato Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia Foscolo parla del suo romanzo, rassegnandosi a definirlo, a differenza di come aveva fatto altrove, ad esempio nella Notizia bibliografica, in cui ne aveva difeso l’originalità, come nient’altro «che un’imitazione del Werther; con la notevole differenza tuttavia che lo scopo dell’Italiano è unicamente politico»¹⁹. Ma nell’apparente svalutazione, c’è la rivendicazione di una caratteristica del proprio libro, un’originalità indiscutibile, che lo rende unico non solo in Italia, ma anche in Europa. Ma sentiamo:

    Le allusioni alla caduta della repubblica Veneziana e l’introduzione di personaggi viventi, quali il Parini a Milano, conferiscono al racconto una realtà, che deve riuscire di grande interesse per gli Italiani e attrae anche gli stranieri. V’è poi un così malinconico patriottismo ogni volta che l’autore nomina l’Italia da renderlo rispettabile agli occhi d’ogni generoso lettore; vi sono descrizioni di piccole cose che mostrano considerevole conoscenza del cuore umano, e riescono commoventi alla donna che s’innamora di Ortis.²⁰

    E a proposito delle donne:

    Ha l’Ortis inoltre il vanto d’essere stato il primo libro a indurre le donne e il gran pubblico dei lettori ad interessarsi della cosa pubblica; e fu grande impresa in un paese che un’unica massima aveva posto per secoli a fondamento dell’educazione di ogni classe sociale, De Deo parum, de Principe nihil.²¹

    Lo scrittore sembra porre l’esca per il De Sanctis: l’uscita dell’Ortis echeggia nelle pagine del critico irpino come un colpo di cannone.

    Comparve Jacopo Ortis. Era il primo grido del disinganno, uscito dal fondo della laguna veneta, come funebre preludio d’una più vasta tragedia. Il giovane autore aveva cominciato come Alfieri: si era abbandonato al lirismo di un’insperata libertà……Da un dì all’altro Ugo Foscolo si trovò senza patria, senza famiglia, senza le sue illusioni, ramingo……Le sue illusioni, come foglie di autunno, cadono una ad una, e la loro morte è la sua morte, è il suicidio.²²

    Gli italiani hanno il loro primo romanzo moderno: quattro anni dopo avranno anche I Sepolcri, un carme di cui non s’era mai visto l’eguale in tutto il corso della poesia italiana. Si riparte proprio dalle «illusioni», che, malgrado certe effusioni esclamative dell’Ortis, sembravano alla fine, proprio nel romanzo, non servire a niente, inclinare solo verso il suicidio, la dissoluzione. Ora Foscolo ha scoperto che sono la cosa più concreta di cui gli uomini dispongono, la base di tutti i grandi valori dell’umanità: illusione suprema, fra tutte, la lotta contro la morte in nome della vita, che è alla base dell’esistenza dei cimiteri e del culto dei morti, da cui nasce la poesia, che contende se stessa e i propri contenuti al silenzio di mille secoli e sconfigge il tempo, non permettendo, finché esisterà un solo uomo sulla terra, di dimenticare. Commenta il De Sanctis:

    Non vogliamo credere a un essere superiore, dispensatore del premio e della pena; sia pure.…Ma, uomini, possiamo noi rifiutar fede all’umanità? E vogliamo proprio togliere alla vita tutte le sue illusioni, tutta la sua poesia? Foscolo protesta come uomo e come poeta. È in lui sempre il secolo decimottavo, ma il secolo andato troppo innanzi nel suo lavoro di demolizione, e che si arretra, cercando un punto di fermata ne’ sentimenti umani.²³

    Su quel che sembra la facoltà più effimera, più volatile a disposizione dell’uomo, la memoria, intimamente connessa con l’immaginazione e quindi con la poesia, si sostanzia tutta la sua umanità, la sua cultura, il senso stesso dell’esistenza delle cose, che è dato dalla parola, senza la quale il mondo sarebbe muto e sordo a se stesso. Da questa consapevolezza si formano le opere successive, dalle bellissime orazioni pronunciate a Pavia, alle opere satiriche, storiche, linguistiche, i saggi di critica letteraria, le migliaia di lettere scritte dal poeta e raccolte nell’Epistolario.

    GIUSEPPE LEONELLI

    1 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, vol.

    II

    , Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1983, pp. 904 e 910-911.

    2 Ivi, p. 902.

    3 Ivi, p. 924.

    4 Ivi, p. 932.

    5 Ivi, p. 942.

    6 Si veda Enzo Mandruzzato, Foscolo, Milano, Rizzoli, 1978, p. 15.

    7 Si veda il mito della nascita greca nell’Amica risanata, vv. 85-94 «Ebbi in quel mar la cul-la, / ivi erra ignudo spirito / di Faon la fanciulla […]; ond’io, pin del nativo / aer sacro, su l’itala / grave cetra derivo / per te le corde eolie».

    8 Cfr. l’introduzione a Urania in A. Manzoni, Poesie di prima della conversione, a cura di F. Gavazzeni, Torino, Einaudi, 1992, p. 210.

    9 Cfr. il saggio introduttivo a G. Leopardi, Discorso di un italiano sulla poesia romantica, a cura di E. Mazzali, Bologna, Cappelli, 1970, p. x.

