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Javier Sierra

LA CENA SEGRETA

Traduzione di Claudia Mannelli

Travessera de Gracia, 47-49. 08021 Barcelona


Gruppo editoriale il Saggiatore S.p.A., Milano

Marco Tropea Editore

A Eva, che ha illuminato la rotta di questo navigante,


offrendogli sempre un porto sicuro

Il libro
Gennaio 1497, frate Agustìn Leyre, inquisitore domenicano esperto
nell'interpretazione di messaggi cifrati, viene inviato di tutta fretta a
Milano per sovrintendere alle ultime fasi della preparazione
dell'affresco di Leonardo, l'Ultima Cena. Tutto è dovuto a una serie di
lettere recapitate presso la corte di Papa Alessandro VI, nelle quali il
pittore viene accusato non solo di aver raffigurato i dodici Apostoli
senza il consueto alone di santità, ma anche di aver ritratto se stesso
all'interno della scena sacra mentre rivolge le spalle a Gesù. Perché l'ha
fatto? Leonardo è forse un eretico? L'Ultima Cena di Leonardo da Vinci
è disseminata di anomalie sconcertanti: non mostra il Santo Graal né il
Cristo che celebra il mistero dell'Eucaristia, quelli dei discepoli sono in
realtà i ritratti di noti eterodossi dell'epoca e l'opera intera sembrerebbe
celare un occulto e sorprendente messaggio. La cena segreta rivela
attraverso un'avvincente narrazione, quali poterono essere le vere fonti
alle quali attinse Leonardo nel dipingere l'opera sacra più nota della
cristianità.

1
Nel Medioevo e nel Rinascimento l'Europa conservava ancora intatta la
sua capacità di comprendere simboli e icone ancestrali. Le sue genti
sapevano quando e come interpretare un capitello, una linea in un
quadro o un segno lungo la strada, benché‚ soltanto una minoranza
avesse imparato a leggere e scrivere.
Con l'avvento del razionalismo quella capacità d'interpretazione andò
perduta, e con essa buona parte della ricchezza tramandataci dai nostri
antenati.
Questo libro riunisce molti di quei simboli e illustra come furono
concepiti. Ma si propone anche di restituirci la nostra capacità di
comprenderli, per beneficiare della loro infinita saggezza.
Non ricordo enigma più intricato e pericoloso di quello che mi toccò
risolvere nei primi giorni del 1497, mentre lo Stato Pontificio spiava il
ducato di Ludovico il Moro scosso dal dolore.
Il mondo allora era un luogo ostile, mutevole, un inferno di sabbie
mobili in cui quindici secoli di cultura e fede minacciavano di franare
sotto la valanga di nuove idee importate dall'Oriente. Dalla sera alla
mattina la Grecia di Platone, l'Egitto di Cleopatra o le stravaganze della
Cina esplorata da Marco Polo ottenevano più consensi della nostra
stessa storia biblica.
Furono giorni convulsi per la cristianità. Avevamo un papa simoniaco -
un diavolo spagnolo eletto con il nome di Alessandro VI, che aveva
sfacciatamente comprato la tiara nell'ultimo conclave -, principi
soggiogati dalla bellezza dei miti pagani e una marea di turchi armati
fino ai denti, in attesa del momento più propizio per invadere il
Mediterraneo occidentale e convertirci tutti all'Islam. Si poteva dire a
ragione che nei suoi quasi millecinquecento anni di storia mai la nostra
fede era stata tanto indifesa.
E nel mezzo di tutto ciò si trovava questo servo di Dio, che oggi scrive.
Al termine di un secolo di cambiamenti, di un'epoca nella quale il
mondo ampliava instancabilmente i suoi confini ed esigeva da tutti uno
sforzo di adattamento senza precedenti. Era come se la terra diventasse
ogni giorno più grande, costringendoci a rivoluzionare continuamente
le nostre conoscenze geografiche. Noi chierici già intuivamo che non
saremmo stati all'altezza: avremmo dovuto predicare a un mondo
popolato da milioni di anime che non avevano mai sentito parlare di
Cristo; i più scettici prevedevano un periodo di caos che avrebbe avuto
come conseguenza l'arrivo in Europa di una nuova orda di pagani.
Nonostante tutto, furono anni eccitanti. Anni che nella mia vecchiaia
rivedo con una certa nostalgia, da questo esilio che divora a poco a
poco la mia salute e i miei ricordi. Le mani quasi non mi obbediscono
più, la vista si indebolisce, l'accecante sole dell'Egitto meridionale turba
la mia mente. Solo nelle ore che precedono l'alba sono in grado di
riordinare i pensieri e riflettere sullo strano destino che mi ha condotto
fino a qui. Un destino a cui non sono estranei né Platone, né Alessandro
VI, né i pagani.
Ma non voglio anticipare gli avvenimenti.
Mi basti dire che ora, alla fine dei miei giorni, sono solo.
Dei segretari che mi circondavano un tempo non rimane nessuno. Oggi
a occuparsi delle mie necessità più elementari Abdul, un giovane che
non parla la mia lingua e mi crede un asceta eccentrico venuto a morire
nella sua terra. Tiro avanti isolato, in questa antica tomba scavata nella
roccia, circondato da polvere e sabbia, minacciato dagli scorpioni e
quasi paralizzato a entrambe le gambe. Ogni giorno il fedele Abdul sale
al mio cubicolo con una focaccia azzima e con ciò che benevolmente
avanza in casa sua. E' come il corvo che per sessant'anni portò nel suo
becco mezza oncia di pane a Paolo l'Eremita, il quale morì
ultracentenario in queste stesse terre.
Ma a differenza di quell'uccello di buon augurio, quando mi da il cibo
Abdul sorride, senza saper bene che altro fare. Ciò mi basta. Per chi ha
tanto peccato come me, ogni gentilezza si trasforma in un regalo
inaspettato del Creatore.
Tuttavia, oltre alla solitudine, ha finito per corrodere la mia anima
anche il dispiacere. Mi rattrista che Abdul non saprà mai che cosa mi ha
condotto nel suo villaggio. Non riuscirei a spiegarglielo a gesti. E
neppure potrà mai leggere queste righe; e anche nel remoto caso in cui
le trovasse dopo la mia morte e le vendesse a qualche cammelliere,
dubito che servirebbero a qualcosa di più che a ravvivare un fuoco nelle
fredde notti del deserto. Qui nessuno capisce il latino n‚ altra lingua
romanza. E ogni volta che Abdul mi trova incurvato su questi fogli si
stringe nelle spalle confuso, consapevole di perdersi qualcosa di
importante.
Questo pensiero mi tormenta giorno dopo giorno. L'intima certezza che
nessun cristiano potrà mai leggere le mie pagine mi toglie lucidità e mi
riempie gli occhi di lacrime. Quando avrò terminato di scrivere,
chiederò che seppelliscano i miei ricordi insieme alle mie spoglie.
Spero che l'Angelo della morte si ricordi di prenderli con s‚ e portarli al
cospetto del Padre Eterno, nell'ora in cui verrà giudicata la mia anima.
Triste è la storia: i segreti più grandi sono quelli che non verranno mai
alla luce.
Ci riuscirà forse il mio?
Ne dubito.
Qui, nelle grotte dette di Jabal al-Tarif, a pochi passi dal grande Nilo
che con le sue acque benedice un deserto inospitale e vuoto, prego
soltanto Dio di concedermi il tempo sufficiente per giustificare con
questi scritti le mie azioni. Sono così lontano dai privilegi di cui godetti
un tempo a Roma che se anche il nuovo papa mi perdonasse, so che non
potrei più tornare all'ovile di Dio. Non sopporterei di non ascoltare più i
lontani lamenti dei muezzin dai loro minareti. La nostalgia di questa
terra, che mi ha accolto con tanta generosità, finirebbe per torturare i
miei ultimi giorni.
La mia consolazione è narrare quegli avvenimenti nell'ordine esatto in
cui si susseguirono. Alcuni di essi li vissi sulla mia stessa pelle; di altri,
invece, ebbi notizia molto tempo dopo che erano successi. Tuttavia,
così disposti, mio ipotetico lettore, ti forniranno un'idea dell'immensità
dell'enigma che sconvolse la mia esistenza.
No. Non posso più sfuggire al destino. E ora che ho riflettuto su quanto
videro i miei occhi, sento il dovere di raccontarlo… anche se non
servirà a nessuno.
2
La storia di questo enigma ha inizio la notte del 2 gennaio del 1497,
lontano, molto lontano dall'Egitto. Quell'inverno di tre decadi fa fu il
più freddo che le cronache ricordino. La neve era caduta copiosa e
aveva ricoperto tutta la Lombardia di uno spesso manto bianco. Le
basiliche di Sant'Ambrogio, San Lorenzo e Sant'Eustorgio, persino i
contorni del Duomo in costruzione, erano scomparsi nella nebbia. Per
le strade circolavano solo i carri della legna e mezza Milano
sonnecchiava avvolta in un silenzio che sembrava insediato sulla città
da secoli.
Accadde alle undici di sera del secondo giorno dell'anno.
Un gemito di donna, straziante, ruppe la gelata pace del castello degli
Sforza. Al grido seguì un singhiozzo, e a questo i pianti acuti delle
prefiche di palazzo. L'ultimo rantolo della serenissima Beatrice d'Este,
una ragazza nel fiore degli anni, la bella sposa del duca di Milano,
distrasse per sempre i sogni di gloria del ducato. Santo Dio! La
duchessa morì con gli occhi spalancati. Furiosa. Maledicendo Cristo e
tutti i santi perché‚ volevano portarsela via tanto presto, avvinghiata
con forza alle vesti del suo inorridito confessore.
Sì. Senza dubbio ebbe inizio tutto quella sera.
Avevo quarantacinque anni, quando lessi per la prima volta la relazione
sugli eventi di quel giorno. Era un racconto spaventoso. Il centro di
Betania, secondo il suo costume, lo aveva sollecitato al cappellano della
corte del Moro e questi, senza perdere un solo giorno, lo aveva inviato
in tutta fretta a Roma. Le orecchie e gli occhi dello Stato Pontificio
funzionavano così. Rapidi ed efficaci come quelli di nessun altro paese.
E molto prima che l'annuncio ufficiale della morte della principessa
giungesse alla segreteria diplomatica del Santo Padre, i nostri fratelli
erano già in possesso di tutti i particolari.
A quel tempo la mia posizione all'interno della complessa struttura di
Betania era quella di stretto collaboratore del maestro generale
dell'ordine dei domenicani. La nostra organizzazione si muoveva dentro
gli stretti margini della riservatezza.
In un'epoca contraddistinta da intrighi di palazzo, avvelenamenti e
tradimenti familiari, la Chiesa aveva bisogno di un servizio
d'informazione che le permettesse di sapere dove intervenire. Eravamo
un ordine segreto, fedele solo al papa e al massimo rappresentante
terreno di san Domenico. Per questo all'esterno quasi nessuno sentì mai
parlare di noi. Ci nascondevamo sotto l'ampio mantello dell'Archivio
segreto dello Stato Pontificio, un organismo apparentemente neutro,
marginale, di scarsa presenza pubblica e con competenze molto
limitate. In realtà, dietro le quinte, funzionavamo come una congregatio
di informatori. Una specie di commissione permanente per l'esame di
affari di stato, che permetteva al Santo Padre di anticipare le mosse dei
suoi molteplici nemici. Per piccola che fosse, qualsiasi notizia in grado
di sconvolgere lo status quo della Chiesa passava immediatamente
attraverso le nostre mani, veniva valutata e trasmessa all'autorità
competente. Quella era la nostra unica missione.
In questo ambito ebbi accesso alla relazione sulla morte della nostra
avversaria, donna Beatrice d'Este. Vedo ancora le facce dei fratelli,
mentre festeggiavano la notizia. Stolti! Pensavano che la natura ci
avesse risparmiato la fatica di doverla uccidere. Le loro menti erano
così ingenue! Funzionavano a colpi di patibolo, di condanne del
Sant'Uffizio o di sicari prezzolati. Ma non era il mio caso: al contrario
di loro, non ero tanto sicuro che la scomparsa della duchessa di Milano
significasse la fine della lunga catena di illegalità, cospirazioni e
minacce contro la fede che parevano nascondersi nella corte del Moro e
che ormai da mesi tenevano in allarme la nostra rete informativa.
A ogni buon conto, bastava citare il suo nome in qualche capitolo
generale di Betania perché‚ i mormoni dominassero per il resto della
riunione. Tutti la conoscevano. Tutti sapevano delle sue attività poco
cristiane, ma nessuno aveva mai osato denunciarla. Il timore che donna
Beatrice ispirava a Roma era tale che neppure il resoconto ricevuto dal
cappellano del duca, il quale era anche il fedele abate del nostro nuovo
monastero di Santa Maria delle Grazie a Milano, si pronunciava in
merito ai suoi costumi poco ortodossi. Fra' Vincenzo Bandelle, stimato
teologo e saggia guida dei domenicani milanesi, si limitò a descriverci
l'accaduto, mantenendosi estraneo a questioni politiche che avrebbero
potuto comprometterlo.
A Roma nessuno gli rimproverò la sua prudenza.
Secondo la relazione firmata dall'abate Bandelle, tutto era stato
tranquillo fino alla vigilia della tragedia. Prima di quel momento, la
giovane Beatrice aveva tutto: un marito potente, una vitalità esuberante
e un bambino in grembo, che presto avrebbe perpetuato il nobile nome
del padre. Ebbra di felicità, aveva trascorso la sua ultima serata
ballando di sala in sala e giocando con la sua dama di compagnia
preferita nel palazzo della corte ducale. La duchessa era del tutto
estranea alle preoccupazioni di una madre qualsiasi delle sue terre. Non
avrebbe neppure allattato il figlio, per non rovinare i suoi seni piccoli e
delicati: una nutrice selezionata con cura si sarebbe incaricata di
vegliare la crescita del nascituro, gli avrebbe insegnato a camminare, a
mangiare e si sarebbe alzata all'alba per svegliarlo e lavarlo con acqua e
panni tiepidi. Entrambi - bimbo e balia - sarebbero vissuti presso la
corte ducale, in un appartamento che Beatrice aveva decorato con
gusto. Per lei la maternità era un gioco piacevole e inaspettato, privo di
responsabilità e incertezze.
Ma proprio lì, in quel piccolo paradiso che aveva immaginato per il suo
rampollo, fu sopraffatta dalla disgrazia. Secondo fra' Vincenzo, il
giorno di San Basilio donna Beatrice era svenuta nelle sue stanze sul far
della sera. Tornata in se, si sentì male. Le girava la testa, mentre lo
stomaco lottava per vuotarsi con conati lunghi e sterili. La giovane
duchessa non sapeva che genere di malore la stesse tormentando: ben
presto al vomito seguirono forti contrazioni al basso ventre che
annunciavano il peggio. Il primogenito del Moro aveva deciso di
anticipare la sua venuta al mondo, senza che nessuno avesse previsto
quella eventualità. Per la prima volta Beatrice si spaventò.
3
Quella sera i medici tardarono più del solito ad arrivare al palazzo. Si
dovette cercare la levatrice fuori dalle mura della città, e quando infine
le persone necessarie per assistere la principessa furono al suo
capezzale, era ormai troppo tardi. Il cordone ombelicale che nutriva il
futuro Leone Maria Sforza si era attorcigliato intorno al fragile collo
dell'erede. A poco a poco, con la precisione di un capestro, strinse la
sua piccola gola fino ad asfissiarlo. Beatrice notò subito che qualcosa
andava male. Il figlio, che appena prima spingeva con forza per uscire
dalle sue viscere, si fermò all'improvviso. Si agitò con violenza e poi,
come se lo sforzo lo avesse sfinito, languì fino a spirare. Quando se ne
accorsero, i dottori incisero da una parte e dall'altra il ventre della
madre, che si contorceva per il dolore e la disperazione stringendo tra i
denti un panno bagnato nell'aceto. Fu inutile. Disperati, trovarono un
bambino ormai bluastro e morto, con gli occhietti chiari già vitrei,
impiccato nel seno materno.
E fu così che, squarciata dal dolore, senza il tempo di accettare quel
duro colpo che le aveva appena inferto la vita, la stessa Beatrice decise
di spegnersi poche ore più tardi.
Nella sua relazione l'abate Bandelle diceva di essere arrivato in tempo
per vederla agonizzante. Insanguinata, con il ventre aperto e fradicia di
sudore, delirava dal dolore in un fetore insopportabile e chiedeva
urlando di confessarsi e di comunicarsi. Ma, per fortuna del nostro
fratello, Beatrice d'Este morì prima di ricevere i sacramenti…
E dico bene: per fortuna.
La duchessa aveva solo ventidue anni quando lasciò il nostro mondo.
Betania sapeva che aveva condotto una vita peccaminosa. Già ai tempi
di Innocenze Vili io stesso avevo avuto occasione di studiare e
archiviare molti documenti in proposito. I mille occhi dell'Archivio
segreto dello Stato Pontificio sapevano bene che genere di persona era
stata la figlia del duca di Ferrara. Lì dentro, nel nostro quartier generale
sull'Aventino, andavamo fieri del fatto che nessun documento
importante redatto nelle corti europee sfuggisse alla nostra istituzione.
Nella "Casa della verità" decine di lettori esaminavano ogni giorno
scritti in tutte le lingue, alcuni cifrati con gli stratagemmi più
impensabili. Noi li decifravamo, li classificavamo secondo l'importanza
e li archiviavamo. Ma non tutti. Le carte relative a Beatrice d'Este
occupavano da tempo un posto prioritario nel nostro lavoro ed erano
conservate in una stanza a cui avevamo accesso in pochi. Documenti
del tutto inequivocabili mostravano una Beatrice posseduta dal demone
dell'occultismo. E quel che era peggio, molti alludevano a lei come alla
maggiore sostenitrice delle arti magiche presso la corte del Moro. In
una terra tradizionalmente permeabile alle eresie più minacciose, quel
dato andava valutato con attenzione. Ma non ce ne fu il tempo.
I domenicani di Milano - e tra loro padre Bandelle - ebbero spesso a
disposizione prove che dimostravano come sia donna Beatrice, sia sua
sorella Isabella a Mantova, collezionassero amuleti e statuette pagane;
entrambe avevano inoltre una venerazione smisurata per le profezie di
astrologhi e di ciarlatani di ogni genere. Ma nessuno fece mai nulla. Le
influenze nefaste che Beatrice ne ricevette furono tali, che la disgraziata
trascorse i suoi ultimi giorni convinta dell'imminente estinzione della
nostra Santa Madre Chiesa. Ripeteva di frequente che la curia sarebbe
stata trascinata davanti al Giudizio universale e che lì, tra arcangeli,
santi e uomini puri, il Padre Eterno ci avrebbe condannati tutti senza
pietà.