    10 Nel Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia, stampato in inglese nell’aprile 1818 presso il Murray, Foscolo definisce la questione «oziosa», pur riconoscendo «al modo della sua decisione», la capacità di determinare «il corso della letteratura per il prossimo cinquantennio» (EN, xi, p. 555).

    11 EN, vi, p. 4.

    12 Cfr. il Saggio sulla letteratura contemporanea cit., p. 539

    13 Ibidem.

    14 Ecco un passo della lettera di dimissioni inviata a Giuseppe Rangoni nell’aprile 1797: «Abbandonai la mia patria per vivere libero: rinunziai per l’indipendenza, ch’ho sempre adorato, alla gloria, ai commodi ed ai miei genitori. Baciai le terre republicane con la divozione del vero democratico, e mi feci campione della libertà sacrificandole tutto. Sento per altro che il mio fisico non corrisponde al sentimento della mia anima, e che una salute spossata dalla terzana e tormentata da una ferita che m’impedisce gli uffizi del soldato mi consigliano a lasciar con onore un impiego che non è fatto per me. Oserò dirlo, Cittadino? quell’indipendenza medesima ch’io vado cercando si sente in questo impiego violata ed oppressa: la vita ch’io trassi finora mi parve libera sebben in mezzo a schiavi e a tiranni; la vita che sono per vivere mi sembra schiava sebbene fra i liberi. Avvezzo ad essere signore di me medesimo, ho costantemente osservato meditato e scritto senza rendere conto di tutto che al mio spirito, ed al mio cuore: all’opposto io devo ubbidire senza meditare, e affaticarmi senza potere scrivere. — E l’impieghi de’ Cacciatori Cispadani, e molto più quando avranno i cavalli, sono di occupazione, e richiedono braccia e meccanismo. Nè l’uno nè l’altre sono il mio partaggio. Forse potrò essere utile agli uomini con la penna nol potendo essere con la spada. —. Io dunque rinunzio volontario a questo carico che m’addossai volontario. La proprietà di se medesimo è inalienabile sempre. Questa proprietà non posso alienarla giammai quando il fisico e l’anima nol concedono. Non ebbi nè vestiario nè paga: non ho dunque con la Republica alcun obbligo tranne quello d’avermi accettato fra’ suoi; rinunziandovi a quest’accettazione io sconto un tal obbligo, e viverò meno infelice e forse più libero».

    15 J. Ruskin, Pittori moderni, a cura di G. Leoni e A. Guazzi, con un saggio introduttivo di G. Leonelli (Il profeta della modernità), vol. i, Torino, Einaudi, 1998, p. 54.

    16 Cfr. W. Wordsworth, prefazione del 1800 a Wordsworth-Coleridge, Ballate liriche, trad. di Attilio Brilli, Milano, Mondadori, 2011, p. 273.

    17 Cfr. il saggio Lo spazio romantico in F. Arcangeli, Dal romanticismo all’informale, i, Torino, Einaudi, 1977.

    18 Cfr. Mario Praz, Classicismo rivoluzionario, in Id. Gusto neoclassico, Milano, Rizzoli, 1974, p. 94.

    19 Op. cit., p. 540.

    20 Ibidem.

    21 Ivi, pp. 540-541.

    22 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana cit. pp. 943-944.

    23 Storia della letteratura cit., vol. ii, p. 948.

    Nota biobibliografica

    LA VITA E LE OPERE

    Niccolò Ugo Foscolo nacque a Zante il 6 febbraio 1778, da padre veneziano, Andrea, medico, e da madre greca, Diamantina Spathis. Trascorse l’infanzia nell’isola natale e fece i primi studi a Spalato. Morto il padre, il resto della famiglia, nel 1799, si trasferisce a Venezia. Ugo è il primo di quattro fratelli: gli altri, una femmina e due maschi, moriranno suicidi. Irrequieto e disordinato, intemperante e appassionato, è però studiosissimo. Saltuariamente riesce a frequentare all’università di Padova le lezioni di Melchiorre Cesarotti, grande patriota e traduttore di Omero e di Ossian. Grecità e preromanticismo sono le due componenti che influenzeranno costantemente la produzione di Foscolo. Il quale si impadronisce presto delle lingue classiche e moderne; e con un Piano di studi, tracciato nel 1796, affronta un sistematico programma di letture. Precoce come poeta, lo è anche come drammaturgo: scrive il Tieste che viene messo in scena nel 1797. Persegue un’immagine glorificata di sé e si comporta di conseguenza. Culto della forma e immedesimazione con la passione per lui fanno un tutt’uno nell’arte e nella vita. È di questo periodo il primo dei suoi amori tempestosi, con Isabella Teotochi Albrizzi.

    Alla passione d’amore e alla passione letteraria fa seguito la passione politica. Naturalmente diventa giacobino, nei ruoli di congiurato, di oratore e di propagandista; infine, di soldato. Nel 1797 si arruola nel corpo dei Cacciatori a cavallo della neonata Repubblica cispadana. Auspica la nascita di una Repubblica italiana più allargata, mentre Napoleone Bonaparte, il traditore dell’idea, mette fine, con il trattato di Campoformio, alla Repubblica di Venezia consegnandone il territorio all’Austria assolutista. Dopo aver scritto il sonetto A Venezia e le odi a Bonaparte liberatore e Ai novelli repubblicani, muta atteggiamento verso Napoleone, ma non verso l’idea libertaria di cui il grande condottiero resta pur sempre il portatore. Verso la fine del 1797 si stabilisce a Milano, dove diventa amico del Monti e conosce Parini, altra sua figura ideale, che egli celebrerà sia nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis che nei Sepolcri. Collabora al «Monitore» di Melchiorre Gioia e si trasferisce a Bologna svolgendovi una intensa attività politica. Fonda, nel 1798, insieme al fratello Gian Dionigi, il «Genio Democratico».

    Ha già cominciato a scrivere la prima opera importante, il romanzo epistolare che diventerà le Ultime lettere di Jacopo Ortis. Nell’aprile del 1799 è di nuovo arruolato sotto le bandiere napoleoniche e combatte in Emilia e in Romagna contro le truppe austro-russe. Viene ferito a Cento e successivamente partecipa alla difesa di Genova. Le imprese militari e le vicende d’amore si intrecciano d’ora in poi l’una con l’altra. Compone l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. A Firenze ha una storia d’amore con Antonietta Fagnani Arese. Affronta un romanzo autobiografico che resterà incompiuto, allo stadio degli appunti: Sesto tomo dell’io. Scrive l’Orazione a Bonaparte. Intanto, a sua insaputa, a Bologna viene pubblicato, manomesso, l’Ortis. Dopo aver sconfessato l’iniziativa editoriale impropria, Foscolo mette mano al libro dandolo alle stampe a Milano nel 1802.

    Comincia così il periodo della maturità artistica di Foscolo. Nel 1803 pubblica la traduzione commentata (non dal greco, ma dal latino di Catullo) della Chioma di Berenice di Callimaco. Sotto il titolo Poesie, assieme all’ode A Luigia Pallavicini pubblica quella All’amica risanata, che è Antonietta Fagnani Arese, e gli altrettanto celebri dodici sonetti. Le sue intemperanze politiche lo rendono inviso alle stesse autorità francesi. Ottiene di essere allontanato dall’Italia facendosi inviare in Francia come ufficiale presso l’armata che Napoleone stava apprestando sulla Manica nell’intento di invadere l’Inghilterra. L’impresa non sarà però mai realizzata. Foscolo trascorre due anni di tedio in questa attesa, resa più sopportabile dalla relazione con una giovane inglese, Fanny Emerytt, da cui nascerà la figlia Floriana. È nei giorni di questo soggiorno francese che intraprende la traduzione del Viaggio sentimentale di Sterne.

    Svanito il progetto napoleonico dell’invasione dell’Inghilterra, Foscolo rientra a Milano, capitale del regno d’Italia, con Napoleone re ed Eugenio di Beauhamais viceré. È il 1806. Foscolo compone il suo capolavoro: Dei Sepolcri. È una visione sostanzialmente vichiana quella che regge i Sepolcri, con i quali il Foscolo si era proposto, come egli stesso ebbe a dire, il tema non della «resurrezione dei corpi», ma della «resurrezione delle virtù».

    Dei Sepolcri venne pubblicato a Brescia nel 1807, contemporaneamente all’Esperimento di traduzione dell’Iliade. Vive polemicamente con gli ambienti letterari e politici, ma riesce a cavarsela godendo della protezione del ministro della guerra Caffarelli a cui dedica il primo volume delle Opere di Raimondo Montecuccoli, grande condottiero e grande teorico della guerra, da lui curato. Alla fine del 1808 ottiene la cattedra di eloquenza all’università di Pavia e nel gennaio dell’anno seguente pronuncia la prolusione Dell’origine e dell’ufficio della letteratura. Ma nel frattempo la cattedra viene soppressa dalle autorità. Entra ancora di più in conflitto con gli ambienti milanesi e nel 1810 rompe i rapporti col Monti. Pubblica l’opera polemica Ragguaglio di una adunanza dell’Accademia de’ Pitagorici e mette sulle scene, nel 1811, la seconda tragedia, Ajace, dove i suoi sentimenti antinapoleonici vengono pubblicamente dichiarati. Perde l’incarico di revisore di lingua e stile delle rappresentazioni teatrali proposte alla compagnia reale. Dopo un girovagare tra Venezia e Pavia, decide di lasciare il regno d’Italia per recarsi, nel 1812, a Firenze, capitale del regno d’Etruria.

    Rimane a Firenze sino alla fine del 1813. Frequenta il salotto della contessa d’Albany e vive una relazione coniugale con Quirina Mocenni. Sempre nel 1813 mette in scena la sua terza tragedia, Ricciarda, e lavora intensamente alle Grazie. Prosegue nella versione dell’Iliade e porta a compimento la traduzione del Viaggio sentimentale che viene pubblicato a Pisa assieme alla Notizia intorno a Didimo Chierico, pseudonimo del Foscolo e suo secondo alter ego dopo Jacopo Ortis. Intanto un nuovo cataclisma storico cambia i rapporti politici e sociali che si erano creati con l’era napoleonica. Nel 1814 avviene la caduta del regno italico. Le vittorie austriache danno l’avvio al periodo della Restaurazione. Foscolo è sul punto di accettare la proposta governativa di dirigere una rivista, la «Biblioteca italiana». Ma essendogli stato chiesto il giuramento militare, rompe gli indugi e il 30 marzo 1815 fugge da Milano e dall’Italia.