Nessuno a Roma conosceva meglio di me le attività della duchessa di
Milano. Leggendo i rapporti che giungevano su di lei, appresi quanto
possano essere misteriose le donne e scoprii fino a che punto Beatrice
d'Este avesse trasformato i costumi e gli obiettivi del potente marito in
appena quattro anni di matrimonio. La sua personalità finì per
affascinarmi. Superstiziosa, dedita a letture profane e sedotta da
qualsiasi idea esotica circolasse per il suo feudo, Beatrice era mossa da
una grande ossessione: fare di Milano l'erede dell'antico splendore dei
Medici a Firenze.
Credo che fu questo ad allarmarmi. Benché la Chiesa fosse riuscita a
indebolire a poco a poco i pilastri su cui poggiava la potentissima
famiglia fiorentina, stigmatizzando il sostegno dispensato dai Medici a
pensatori e artisti in odore di eterodossia, il Vaticano non era pronto ad
affrontare una reviviscenza di quelle idee nella grande Milano del Nord.
Le ville medicee, il ricordo dell'Accademia fondata da Cosimo il
Vecchio per recuperare la saggezza degli antichi greci, la smisurata
protezione elargita ad architetti, pittori e scultori, avevano messo radici
tanto nella fervida immaginazione della principessa Beatrice quanto
nella mia. Ma lei li assunse a guida della propria fede e contagiò il duca
con il loro fascino velenoso.
Da quando Alessandro VI era salito al soglio di Pietro nel 1492, avevo
iniziato a inviare messaggi ai miei superiori per metterli in guardia su
ciò che poteva accadere in quella città.
Nessuno mi diede ascolto. Milano, così vicina ai confini con la Francia
e con una tradizione politica ribelle nei confronti di Roma, era la
candidata perfetta per ospitare un grave scisma in seno alla Chiesa.
Nemmeno a Betania mi credettero. E il papa, tiepido con gli eretici - un
anno dopo aver indossato la tiara aveva già chiesto perdono per le
persecuzioni nei confronti di cabalisti come Pico della Mirandola -,
ignorò tutti i miei avvertimenti.
“Frate Agostino Leyre” erano soliti dire di me i confratelli dell'Archivio
segreto “presta troppa attenzione ai messaggi dell'Augure. Finirà per
perdere il senno.” L'Augure…Ecco la tessera che manca per completare
questo rompicapo.
La sua figura merita una spiegazione. Oltre ai miei moniti al Santo
Padre e alle più alte autorità domenicane sulla pericolosa deriva del
ducato di Milano, esisteva infatti un'altra fonte di informazioni che
rafforzava i miei timori. Era un testimone anonimo, ben documentato,
che ogni settimana inviava alla nostra Casa della verità lettere
dettagliatissime che denunciavano l'avvio di una gigantesca operazione
di magia nelle terre del Moro.
Le sue missive cominciarono ad arrivare nell'autunno del 1496, quattro
mesi prima della morte di donna Beatrice. Erano indirizzate alla sede
dell'ordine a Roma, presso il monastero di Santa Maria sopra Minerva,
dove venivano lette e conservate come l'opera di un povero diavolo
ossessionato dalle presunte deviazioni dottrinali di casa Sforza. Non ne
faccio una colpa a nessuno. Vivevamo in tempi folli e le lettere di un
visionario - l'ennesimo - lasciavano piuttosto indifferenti i nostri padri
superiori.
Quasi tutti, almeno.
Fu l'archivista della nostra casa madre a parlarmi degli scritti di quel
nuovo profeta, durante l'ultimo capitolo generale di Betania.
“Dovreste leggerle” disse. “Non appena le ho viste, ho pensato a voi.”
“Davvero?” Ricordo gli occhi da civetta dell'archivista, che sbatteva le
palpebre per l'emozione.
“E' curioso, padre Leyre, chi le ha scritte ha le vostre identiche
preoccupazioni. Un profeta apocalittico, colto, profondo conoscitore
della grammatica, come la cristianità non ne vedeva dai tempi di fra'
Tanchelmo di Anversa.”
“Fra' Tanchelmo?”
“Oh… Un vecchio fissato del XII secolo, che accusò la Chiesa di
essersi trasformata in un bordello e i sacerdoti di vivere in concubinato
permanente. Il nostro Augure non arriva a tanto, anche se dal tono delle
sue lettere credo che presto lo farà.”
L'archivista, curvo e lamentoso, aggiunse un'altra cosa: "Sapete che
cosa lo distingue da altri pazzi?".
Scossi la testa.
"Il fatto che sembra meglio informato di tutti noi messi insieme. Questo
Augure è un maniaco della precisione. Sa tutto!" Quel fraticello aveva
ragione. I suoi fogli di carta fine color avorio, scritti con una calligrafia
impeccabile e ammucchiati in una cassa di legno con il sigillo
"Riservato", facevano riferimento con ossessiva insistenza a un piano
segreto per trasformare Milano in una nuova Atene. Qualcosa di simile
a ciò che sospettavo ormai da tempo. Il Moro, come i Medici prima di
lui, apparteneva a quegli uomini di potere superstiziosi, convinti che gli
antichi possedessero conoscenze del mondo molto più avanzate delle
nostre. Era la vecchia idea, secondo la quale prima che Dio punisse il
mondo con il Diluvio l'umanità avrebbe goduto di una prospera età
dell'oro. Dapprima i fiorentini e ora il duca di Milano volevano
restaurarla a tutti costi, e per farlo non avrebbero esitato a mettere da
parte la Bibbia e le prevenzioni della Chiesa, perché‚ in quei tempi
gloriosi Dio ancora non aveva creato un'istituzione che lo
rappresentasse.
Ma c'era di più: le sue lettere insistevano sul fatto che la pietra angolare
di quel progetto stava per essere collocata proprio davanti al nostro
naso. Se quello che diceva l'Augure era vero, l'astuzia del Moro non
aveva limiti. Il suo progetto per convertire il proprio feudo nella
capitale di una rinascita della filosofia e della scienza degli antichi si
sarebbe avvalso di una base insospettabile: niente meno che il nostro
nuovo convento di Milano.
L'Augure riuscì a sorprendermi. Chiunque fosse l'uomo che si
nascondeva dietro tali rivelazioni, si era spinto assai più in là di quanto
io avessi mai osato. Come mi fece notare l'archivista, sembrava che
avesse occhi ovunque. Non solo a Milano, ma nella stessa Roma,
giacché‚ alcune delle sue lettere più recenti erano firmate con un
"Augur dixit" che ci sconcertò.
Che genere di confidente avevamo di fronte? Chi, se non qualcuno di
molto introdotto nella curia, poteva sapere come lo chiamavano gli
scrivani di Betania?
Nessuno di noi era in grado di individuarlo.
Allora il convento a cui l'Augure si riferiva nei suoi messaggi, Santa
Maria delle Grazie, era ancora sottosopra per i lavori. Il duca di Milano
aveva affidato il suo ampliamento ai più quotati architetti in
circolazione: a Bramante aveva assegnato la tribuna della chiesa, a
Cristoforo Solari gli interni, e non aveva lesinato sui ducati per pagare i
migliori artisti, affinché decorassero ogni sua parete. Voleva convertire
il nostro tempio nel mausoleo della sua famiglia, il luogo del riposo
eterno che ne avrebbe perpetuato la memoria nei secoli.
Tuttavia, quello che per i domenicani era un onore, per l'autore delle
lettere era una terribile maledizione. Se nessuno avesse posto fine a
quel progetto, prevedeva grandi sofferenze per il papa e pronosticava
un periodo oscuro, terribile, per l'Italia intera. L'anonimo mittente di
quei messaggi, in effetti, si era guadagnato meritatamente l'ironico
soprannome di Augure. La sua visione della cristianità non poteva
essere più funesta.

4
Nessuno prestò ascolto a quell'anonimo demonio, fino al mattino in cui
giunse la sua quindicesima missiva.
Quel giorno frate Giovanni Gozzoli, il mio assistente a Betania, irruppe
gesticolando nello scriptorium. Agitava nell'aria un nuovo messaggio
dell'Augure e, indifferente alle occhiate di rimprovero dei monaci lì
riuniti a studiare, puntò verso il mio scrittoio.
"Frate Agostino, dovete vedere questa! Dovete leggerla
immediatamente!" Non avevo mai visto fra' Giovanni così alterato. Il
giovane frate sventolò la nuova lettera sopra le mie carte e, con una
voce che ostentava stupore, sussurrò: "E' incredibile, padre. Incre-di-bi-
le".
"Che cosa è incredibile, fratello?" Gozzoli prese fiato: "La lettera.
Questa lettera… L'Augure…
Il maestro Torriani mi ha chiesto di farvela leggere subito".
"Il maestro?" Il devoto Gioacchino Torriani, trentacinquesimo
successore in terra di san Domenico di Guzmàn e massimo responsabile
del nostro ordine, non aveva mai preso sul serio quegli scritti anonimi.
Li aveva liquidati con indifferenza e, in qualche occasione, mi aveva
persino rimproverato di dedicarvi il mio tempo. Perché‚ aveva cambiato
atteggiamento? Perché‚ mi inviava questa nuova lettera con la preghiera
di esaminarla immediatamente?
"L'Augure…" Gozzoli deglutì.
"Sì?"
"L'Augure ha scoperto in che cosa consiste il piano."
"Il piano?" La mano di fra' Giovanni stringeva ancora il messaggio.
Tremava per la tensione. La lettera, un plico di tre fogli con il sigillo di
ceralacca rotto, scese dolcemente sul mio scrittoio.
"Il piano del Moro" sussurrò il mio segretario, come se posasse un
carico pesante. "Non capite, frate Agostino? Spiega quello che intende
fare realmente a Santa Maria delle Grazie.
Vuole praticarci la magia! "
"Magia?" Non riuscivo a riavermi dallo stupore.
"Leggetela!" Mi immersi nel messaggio seduta stante. Non c'erano
dubbi, la lettera era stata scritta dall'autore delle precedenti missive:
l'identica intestazione e la calligrafia ne denunciavano la stessa mano.
"Leggetela, fratello!" mi incalzò.
Presto capii tanta insistenza. L'Augure rivelava qualcosa che nessuno si
aspettava di sentire di nuovo. Ritornava a quasi sessant'anni prima, ai
tempi di papa Eugenio IV, quando il patriarca di Firenze Cosimo de'
Medici, detto il Vecchio, aveva deciso di finanziare un concilio che
avrebbe potuto cambiare per sempre il corso della cristianità. Era una
vecchia storia. A quanto pareva, Cosimo aveva patrocinato un
infruttuoso incontro tra delegazioni diplomatiche molto differenti, che
durò vari anni e che mirava alla riunificazione della Chiesa d'Oriente e
di quella di Roma. I turchi a quei tempi minacciavano di estendere la
loro influenza sul Mediterraneo e bisognava ostacolarli con ogni
mezzo. L'anziano banchiere aveva concepito l'idea peregrina di unire
tutti i cristiani sotto un unico capo e di affrontare il nemico comune con
la forza della fede. Ma il suo disegno era fallito.
O forse no.
Ciò che l'Augure rivelava in quel messaggio era l'esistenza di un'agenda
segreta, dietro le quinte del concilio. Un obiettivo mascherato, i cui
effetti si facevano ancora sentire a Milano sei decadi più tardi. Secondo
il nostro informatore, infatti, oltre alle discussioni politiche dell'epoca,
Cosimo de' Medici aveva dedicato buona parte del suo tempo a trattare
con le delegazioni venute dalla Grecia e da Costantinopoli l'acquisto di
libri antichi, strumenti ottici e persino manoscritti attribuiti a Platone o
Aristotele, che si credevano perduti per sempre. Li fece tradurre tutti
senza eccezione e da quei testi apprese cose sorprendenti. Scoprì che
già ad Atene si credeva nell'immortalità dell'anima e si ritenevano i
cicli responsabili di quanto si muoveva sulla terra. Beninteso,
sottolineava l'Augure: gli ateniesi non credevano a Dio, ma all'influenza
dei corpi celesti. Inoltre, secondo quegli spregevoli trattati, gli astri
influivano sulla materia grazie a un "calore spirituale" simile a quello
che collega corpo e anima negli esseri umani. Aristotele aveva trattato
di tutto ciò, dopo averlo appreso dalle cronache dell'età dell'oro, e
Cosimo era rimasto affascinato dalla sua lezione.
Secondo l'Augure, il vecchio banchiere aveva fondato un'Accademia
sullo stile di quelle antiche, con il solo scopo di insegnare tali segreti
agli artisti. Con quelle letture si era convinto che la creazione di opere
d'arte fosse una scienza esatta. Un'opera concepita in conformità a certi
codici misteriosi avrebbe agito come una sorta di riflesso delle forze
cosmiche e avrebbe potuto essere utilizzata per proteggere o distruggere
chi la possedesse. 1 "Cosa ne dite, frate Agostino? Avete capito?" La
domanda di Gozzoli mi risvegliò dallo stordimento. "L'Augure dice che
l'arte può essere utilizzata come un'arma! " Era così. Nel paragrafo
successivo il messaggio parlava del potere della geometria. Il numero,
l'armonia, il suono erano elementi che potevano essere applicati a
un'opera d'arte, perché‚ irradiasse influenze benefiche intorno a s‚.
Secondo Pitagora, uno dei greci propugnatori dell'età dell'oro che
abbagliò Cosimo de' Medici, "le uniche divinità verificabili sono i
numeri". L'Augure li malediceva tutti.
"Un'arma" lo zittii. "Un'arma che il Moro vuole nascondere a Santa
Maria delle Grazie."
"Esatto!" Gozzoli era soddisfatto. "E' proprio quello che dice. Non è
incredibile?"
Cominciavo a comprendere l'improvviso interesse del maestro Torriani.
Anni prima il nostro amato superiore aveva condannato i lavori del
pittore Sandro Botticelli, a causa di un sospetto simile. Lo aveva
accusato di usare immagini ispirate a culti pagani per illustrare opere
della Chiesa, anche se la sua denuncia racchiudeva qualcosa di più.
Grazie agli informatori di Betania, Torriani aveva saputo che Botticelli,
nella Villa di Castello della famiglia Medici, aveva rappresentato
l'arrivo della primavera utilizzando una tecnica "magica". Le ninfe che
ballavano nel quadro erano state disposte come parti di un gigantesco
talismano. Più tardi Torriani aveva scoperto che Lorenzo di
Pierfrancesco, il mecenate di Botticelli, gli aveva chiesto un amuleto
contro la vecchiaia: il quadro era quindi una sorta di rimedio magico. In
realtà racchiudeva un intero trattato contro il trascorrere del tempo,
inclusa metà degli dèi dell'Olimpo che danzavano contro l'avanzata di
Cronos. E pretendevano di far passare per devota un'opera simile,
proponendola come decorazione per una cappella a Firenze!
Il nostro maestro generale aveva scoperto l'infamia in tempo. La chiave
gliel'aveva fornita una delle ninfe della Primavera, Cloris, rappresentata
con un ramoscello fiorito che le spuntava dalla bocca. Quello era il
simbolo inequivocabile del "linguaggio verde" degli alchimisti, di
quegli uomini alla ricerca dell'eterna giovinezza impregnati di idee
spurie, che il Sant'Uffizio perseguiva dovunque facessero capolino.
Anche se a Betania non riuscimmo mai a decifrare i particolari di quel
linguaggio misterioso, era bastato il sospetto perché quel quadro non
venisse mai esposto in una chiesa.
Ma ora, se l'Augure aveva ragione, questa storia minacciava di ripetersi
a Milano.
"Ditemi, fratello Giovanni, sapete perché‚ il maestro Torriani vuole che
io studi questo messaggio?" Il mio assistente, che nel frattempo si era
accomodato a uno scrittoio vicino e si distraeva ammirando le recenti
miniature di un libro d'ore, sembrò non comprendere la domanda:
"Come? Non siete arrivato alla fine della lettera?".
I miei occhi tornarono a scrutare il documento. Nell'ultimo paragrafo
l'Augure parlava della morte di Beatrice d'Este e di quanto questa
avesse accelerato l'attuazione del piano magico del Moro.
"Mio caro Giovannino, non noto nulla di particolare" protestai.
"Non vi colpisce il fatto che citi la morte della duchessa in modo tanto
esplicito?"
"E perché‚ non dovrebbe?" Padre Gozzoli sbuffò: "Perché‚ l'Augure ha
datato e inviato questa lettera il 30 dicembre. Due giorni prima del
parto abortivo di donna Beatrice".
"Mi giurate, dunque, di aver nascosto un segreto in questa parete?"
Marco d'Oggiono si grattava il mento perplesso, mentre gettava un'altra
occhiata alla pittura murale che il maestro stava ritoccando. Leonardo
da Vinci si divertiva con quei giochi.
Quando era di buon umore, e quel giorno lo era, risultava difficile
riconoscere in lui il celebre pittore, inventore, costruttore di strumenti
musicali e ingegnere, artista preferito del Moro e applaudito da mezza
Italia. Quel freddo mattino il maestro aveva lo sguardo di un bambino
dispettoso. Pur sapendo di contrariare i frati, aveva approfittato della
calma tesa che regnava a Milano dopo la morte della principessa per
ispezionare il suo lavoro nel refettorio dei padri domenicani. Stava là in
cima, arrampicato su un ponteggio alto sei metri, a suo agio tra gli
apostoli, e saltava di tavola in tavola come un ragazzino.
"Certo che c'è un segreto!" gridò. La sua risata contagiosa rimbombò
tra le volte vuote di Santa Maria delle Grazie. "Non devi far altro che
osservare con attenzione la mia opera e concentrarti sui numeri. Conta!
Conta!" rise.
"Ma maestro…"
"Bene" Leonardo scosse la testa con condiscendenza, indugiando
sull'ultima sillaba a mo' di protesta. "Vedo già che insegnarti sarà
difficile. Perché‚ non prendi la Bibbia che c'è là sotto, accanto alla
cassetta dei pennelli, e leggi il capitolo tredici di Giovanni, a partire dal
versetto ventuno?