    Dapprima vaga per la Svizzera, dove pubblica la terza stesura dell’Ortis e porta a termine i Discorsi della servitù d’Italia. Pubblica anche, a firma di Didimo Chierico, l’Ipercalisse, una satira in prosa latina contro politici e letterati, traendo spunto dalla biblica Apocalisse. Ma termina qui il suo periodo più fecondo e più vitale, anche politicamente. Gli rimane addosso l’immagine di «testa calda», come lo aveva chiamato Gioacchino Murat, e di «uomo pericoloso sotto ogni regime», come lo aveva definito un capo della polizia austriaca. Comunque sia questo tempo eroico è finito e Foscolo prende la via di un esilio definitivo. Nel 1816 si stabilisce a Londra, avviando una fase tutt’altro che feconda. In questo periodo Foscolo dà il meglio di sé come filologo e come critico. Provvidenziale e carico di destino è il suo incontro con la figlia Floriana, di cui ben presto egli dilapiderà il patrimonio. Floriana gli resterà accanto fino alla fine.

    Foscolo, vinto dal demone della sua inquietudine e dalla mania di ricchezza, si dà ad una vita inutilmente dispendiosa. Finirà anche in prigione per debiti e si alienerà le amicizie degli ambienti liberali che lo avevano ben accolto. Redige la quarta stesura dell’Ortis (1817); riprende Le Grazie e pubblica la raccolta Lettere scritte dall’Inghilterra, che descrivono con ironia il mondo snobistico italiano confrontato con quello inglese. Seguono la Lettera apologetica, che uscì postuma; il Saggio sullo stato della letteratura italiana nel primo ventennio del secolo decimonono del 1818; gli Scritti su Parga del 1819. E diversi studi importanti: Saggi sul Petrarca del 1821; Discorso sul testo della «Divina Commedia» del 1825; Sui poemi narrativi e romanzeschi italiani del 1819. Vanno ricordate anche le lezioni sulle Epoche della lingua italiana del 1823 e il Discorso storico sul testo del Decamerone del 1825. Va aggiunto alle opere un vasto epistolario che abbraccia l’intero arco della sua vita, che si concluse in miseria, a 49 anni, il 10 settembre 1827, a Thurnham Green, un villaggio dei sobborghi di Londra. Le sue spoglie rimasero nel cimitero di Chiswick, da dove furono traslate, a cura del governo italiano, nel 1871, nella chiesa di Santa Croce in Firenze.

    EDIZIONI

    Edizione Nazionale delle Opere, Firenze, Le Monnier, 1933-1994, 23 voll.:

    Volume

    I

    : Poesie e Carmi (Poesie, Dei Sepolcri, Poesie postume, Le Grazie), a cura di

    F. PAGLIAI, G. FOLENA

    e

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    , 1985.

    Volume

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    : Tragedie e poesie minori, a cura di

    G. BEZZOLA

    , 1961.

    Volume

    III

    : Esperimenti di traduzione dell’Iliade, a cura di

    G

    .

    BARBARISI

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    Volume

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    G

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    GAMBARIN

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    Volume

    V

    : Prose varie d’arte (Il sesto tomo dell’io, Versione dello Sterne, Notizia intorno a Didimo Chierico, Lettere scritte dall’Inghilterra, Pagine varie e sparse), a cura di

    M. FUBINI

    , 1951.

    Volume v

    I

    : Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, a cura di

    G

    .

    GAMBARIN

    , 1972.

    Volume

    VII

    : Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809-1811), a cura di

    E. SANTINI

    , 1972.

    Volume

    VIII

    : Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816 (Frammenti su Machiavelli, Ipercalisse, Storia del Sonetto, Discorso sulla servitù dell’Italia, Scritti vari), a cura di

    L. FASSò

    , 1933.

    Volume

    IX

    : Studi su Dante (Articoli della «Edimburgh Review», Discorso sul testo della «Commedia»), a cura di

    G. DA POZZO

    , tomo

    I

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    G. PETROCCHI

    , tomo

    II

    , 1981.

    Volume

    X

    : Saggi e discorsi critici (Saggi sul Petrarca, Discorso sul testo del «Decameron», Scritti minori su poeti italiani e stranieri, 1821-1826), a cura di

    C. FOLIGNO

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    Volume

    XI

    : Saggi di letteratura italiana, a cura di

    C. FOLIGNO

    , 1958, 2 tomi.

    Volume

    XII

    : Scritti vari di critica storica e letteraria (1817-1827), a cura di

    U. LIMENTANI

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    J.M.A. LINDON

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    Volume

    XIII

    : Prose politiche e apologetiche (1817-1827), a cura di

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    Volume

    XIV

    : Epistolario

    I

    (ottobre 1794-giugno 1804), a cura di

    P. CARLI

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    Volume xv: Epistolario

    II

    (luglio 1804-dicembre 1808), a cura di

    P. CARLI

    , 1952.

    Volume

    XVI

    : Epistolario

    III

    (1809-1811), a cura di

    P. CARLI

    , 1953.

    Volume

    XVII

    : Epistolario

    IV

    (gennaio 1812-dicembre 1813), a cura di

    P. CARLI

    , 1954.

    Volume

    XVIII

    : Epistolario

    V

    (1814-primo trimestre 1815), a cura di

    P. CARLI

    , 1956.

    Volume

    XIX

    : Epistolario

    VI

    (10 aprile 1815-17 settembre 1816), a cura di

    G. GAMBARIN

    e

    F. TROPEANO

    , 1966.

    Volume

    XX

    : Epistolario

    VII

    (7 settembre 1816-fine del 1818), a cura di

    M. SCOTTI

    , 1970.

    Volume

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    (1819-1821), a cura di

    M. SCOTTI

    , 1974.

    Volume

    XXII

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    IX

    (1822-1824), a cura di

    M. SCOTTI

    , 1994.

    Volume

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    : Epistolario

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    (periodo inglese), a cura di

    M. SCOTTI

    (in preparazione).

    Raccolte parziali

    Opere, a cura di

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    Opere, a cura di

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    M. PUPPO

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    Opere, con un saggio critico e note di

    E. N. GIRARDI

    , Milano, Le Stelle, 1966, 2 voll.

    Dall’«Ortis» alle «Grazie», a cura di

    S. ORLANDO

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    Foscolo minuscolo hoepliano. Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Sonetti, odi, carmi, a cura di

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    Poesie, introduzione e note di

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    Opere. Poesie e Tragedie, edizione diretta da

    F. GAVAZZENI

    , con la collaborazione di

    M. M. LOMBARDI

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    F. LONGONI

    , Torino, Einaudi-Gallimard, 1994-95, vol.

    I.

    Opere. Prose e saggi, edizione diretta da

    F. GAVAZZENI

    , con la collaborazione di

    G. LAVEZZI, E. LOMBARDI, M.A TERZOLI

    , Torino, Einaudi-Gallimard, 1994-95, vol.

    II.

    Opere, scelta e introd. di

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    Prose e poesie, a cura di

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    , Il canto dell’amico perduto: della genesi dei Sepolcri, e di altre incognite foscoliane, Chioggia, Accademietta, 2005.

    G. NICOLETTI

    , Foscolo, Roma, Salerno Editrice, 2006.

    M. PALUMBO

    , Foscolo, Bologna, il Mulino, 2010.

    Elenco delle abbreviazioni

    Bottasso. Poesie e prose d’arte, a cura di Enzo Bottasso, Torino, Utet, 2011.

    Carrer, Vita. Luigi Carrer Ugo Foscolo, in Id. Prose e poesie edi te e inedite correlate dalla vita dell’autore, Vene zia, co’ tipi del Gondoliere, 1842.

    Chiarini. Poesie di U. Foscolo. Nuova edizione critica per cura di Giuseppe Chiarini, Livorno, Giusti, 1904.

    Contini. Gianfranco Contini, Letteratura italiana del Risor gimento, Milano,

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    Contini, Preliminari. Gianfranco Contini, Preliminari alla lingua del Pe trarca, in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970.

    De Sanctis. Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italia na, Milano,

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    II

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    De Sanctis, Foscolo. Ugo Foscolo, in Saggi critici, a c. di Luigi Russo, Bari, Laterza, 1969, vol.

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    Di Benedetto. Vincenzo Di Benedetto, Lo scrittoio di Ugo Foscolo, Einaudi, Torino 1990 Torino, Einaudi, 1990.

    EN. Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo; vedi Nota Bibliografica.

    Ferrari. Liriche scelte, I Sepolcri e le Grazie, Frammenti di Tragedie, col commento di Severino Ferrari. Se conda edizione riveduta, corretta ed accresciuta da Oreste Antognoni, Firenze, Sansoni, 1914 (ivi 1938).

    Gavazzeni. Opere, a cura di Fausto Gavazzeni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1974 (tomo

    I

    ); 1981 (tomo

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    ).

    Longoni. Opere, ed. diretta da Fausto Gavazzeni, con la col laborazione di M.M. Lombardi e F. Longoni, Torino, Einaudi-Gallimard, 1994, vol.

    I

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    Macrì. Oreste Macrì, Semantica e metrica dei Sepolcri del Foscolo, Roma, Bulzoni, 1978.

    Marino. Giovanbattista Marino, Dicerie sacre e La Strage de gli innocenti, a c. di G. Pozzi, Torino, Einaudi, 1960.

    Momigliano. Attilio Momigliano, Introduzione ai poeti, Firenze, Sansoni, 1979.

    Orlando. Dall’Ortis alle Grazie. Antologia a cura di Saverio Orlando, Torino, Loescher, s.d. [1974].

    Praz. Mario Praz, Gusto neoclassico, Milano, Rizzoli, 1974.

    Ramat. Raffaello Ramat, Itinerario ritmico foscoliano, Bari, Macrì, 1946.

    Saba. Umberto Saba, Scorciatoie e raccontini, Genova, Il melangolo, 1993.

    Scotti. Le opere. Le ultime lettere di Jacopo Ortis-I Sepol cri-Le Grazie-Le odi-I sonetti-Le epistole. Introdu zione e note di Mario Scotti, Roma, Bietti, 1980.

    Scotti, Le Grazie. Le Grazie, introduzione, scelta e commento di Ma rio Scotti, Firenze, Le Monnier, 1987.

    Vitale, Convegni foscoliani,

    II

    . Maurizio Vitale, Il Foscolo e la questione linguisti ca del primo Ottocento in Atti dei Convegni fosco liani, Roma, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, 1988, 3 voll.