Forse così troverai l'illuminazione." Marco, uno dei giovani e dotati
discepoli del toscano, corse in cerca del libro sacro. Lo trovò sul leggio
abbandonato accanto alla porta e lo soppesò. Dovevano essere varie
libbre. Non senza sforzo Marco sfogliò quell'esemplare stampato a
Venezia, rilegato con cuoio scurissimo e sbalzato in rame, finché‚ il
Vangelo di Giovanni si aprì davanti ai suoi occhi. Era una bella
edizione, con incisioni floreali e grandi lettere gotiche nere.
"Dette queste cose" cominciò a leggere "Gesù fu turbato nello spirito e,
apertamente, così dichiarò: "In verità, in verità vi dico: uno di voi mi
tradirà". I discepoli si guardarono l'un l'altro senza sapere di chi
parlasse. Ora, a tavola, inclinato sul petto di Gesù, stava uno dei
discepoli, quello che Gesù amava. Simon Pietro gli fece cenno di
domandare chi fosse colui del quale parlava."
"Basta, basta così" tuonò Leonardo dall'impalcatura. "Ora guarda qui e
dimmi: ancora non comprendi il mio segreto?" Marco scosse la testa.
Già sapeva che il maestro aveva pronto qualcuno dei suoi trucchi.
"Messer Leonardo" un tono di sincera delusione sottolineava il suo
rimprovero "so bene che state lavorando su questo brano evangelico.
Non mi rivelate niente di nuovo, chiedendomi di leggere la Bibbia.
Quello che voglio è sapere la verità."
"La verità? Quale verità, Marco?"
"In città si mormora che tardate tanto a terminare quest'opera, perché‚
in essa volete nascondere qualcosa di importante.
Avete abbandonato la tecnica tradizionale dell'affresco per un'altra
tecnica nuova e più lenta. Perché? Ve lo dirò io: perché‚ così avete il
tempo per riflettere su quanto volete trasmettere." Leonardo non batté
ciglio.
"Conoscono la vostra passione per i misteri, maestro, e io pure voglio
saperne di più! Tre anni al vostro fianco, a miscelare i colori e ad
aiutare le vostre mani con i bozzetti e i cartoni, credo che dovrebbero
darmi qualche vantaggio su quelli là fuori. O no?"
"Certo, certo. Ma si può sapere chi va dicendo tutto ciò, se è lecito?"
"Chi, maestro? Tutti! Persino i monaci di questa santa casa fermano di
continuo i vostri discepoli per interrogarli!"
"E che altro dicono, Marco?" tuonò ancora dall'alto, sempre più
divertito.
"Che i vostri Dodici non sono veri ritratti degli apostoli, come li
dipingerebbero fra' Filippo Lippi o il Crivelli, ma rispecchiano le dodici
costellazioni dello zodiaco. Che avete nascosto nei gesti delle loro mani
le note di una delle vostre partiture per il Moro… Dicono di tutto,
maestro."
"E tu?"
"Io?"
"Sì, sì, tu." Un sorriso malizioso illuminò di nuovo il viso di Leonardo.
"Standomi così vicino, lavorando tutti i giorni con me in questa
magnifica sala… a che conclusione sei giunto?" Marco alzò lo sguardo
verso il muro dove il toscano stava dando alcuni ritocchi con un
pennello di setole finissime. La parete nord del refettorio accoglieva la
più straordinaria Ultima cena che avesse mai visto. Là davanti c'era
Gesù, presente in carne e ossa, nel centro esatto della composizione.
Aveva lo sguardo languido e le braccia distese, come se studiasse di
sottecchi le reazioni dei suoi discepoli alla rivelazione che aveva
appena fatto loro. Al suo fianco stava Giovanni, il prediletto, nell'atto di
ascoltare ciò che gli sussurrava Pietro. Se si affinavano i sensi, li si
vedeva quasi muovere le labbra. Erano così reali!
Ma Giovanni non era più reclinato sul Maestro, come diceva il
Vangelo. Dava persino l'impressione di non esserlo mai stato. All'altro
lato di Cristo, Filippo, il gigante, se ne stava in piedi, con le mani
affondate nel petto. Sembrava che interrogasse il Messia: "Signore,
sono forse io il traditore?". Giacomo il Maggiore, con aria da
guardaspalle, gli giurava fedeltà eterna. "Nessuno ti farà del male,
finché ti starò vicino io", sembrava vantarsi.
"Ebbene, Marco? Ancora non ti sei pronunciato."
"Non so, maestro…" rispose esitante. "Questa vostra opera possiede
qualcosa che mi sconcerta. E' così, così…"
"Così?"
"Così vicina, così umana, da lasciarmi senza parole."
"Bene!" approvò Leonardo, asciugandosi le mani nel grembiule. "Lo
vedi? Senza saperlo, sei già più vicino al mio segreto."
"Non vi seguo, maestro."
"E forse non ci riuscirai mai" sorrise. "Ma ascolta ciò che ti sto per dire:
tutto nella natura custodisce qualche mistero.
Gli uccelli ci nascondono i segreti del loro volo, l'acqua tiene al sicuro
il perché della sua straordinaria forza… E se considerassimo la pittura
come un riflesso della natura, non sarebbe giusto attribuirle quella
stessa grandiosa capacità di custodire informazioni? Ogni volta che
ammiri un quadro, ricorda che ti avventuri nella più sublime delle arti.
Non fermarti mai alla superficie: penetra nella scena, muoviti tra i suoi
elementi, scopri gli angoli inediti, curiosa nel retrobottega… In questo
modo raggiungerai il suo vero significato. Però, ti avverto: ci vuole
coraggio. Non poche volte quello che troviamo in un dipinto come
questo è molto diverso da ciò che ci aspettavamo di scoprire. Tienilo a
mente."
5
Fra' Giovanni eseguì senza indugi la seconda parte della missione
affidatagli dal maestro generale.
Dopo avermi mostrato l'ultima lettera dell'Augure e dopo la nostra
conversazione, tornò alla casa madre dell'ordine lasciando Betania
prima che facesse notte. Torriani gli aveva ordinato di recarsi da lui per
riferirgli la mia reazione. In particolare voleva sapere quale fosse la mia
opinione riguardo alle voci su gravi anomalie nelle opere di
ampliamento di Santa Maria delle Grazie. Il mio assistente doveva
trasmettergli il mio messaggio, chiaro e diretto: se finalmente venivano
presi in considerazione i miei vecchi timori, cui si aggiungevano come
probabili le rivelazioni dell'Augure, bisognava identificare questo
individuo a Milano e conoscere dalla sua viva voce la portata dei
progetti segreti che il duca aveva per quel convento.
"Soprattutto" insistetti con fra' Giovanni "si dovranno esaminare i
lavori di Leonardo da Vinci. A Betania già abbiamo conferma della sua
passione per dissimulare idee eterodosse in opere di carattere devoto.
Leonardo ha lavorato molti anni a Firenze, ha avuto contatti con i
discendenti di Cosimo il Vecchio e, tra tutti gli artisti che operano a
Santa Maria, è il più incline a condividere le idee del Moro." Gozzoli
inserì nella sua relazione per il maestro Torriani l'altra mia grande
preoccupazione: la necessità di aprire un'indagine sulla morte di donna
Beatrice. Il vaticinio così preciso dell'Augure suggeriva l'esistenza di
qualche sinistro disegno occultista, ideato forse dallo stesso Ludovico o
dai suoi perfidi consiglieri, per instaurare una repubblica pagana nel
cuore dell'Italia. Non aveva molto senso che il duca ordinasse di
assassinare la sua sposa e il futuro erede, ma la mentalità degli adepti
delle scienze occulte seguiva spesso percorsi imperscrutabili. Non era
la prima volta che sentivo parlare della necessità di sacrificare una
vittima illustre, prima di intraprendere una grande opera. Gli antichi,
quei barbari dell'età dell'oro, lo facevano di continuo.
Suppongo che la mia determinazione spronò Torriani.
Il maestro generale avvisò il fratello Gozzoli delle sue intenzioni e il
mattino successivo, mentre la brina ancora ricopriva Roma, abbandonò
i suoi appartamenti nel monastero di Santa Maria sopra Minerva,
intenzionato ad andare fino in fondo.
Sfidando le strade innevate della Città Eterna, Torriani salì fino al
quartier generale di Betania a dorso di mulo e chiese di vedermi il più
presto possibile. Ancora oggi ignoro quali termini avesse impiegato il
fratello Gozzoli per informarlo delle mie idee, ma era evidente che lo
aveva colpito. Non avevo mai visto il nostro maestro in quello stato:
due borse livide spiccavano sotto gli occhi grigi, smorzandone lo
sguardo; la schiena sembrava incurvarsi sotto il peso di una
responsabilità plumbea, che divorava a poco a poco il suo carattere
allegro e affondava le sue spalle, sempre più stanche. Torriani, mio
mentore, guida e vecchio amico, affrontava ciò che gli restava da vivere
con le tracce della delusione disegnate sul volto. E malgrado ciò, dietro
il luccichio dei suoi occhi si distingueva una sensazione di urgenza.
"Potete ricevere un povero servo di Dio, bagnato e malato?" disse
appena mi vide nell'atrio di Betania.
Mentirei, se giurassi che non fui sorpreso nel vedermelo lì così presto.
Era salito alla nostra sede da solo, senza seguito, con un mantello
gettato sopra l'abito e i sandali coperti da pelli di coniglio. Se il
superiore dell'ordine di san Domenico abbandonava in quel modo la
nostra casa madre e la sua parrocchia, e attraversava la città in piena
tempesta di neve per incontrarsi con il responsabile del suo servizio
d'informazione, la faccenda doveva essere gravissima. E benché il suo
viso cupo invitasse a entrare in argomento quanto prima, non osai
chiedergli nulla. Attesi che si togliesse i panni e bevesse la coppa di
vino caldo che gli avevamo offerto. Salimmo al mio piccolo studio, un
ambiente buio zeppo di casse e manoscritti da cui si dominava tutta
Roma, e non appena la porta si chiuse padre Torriani confermò i miei
timori.
"E' ovvio che sono venuto per quelle benedette lettere!" sbottò,
inarcando le sopracciglia bianche. "E voi mi chiedete chi sia secondo
me il loro autore? Proprio voi, padre Leyre?" Torriani fece un respiro
profondo. La sua natura malaticcia lottava per riscaldarsi, mentre il
vino lo rimetteva in sesto a poco a poco. Fuori la neve infuriava su
Roma.
"La mia impressione" continuò "è che il nostro uomo debba essere
qualcuno del seguito del duca o, altrimenti, qualche fratello del nuovo
convento di Santa Maria delle Grazie. E' una persona che conosce bene
le nostre abitudini e che sa a chi sta inviando le sue lettere. Tuttavia…"
"Tuttavia?"
"Vedete, padre Leyre, da quando ho letto la missiva mostratavi ieri, non
ho quasi chiuso occhio. Là fuori c'è qualcuno che ci informa di un
grave tradimento contro la Chiesa. La cosa è molto seria. Soprattutto se,
come temo, il nostro informatore proviene dalla comunità di Santa
Maria…"
"Credete che l'Augure sia un domenicano, padre?"
"Ne sono quasi certo. Qualcuno molto addentro, testimone dei progressi
del Moro, che non osa denunciarlo per timore di rappresaglie."
"Suppongo che avrete già preso in esame le vite di quei frati, alla
ricerca del vostro candidato, o mi sbaglio?" Torriani sorrise soddisfatto.
"Tutte, senza eccezione. Per la maggior parte provengono da buone
famiglie lombarde. Sono religiosi leali sia al Moro sia alla Chiesa,
uomini poco propensi a fantasie o cospirazioni. Buoni domenicani,
insomma. Non riesco a immaginare chi di loro possa essere l'Augure."
"Se davvero è qualcuno di loro."
"Ovvio."
"Maestro Torriani, permettetemi di ricordarvi che la Lombardia è
sempre stata terra di eretici…" Il generale dell'ordine, infreddolito,
soffocò uno starnuto prima di rispondere: "E' stato molto tempo fa,
padre. Molto.
Da ormai più di duecento anni nella zona non resta nemmeno l'ombra
dell'eresia catara. E' vero che quei maledetti che ispirarono al nostro
amato san Domenico la creazione della Santa Inquisizione, si
rifugiarono in quelle terre dopo la crociata contro gli albigesi. 2 Ormai
sono scomparsi tutti, senza essere riusciti a fare proseliti."
"Ma non si può scartare l'idea che la loro blasfemia abbia pervaso le
menti dei milanesi. Perché altrimenti sarebbero tanto aperti a idee
eterodosse? Perché il duca avrebbe accolto credenze pagane, se non
fosse cresciuto egli stesso in un ambiente già predisposto? E per quale
ragione" proseguii "un domenicano fedele a Roma dovrebbe
nascondersi dietro questi messaggi anonimi, se non perché egli stesso
ha abbracciato l'eresia che ora denuncia?"
"Menzogne, padre Leyre! L'Augure non è un cataro. Piuttosto il
contrario: si preoccupa di mantenere l'ortodossia con più zelo
dell'inquisitore generale di Carcassonne in persona."
"Questa mattina, prima che arrivaste, ho letto un'altra volta tutte le
lettere di quell'individuo. L'Augure ha chiaro il suo scopo fin dalla
prima missiva: desidera che inviamo qualcuno per fermare i progetti del
Moro a Santa Maria delle Grazie. E' come se quello che il duca ha fatto
nel resto di Milano, le piazze, i canali per la navigazione interna, le
chiuse, non gli importassero… E ciò sostiene la vostra ipotesi." Torriani
annuì compiaciuto.
"Tuttavia, maestro" obiettai "prima di agire dovremmo valutare se la
sua richiesta non nasconda qualche trappola."
"Come? Vorreste lasciare solo l'Augure, nonostante tutte le prove che ci
ha fornito? Ma se proprio voi denunciate da tempo le deviazioni
dottrinali della defunta sposa del Moro!"
"Infatti. Quella famiglia è astuta, non sarà facile trovare argomenti
contro di loro. Ciò che intendo è che dobbiamo essere estremamente
prudenti, per evitare passi falsi."
Benché gli storici concordino sul fatto che gli ultimi eretici siano stati
eliminati nel 1244 presso Montsgur, molti fanno notare che intere
famiglie di bonhommes, "uomini buoni", si rifugiarono in Lombardia,
nei pressi di Milano, dove per molto tempo vissero al sicuro dalla
persecuzione di Roma, professando la loro antica fede.
"No, padre. Niente di tutto ciò. Quell'uomo, chiunque egli sia, ci sta
chiedendo aiuto e non possiamo più negarglielo.
Inoltre sapete già che con l'ausilio del cardinale Ascanio, fratello del
duca, ho verificato anche i particolari più insignificanti che compaiono
nelle sue relazioni. E, credetemi, sono tutti esatti."
"Esatti…" ripetei, mentre cercavo di riordinare le idee.
"Sapete? Credo che ciò che mi sorprende di più in questa faccenda sia il
vostro mutato atteggiamento, maestro Torriani."
"Non è vero" protestò. "Ho archiviato le lettere dell'Augure, finché non
sono entrato in possesso di prove solide che le confermassero. Se non vi
avessi creduto, le avrei distrutte, non vi pare?"
"Quindi, maestro, se la verità guida il nostro informatore, se è un
domenicano preoccupato per il futuro del suo convento, perché credete
che nasconda la sua identità quando ci scrive?" Fra' Gioacchino si
strinse nelle spalle, rivolgendomi una smorfia perplessa.
"Magari lo sapessi, padre Leyre. E ciò mi preoccupa. Quanto più tempo
rimango senza risposte, tanto più tale questione mi tormenta. Sono
molti i fronti che impegnano il nostro ordine di questi tempi: aprire
un'altra ferita in seno alla Chiesa equivale a dissanguarla senza rimedio.
Perciò è giunta l'ora di agire. Non possiamo permettere che si ripeta a
Milano quanto sta accadendo a Firenze. Sarebbe un disastro!"
"Un'altra ferita." Meditai se affrontare quell'argomento, ma il silenzio di
Torriani non mi lasciò alternativa.
"Immagino vi riferiate a padre Savonarola…"
"A chi altrimenti?" L'anziano prese fiato prima di proseguire. "Il Santo
Padre ha perso la pazienza e medita di scomunicarlo. I suoi sermoni
contro l'opulenza del papa diventano sempre più pungenti; per di più le
sue profezie sulla fine del casato dei Medici si sono avverate e ora,
seguito da una folla immensa, annuncia grandi castighi del Signore
contro lo Stato Pontificio. Quel maledetto dice che Roma deve soffrire
per espiare i suoi peccati, e se ne rallegra. E il peggio, sapete?, è che
ogni giorno i suoi seguaci aumentano. Se per un caso fortuito il duca di
Milano si associasse a quest'idea di decadenza della Chiesa, nessuno
potrebbe impedire il discredito della nostra istituzione…"
6
Confuso, mi feci il segno della croce davanti al funesto panorama
disegnato dal maestro generale.
Girolamo Savonarola era, come tutta Roma sapeva, il grande problema
di Torriani in quel periodo. Tutti ne parlavano.
Assiduo lettore dell'Apocalisse, quel domenicano dall'eloquio brillante
e dalla grande capacità di seduzione aveva appena instaurato una
repubblica teocratica a Firenze, per riempire il vuoto lasciato dalla
cacciata dei Medici. Dal suo nuovo pulpito si scagliava contro gli
eccessi di Alessandro vi. Savonarola era un pazzo o, peggio ancora, un
temerario. Non prestava ascolto ai richiami all'ordine che riceveva dai
suoi superiori e ignorava deliberatamente la legislazione canonica. Non
teneva in nessun conto i Dictatus Papale, che dal XI° secolo
decretavano l'infallibilità del pontefice e della sua curia: sfidando
apertamente la diciannovesima sentenza ("Nessuno può giudicare il
papa"), gridava dall'altare che bisognava fermarlo in nome di Dio.
Il nostro maestro generale era disperato. Non era stato capace di
arginare la sete di grandezza di quell'esaltato e, per di più,
l'atteggiamento di Savonarola comprometteva tutto l'ordine davanti a
Sua Santità. Il ribelle, orgoglioso come Sansone davanti ai filistei,
aveva respinto il cappello cardinalizio che gli era stato offerto per far
tacere le sue critiche e si era persino rifiutato di abbandonare il suo
pulpito nel convento fiorentino di San Marco, sostenendo di avere una
missione divina più importante da portare a termine. Questa e
nessun'altra era la ragione per cui padre Torriani non voleva che la
lealtà dei predicatori domenicani a Milano fosse messa in questione. Se
l'Augure era un domenicano e aveva ragione di denunciare i disegni
pagani del Moro riguardanti la nostra nuova sede milanese, l'ordine di
san Domenico rischiava di nuovo Vinterdictum.
"Fratello, ho preso una decisione" sentenziò il maestro generale con
grande serietà, dopo aver meditato un istante.
"Dobbiamo allontanare qualsiasi ombra di dubbio dalle opere in corso a
Santa Maria delle Grazie, ricorrendo anche alla forza del Sant'Uffizio,
se ce ne sarà bisogno."
"Pater! Non starete pensando di sottoporre a giudizio il duca di
Milano?" domandai allarmato.
"Soltanto se sarà necessario. Sapete già che nulla da più gusto ai
principi secolari che scoprire le debolezze della nostra Chiesa e
utilizzarle contro di noi. Per questo siamo obbligati ad anticipare i loro
movimenti. Un altro scandalo come quello di Savonarola e la nostra
casa si troverebbe davvero a mal partito all'interno dello Stato
Pontificio. Lo capite?"
"Ma, se posso chiedervelo, come pensate di arrivare all'Augure,
verificarne le affermazioni e riunire le informazioni necessarie per
giudicare il Moro, senza risvegliare i suoi sospetti?"
"Ci ho pensato molto, mio caro padre Agostino" replicò enigmatico.
"Sapete meglio di me che, se inviassi in modo intempestivo uno dei
nostri inquisitori, il tribunale di Milano farebbe domande su domande a
scapito della discrezione richiesta dal caso. E se esistesse un complotto
di tale portata, tutte le prove verrebbero occultate con celerità dai
complici del Moro."
"E quindi?" Torriani aprì la porta dello studio e scese le scale fino al
portone d'ingresso, senza rispondere. Uscì nel cortile delle scuderie e
prese il suo mulo, dando per conclusa quella riunione urgente. Lì fuori
la tormenta di neve continuava a infuriare.
"Ditemi, cosa pensate di fare?" insistetti.
"Il Moro ha stabilito che entro dieci giorni siano celebrati i funerali
ufficiali della duchessa" rispose infine. "A Milano giungeranno
rappresentanze da ogni luogo e sarà facile infiltrarsi a Santa Maria per
compiere le verifiche del caso e individuare l'Augure. Tuttavia"
aggiunse "non possiamo inviare un religioso qualunque. Dev'essere
qualcuno dotato di criterio, che sappia di leggi, eresie e codici segreti.
La sua missione sarà quella di trovare l'Augure, confermare una per una
le sue accuse e fermare l'eresia. E dev'essere un uomo di questa casa.
Di Betania." Il maestro gettò un'occhiata diffidente al sentiero che stava
per affrontare. Con un po' di fortuna, avrebbe impiegato un'ora a
percorrerlo. E se il suo mulo non lo avesse disarcionato su qualche
lastra di ghiaccio, sarebbe arrivato a destinazione con il tepore del
mezzogiorno.
"L'uomo che ci occorre" disse, come se stesse per annunciare qualcosa
d'importante "siete voi, padre Leyre. Nessun altro potrebbe risolvere
con maggiore efficienza questa situazione."
"Io?" Ero perplesso. Aveva pronunciato il mio nome con sottile
compiacimento, mentre cercava qualcosa nelle bisacce del suo mulo.
"Ma sapete bene che qui ho un lavoro, degli obblighi…"
"Nessuno importante come questo!" Estrasse uno spesso plico di carte
legate insieme, con il suo sigillo personale, e me lo consegnò insieme al
suo ultimo ordine: "Partirete al più presto per Milano. Oggi stesso, se è
possibile. E con questo" guardò il fascio di documenti che già tenevo
nelle mani "identificherete il nostro informatore, verificherete quanto vi
sia di vero dietro questo nuovo pericolo e cercherete di porvi rimedio".
Il maestro indicò la pergamena che spiccava sopra le lettere. Su di essa,
a caratteri grandi di inchiostro rosso, si poteva leggere l'enigma che
racchiudeva l'identità del nostro informatore. Lo avevo visto molte
volte, concludeva ogni missiva dell'Augure, ma fino a quel momento
non vi avevo prestato attenzione.
Avrei voluto che il mio sguardo si annebbiasse, mentre scorrevo quelle
sette righe e intuivo che si erano trasformate nel mio problema
principale.
Dicevano:
Oculos ejus dinumera, sed noli voltum àdspicere.
In latere nominis mei notam rinvenies.
Contemplari et contemplata aliis iradere.
Veritas3

7
Naturalmente obbedii. Che altro potevo fare?
Arrivai a Milano l'alba successiva all'Epifania. Era un sabato, uno di
quei mattini d'inverno in cui lo scintillio della neve acceca e l'aria
limpida raffredda spietata le viscere. Avevo cavalcato senza sosta per
giungere a destinazione, dormendo tre o quattro ore per notte in locande
fetide, ed ero intorpidito e intirizzito dopo un viaggio di tre giorni nel
pieno dell'inverno più duro che ricordassi. Ma niente di tutto ciò era
importante. Milano, la città principale della Lombardia, sede di intrighi
di palazzo e dispute territoriali con la Francia e gli staterelli vicini, su
cui tanto avevo studiato, giaceva ora ai piedi del mio cavallo.
Era un luogo davvero magnifico. La città degli Sforza, il più importante
centro a sud delle Alpi, aveva un'estensione doppia di Roma. Otto
grandi porte si aprivano in una cinta di mura impenetrabili, che
circondavano un agglomerato a pianta circolare. Vista dall'alto
ricordava lo scudo di un gigantesco guerriero. Ma a dire il vero non
furono le sue opere difensive a impressionarmi: quello era un borgo
rimesso a nuovo, pulito, che trasmetteva un'intensa sensazione di
ordine. I suoi abitanti non orinavano a ogni angolo, come a Roma, e le
prostitute non si offrivano assalendo i viandanti per strada. Lì ogni
vicolo, ogni casa, ogni edificio pubblico sembravano pensati per una
funzione più elevata. Persino la sua orgogliosa cattedrale in perenne
costruzione, in tutto opposta con quell'aspetto fragile e scheletrico alle
massicce moli del Mezzogiorno italiano, diffondeva il suo influsso
benefico sul territorio circostante.
Vista dalle colline, Milano sembrava l'ultimo posto al mondo in cui
potessero mettere radici il disordine e il peccato.
Un tratto prima di arrivare a Porta Ticinese, il più celebre degli accessi
alla città, un simpatico artigiano si offrì di accompagnarmi fino alla
torre del Filarete, l'ingresso principale alla fortezza del Moro. Situato in
una delle estremità dello scudo urbano, il castello degli Sforza
sembrava una replica in miniatura delle enormi mura cittadine.
L'artigiano rise nel vedere la mia faccia stupita. Era un conciatore di
Cremona, un buon cattolico che mi avrebbe accompagnato volentieri
fino dentro la fortezza in cambio di una benedizione per lui e la sua
famiglia. Accettai.
Il brav'uomo mi lasciò di fronte al castello del duca all'approssimarsi
dell'ora nona. Quel luogo era ancora più grandioso di quanto avessi
immaginato. Stendardi con la terribile insegna degli Sforza - una specie
di serpente gigante che divora un disgraziato - sventolavano tra i merli.
Nastri blu ondeggiavano al vento, mentre da una mezza dozzina di
enormi camini, piantati in qualche luogo all'interno della fortezza,
esalavano grandi folate di un fumo nero e spesso. L'ingresso del
Filarete era costituito da una minacciosa grata e due mezze porte
rinforzate in bronzo, aperte a quell'ora. Non meno di quindici uomini
sorvegliavano l'entrata, esplorando con le loro picche i sacchi di cereali
che i carriaggi lasciavano vicino alle cucine.
Uno di quei soldati mi indicò la via. Dovevo dirigermi all'estremità
occidentale della torre, all'interno del castello, e chiedere della sala
d'accoglienza e del "gabinetto di lutto" istituito per ricevere le
delegazioni che avrebbero partecipato ai funerali di donna Beatrice. Il
mio cicerone di Cremona mi aveva già avvertito che tutta la città si
sarebbe fermata per l'occasione. E, di fatto, anche a quell'ora non c'era
molta attività. Mi sorprese che il segretario del Moro, un cortigiano
allampanato dal volto inespressivo, mi ricevesse subito. Si scusò di non
poter condurre questo servo di Dio dal suo signore, quindi esaminò le
mie credenziali con aria scettica, verificò che il sigillo pontificio fosse
autentico e me le restituì con un gesto desolato.
"Mi dispiace, padre Leyre" Marchesino Stanga, questo era il suo nome,
si sciolse in un torrente di scuse. "Dovete comprendere che il mio
signore, dopo la morte della sua sposa, non riceve nessuno. Suppongo
che vi rendiate conto del difficile momento che stiamo attraversando e
della necessità che ha il duca di stare solo."
"Certo" assentii con finta cortesia.
"Tuttavia" aggiunse "una volta terminato il lutto, gli farò pervenire la
notizia della vostra presenza in città." Mi sarebbe piaciuto poter
guardare il Moro negli occhi per indovinare, come in tanti interrogatori
che avevo presieduto, se essi nascondevano oppure no le ombre sinistre
dell'eresia o del crimine. Ma quel funzionario dal cappello carminio
guarnito di pelliccia e dalla giubba di velluto, che parlava con aria di
meschina superiorità, sembrava deciso a impedirmelo.
"Non possiamo nemmeno offrirvi alloggio, come è nostra
consuetudine" disse con tono secco. "Il castello è chiuso e non
riceviamo ospiti. Vi chiedo, padre, di pregare per l'anima di donna
Beatrice e di tornare a funerali avvenuti. Allora vi accoglieremo come
meritate. "
"Requiescat in pace" mormorai mentre mi segnavo. "Farò così. E
pregherò anche per voi." Ebbi una strana sensazione. Senza potermi
sistemare presso il duca e la sua famiglia, fallito il mio proposito di
passeggiare più o meno liberamente per il suo castello, le mie prime
indagini sarebbero state rallentate. Mi occorreva trovare un alloggio
discreto, che mi permettesse un certo spazio per lo studio. Con i
documenti di Torriani che ardevano nella mia borsa, avevo bisogno di
calma, tre pasti caldi al giorno e una buona dose di fortuna per riuscire
a decifrare il loro segreto.
Non era sensato che un frate cercasse pensione tra i laici, cosicché le
mie opzioni si ridussero ben presto a due: o mi stabilivo nel vetusto
convento di Sant'Eustorgio oppure in quello nuovissimo di Santa Maria
delle Grazie, dove la possibilità di incrociare l'Augure eccitava la mia
immaginazione. Solo dopo aver risolto il problema della mia
sistemazione avrei avuto tempo di immergermi nell'oscuro codice che il
maestro Torriani mi aveva affidato a Betania.
Riconosco che la Divina Provvidenza s'impegnò in modo esemplare.
Sant'Eustorgio si rivelò subito come la peggiore delle opzioni. Situato
abbastanza vicino al Duomo, accanto al mercato generale, era solito
riempirsi di curiosi che ben presto si sarebbero chiesti quali faccende
trattenessero lì un inquisitore romano. Benché la sua posizione mi
avrebbe concesso una certa prospettiva sulle attività dell'Augure,
evitandomi il rischio di trovarmi faccia a faccia con lui senza conoscere
la sua identità, sapevo anche che mi offriva più inconvenienti che
vantaggi.
Quanto all'altra alternativa, Santa Maria delle Grazie, oltre a essere il
presunto rifugio del mio obiettivo presentava solo un altro piccolo, ma
superabile difetto: era lì che si sarebbero celebrate le affollatissime
esequie di donna Beatrice. La sua chiesa, da poco ampliata e abbellita
dal Bramante, sarebbe stata al centro di tutti gli sguardi.
In cambio, però, Santa Maria disponeva di tutto ciò di cui avevo
bisogno. La sua ben assortita biblioteca, posta al secondo piano di uno
degli edifici che davano sul cosiddetto Chiostro dei Morti, ospitava
opere di Svetonio, Filostrato, Piotino, Senofonte e persino alcuni libri
dello stesso Platone, importati ai tempi di Cosimo il Vecchio. Il
convento si trovava vicino alla fortezza ducale e non troppo lontano da
Porta Vercellina. Vantava un'eccellente cucina, con tanto di forno per i
dolci, un pozzo, un orto, una sartoria e un ospedale. Ma tutte quelle
comodità impallidivano di fronte alla principale attrattiva del convento:
se il maestro Torriani non si ingannava, forse l'Augure mi si sarebbe
palesato nei suoi corridoi senza la necessità di risolvere alcun enigma.
Ero un ingenuo.
Tranne che per quest'ultimo aspetto, la Provvidenza mi assistette: a
Santa Maria c'era una cella disponibile, che mi venne immediatamente
assegnata. Si trattava di una stanzetta di tre passi per due con un
giaciglio di tavole senza pagliericcio e un tavolino posto sotto una
povera finestrella, che si affacciava sulla via esterna. I frati non fecero
domande. Controllarono le mie credenziali con lo stesso sguardo di
diffidenza del segretario Stanga, ma si rilassarono non appena assicurai
che ero giunto alla loro casa in cerca di serenità per il mio spirito
tormentato. "Anche un inquisitore ha bisogno di raccoglimento" spiegai
loro. E capirono.
Mi imposero un'unica condizione. Il sagrestano, un frate dagli occhi
sporgenti e l'accento straniero, mi avvertì con aria severa: "Non entrate
mai senza permesso nel refettorio. Il maestro Leonardo non vuole che si
interrompa il suo lavoro e l'abate desidera assecondarlo in tutto. Avete
compreso?".
Annuii.
8
Per prima cosa visitai la biblioteca di Santa Maria. Provavo una grande
curiosità. Situata sopra il controverso refettorio proibito, che l'Augure
aveva trasformato nel focolaio di tutti i mali, era costituita da un
ambiente ampio, dalle finestre rettangolari, disseminato da una dozzina
di piccoli tavoli da lettura e dal grande scrittoio del bibliotecario.
Proprio dietro quest'ultimo, oltre uno spesso portone con tanto di
serratura, si custodivano i libri. Ciò che più mi colpì fu il suo sistema di
riscaldamento: una caldaia al piano inferiore diffondeva vapore acqueo
attraverso condutture di rame che riscaldavano le mattonelle del
pavimento.
"Non è per i lettori" si affrettò a spiegarmi il responsabile del luogo,
vedendomi curiosare con interesse intorno a quell'ingegnoso
dispositivo. "E' per i libri. Custodiamo esemplari troppo preziosi per
lasciare che il freddo li rovini." Credo che padre Alessandro, guardiano
e custode di quella sala, fu il primo frate a non guardarmi con sospetto,
ma con una sfacciata curiosità. Lungo, ossuto, la pelle bianchissima e i
modi fini, sembrava felicissimo di vedere un volto nuovo nei suoi
domini.
"Di solito non passa molta gente da queste parti" ammise.
"E meno ancora proveniente da Roma!"
"Ah… Sapete che sono romano?"
"Le notizie volano, padre. Santa Maria è pur sempre una piccola
comunità. Non credo che a quest'ora ci sia qualcuno che non sappia
dell'arrivo di un inquisitore nella nostra casa." Il frate strizzò un occhio
in segno di complicità.
"Non sono qui in missione ufficiale" mentii "ma per motivi personali."
"Che importa! Gli inquisitori sono uomini di lettere, studiosi. E qui
quasi tutti i frati hanno difficoltà a leggere o scrivere. Se vi tratterrete
un po' da noi, credo che ci faremo buona compagnia." Quindi aggiunse:
"E' vero che a Roma lavorate all'Archivio segreto?".
"Sì…" esitai.
"Magnifico, padre. Ciò è magnifico. Avremo molto di cui parlare.
Credo che abbiate scelto il miglior posto del mondo per trascorrere
qualche giorno." Alessandro mi sembrò simpatico. Sfiorava la
cinquantina, sfoggiava senza complessi un naso adunco e il mento più
pronunciato che avessi mai visto. Il suo pomo d'Adamo lottava per
uscirgli dalla gola. Sul tavolo teneva delle lenti spesse, con le quali
ingrandiva le lettere dei libri, e le maniche del suo abito esibivano
enormi macchie di inchiostro. Certo non mi confidai subito con lui - in
realtà cercavo di non guardarlo troppo, per non restare ipnotizzato da
quel viso deforme -, ma devo ammettere che una corrente di sincera
simpatia si instaurò immediatamente tra noi. Fu lui a insistere per
provvedere di persona alle mie necessità, durante la mia permanenza al
convento. Si offrì di mostrarmi gli angoli nascosti di quello splendido
luogo, dove tutto sembrava nuovo, e mi promise che avrebbe vegliato
sulla mia tranquillità, affinché potessi concentrarmi.
"Se il vostro esempio fosse seguito e venissero più frati a studiare in
questa casa" si lamentò, come se non potesse tenere a freno la lingua
"presto potremmo convertirla in uno Studio generale, 4 come quelli di
Roma, e magari in un'università…"
"Qui non vengono frati a studiare?"
"Assai pochi rispetto a ciò che questo luogo potrebbe offrire loro.
Anche se vi sembra modesta, questa biblioteca riunisce una delle
collezioni di testi antichi più importanti del ducato."
"Davvero?"
"Perdonatemi se pecco di immodestia, ma ci lavoro da molto tempo.
Forse a un colto romano come voi parrà poca cosa a confronto con la
Biblioteca vaticana, però dovete credermi: qui custodiamo testi che i
bibliotecari del papa non si sognano nemmeno…"
"Sarà dunque un privilegio poterli consultare" dissi cortese.
Frate Alessandro chinò il capo come se quell'elogio fosse rivolto a lui,
mentre metteva a soqquadro le sue carte in cerca di qualcosa
d'importante.
"Prima ho bisogno di un piccolo favore" rise tra i denti. "In realtà vi ha
mandato il cielo. Per uno come voi, allenato a decifrare messaggi per
l'Archivio segreto, un enigma come questo sarà pane quotidiano." Il
domenicano mi tese un pezzo di carta con uno scarabocchio sul retro.
Era un disegno semplice. Una grossolana scala musicale interrotta da
una specie di nota fuori posto ("za") e un amo.
"Allora?" domandò impaziente. "Lo capite? E' da tre giorni che provo a
risolverlo senza risultati."
"Cosa dovrebbe nascondere?"
"Una frase in lingua volgare." Osservai quell'indovinello senza intuirne
il significato. Era evidente che la soluzione doveva stare in quella "za"
fuori posto.