    I testi scelti sono esemplati su quelli raccolti nell’Edizione Nazionale; inoltre, in questa edizione, è stata preferita l’accentazione grave, come riporta la maggior parte dei testi originali, alla distinzione grafica nel timbro delle vocali.

    OPERE IN VERSI

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    Poesie giovanili

    In morte del padre

    Il Foscolo raccolse sotto questo titolo, in un quadernetto autografo datato 1796, sei componimenti: la canzone Perchè, o mie luci, l’angoscioso pianto e cinque sonetti: Padre, quand’io per la tua muta tomba; Era la notte; e sul funereo letto (l’unico che sarebbe stato pubblicato con varianti sull’«Anno poetico» del 1797); Fu tutto un pianto e con un grido acuto; Oh! qual’ orror! un fremito funèbre. Il padre, Andrea Foscolo, era morto nell’ottobre 1788. Dedicandogli il suo microcanzoniere, il giovane Ugo compiva quella che oggi ci appare una celebrazione il cui tenore edipico non è sfuggito all’attenzione di Saba, che ebbe a scriverne in una delle sue Scorciatoie e raccontini. Saba si applicò in particolare all’analisi del secondo sonetto (Era la notte; e sul funereo letto). Il poeta moderno coglie nel sonetto, in cui tutto si richiama alla morte, come un’eccitazione, una vera e propria «musica guerriera». «Il Foscolo», scrive Saba, «amava suo padre; lo spettacolo della sua agonia e della sua morte lo empirono – non v’è dubbio possibile – di dolore, angoscia e sgomento; sensibili anche attraverso la trasfigurazione poetica. Ma… ma l’anima dell’uomo è complessa. E complessa (e preistoricamente) primitiva l’anima del fanciullo.

    L’idea, non confessata certamente nemmeno a se stesso, di remota origine infantile, che morto (allontanato) il padre, egli sarebbe rimasto solo sulla terra colla madre (il sonetto è a tre personaggi: il poeta ancora ragazzo, la madre sua, e il padre morente; gli altri componenti della famiglia, o risultano assenti o sono accantonati in quel E tacque ognun con cui s’inizia la seconda terzina) è forse alla radice profonda dell’ispirazione che agitava il Foscolo quando compose la sua prima grande poesia. Egli la intese come una musica funebre, un tributo di pietà filiale; la pietà filiale e la musica di dolore sono rimaste; ma l’accento lirico cadde – al di fuori della sua volontà – su qualcosa d’altro, che non è detto né accennato, e fa tutta via sentire la sua presenza» (pp. 112-113).

    Vale la pena, sulla traccia di queste parole, di esaminare un po’ più da vicino l’intera suite di componimenti. Nella canzone d’apertura Foscolo mette in scena un colloquio prima con se stesso («o mie luci», «folle desio»), poi con il padre morto. Il testo si chiude, in ossequio a moduli già presenti nell’antica lirica italiana, da Guittone a Dante e Petrarca, con l’allocuzione al componimento («Canzon, tu oscura…»), al quale si affida il compito di portare ogni consolazione alla madre, ai fratelli e al poeta stesso. Si anticipa il motivo, che pervaderà tutta l’opera del Foscolo, della poesia unico ristoro alle fatiche dell’esistenza. Fra le varie professioni d’affetto per il padre, risalta lo sgomento di fronte al dovere di sostenere, con le proprie fragili spalle di adolescente, il dolore di colei che «a noi fu Madre, a te fu Sposa».

    I cinque sonetti riprendono il tema della morte, ma elaborandone le varie sequenze quasi a costituire un piccolo film, di cui personaggi sono il padre, il figlio, la madre. Vediamo la scena della morte avvenuta sette anni prima e come fissata per sempre nell’occhio del ragazzo di allora. Sono immagini del passato che si riattivano, con effetto quasi proustiano, scandite dal suono della campana a morto durante una visita al cimitero. Il passato ritorna con forte evidenza sensoriale, sottolineata dalla ripetizione del verbo vedere (in un caso guatare) per il corso dei componimenti. Come il padre muore, la madre, già atteggiata a lutto («avvolta dai crin batteasi il petto»), in forma di personaggio di tragedia greca, alza grida altissime nel silenzio notturno e si slancia fra le braccia del figlio: «Fu tutto pianto: e con un grido acuto… disperata corse / la trista moglie e a me stretta s’attorse / quasi chiedendo a sua sventura aiuto». Ne deriva un abbraccio lunghissimo che dura tutta la notte ed è quasi una compenetrazione di corpi; nessuna parola, solo pianto e un bacio. Le lacrime scorrono, si confondono: quelle del figlio sul seno della madre (definita, si noti, «trista moglie», con connotazione non propriamente filiale), quelle della madre sul volto del figlio. È innegabile la presenza, in tanto dolore, di un’evidente tensione erotica, qualcosa come una felicità proibita, soffocata e tuttavia prorompente. Sta qui la spiegazione della spaventosa visione che occupa tutto il sonetto successivo («Oh! qual’orror! un fremito funèbre»)? Trema la terra, come scossa dall’ira, si apre la fossa, ove biancheggiano le ossa del padre. Il ragazzo le fissa (a vedere si sostituisce l’assai più intenso guatare), con occhi che vorrebbero chiudersi («con incerte palpèbre»), poi salta dentro la fossa, come Amleto nella tomba che attende Ofelia. Un gemito agghiacciante proviene dall’oscurità profonda: il figlio, sconvolto, raccoglie «il cener santo» del padre, ripetendo il rito di Oreste nelle Coefore di Eschilo. Ma il gesto d’amore, incerto e come atterrito («ahi tremo…») è respinto; dalla tomba scaturisce un suono, che forse è di pianto, anzi di rimprovero («e par che un suono, un pianto, mi rimbrotte») per qualcosa che ha tutto l’aspetto di una profanazione. Il risultato sarà la fuga da un mondo psichico strutturato, come per un incantesimo malefico, su elementi affettivi primari, sempre alla ricerca di una difficile, e dolorosa, sublimazione.