Le cose fuori posto avevano sempre una risposta, ma l'amo? Ordinai
mentalmente quegli elementi, iniziando dalla lettura della scala, e
sorrisi divertito.
"E' una frase, certo" dissi alla fine. "E molto semplice."
"Semplice?"
"Basta saper leggere, frate Alessandro. Osservate: se partite dalla parola
"amo", il resto del disegno acquista subito un significato."
"Non vi seguo."
"E' facile. Leggete "amo" e, di sèguito, le note." Il frate, dubbioso, fece
scorrere le dita sul disegno.
"L'amo… re… mi… fa… sol… la… "za"… re… L'amore mi fa
sollazzare! Quel Leonardo è un birbone! Ora vedrà, quando lo incontro!
Giocare con le note musicali… Disgraziato!"
"Leonardo?" Quel nome mi riportò subito alla realtà. Ero andato in
biblioteca alla ricerca di un rifugio per decifrare l'enigma dell'Augure.
Per trovare un'interpretazione che, se non ci sbagliavamo, era in stretta
relazione con Leonardo, il refettorio proibito e l'opera che vi stava
eseguendo.
"Ah!" esclamò il bibliotecario, euforico per la scoperta.
"Ancora non lo conoscete?" Scossi la testa.
"Un altro amante degli enigmi. Ogni settimana sfida noi monaci di
Santa Maria con un indovinello. Questo era tra i più difficili…"
"Leonardo da Vinci?"
"E chi altrimenti?"
"Credevo…" esitai "che non parlasse molto con i frati."
"Solo quando lavora. Ma poiché vive qui vicino, passa spesso a
controllare la sua opera e scherza con noi nei chiostri.
Adora i doppi sensi, gli equivoci, e ci fa ridere con le sue trovate."
"I doppi sensi." Ciò, ben lungi dal divertirmi, mi inquietò. Ero lì per
decifrare un messaggio che aveva beffato tutti gli studiosi di Betania.
Un testo assai differente da quella frase maliziosa, nascosta da
Leonardo in un pentagramma. Un testo dalla cui soluzione dipendevano
affari di stato. Come potevo perdere il mio tempo in quelle chiacchiere
inconcludenti?
"Almeno" tagliai corto "il vostro amico Leonardo e io abbiamo
qualcosa in comune: ci piace lavorare da soli. Potreste assegnarmi uno
scrittoio e fare in modo che nessuno mi disturbi?" Frate Alessandro
comprese che non gli stavo chiedendo un favore. Cancellò il sorriso
trionfante da quel suo viso spigoloso e annuì obbediente.
"Accomodatevi qui. Nessuno interromperà il vostro studio." Quel
pomeriggio il bibliotecario mantenne la sua parola.
Le ore che trascorsi davanti ai sette versi consegnatimi dal maestro
Torriani a Betania furono tra le più solitàrie del mio soggiorno a
Milano. Capivo che quel lavoro richiedeva la mia concentrazione come
nessun altro affrontato in precedenza.
Lessi di nuovo:
Oculos èjus dinumera, sed noli voltum àdspicere.
In latere nominis mei notam rinvenies.
Contemplari et contemplata aliis {radere.
Verìtas
Era un gioco di pazienza.
Come avevo appreso alla scuola di Betania, applicai a quel
guazzabuglio le tecniche dello straordinario Leon Battista Alberti.
Padre Alberti sarebbe stato affascinato dalla mia sfida: non solo dovevo
decifrare il messaggio nascosto in un testo in latino, ma questo
probabilmente mi avrebbe condotto a un'opera d'arte e al bravo mistero
in essa racchiuso. Fu il primo a scrivere un saggio sulla prospettiva, era
un amante dell'arte, poeta, filosofo, aveva composto una canzone
funebre per il suo cane e persino progettato la fontana di Trevi a Roma.
Il nostro ammirevole dottore, che Dio aveva prematuramente voluto al
suo fianco, diceva che per risolvere qualsiasi enigma,
indipendentemente dal genere o dall'origine, bisognava andare
dall'evidente al latente. Ossia distinguere dapprima quel che è ovvio, la
"za", per cercare poi il suo significato occulto. E aveva enunciato
un'altra legge utile: gli enigmi si risolvono sempre senza fretta,
prestando attenzione ai minimi dettagli e lasciandoli sedimentare nella
memoria.
In questo caso particolare era ovvio, anzi molto ovvio, che i versi
racchiudessero un nome. Torriani ne era sicuro e più li leggevo, più lo
ero anch'io. Credevamo entrambi che l'Augure avesse fornito quella
pista nella speranza che l'Archivio segreto la decifrasse e potesse
comunicare con lui: doveva esistere pertanto un procedimento di lettura
che non lasciasse adito a dubbi. Beninteso: se il nostro anonimo
confidente era così cauto come sembrava, solo gli occhi di un buon
osservatore lo avrebbero identificato.
Il numero sette era un altro elemento di quel rompicapo che richiamò la
mia attenzione. La poesia era formata da sette righe e i numeri, di
solito, sono importanti in questo tipo di enigmi. Inoltre, la sua strana
metrica irregolare doveva indicare qualcosa. Qualcosa come l'amo di
Leonardo. E se questo "qualcosa" era l'identità di chi stavo cercando, il
testo avvertiva che l'avrei scoperta unicamente contando gli occhi di
qualcuno che non potevo guardare in faccia. Quel paradosso mi
scoraggiò: come potevo contare gli occhi di qualcuno, senza guardarlo
in viso?
Il testo mi opponeva resistenza. Cosa indicava la misteriosa allusione
agli occhi? Forse qualcosa di simile ai sette occhi di Yahweh descritti
dal profeta Zaccaria, 5 o le sette corna e i sette occhi dell'agnello
sgozzato dell'Apocalisse? 6 E, nel caso, che genere di nome poteva
nascondersi dietro un numero? La frase centrale era eloquente: "Sul
fianco troverai la cifra del mio nome". La cifra? Quale cifra? Forse un
sette? Poteva riferirsi a un numero ordinale, settimo, come l'antipapa di
Avignone, Clemente VII? Scartai quasi subito quell'eventualità: era
improbabile che il nostro anonimo scrivano avesse come attributo
qualche numero ordinale, dopo il nome. Ma allora?
E c'era di più: come dovevo interpretare il singolare errore che avevo
individuato nel quarto verso? Perché al posto di invenies, il codificatore
del messaggio aveva scritto rinvenies?
Le stranezze si accumulavano una sull'altra.
9
La mia prima giornata di lavoro a Santa Maria mi fornì soltanto una
certezza: le ultime due frasi della "firma" erano, con ogni probabilità,
formule tipiche di un domenicano. L'istinto non aveva ingannato
Torriani: "Contemplari et contemplata aliis tradere" era una frase
famosa di san Tommaso, tratta dalla Summa theologiae e accettata
come uno dei motti più conosciuti del nostro ordine. Significava:
"contemplare e trasmettere agli altri il risultato di tale contemplazione".
Quanto a "Verìtas", "verità", oltre a essere un altro termine domenicano
piuttosto comune, compariva sui nostri scudi. Certo è che non avevo
mai visto le due espressioni collegate tra loro: lette di seguito
sembravano suggerire che per arrivare alla verità bisognava mantenere
un atteggiamento vigilante. Per poco che fosse, era un buon consiglio.
Padre Alberti lo avrebbe approvato.
Ma le due frasi precedenti? Che tipo di nome o messaggio
racchiudevano?
"Avete sentito parlare del nuovo ospite del convento di Santa Maria?"
Leonardo era solito trascorrere le ultime ore di luce a contemplare il
suo dipinto. Il sole del tramonto trasformava le figure sedute alla tavola
in ombre rossicce prima e in profili scuri, sinistri, poi. Si recava spesso
al convento di Santa Maria solo per ammirare la sua opera preferita e
distrarsi dal resto delle occupazioni quotidiane. Il duca lo tormentava
perché terminasse la colossale statua equestre in onore di Francesco
Sforza, un monumentale cavallo che era ormai la sua ossessione.
Tuttavia persino il Moro era consapevole che la vera passione di
Leonardo si trovava nel refettorio di Santa Maria.
Quei quasi cinque metri per nove di tempera a secco costituivano il
dipinto più grande che avesse mai affrontato. Dio solo sapeva quando
l'avrebbe terminato, ma questo particolare poco importava al genio.
Quella sera era così assorto davanti al suo magico paesaggio umano che
Marco d'Oggiono, il più curioso dei discepoli del toscano, dovette
ripetere la domanda.
"Davvero non avete sentito parlare di lui?" Il maestro, assente, scosse la
testa. Marco lo aveva trovato seduto su una cassa di legno in mezzo al
refettorio, la candida chioma sciolta, come era solito fare alla fine di
una giornata di lavoro.
"No…" esitò. "E' qualcuno d'interessante, mio caro?"
"E' un inquisitore, maestro."
"Dunque, un'occupazione terribile."
"Il caso vuole, messere, che anche lui sembri molto interessato ai vostri
segreti." Leonardo distolse lo sguardo dal Cenacolo e cercò gli occhi
azzurri del suo discepolo. Aveva un'espressione seria, come se la
vicinanza di un membro del Sant'Uffizio avesse risvegliato qualche
arcano timore nella sua anima.
"I miei segreti? Ancora con queste domande, Marco? Sono qui i miei
segreti, te l'ho già detto ieri. Sotto gli occhi di tutti.
Da anni ho imparato che se desideri celare qualcosa alla stupidità
umana, il miglior posto per farlo è quello in cui il mondo intero lo possa
vedere. Lo capisci, vero?" Marco annuì senza troppa convinzione. Il
buon umore che il maestro esibiva il giorno precedente era del tutto
svanito.
"Maestro, ho pensato molto a quello che mi avete detto. E credo di aver
capito qualcosa di più su questo luogo."
"Davvero?"
"Nonostante il fatto che lavoriate su suolo sacro e sotto la supervisione
di uomini di Dio, nella vostra Cena non avete voluto dipingere la prima
messa di Cristo. Non è vero?" Le sopracciglia rossicce e folte del
maestro s'inarcarono per lo stupore. Marco d'Oggiono proseguì: "Non
fingetevi sorpreso! Gesù non tiene l'ostia in mano, non celebra la sua
prima eucarestia. I suoi discepoli non mangiano n‚ bevono, e non
ricevono nemmeno la benedizione".
"Perbacco" esclamò, "Continua, sei sulla buona strada."
"Ciò che non capisco, maestro, è perché avete dipinto quel nodo
scorsoio all'estremità del tavolo. Il pane e il vino figurano nelle
Scritture; il pesce, benché non sia citato da nessun Vangelo, posso
comprenderlo come simbolo dello stesso Cristo. Ma chi ha parlato mai
di un nodo sulla tovaglia del banchetto pasquale?" Leonardo allungò la
sua mano verso d'Oggiono, chiamandolo vicino "Vedo che hai cercato
di entrare dentro la pittura. E questo va bene."
"Però sono ancora lontano dal vostro segreto, vero?"
"Non dovresti preoccuparti di raggiungere la meta, Marco.
Preoccupati solo di percorrere la strada." Marco spalancò gli occhi
stupefatto.
"Mi avete sentito, maestro? Non vi preoccupa che un inquisitore sia
venuto in questo convento e vada chiedendo in giro della vostra santa
Cena?"
"No."
"No? Tutto qui?"
"Che cosa vuoi che ti dica? Ho faccende più importanti di cui
occuparmi. Come riuscire a terminare questa Cena e… il suo segreto"
Leonardo si accarezzò la barba con un'espressione divertita, prima di
proseguire. "Sai una cosa, Marco? Quando finalmente scoprirai il
segreto che sto dipingendo e sarai capace di leggerlo per la prima volta,
non smetterai più di vederlo. E ti domanderai come hai potuto essere
così cieco. Sono questi, non altri, i segreti meglio custoditi: quelli che
stanno davanti al nostro naso e non siamo capaci di vedere."
"E come imparerò a leggere la vostra opera, maestro?"
"Seguendo l'esempio dei grandi uomini di questa epoca. Come
Toscanelli, il geografo, che tempo fa disegnò il suo personale segreto
sotto gli occhi di tutta Firenze." Il discepolo non aveva mai sentito
parlare di questa vecchia conoscenza di Leonardo. A Firenze lo
chiamavano il Fisico e, anche se alla fine si era guadagnato da vivere
con le sue mappe, in precedenza era stato medico e lettore appassionato
degli scritti di Marco Polo.
"Ma tu non ne saprai niente…" Leonardo scosse la testa.
"Affinché non mi accusi più di non insegnarti come leggere un segreto,
oggi ti parlerò di quello che Toscanelli ha lasciato nella cattedrale di
Firenze. "
"Davvero?" Marco tese le orecchie.
"Quando tornerai in quella città, devi visitare assolutamente l'enorme
cupola che Filippo Brunelleschi ha costruito per il Duomo. Passeggia
tranquillo sotto di essa e osserva il piccolo foro praticato su uno dei
suoi lati. Nei giorni di San Giovanni Battista e San Giovanni
Evangelista, a giugno e dicembre, il sole a mezzogiorno attraversa quel
pertugio a più di ottanta metri d'altezza e illumina una meridiana di
marmo che il mio amico Toscanelli ha disposto con perizia sul
pavimento."
"A che scopo, maestro?"
"Non capisci? E' uno gnomone, una sorta di calendario. I solstizi
indicati segnalano l'inizio dell'inverno e dell'estate. Fu Giulio Cesare il
primo a rendersene conto e a fissare la durata dell'anno in
trecentosessantacinque giorni e un quarto. Inventò l'anno bisestile. 7 E
tutto osservando l'avanzare del sole lungo una linea come quella.
Toscanelli, quindi, ha deciso a modo suo di dedicargli quell'orologio
solare. Sai come?" Marco si strinse nelle spalle.
"Rappresentando alla base della sua meridiana di marmo, secondo un
ordine atipico, i segni di Capricorno, Scorpione e Ariete."
"E cosa hanno a che vedere i segni dello zodiaco con l'omaggio a
Cesare, maestro?" Leonardo sorrise.
"Il segreto sta proprio qui. Se prendi le prime lettere di ciascuno di
questi segni, e ne rispetti l'ordine, con un po' di fantasia individuerai il
nome nascosto che cercavamo: ca-s-ar… cioè ca-es-ar… "
"Caesar…, Cesare! E' chiaro!"
"Sì."
"E il vostro Cenacolo, maestro, nasconde qualcosa di simile?"
"In un certo senso. Ma dubito che questo inquisitore, di cui hai tanta
paura, potrà mai riuscire a scoprirlo."
"Però…"
"E tornando a noi" lo interruppe "il nodo è uno dei molti simboli che
accompagnano Maria Maddalena. Un giorno di questi te lo spiegherò. "
10
Dovevo essermi addormentato sullo scrittoio.
Quando frate Alessandro mi scosse, verso le tre di notte, subito dopo il
mattutino, un doloroso torpore si era impossessato di tutto il mio corpo.
"Padre, padre!" sbuffò il bibliotecario. "Vi sentite bene?" Qualcosa
dovevo avergli risposto, perché tra uno scossone e l'altro il bibliotecario
fece un'osservazione che mi risvegliò di colpo.
"Parlavate nel sonno!" rise, quasi si stesse burlando di me.
"Frate Matteo, il nipote del priore, vi ha sentito balbettare non so quali
strane frasi in latino ed è venuto in chiesa a chiamarmi. Credeva che
foste posseduto!" Alessandro mi osservava con un'espressione tra il
divertito e il preoccupato, arricciando quel naso a uncino con cui
sembrava minacciarmi.
"Non è niente" mi scusai sbadigliando.
"Padre, state lavorando troppo. Quasi non avete toccato cibo dal vostro
arrivo e le mie attenzioni per voi sono inutili.
Siete sicuro che non posso aiutarvi nel vostro compito?"
"No. Non è necessario, credetemi." La goffaggine dimostrata dal
bibliotecario con il rebus dell'amo non prometteva un grande aiuto.
"E cosa diavolo era quell'Ocu/os ejus dinumera? Continuavate a
ripeterlo." Impallidii. "Dicevo così?"
"Sì, come pure qualcosa su un luogo chiamato Betania. Sognate spesso
passaggi della Bibbia, Lazzaro il resuscitato e cose simili? Perché
Lazzaro era di Betania, no?" Sorrisi. L'ingenuità di frate Alessandro
sembrava non aver limiti.
"Fratello, dubito che possiate capire."
"Mettetemi alla prova" disse, dondolandosi in modo buffo al ritmo delle
sue parole. Il frate stava a un palmo da me, mi osservava con crescente
interesse mentre quell'enorme pomo d'Adamo gli saliva e scendeva
nella gola. "In fin dei conti, sono io l'intellettuale del convento…"
Promisi di soddisfare la sua curiosità in cambio di un po' di cibo. Mi
ero appena reso conto di non essere nemmeno andato a cena la prima
sera a Santa Maria. Il mio stomaco ruggiva sotto la tonaca. Premuroso,
il bibliotecario mi condusse alle cucine e trovò alcuni avanzi.
Mi tese una scodella ancora tiepida, che riscaldò le mie mani gelate.
"Padre, ecco un po' di zuppa, vi farà bene." Quell'intruglio denso e
aromatico scivolò come seta nelle mie viscere. Alla luce fioca di una
candela, la notte chiusa fuori, divorai anche quello che restava di un
delizioso dolce a base di mandorle tostate che chiamavano torrone, e un
paio di fichi secchi. Poi, con la pancia piena, i miei riflessi iniziarono di
nuovo a rispondere.
"Frate Alessandro, voi non mangiate?"
"Oh, no" sorrise lui, allampanato. "Il digiuno non me lo permette. Lo
sto osservando da prima del vostro arrivo."
"Capisco." A dire il vero, non gli diedi troppa importanza.
"Così mi sono addormentato e nel sonno ripetevo i primi versi della
firma dell'Augure…" mi rimproverai. Non c'era da stupirsi. Mentre
ringraziavo frate Alessandro per le sue attenzioni e lodavo la meritata
fama della loro cucina, mi ricordai che a Betania avevano già avuto
occasione di verificare che quei versi non provenivano da alcun passo
evangelico. In realtà non corrispondevano nemmeno ad alcun testo di
Platone, n‚ a nessun altro classico conosciuto. E tanto meno facevano
parte di lettere dei Padri della Chiesa o di leggi del diritto canonico.
Quelle sette righe disattendevano i più elementari codici impiegati da
cardinali, vescovi e abati, che ormai cifravano quasi tutte le loro
comunicazioni con lo Stato Pontificio per timore di essere spiati. Rare
volte le frasi erano leggibili: grazie ad alcune matrici di sostituzione
molto complesse, di cui il mio ammirato Leon Battista Alberti aveva
forgiato stampi in bronzo, dal latino ufficiale si trasformavano in un
gergo di consonanti e numeri. Generalmente quelle matrici erano
formate da una serie di ruote sovrapposte, sui cui bordi erano incise le
lettere dell'alfabeto. Con la dovuta perizia e un minimo di istruzioni le
lettere della ruota esterna erano sostituite da quelle della ruota più
interna, permettendo in tal modo di cifrare qualsiasi messaggio.
Simili precauzioni avevano una loro logica: l'incubo della curia di
vedersi scoperta dai nobili che odiava o dai cortigiani contro cui
tramava aveva moltiplicato per cento il lavoro di Betania in pochissimo
tempo e ci aveva trasformati in uno strumento insostituibile per
l'amministrazione della Chiesa. Ma come spiegare al buon Alessandro
tutto ciò? Come confessare che l'enigma che mi tormentava non
rientrava nei metodi di codificazione a me familiari e proprio per questo
mi ossessionava No. Oculos ejus dinumera non apparteneva a quel
genere di messaggi che uno poteva spiegare così, in due parole, a una
persona poco esperta di codici segreti.
"Padre Leyre, posso chiedervi a cosa state pensando? Inizio a credere
che non mi prestiate la minima attenzione." Tirandomi per la tonaca,
frate Alessandro mi ricondusse attraverso gli oscuri corridoi del
convento fino alle celle.
"Ora che avete mangiato" disse in tono paterno, senza abbandonare
quella smorfia burlona di ossequio con la quale mi guardava fin dal
nostro primo incontro "sarà meglio che riposiate fino all'ufficio delle
laudi. Prima che faccia mattino verrò a svegliarvi e mi spiegherete
cos'avete per le mani. D'accordo?" Accettai di malavoglia.
A quell'ora la cella era gelata e la sola idea di togliere l'abito e gettarmi
su un giaciglio umido e duro mi terrorizzava più della veglia. Chiesi al
bibliotecario che accendesse la candela sul mio tavolino, e ci
accordammo di incontrarci all'alba e passeggiare nel chiostro
dell'ospedale per chiarirci su certe cose.
Non che mi piacesse l'idea di condividere particolari del mio lavoro con
qualcuno. In realtà non avevo ancora presentato nemmeno i miei
rispetti al priore di Santa Maria, ma qualcosa mi diceva che frate
Alessandro, nonostante la sua imperizia con gli indovinelli, mi sarebbe
stato utile in quell'imbroglio.
Mi buttai sul letto vestito e mi avvolsi con l'unica coperta che avevo a
disposizione. E lì, fissando il soffitto di assi intonacate, riesaminai il
problema dei versi cifrati. Avevo la sensazione di aver tralasciato
qualche dettaglio. Qualche "za" assurda, eppure fondamentale. Così,
con gli occhi spalancati, ripassai quanto sapevo sull'origine della frase.
Se non erravo nella mia valutazione e se le ore piccole non
ingannavano la mia intelligenza, era abbastanza chiaro che il nome del
nostro anonimo informatore - o almeno la sua cifra - si nascondeva nei
primi due versi.
Era un gioco curioso. Come accade con certe parole ebraiche, che oltre
al loro significato hanno un elemento caratterizzante che ne completa il
senso. I due motti domenicani indicavano, dunque, che il nostro uomo
era un predicatore. Ne ero quasi sicuro. Ma le frasi precedenti?
Conta i suoi occhi, ma non guardare la faccia.
Sul fianco troverai la cifra del mio nome.
Occhi, viso, cifra, nome, fianco…
Nella penombra, con la mente esausta, iniziai a capire…
Forse si trattava di un altro vicolo cieco, ma di colpo quell'accenno alla
cifra del nome non mi sembrò più tanto assurdo.
Rammentai che gli ebrei chiamavano gematrìa la disciplina che assegna
a ogni lettera del loro alfabeto un valore numerico.
Nella sua Apocalisse Giovanni la utilizzò con grande maestria quando
scrisse "Chi ha intelligenza, calcoli il numero della bestia, perché è un
numero d'uomo; e il suo numero è 666". E quel 666 corrispondeva, in
effetti, al più crudele degli uomini del suo tempo: Cesare Nerone, le
lettere del cui nome, sommate, davano la terribile triplice cifra. E se
l'Augure fosse stato un ebreo convertito? Se, temendo qualche
rappresaglia, avesse occultato la propria identità proprio per questo
particolare della sua vita? Quanti monaci di Santa Maria sapevano che
san Giovanni fu iniziato alla gematrìa e che nel suo libro poté fare il
nome di Nerone senza mettere a repentaglio la propria vita?
L'Augure aveva forse fatto lo stesso?
Prima di addormentarmi, febbrile, trasposi quell'idea all'alfabeto latino.
Considerando che la A (Yaleph ebraico) equivale a 1, la B (beth) a 2, e
così via, non era difficile trasformare in cifra qualsiasi parola. Bastava
sommare tra loro i numeri ottenuti, perché il risultato indicasse il valore
numerico definitivo del termine esaminato. La cifra. Gli ebrei, per
esempio, avevano calcolato che il nome completo e segreto di Yahweh
era 72 e i cabalisti, i maghi dei numeri ebraici, avevano complicato
ulteriormente le cose cercando i settantadue nomi di Dio. A Betania
scherzavamo spesso su questo.
Nel nostro caso, purtroppo, la faccenda era più oscura, dal momento
che ignoravamo anche il valore numerico del nome dell'autore…
sempre che ne avesse uno. A meno che, seguendo alla lettera le
istruzioni dei suoi versi, lo potessimo trovare sul fianco di qualcuno che
aveva occhi, ma non poteva essere guardato in faccia.
E di fronte a questo enigma degno di una sfinge, mi lasciai cullare dal
sonno.
11
Poco prima delle laudi frate Alessandro, puntuale, si presentò alla mia
cella. Sorridente e felice come un novizio appena entrato in convento.
Doveva pensare che non capitava tutti i giorni che un dottore venuto da
Roma condividesse con lui un enigma importante, ed era deciso ad
assaporare il suo giorno di gloria. Tuttavia mi diede l'impressione che
desiderasse farlo a poco a poco, quasi temendo che la "rivelazione"
sarebbe finita di colpo e lo avrebbe lasciato insoddisfatto. Perciò, non
so se per cortesia o per prolungare il piacere che provava a tenermi
nelle sue mani, il fraticello decise che il mattino sarebbe stato un buon
momento per la confessione: beninteso, dopo avermi presentato al resto
della sua comunità.
L'orologio della cupola del Bramante batté le cinque proprio mentre il
bibliotecario, trascinandomi nelle tenebre, mi conduceva verso la
chiesa. Il tempio, situato all'estremità opposta rispetto alle celle, molto
vicino alla biblioteca e al refettorio, era costituito da una navata
rettangolare di modeste dimensioni, con una volta a botte sostenuta da
colonne di granito strappate a qualche mausoleo romano, ed era
ricoperto dal pavimento al soffitto di affreschi a motivi geometrici,
ruote raggiate e soli. L'insieme risultava un po' troppo carico per i miei
gusti.
Arrivammo in ritardo. Stipati contro l'altare maggiore, i fratelli di Santa
Maria stavano già recitando il Te Deum alla tenue luce di due enormi
candelabri. Faceva freddo e il vapore che emettevano i frati sfumava i
loro visi come una nebbia spessa e misteriosa. Alessandro e io ci
appoggiammo a uno dei pilastri del tempio e li osservammo da una
comoda distanza.
"Quello all'angolo" mormorò il bibliotecario, indicando un frate smilzo,
con occhi a mandorla e capelli bianchi e crespi "è il priore Vincenzo
Bandelle. Proprio lì, dove state guardando. E' un dotto tra i dotti, da
anni combatte contro i francescani e la loro idea dell'immacolata
concezione della Vergine…
Anche se, in verità, molti credono che avrà la peggio."
"Ha studiato teologia?"
"Certo" assentì con convinzione. "Alla sua destra, il ragazzo moro e dal
collo lungo è suo nipote Matteo. "
"Sì, lo vedo."
"Tutti pensano che un giorno sarà uno scrittore di fama.
Un po' più in là, vicino alla porta della sacrestia, ci sono i fratelli
Andrea, Giuseppe, Luca e Jacopo. Non sono solo fratelli in senso
metaforico, sono anche figli della stessa madre." Guardai quei volti a
uno a uno, cercando di memorizzare i loro nomi.
"Avete detto che solo alcuni leggono e scrivono in modo fluente, vero?"
domandai.
Frate Alessandro non poteva capire l'intenzione che nascondeva la mia
domanda. Se fosse stato in grado di rispondere con precisione, mi
avrebbe permesso di scartare in un colpo solo un buon numero di
sospetti. Il profilo dell'Augure corrispondeva a quello di un uomo colto,
istruito in molteplici discipline e ben addentro alla corte del duca. A
quel punto ritenevo elevate le probabilità che i miei sforzi per decifrare
il codice fallissero; allora non mi sarebbe rimasta altra strada che
trovare il suo autore per via di deduzione. O con un colpo di fortuna.
Il bibliotecario fece vagare il suo sguardo sui convenuti, cercando di
ricordarne l'abilità con l'alfabeto.
"Vediamo… Fra' Guglielmo, il cuoco, legge e recita poesie.
Benedetto, il guercio, ha lavorato molti anni come copista: il buon
monaco perse il suo occhio cercando di sfuggire a un assalto al suo
precedente convento di Castelnuovo, mentre portava in salvo la copia di
un libro d'ore. Da allora è sempre di cattivo umore. Ha da ridire su tutto
e nulla di quanto facciamo sembra andargli a genio."
"E il ragazzo?"
"Matteo, ve l'ho già detto, scrive come gli angeli. Ha solo dodici anni,
ma è un giovane sveglio e molto inquieto… Lasciatemi vedere" il
bibliotecario esitò di nuovo "Adriano, Stefano, Nicola e Giorgio hanno
imparato a leggere con me. Come pure Andrea e Giuseppe." In pochi
secondi il numero di possibili candidati era cresciuto oltre ogni
previsione. Dovevo tentare un'altra strategia.
"E, ditemi, chi è quel frate bello, quello alto e prestante sulla sinistra?"
domandai curioso.
"Ah! Quello è Mauro Sforza, il becchino. Si nasconde sempre dietro
qualche fratello, come se temesse di essere riconosciuto."
"Sforza?"
"Be'… E' un lontano cugino del Moro. Tempo fa il duca ci chiese il
favore di ammetterlo nel convento e di trattarlo come uno di noi. Non
parla mai. Quell'espressione di paura che certo state notando lo
accompagna sempre: le malelingue dicono che è per quanto capitò allo
zio materno Gian Galeazze."
"Gian Galeazze? Volete dire Gian Galeazze Sforza?"
"Sì, sì. Il legittimo duca di Milano, morto tre anni fa. Quello che il
Moro avvelenò per impossessarsi del trono. Il povero frate Mauro,
prima che lo mandassero qui, assisteva Gian Galeazze e di sicuro fu lui
a somministrargli l'intruglio di latte caldo, vino, birra e arsenico che gli
bruciò lo stomaco e lo fece morire dopo tre giorni di agonia."
"Fu lui a ucciderlo?” "Diciamo che lo usarono per commettere il
crimine. Ma questo" disse tra i denti, soddisfatto di essere riuscito a
sorprendermi "è un segreto di confessione, voi mi capite." Osservai
Mauro Sforza di nascosto, compatendo il suo triste destino. Essere
costretto ad abbandonare la vita di corte per un'altra in cui disponeva
solo di un abito di lana grezza, un cambio e due paia di sandali, doveva
essere stato un boccone amaro da digerire per il ragazzo.
"E scrive?" Alessandro non rispose. Mi spinse fino al capannello di frati
non solo per unirci alle preghiere, ma anche per beneficiare del calore
emanato dal gruppo. L'abate chinò il capo a mo' di saluto non appena
mi vide e proseguì con le sue orazioni. Queste continuarono finché il
primo raggio di sole attraversò il rosone di mattoni e vetro sopra
l'ingresso principale. Non posso dire che il mio arrivo avesse causato
scompiglio nella comunità perché, a parte il priore dal profilo aquilino e
dall'aspetto vigile, dubito che qualche altro frate si fosse accorto di me.
Notai però che padre Randello trafisse con lo sguardo la mia attenta
guida che, a disagio, si scostò un poco.
Anzi, non appena il priore ebbe impartito dall'altare la sua benedizione
a tutti i presenti, frate Alessandro insistette perché ci staccassimo dal
gruppo e lo seguissi fino al chiostro dell'ospedale.
A quell'ora i pochi malati che vi pernottavano dormivano ancora, il che
conferiva al patio di cotto rosso un aspetto lugubre.
"Ieri mi avete detto di conoscere bene il maestro Leonardo…" buttai lì.
Ero sicuro che la tregua che mi aveva concesso, prima di iniziare ad
assillarmi con le sue domande, stava per scadere.
"E chi non lo conosce, qui! Quell'uomo è un prodigio. Un prodigio
bizzarro, una creatura di Dio unica."
"Bizzarro?"
"Diciamo che ha abitudini eccentriche. Non si sa mai se viene o va, se
ha intenzione di dipingere nel refettorio o desidera solo meditare
davanti alla sua opera, individuando nuovi difetti nell'intonaco o errori
nei lineamenti dei suoi personaggi. Trascorre le giornate con i suoi
taccuini in mano, prende nota di tutto."
"Un uomo meticoloso…"
"No, no. E' disordinato e imprevedibile, ma ha una curiosità insaziabile.
Mentre lavora nel refettorio, progetta nella sua mente anche ogni tipo di
follie per migliorare la vita del convento: pale automatiche per
dissodare l'orto, condutture idriche per portare l'acqua alle celle,
colombaie che si puliscano da sole…"
"Quella che sta dipingendo è un'Ultima cena, vero?" lo interruppi.
Il bibliotecario avanzò fino al magnifico pozzo di granito che ornava il
centro del chiostro dell'ospedale e mi guardò come se fossi una bestia
rara.
"Ancora non l'avete vista, vero?" sorrise, come se sapesse già la
risposta. Quasi compatendomi. "Ciò che il maestro Leonardo sta
terminando nel refettorio non è un'Ultima cena qualsiasi, padre
Agostino, è l'Ultima cena. Lo capirete quando l'avrete davanti ai vostri
occhi."
"Quindi è un essere strano, ma virtuoso."
"Vedete" mi corresse "quando messer Leonardo venne in questo
convento, tre anni fa, e cominciò a lavorare al Cenacolo, il priore
diffidava di lui. Anzi, in qualità di responsabile degli archivi di Santa
Maria e del nostro futuro scrìptorium, mi incaricò di scrivere a Firenze
per verificare se il toscano fosse un artista di fiducia, che rispettava le
consegne e si dimostrava diligente nel suo lavoro, oppure uno di quegli
avventurieri che lasciano tutto a metà e con i quali bisogna ricorrere ai
giudici perché concludano la loro opera."
"Eppure, se non vado errato, è stato raccomandato dal duca in persona."
"Questo è vero. Anche se per il nostro abate non era una garanzia
sufficiente."
"D'accordo, continuate. Che cosa avete scoperto? E' preciso o caotico?"
"Entrambe le cose!" Finsi di non capire. "Entrambe le cose?"
"Non vi ho forse detto che è bizzarro? Come pittore è senza dubbio il
più straordinario che si sia mai visto, ma al contempo è anche il più
ribelle. Gli costa una fatica indicibile terminare per tempo un'opera; in
realtà non l'ha mai fatto. E, quel che è peggio, non tiene in
considerazione le richieste dei suoi committenti. Dipinge sempre quello
che gli va."
"Non può essere."
"Invece sì, padre. Quindici anni fa i fratelli del monastero di San
Donato a Scopeto, nei pressi di Firenze, gli commissionarono un
quadro sulla Natività di Nostro Signore… che deve ancora terminare! E
non è tutto: Leonardo modificò quella scena fino al limite del
tollerabile. Anziché dipingere i pastori in adorazione del Bambino
Gesù, il maestro iniziò una tavola che chiamò Adorazione dei Magi8 e
la riempì di personaggi ambigui, cavalli e uomini che fanno strani gesti
verso il cielo e che non compaiono nei Vangeli." Trattenni un brivido.
"Siete sicuro?"
"Io non mento mai" saltò su. "Ma dovete sapere che questo ancora non
è niente." Niente? Se ciò che frate Alessandro insinuava era vero,
l'Augure era stato persino moderato nei suoi timori: quel diavolo di un
da Vinci era approdato a Milano, lasciando dietro di s‚ gravi
antecedenti di manipolazione di opere d'arte. Alcune delle frasi
lapidarie che avevo letto nelle missive anonime iniziavano a
rimbombare nella mia mente, come tuoni che minacciano tempesta. Lo
lasciai continuare.
"Quella non era un'Adorazione qualsiasi. Non c'era nemmeno la stella
di Betlemme! Non vi sembra strano?"
"E a voi a cosa fa pensare?"
"A me?" Le guance marmoree di frate Alessandro acquistarono un
leggero colorito pesca. Lo faceva arrossire il fatto che un uomo istruito
venuto da Roma gli domandasse, con un interesse niente affatto
dissimulato, la sua sincera opinione riguardo a qualcosa. "La verità è
che non so che cosa pensare.
Leonardo, già ve l'ho detto, è una creatura fuori dal comune.
Non mi sorprende che l'Inquisizione l'abbia preso di mira…"
"L'Inquisizione?" Un'altra fitta mi attraversò lo stomaco. Nel poco
tempo che ci conoscevamo frate Alessandro aveva sviluppato un'innata
abilità a impressionarmi. Oppure ero diventato più suscettibile? Il
riferimento al Sant'Uffizio mi fece sentire colpevole. Come mai non ci
avevo pensato prima? Perché non mi era venuto in mente di consultare
gli archivi generali della Santa Congregazione, prima di recarmi a
Milano?
"Lasciate che vi racconti" disse entusiasta, come se lo affascinasse
ricercare nella sua memoria questo genere di cose.