    L’impressione è che il Foscolo, in queste poesie della prima giovinezza, abbia sigillato una volta per tutte il suo mito personale, dando una prima forma a movimenti ondosi della psiche che agiteranno tutta la sua opera a venire.

    G. L.

    «Perchè o mie luci, l’angoscioso pianto»

    Madre. Scorsero omai sette anni dopo la morte del tuo dolce compagno e del mio tenero genitore. Tutto questo tempo fu di dolore, ed io benché avessi appena due lustri ho saputo meco dividere le tue pene, e quelle rimembranze funeste che mi tornano innanzi, e che mi torneranno fino al sepolcro. Non sapendo in qual modo disfogare il mio affanno, raddolcire o mia tenera genitrice, il tuo, e rendere un omaggio a mio Padre, scrissi questi versi che or t’indirizzo con le mie lacrime. Addio, benefica Madre. Se i talenti e l’età non mi concessero versi migliori, il mio core, il mio core saprà comprendere, amandoti, tutti i loro difetti. Tuo figlio Nic. Ugo

    Ma a me che resta altro che pianger sempre

    Misero e sol? che senza te son nulla.

    PETRARCA

    Perchè, o mie luci, l’angoscioso pianto

    Voi non cessate? et al suo cupo affanno

    Non vi piace lasciar l’anima mesta?

    Troppo voi siete a quella doglia inganno

    Che m’è cara soffrir finché sia infranto 5

    Lo stame a cui s’attien mia vita infesta.

    Ben innanzi accadrà che si rivesta

    Di verde e fiori il prato a mezzo verno

    Pria che m’incresca di mie vive doglie,

    E se il destin mi toglie 10

    Chi era de’ giorni miei pace e governo,

    Almeno alle sue spoglie

    Che omai sotterra son cenere frale

    Si dica sospirando un caldo vale.

    L’amico il Padre è morto: or qual mai speme 15

    Fia che più resti alle mie brame afflitte

    Se non che la pietà m’apra la fossa?

    Profondamente nel mio sen stan scritte

    Le sante dolci sue parole estreme

    Onde sovente quest’anima è scossa. 20

    Mi traggon elle a visitar quest’ossa

    Sparger miei voti, e forse al sordo vento;

    Ah! che mai dissi? dall’Eterea sede

    Ove beato ei siede

    Non ode il suon del mio triste lamento? 25

    E del dolor non vede

    L’alta ferita? ah s’egli è ver cessate

    Lugùbri voci, nè più duol gli date.

    Troppo ei mi amava in terra, e troppo forse

    Se doglia provan de’ beati i spirti 30

    Ei s’addolora alla mia intensa pena.

    Dunque spargiam sulla sua tomba mirti

    E se fosca per lui mia vita scorse

    Per lui ritorni ancor queta e serena.

    Ben troncherassi un dì questa catena 35

    Grave al mio spirto e goderò di lui

    Ove luce di Dio su ognun si spande.

    Ivi fia che domande

    De’ frati miei, de’ dolci figli sui,

    O lieto istante, o grande 40

    Istante, a che ver me ratto non voli

    Onde in braccio al mio Padre io mi consoli?

    Perché m’adduci mai, folle desio,

    A vaneggiar con tai speranze audaci?

    Credi che al mio buon Padre io m’assomigli? 45

    Ivi egli posa in grembo a liete paci

    Perché con sua saviezza il nembo rio

    Seppe fuggir e del mondo i perigli.

    Fuggir forse sapranli i lassi figli

    Che nel mondo imboscati a mezza notte 50

    Soli e confusi ad erme piagge ed erte

    Volgon lor piante incerte

    Ahi troppo giovanili, e troppo indotte?

    Ma se fia che si merte

    Un giusto grazie, ah! dal Signor dell’Etra 55

    Consiglio e Grazie a’ tuoi pupilli impetra.

    Luce chieggiam e chi l’accenda, o Padre,

    Forse non v’è, forse non v’è chi porga

    Acqua di chiaro fonte a nostra sete.

    Se per te dunque un rio puro non sgorga, 60

    Se non diradi a noi quest’ombre sì adre,

    Chi fia che ci rischiari, e ci dissete?

    Egra già fora in grembo a tua quiete

    Ella che a noi fu Madre, a te fu Sposa;

    Se non che, lassa! ancor viver si vuole 65

    Per sua tenera prole,

    Ma del suo lacrimar unqua riposa,

    Anzi meco si duole

    Dicendo, o figlio, a te chiedo conforto

    Poiché il mio Sposo il mio buon Sposo è morto. 70

    E qual da me conforto? e quale io posso,

    Padre, se il terzo lustro appena io varco,

    Prestar sollievo a sua doglia cotanta?