"Dopo aver lasciato inconclusa la sua Adorazione dei Magi, Leonardo
si trasferì a Milano e gli venne commissionato un incarico dalla
confraternita dell'Immacolata Concezione, lo sapete, i francescani che
amministrano la chiesa di San Francesco Grande e con i quali è in
perenne lite il nostro priore. Ma il toscano tornò ad avere gli stessi
problemi che a Firenze."
"Di nuovo?"
"Proprio così. Messer Leonardo doveva elaborare un trittico per la
cappella della confraternita insieme ai fratelli Ambrogio ed Evangelista
De Predis. I tre insieme riscossero duecento scudi in anticipo, come
acconto per il lavoro, e ciascuno si dedicò a una parte del trittico. Il
toscano si occupò della pala centrale. Il suo incarico era di dipingere
una Vergine circondata da profeti, mentre le pale laterali avrebbero
mostrato un coro di angeli musici."
"Non dite altro: non terminò mai il suo lavoro…"
"Vi sbagliate. Questa volta messer Leonardo portò a termine la sua
parte, ma non consegnò quello che gli era stato chiesto. Sulla sua pala
non comparivano profeti da nessuna parte.
Presentò invece un ritratto di Nostra Signora dentro una grotta, insieme
a Gesù e a san Giovanni. L'impudente assicurò i frati che la sua tavola
raffigurava l'incontro tra i due bambini, avvenuto mentre Gesù e la sua
famiglia fuggivano verso l'Egitto. Ma nemmeno questo è attestato da
nessun Vangelo!"
"E quindi lo denunciarono al Sant'Uffizio."
"Sì, ma non per quello che credete. Il Moro intervenne affinché il
processo non fosse istruito e lo sollevassero da una sentenza definitiva."
Esitai se continuare con le domande. In fondo era lui che desiderava lo
mettessi al corrente dei miei enigmi. Ma non potevo negare che le sue
spiegazioni mi intrigavano.
"Dunque quale fu la denuncia che alla fine presentarono
all'Inquisizione?"
"Dissero che Leonardo per dipingere la sua opera si era ispirato
all'Apocalypsis nova9. "
"Non ho mai sentito parlare di un libro simile."
"Si tratta di un testo eretico scritto da un suo vecchio amico, un
francescano minorità di nome Joào Mendes da Silva, conosciuto anche
come Amedeo di Portogallo, che morì a Milano lo stesso anno in cui
Leonardo terminò la sua tavola.
Questo Amedeo pubblicò un libello in cui insinuava che la Vergine e
san Giovanni, e non Cristo, fossero i veri protagonisti del Nuovo
Testamento." Apocalypsis nova. Memorizzai quel titolo per
aggiungerlo all'eventuale procedimento sommario che avrei potuto
aprire contro Leonardo per eresia.
"E come si resero conto i frati di questa relazione tra Apocalypsis nova
e il dipinto di Leonardo?" Il bibliotecario sorrise.
"Era molto evidente. Il quadro rappresentava la Vergine con Gesù
bambino e l'angelo Uriel, a fianco di Giovanni Battista.
In una raffigurazione canonica Gesù avrebbe dovuto apparire nell'atto
di benedire suo cugino Giovanni, ma nel quadro di Leonardo succedeva
esattamente il contrario! Inoltre la Vergine, invece di abbracciare il suo
primogenito, tendeva le braccia protettrici verso il Battista. Ora capite?
Il maestro aveva ritratto un san Giovanni non solo legittimato da Nostra
Signora, ma che addirittura impartiva la propria benedizione su Cristo,
dimostrando così la sua superiorità sul Messia." Mi congratulai
entusiasta con frate Alessandro.
"Siete un osservatore molto acuto" dissi. "Avete illuminato molto la
mente di questo servo di Dio. Sono in debito con voi, fratello."
"Se voi domandate, io vi rispondo. E' un voto che rispetto sempre."
"Come il digiuno?"
"Sì. Come il digiuno."
"Vi ammiro, fratello. Davvero. " Il bibliotecario si gonfiò come un
pavone e mentre la luce del sole scacciava le ombre dal chiostro,
svelando i rilievi e gli ornamenti che esso celava, osò finalmente
interrompere l'attesa, suppongo provocatoria, che si era imposto.
"Lascerete dunque che vi aiuti con i vostri enigmi?"
12
Lì per lì non seppi cosa rispondere.
Oltre a frate Alessandro, l'altro confratello con il quale parlavo di
frequente era il nipote del priore, Matteo. Era ancora un bambino, ma
più sveglio e curioso dei suoi coetanei. Forse per questo il giovane
Matteo non aveva potuto resistere alla tentazione di avvicinarmi e
domandarmi della mia vita a Roma. La grande Roma.
Non so come immaginava che fossero i palazzi pontifici e le
interminabili vie costellate di chiese e conventi, ma in cambio delle mie
generose descrizioni mi regalò alcune confidenze che mi fecero
diffidare delle buone intenzioni del bibliotecario.
Tra le risate mi raccontò quale fosse l'unica cosa in grado di far uscire
dai gangheri suo zio, il priore.
"E cioè?" domandai incuriosito.
"Imbattersi in frate Alessandro e Leonardo che, con le maniche
rimboccate, mondano la lattuga nella cucina di fra' Guglielmo."
"Leonardo scende nelle cucine?" La sorpresa mi lasciò perplesso.
"Come no? Se non fa altro! Quando mio zio desidera incontrarlo, sa già
che quello è il suo nascondiglio preferito.
Può anche non prendere in mano un pennello per giorni, ma non resiste
senza farci visita e trascorrere ore ai fornelli. Sapevate che Leonardo a
Firenze ha lavorato in una taverna come cuoco?"
"No."
"Me l'ha raccontato lui. Si chiamava L'osteria delle tre ranocchie di
Sandro e Leonardo. "
"Davvero?"
"Sicuro! Mi ha spiegato di averla aperta con un suo amico, anche lui
pittore. Sandro Botticelli."
"E cosa accadde?"
"Niente! Alla clientela non piacevano i suoi stufati di verdura, le
acciughe avvolte nel cavolo o una specialità a base di cetrioli e foglie di
lattuga, tagliate a forma di rana."
"Qui fa lo stesso?"
"Be'" sorrise Matteo "mio zio non glielo permette. Da quando è arrivato
al convento, ciò che più gli piace è sperimentare con la nostra dispensa.
Dice che sta cercando le pietanze giuste per l'Ultima cena. Che il cibo
che deve stare su quella tavola è importante quanto le figure degli
apostoli… Così quello sfacciato da settimane porta i suoi discepoli e
amici a mangiare a un grande tavolo che ha fatto mettere nel refettorio,
e intanto svuota i magazzini del convento."10 "E frate Alessandro lo
aiuta?"
"Frate Alessandro? Lui è tra quelli che si siedono a mangiare! Leonardo
dice che approfitta di quel momento per studiare i loro profili e come
raffigurare ciò che mangiano, ma nessuno gli ha visto far altro che
divorare le nostre provviste!"
Matteo rise divertito.
"La verità" aggiunse "è che mio zio ha scritto varie volte al duca,
protestando per questi abusi del toscano, ma il Moro non gli ha dato
retta. Se continua così, Leonardo finirà per lasciarci senza cibo."
13
I venerdì 13 non furono mai graditi ai milanesi, più permeabili alle
superstizioni francesi di altri latini. Le date che abbinavano il quinto
giorno della settimana con il fatidico posto occupato da Giuda alla
tavola dell'Ultima cena rievocavano ricorrenze traumatiche. Senza
andare troppo lontano, fu un venerdì 13 dell'ottobre del 1307, quando i
templari vennero arrestati in Francia per ordine di Filippo IV il Bello.
Allora furono accusati di negare l'esistenza di Cristo, di sputare sul suo
crocefisso, di scambiarsi baci osceni in luoghi pubblici e di adorare uno
stravagante idolo che chiamavano Bafomet. La disgrazia in cui cadde
l'ordine dei cavalieri dal mantello bianco fu tale, che da allora tutti i
venerdì13 furono ritenuti giorni di cattivo auspicio.
Il tredicesimo giorno di gennaio del 1497 non avrebbe fatto eccezione.
A mezzogiorno una piccola folla si accalcava alle porte del convento di
Santa Marta. In molti avevano chiuso anzitempo le loro botteghe di
sete, profumi o lane nei pressi del Verziere, dietro il Duomo, allo scopo
di non perdersi il rintocco funebre. Sembravano impazienti. L'annuncio
che li aveva attirati fin lì era di singolare precisione: prima del
tramonto, la serva di Dio Veronica da Binasco avrebbe reso la propria
anima al Signore. Lo aveva profetizzato lei stessa con la medesima
sicurezza che aveva esibito nel predire tante altre disgrazie. Ricevuta da
principi e papi, considerata da molti una santa già da viva, la sua ultima
impresa era stata di guadagnarsi l'allontanamento dal palazzo del Moro
solo due mesi prima. Le malelingue dicevano che aveva chiesto di
essere ricevuta da donna Beatrice d'Este per annunciarle il suo fatale
destino e che costei, fuori di s‚, aveva ordinato di rinchiuderla nel suo
convento per non vederla mai più.
Marco d'Oggiono, il discepolo prediletto del maestro Leonardo, la
conosceva bene. Aveva visto spesso il toscano discorrere con lei. A
Leonardo piaceva discutere con la religiosa le sue singolari visioni della
Vergine. Non si limitava ad annotare ciò che gli diceva; ma spesso il
discepolo lo aveva sorpreso ad abbozzare particolari del suo volto
angelico, dei suoi gesti dolci e del suo portamento dolente, che poi
cercava di riportare sulle proprie tavole. Disgraziatamente, se suor
Veronica non si sbagliava, tali confidenze sarebbero terminate quel
venerdì. Senza nemmeno pranzare, Marco trascinò il toscano fino al
letto di morte della religiosa, consapevole che non rimaneva loro molto
tempo.
"Vi ringrazio di esservi deciso a venire. Alla sorella Veronica farà
piacere potervi vedere per l'ultima volta" sussurrò il discepolo al
maestro.
Leonardo, impressionato dall'odore di incenso e olii di quella piccola
cella, contemplò ammirato il viso marmoreo della beata. La povera
donna riusciva a malapena ad aprire gli occhi.
"Non credo di poter fare niente per lei" disse.
"Lo so, maestro. E' stata suor Veronica a insistere per vedervi."
"Lei?" Leonardo chinò la testa, avvicinandola alle labbra della
moribonda. Era da un po' che si muovevano tremando, come se
mormorassero una litania impercettibile. Il parroco di Santa Marta, che
aveva già somministrato a suor Veronica l'olio santo e recitava il
rosario insieme a lei, lasciò che il visitatore si avvicinasse ancora un
po'.
"Dipingete ancora gemelli nelle vostre opere?" Il maestro rimase
sorpreso. La suora lo aveva riconosciuto, senza disturbarsi nemmeno ad
aprire gli occhi.
"Dipingo quello che so, sorella."
"Ah, Leonardo!" bisbigliò. "Non crediate che non mi sia resa conto di
chi siete. Lo so perfettamente. Anche se a questo punto della mia vita
non vale più la pena di litigare con voi." Suor Veronica parlava molto
piano, con un tono quasi impercettibile che il toscano faticava a
comprendere.
"Ho visto la vostra pala della chiesa di San Francesco, la vostra
Madonna."
"E vi è piaciuta?"
"La Vergine, sì. Siete un artista con un grande dono. Ma i gemelli, no…
Ditemi, li avete corretti?"
"L'ho fatto, sorella. Proprio come mi hanno chiesto i fratelli
francescani."
"Avete fama di essere testardo, Leonardo. Oggi m'hanno detto che
avete dipinto di nuovo gemelli nel refettorio dei domenicani. E' vero?"
Leonardo si rialzò, sbalordito.
"Sorella, avete visto il Cenacolo?"
"No, ma del vostro lavoro si parla molto. Dovreste saperlo."
"Ve l'ho già detto prima, suor Veronica: dipingo solo ciò di cui sono
sicuro."
"Allora perché insistete nell'inserire gemelli nelle vostre opere sacre?"
"Perché ne sono esistiti. Andrea e Simone erano fratelli, lo dicono
sant'Agostino e altri grandi teologi. L'apostolo Giacomo veniva confuso
spesso con Gesù, a causa della loro enorme somiglianza. E non è affatto
una mia invenzione, sta tutto scritto." La suora smise di sussurrare.
"Ah, Leonardo!" gridò. "Non commettete lo stesso errore che avete
compiuto a San Francesco. La missione di un pittore non è quella di
confondere il fedele, ma di mostrargli con chiarezza i personaggi che
gli sono stati commissionati."
"Errore?" senza volerlo Leonardo alzò la voce. Marco, il parroco e le
due consorelle che assistevano la moribonda si voltarono verso di lui.
"Quale errore?"
"Andiamo, maestro!" gemette la suora. "Non vi accusarono forse di
aver scambiato Gesù con san Giovanni nella vostra tavola? Non li
ritraeste forse come fossero due gocce d'acqua?
Non avevano gli stessi ricci, le stesse guance paffute e quasi l'identica
espressione? La vostra opera non induceva forse a una perversa
confusione tra Giovanni e Cristo?"
"Questa volta non succederà, sorella. Non nel Cenacolo."
"Però mi dicono che avete dipinto Giacomo con lo stesso volto di
Gesù!" Tutti udirono il rimprovero di suor Veronica. Marco, che ancora
sognava di dimostrare al maestro la propria abilità nel decifrare i segreti
della sua opera, drizzò le orecchie.
"Non è possibile alcuna confusione" replicò Leonardo. "Gesù è il fulcro
della mia nuova opera. E' un'enorme A al centro del dipinto. Un'alfa
gigante. L'origine di tutta la mia composizione." D'Oggiono si
accarezzò il mento, meditabondo. Come aveva fatto a non rendersene
conto prima? Se rivedeva mentalmente l'Ultima cena, in effetti Gesù
sembrava un'enorme A maiuscola.
"Una A?" suor Veronica abbassò la voce. Era sorpresa. "E si può sapere
che cosa avete scritto questa volta nella vostra opera, Leonardo?"
"Niente che i veri fedeli non possano leggere."
"La maggioranza dei buoni cristiani non sa leggere, maestro."
"Perciò dipingo per loro."
"E questo vi da il diritto di includervi tra i Dodici?"
"Sorella, incarno il più umile dei discepoli. Rappresento Giuda Taddeo,
quasi in fondo alla tavola, come la omega che sta in coda all'alfa."
"Omega? Voi…? Fate attenzione, messere. Siete molto presuntuoso e
l'orgoglio potrebbe perdere la vostra anima. "
"E' una profezia?" domandò ironico.
"Non burlatevi di questa vecchia e ascoltate con attenzione quanto sto
per predirvi. Dio mi ha concesso una visione chiara di quello che sta
per succedere. Dovete sapere, Leonardo, che oggi non sarò l'unica a
rendere l'anima al Padre Eterno" disse.
"Alcuni di quelli che chiamate "veri fedeli" mi accompagneranno alla
Sala del Giudizio. Ma temo davvero che non otterranno la misericordia
dell'Altissimo." Marco d'Oggiono, impressionato, vide suor Veronica
ansimare per lo sforzo.
"A voi, invece, resta ancora vita a sufficienza per pentirvi e salvare la
vostra anima."

14
Non ringrazierò mai abbastanza frate Alessandro per il grande aiuto che
mi diede nei giorni successivi alla nostra passeggiata nel chiostro.
Esclusi lui e il giovane Matteo, che a volte veniva nella biblioteca per
curiosare nel lavoro del frate scontroso venuto dalla città pontificia, non
scambiavo parola quasi con nessuno. Gli altri monaci li vedevo solo
all'ora dei pasti nell'improvvisato refettorio che avevano allestito
accanto al chiostro grande, o magari in chiesa nei momenti di preghiera.
Ma in entrambi i luoghi vigeva la regola del silenzio e non era facile
intavolare una conversazione con nessuno di loro.
In biblioteca, al contrario, tutto mutava. Frate Alessandro perdeva la
rigidità che mostrava con i suoi confratelli e scioglieva la lingua, così
frenata in altri momenti della vita monastica. Il bibliotecario era di
Riccio, nei pressi del lago Trasimeno, più vicino a Roma che a Milano,
il che in certo qual modo giustificava il suo isolamento dal resto dei
frati e faceva sì che mi considerasse un compaesano bisognoso di
protezione. Anche se non lo vidi mai assaggiare un boccone, ogni
giorno mi portava acqua, certe paste sottili di frumento a forma di
ciottoli levigati (una specialità di fra' Guglielmo che rubava di nascosto
per me) e mi riforniva addirittura di olio nuovo per la lampada ogni
volta che questa minacciava di spegnersi. E tutto ciò - come compresi
più tardi - allo scopo di non allontanarsi da me, in attesa che il suo
inaspettato ospite avesse bisogno di scaricare con qualcuno le proprie
tensioni e gli rivelasse nuovi particolari del suo "segreto". Credo che,
man mano che il tempo passava, Alessandro se lo figurasse sempre più
grande. Io lo rimproveravo che l'immaginazione non è un buon alleato
per chi intenda decifrare misteri, ma lui si limitava a sorridere, sicuro
che le sue capacità un giorno gli sarebbero tornate utili.
Ciò di cui non mi potei mai lamentare era la sua straordinaria umanità.
Ben presto frate Alessandro diventò un buon amico. Era vicino ogni
volta che ne avevo bisogno. Mi consolava, quando gettavo la penna per
terra esasperato di fronte alla mancanza di risultati, e mi incoraggiava a
insistere con quel diabolico enigma. Ma Oculos ejus dinumera
opponeva una strenua resistenza. Anche attribuendo valori numerici
alle sue lettere non ottenevo altro che confusione. Al terzo giorno di
delusioni e veglie, frate Alessandro ormai aveva visto i versi, li sapeva
a memoria e giocherellava con essi impaziente, cercando con il volto
accigliato un modo per sciogliere il loro codice. Ogni volta che
qualcosa gli appariva chiaro in quell'intrico, il suo volto si illuminava
per la soddisfazione. Era come se, di colpo, i suoi lineamenti affilati
riuscissero ad addolcirsi, trasformando il suo viso duro in quello di un
bambino entusiasta. In uno di quei momenti di festa venni a sapere, per
esempio, che gli indovinelli a base di cifre e lettere erano i suoi
preferiti. Da quando aveva letto Raimondo Lullo, l'autore dell'ylrs
magna dei codici segreti, viveva per essi. Quel "gufo"11 era davvero
una fonte inesauribile di sorprese. Sembrava che conoscesse tutto: ogni
opera importante dell'arte della crittografia, ogni trattato cabalistico,
ogni saggio biblico. Eppure tanta preparazione teorica non ci era di
grande aiuto… "Dunque…" mormorò Alessandro uno di quei
pomeriggi in cui la comunità ferveva d'attività per la preparazione dei
funerali di donna Beatrice. "Pensate davvero che dobbiamo contare gli
occhi di qualche immagine del convento per risolvere il vostro
problema? Credete che sia così facile?" Gli presi le mani con affetto
mentre mi stringevo nelle spalle. Cosa potevo rispondere? Che quella
ormai era l'unica cosa che ci restava da provare? Il bibliotecario mi
osservava con i suoi occhi da civetta, mentre si accarezzava il mento
affilato.