    Ahi che mal so di quel soave incarco

    Gravar per anco il mio debile dosso 75

    Che il tuo gravò per quasi anni quaranta.

    Sol suonan pianto e muto orrore ammanta

    Que’ dolci lochi ov’io ti vidi un giorno

    Porger a’ tuoi figliuoli e baci e pane,

    E in fogge care e strane 80

    Saltellar essi a tue ginocchia intorno.

    Ed or, ahi! che rimane

    Altro che aver in grembo gli orfanelli

    E alle lor grida lacrimar con elli?

    O cupa notte! o tenebroso istante! 85

    O tetra bara, o feretro funebre

    Ove il padre vid’io la volta estrema!

    Dal duolo avvolti e da vostre tenebre

    Venite agli infelici ora d’innante

    Onde ognun sopra voi sospiri e gema. 90

    Qui mia suora innocente e guarda e trema

    L’istupidita genitrice nostra

    Che fitti ha gli occhi al suol nè fiato manda;

    Qui il fanciul che addomanda

    «Che fu? che avvenne?» – e mesto indi si prostra. 95

    E al padre raccomanda

    Quinci il ritorno; e un altro che col dito

    Tergesi i lumi, e fa al suo pianto invito.

    E a squallor tanto in mezzo io con la fronte

    Dalle man sostenuta, i miei sospiri 100

    Traggo più ardenti, e li rattengo invano.

    Par che d’intorno a me l’ombra s’aggiri

    E delle smorte luci il caldo fonte

    Egli m’asciughi in atto dolce umano:

    Rammento allora qual diemmi la mano 105

    Qual me la strinse e qual mi benedisse

    Coi sguardi ove mancavangli gli accenti!

    Qual «miei Figli innocenti».

    Disse, «ti raccomando», e più non disse,

    Qual di Angeli fulgenti 110

    Sull’ale io vidi sgombra del suo velo

    L’alma rapita a innamorare il Cielo.

    Canzon, tu oscura, dolorosa, e sola

    Ove altri orfani stanno in pianto e in duolo

    Drizza gemendo il volo 115

    Et una amante vedova consola;

    E siegui un figlio che alla mesta notte

    E alla tacita luna

    Fra lacrime dirotte

    Narra le tempre di sua rea fortuna: 120

    Ivi per l’aria bruna

    T’innoltra, e digli in suon d’aura notturna:

    Solo non piangi del tuo Padre all’urna.

    Canzone. Metro: endecasillabi e settenari, secondo lo schema: ABCBACCDEeDeFF. Lo schema dell’ultima strofa o congedo è ABbACdcDdEE.

    1. luci: occhi, come spesso nel linguaggio della poesia italiana. -angoscioso pianto: cfr. Dante, Inf.,

    XX

    , 6. 2. cupo affanno: cfr. il «soave affanno» nelle Grazie, Quadernone, Inno

    II

    . Vesta, 132. 4. a quella doglia inganno: sollievo apparente al dolore. 6. Lo stame … infesta: il filo a cui è ancora legata la mia vita a me stesso fastidiosa, molesta. 8. Di verde e fiori il prato: cfr. le «rose di verno» di Petrarca, Triumphus Cupidinis,

    IV

    , 117. Esempio di adynaton, ovvero eventualità impossibile. 9. m’incresca: mi venga a noia. 13. frale: fragile. 14. vale: addio affettuoso. 15-17. qual mai speme / Fia che più resti…: quale speranza potrà restare ai miei desideri delusi se non che la pietà divina mi porti presto a morte? 19. Le sante … estreme: con il ricordo delle «dolenti mie parole estreme» di Petrarca, Canzoniere,

    CXXVI

    , 13. 22. Sparger miei voti…: diffondere le mie preghiere, anche se con il dubbio che nessuno le ascolti e vadano disperse al vento. 30. Se doglia provan…: se gli spiriti dei beati mantengono ancora la capacità di soffrire. 32. spargiam … mirti: spargiamo fiori sulla sua tomba. Il mirto era pianta sacra a Venere; qui ha la funzione di nobilitare neoclassicamente l’azione pietosa. 38-39. Ivi fia…: quando finalmente ci saremo ricongiunti in cielo, allora accadrà che mi domandi dei miei fratelli, figli suoi. 47. il nembo rio: le tempeste della vita. 49-53. Fuggir forse…: sapranno forse fuggirli i suoi figli infelici che, dispersi (imboscati) per il mondo come in una foresta a mezza notte, soli e spaesati volgono incerti passi, inesperti come sono quelli dei giovani, verso luoghi aspri e solitari? 54-56. Ma se fia…: ma se accada a un giusto di meritare la benevolenza del signore del cielo, ottieni per i tuoi protetti senno (Consiglio) e doni soprannaturali (Grazie). 57. chieggiam: chiediamo. 61. sì adre: così oscure. 63. Egra…: sarebbe già, malata, in grembo alla tua pace. 67. unqua: mai. 72. il terzo lustro: ha appena quindici anni. 74-76. Ahi che mal so…: non sono in grado per ora (per anco) di gravare la mia debole schiena del peso del dolce dovere di cui tu ti sei fatto carico per quasi quarant’anni. 91. suora: la sorella.

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