Ma, come me, non aveva fiducia in questa opzione. Avevamo i nostri
buoni motivi. Se la cifra del nome andava cercata nel numero di occhi
di un'immagine - non importava che fosse la Vergine, san Domenico o
sant'Anna -, il risultato ci avrebbe portati in una strada senza uscita.
Infatti non era possibile trovare un nome proprio di una o due lettere
soltanto, che sarebbe stato il risultato evidente ottenuto dal numero di
occhi di una qualunque delle statue di Santa Maria. Inoltre nessuno dei
frati della comunità rispondeva a un nome o a un soprannome così
breve. Nessun Io, Eo, Au o simili alloggiava lì. E nemmeno un nome
come Job, di sole tre lettere, sarebbe servito a qualcosa: a Santa Maria
non ce n'erano, come non c'era nessun Noè, nessun Lot. Ma anche se ci
fossero stati, su quale faccia avremmo trovato tre occhi per attribuire a
qualcuno di loro la paternità delle lettere anonime?
All'improvviso mi resi conto di una cosa. E se l'indovinello non si fosse
riferito agli occhi di un essere umano? Se si fosse trattato di un drago,
un'idra dalle sette teste e dai quattordici occhi o qualsiasi altro genere di
mostro, dipinto sul "fianco" di qualche sala?
"Ma a Santa Maria non ci sono mostri simili, da nessuna parte" protestò
frate Alessandro.
"In questo caso forse ci siamo sbagliati. Magari la figura di cui
dobbiamo contare gli occhi non si trova in questo convento, ma in un
altro edificio. Una torre, un palazzo, una chiesa vicina…"
"Proprio così, padre Agostino! Ci siamo!" Gli occhi del bibliotecario
lampeggiarono per l'emozione. "Non avete capito?
Il testo non sta parlando di una persona o di un animale, ma di un
edificio!"
"Un edificio?"
"Certo! Mio Dio, che goffaggine! E' chiaro come l'acqua! Gli oculos,
oltre agli occhi, sono anche le finestre. Finestre tonde.
E la chiesa di Santa Maria ne è piena!" Il bibliotecario scarabocchiò
qualcosa su un pezzo di carta.
Era una traduzione alternativa, sommaria, che mi porse nervoso nella
speranza che la approvassi. Se aveva ragione, per tutto quel tempo la
soluzione era stata sotto il nostro naso. Secondo il gufo il nostro "conta
i suoi occhi, ma non guardarlo in faccia" poteva anche essere inteso
come "conta le sue finestre, ma non guardare la sua facciata".
Bisognava riconoscerlo: benché forzato, il testo aveva un senso
inequivocabile.
Il lato esterno della chiesa di Santa Maria era, in effetti, piena di oculi,
finestrelle rotonde disegnate da un certo Guiniforte Solari in conformità
al più puro gusto lombardo promosso dal Moro. Ce n'erano ovunque,
persino incastonate nel perimetro della nuovissima cupola bramantesca
sotto la quale pregavo da una settimana. Poteva essere tanto semplice?
Frate Alessandro non aveva alcun dubbio.
"Vedete, padre Agostino? E' la parete laterale!" tornò a insistere. "La
seconda frase lo conferma: In latere nominis mei notam rinvenies.
Bisogna cercare la cifra del suo nome sul "fianco"! Contare le finestre
dell'unica parete laterale che ne possiede, senza considerare quelle della
facciata principale! Lìsta la sua cifra!" Fu il momento più bello della
mia permanenza a Milano.
15
Nessuno se ne accorse.
Nessuno dei venditori, cambisti o frati che al tramonto transitavano nei
dintorni di San Francesco Grande notò l'individuo goffo e malvestito
che era piombato in tutta fretta nella chiesa dei francescani. Era vigilia
di festa e giorno di mercato: i milanesi avevano il loro da fare ad
approvvigionarsi di vivande e utensili vari, prima del periodo di lutto
ufficiale che si avvicinava. Per di più la notizia della morte di suor
Veronica da Binasco aveva fatto il giro della città in un lampo,
occupando buona parte delle loro conversazioni e scatenando un
appassionato dibattito sui reali poteri della visionaria.
In circostanze simili era logico che un vagabondo in più o in meno per
loro fosse del tutto indifferente.
Ma quegli stolti si sbagliavano per l'ennesima volta. Il mendicante
entrato in San Francesco non era uno qualsiasi. Aveva le ginocchia
livide per le ore di penitenza e la testa tonsurata con cura, in segno di
devozione. Era, in effetti, un timorato di Dio, un uomo dal cuore puro,
quello che oltrepassò l'architrave della porta principale della chiesa dei
francescani tremando, sicuro che uno di quei cittadini superstiziosi,
forse impressionato dai presagi di suor Veronica, prima o poi lo
avrebbe tradito.
Non faticava a immaginare quello che stava per scatenarsi: qualcuno, di
lìa poco, sarebbe corso a informare il sacrestano della presenza di un
altro mendicante nel tempio. Il sacrestano avrebbe riferito la notizia al
diacono che, senza indugi, avrebbe avvisato il boia. Erano settimane
che le cose andavano così e nessuno sembrava farci caso. I falsi
mendicanti che avevano raggiunto il tempio prima di lui erano
scomparsi senza lasciare traccia. Perciò era sicuro che non sarebbe
uscito vivo da lì.
E tuttavia era un prezzo che avrebbe pagato volentieri…
Senza fermarsi nemmeno per riprendere fiato, l'uomo dalle vesti logore
si lasciò alle spalle la doppia fila di panche che fiancheggiavano la
navata principale e affrettò il passo verso l'altare maggiore. Nella chiesa
non si vedeva un'anima. Meglio.
Ormai poteva quasi percepire la presenza del sacro. Non si era mai
sentito tanto prossimo a Dio. Doveva essere vicino. Come spiegare
altrimenti il fatto che a quell'ora la luce che filtrava dalle vetrate fosse
quella giusta per apprezzare tutti i particolari del "miracolo"? Il
pellegrino aveva aspettato tanto per arrivare a quella pala e rendere
omaggio all'opus magnum, che gli scendevano le lacrime
dall'emozione. E non senza motivo.
Alla fine gli era stato concesso di vedere una tavola di cui assai pochi a
Milano conoscevano il vero nome: la Maestà. 12 Era quella la meta
finale del suo cammino?
Il falso vagabondo intuiva che era così.
Si avvicinò con cautela. Aveva sentito descrivere l'opera tante volte,
che le voci di coloro che lo avevano istruito sui suoi dettagli occulti,
sulla sua vera chiave di lettura, si affollavano ora nella sua memoria
offuscandogli la ragione. La tavola entrava perfettamente nel vano
dell'altare previsto per essa ed era inequivocabile: due bambini molto
piccoli si fissavano. Una donna dal volto sereno proteggeva entrambi
con le sue braccia mentre un angelo solenne, Uriel, indicava l'eletto dal
Padre con un indice fermo e perentorio. "Quando contemplerai quel
gesto, avrai la conferma della verità che ti è stata rivelata" gli sembrava
ancora di sentire. "Lo sguardo dell'angelo ti sarà testimone." Il battito
del suo cuore accelerò. Nell'assoluta solitudine della chiesa, il
pellegrino allungò la mano con un certo timore, come se volesse unirsi
per sempre a quella scena divina. Era vero. Vero come la bontà della
sua fede. Quelli che si erano recati lì in segreto pellegrinaggio prima di
lui non avevano mentito. Nessuno aveva mentito. Quell'opera del
maestro Leonardo conteneva le chiavi per coronare la millenaria ricerca
della vera religione.
Il pellegrino gettò un'altra occhiata all'insigne dipinto a olio, quando
all'improvviso qualcosa catturò la sua attenzione. Che strano! Chi aveva
dipinto un'aureola sopra le teste dei tre personaggi evangelici? Non gli
avevano forse detto i suoi fratelli che quell'addobbo superfluo, frutto di
menti retrograde e avide di prodigi, era stato omesso deliberatamente
dal maestro pittore? E allora che ci facevano lì? Il falso mendicante si
allarmò. Le aureole non costituivano l'unica alterazione dell'opus
magnum: dov'era il dito di Uriel, che doveva indicare il vero Messia?
Perché la sua mano era adagiata in grembo, invece di segnalare
l'autentico Figlio di Dio? E per quale motivo non fissava più lo
spettatore?
Una vertiginosa sensazione di orrore crebbe fino a impossessarsi del
pellegrino. Qualcuno aveva manipolato la Maestà.
"Siete perplesso, non è vero?" Il vagabondo non mosse un muscolo,
impietrito nell'udire una voce cavernosa e secca alle sue spalle. Non
aveva sentito cigolare i cardini della porta della chiesa, cosicché
l'intruso doveva essere stato lì a osservarlo un bel po' di tempo.
"So già che siete come gli altri. Per qualche oscura ragione voi eretici
venite alla casa di Dio a frotte. Vi attrae la sua luce, ma siete incapaci di
riconoscerla."
"Eretici?" sussurrò paralizzato.
"Oh, andiamo! Credevate che non ce ne saremmo accorti?" La lingua
del pellegrino non riuscì più ad articolare nemmeno una parola.
"Almeno questa volta non avrete la consolazione di pregare davanti alla
vostra spregevole immagine." Il cuore gli batteva all'impazzata. Era
giunta la sua ora ed era sconcertato, furioso. Si sentiva ingannato, aveva
messo a repentaglio la propria vita per prostrarsi davanti a un falso. La
tavola che aveva davanti agli occhi non era l'opus magnum.
Non era la Maestà promessa.
"Non può essere…" mormorò. Lo sconosciuto rise.
"E' piuttosto facile da capire. Vi concederò la grazia della conoscenza
prima di spedirvi all'inferno. Leonardo dipinse la vostra Maestà nel
1483, sono ormai quattordici anni da allora.
Come potrete supporre, i francescani non ne furono molto contenti. Si
aspettavano un quadro che rafforzasse la loro fede nell'Immacolata
Concezione e che illuminasse questo altare.
Lui invece presentò loro una scena che non compare in alcun Vangelo e
che ritrae insieme san Giovanni e Cristo durante la fuga di quest'ultimo
in Egitto."
"La madre di Dio, Giovanni, Gesù e l'arcangelo Uriel. Lo stesso che
avvisò Noè del Diluvio. Che cosa ci vedete di male?"
"Siete tutti uguali" replicò la voce con tono amaro. "Leonardo ha
accettato di modificare la tavola e ha consegnato questa, che mostra
alcuni cambiamenti rispetto alla prima.
Ha eliminato i particolari insolenti."
"Insolenti?"
"Come definire altrimenti un'opera nella quale non si riesce a
distinguere san Giovanni da Gesù Cristo? Nella quale n‚ la Vergine n‚
suo figlio sono incoronati dall'aureola della santità che spetta loro di
diritto? Come si spiega che i due bambini santi siano identici? Che
genere di bestemmia è quella che cerca di confondere i credenti?" Una
sensazione di sollievo gli permise di respirare a fondo per la prima
volta. Il giustiziere - perché era sicuro che fosse lui - non aveva capito
niente. I fratelli che lo avevano preceduto e non erano più tornati,
dovevano essere morti per mano sua senza rivelargli il mistero di quel
culto discreto. E lui era disposto a mantenere il suo voto di silenzio,
anche a costo della propria vita.
"Non sarò io a chiarire i vostri dubbi" disse con tranquillità, senza osare
voltare il viso a quella voce.
"E' un peccato. Un vero peccato. Non vi rendete conto che Leonardo vi
ha tradito, dipingendo questa nuova versione della Maestà? Osservate
bene la tavola che avete di fronte: i due bambini ora sono chiaramente
distinguibili tra loro. Quello che sta vicino alla Vergine è il piccolo san
Giovanni. Ha con s‚ la sua croce allungata e prega, mentre riceve la
benedizione dall'altro bambino, Cristo. Uriel non indica più nessuno
con il dito, e finalmente risulta ben chiaro chi è il Messia tanto atteso."
Tradito?
Possibile che il maestro Leonardo avesse voltato le spalle ai suoi
fratelli?
Il pellegrino tornò ad allungare la mano verso il dipinto.
Era arrivato lì nascosto tra la folla che affluiva a Milano per assistere ai
funerali di donna Beatrice, la loro protettrice. Forse anche lei li aveva
venduti? Possibile che tutto quello per cui tanto avevano lottato si
sgretolasse proprio ora?
"In realtà non occorre che mi chiariate nulla" proseguì la voce con tono
di sfida. "Sappiamo già chi ispirò a Leonardo questa malvagità, e grazie
al Padre Eterno quel miserabile ormai da tempo giace sotto terra. Non
dubitate: Dio punirà frate Amedeo di Portogallo e la sua Apocalypsis
nova come deve. E, insieme a lui, il suo ideale della Vergine intesa non
come madre di Cristo, ma come simbolo della saggezza."
"Eppure è un bel simbolo" protestò il falso mendicante.
"Un ideale condiviso da molti. O pensate forse di condannare chiunque
dipinga la Vergine con il Bambino Gesù e con il piccolo Giovanni?"
"Se inducono alla confusione le anime dei credenti, sì."
"Pensate davvero che vi lasceranno arrivare fino al maestro Leonardo,
ai suoi discepoli o al pittore di Luino?"
"A Bernardino di Lupino? Quello che chiamano anche Lovinus o
Luini?"
"Lo conoscete?"
"Conosco le sue opere. E' un giovane imitatore di Leonardo che, a
quanto pare, commette i suoi stessi errori. Non dubitate: cadrà anche
lui."
"Cosa volete fare? Ucciderlo forse?" Il pellegrino capì che le cose si
mettevano male. Uno sfregamento metallico, come quello di una spada
quando viene sguainata, risuonò dietro di lui. I suoi voti gli impedivano
di portare armi, così elevò una supplica verso la falsa Maestà,
chiedendo il suo conforto.
"Ucciderete anche me?"
"L'Augure ucciderà tutti gli imprudenti."
"L'Augure…?" Non terminò di formulare quella domanda, quando una
strana convulsione agitò le sue viscere. La lama affilata di un'enorme
sciabola di ferro gli trapassò la schiena. Il pellegrino emise un terribile
rantolo. Una spanna di metallo gli divise a metà il cuore. Fu una
sensazione acuta, fugace come un lampo, che gli fece spalancare gli
occhi di puro terrore. Il falso mendicante non provò dolore, ma freddo.
Un gelido abbraccio che lo fece barcollare verso l'altare e cadere sulle
ginocchia livide.
Fu l'unico istante in cui vide il suo aggressore.
L'Augure era un'ombra corpulenta, di carbone, senza espressione in
viso. Nella chiesa cominciava a calare la notte. Tutto diventava scuro.
Anche il tempo iniziò a rallentare in un modo strano. Nel toccare il
pavimento dell'altare, il fagotto che il pellegrino portava annodato sulla
spalla si slegò, lasciando cadere un paio di tozzi di pane e un mazzo di
carte con stampate strane effigi. La prima rappresentava una donna con
la tonaca di san Francesco, una triplice corona sulla testa, una croce
come quella di Giovanni nella mano destra e un libro chiuso nella
sinistra.
"Maledetto eretico!" biascicò l'Augure quando la vide.
Il pellegrino gli rivolse un sorriso cinico, mentre da terra osservava
l'Augure che prendeva quella carta e bagnava una penna nel suo sangue
per annotarvi qualcosa sul rovescio.
"Non… aprirete mai… il libro della sacerdotessa." Da quella posizione
innaturale, con il cuore che pompava a fiotti il sangue sul lastricato,
riuscì a scorgere qualcosa che fino a quel momento non aveva notato:
benché Uriel non indicasse più Giovanni Battista come nella vera opus
magnum, il suo sguardo diceva tutto. La "fiamma di Dio", con gli occhi
socchiusi, continuava a designare il saggio del Giordano come l'unico
salvatore del mondo.
Dopo tutto Leonardo - si consolò prima di sprofondare nell'oscurità
eterna - non li aveva traditi. L'Augure aveva mentito.
16
Attendemmo le prime luci del sabato, quattordicesimo giorno di
gennaio, per lasciare l'interno del convento e perlustrare con tranquillità
i muri in mattoni di Santa Maria delle Grazie.
Frate Alessandro, che aveva dimostrato di possedere una certa
predisposizione naturale per gli enigmi, era di nuovo esultante. Come
se le gelate che poche ore prima avevano pietrificato quella parte della
città non lo avessero nemmeno sfiorato. Alle sei e mezzo, subito dopo
le orazioni, il bibliotecario e io eravamo pronti per uscire in strada. Era
un'operazione semplice, che ci avrebbe portato via poco più di due
minuti e che, tuttavia, mi turbava profondamente.
Frate Alessandro se ne accorse, ma decise di tacere.
Non ignorava che, quale che fosse la "cifra del nome" che avremmo
ottenuto contando gli oculi della parete laterale, questo non avrebbe
risolto il nostro problema. Avremmo avuto un numero: forse quello
equivalente al nome del nostro anonimo informatore, anche se non
potevamo esserne certi. E se si fosse trattato della somma totale delle
lettere del suo cognome? O del suo numero di cella? Oppure…?
"Ho dimenticato di dirvi una cosa" disse infine, interrompendo le mie
elucubrazioni.
"Di che si tratta, fratello?"
"E' qualcosa che forse vi solleverà… Quando avremo trovato quel
benedetto numero, ci sarà ancora molto lavoro da fare se vogliamo
arrivare a capo del vostro enigma."
"Non c'è dubbio."
"Ebbene, dovete sapere che Santa Maria ospita la comunità di frati più
abile nel risolvere indovinelli di tutta Italia." Sorrisi. Il bibliotecario,
come tanti altri servi di Dio, non aveva mai sentito parlare di Betania.
Era meglio così. Ma frate Alessandro insistette nello spiegarmi le
ragioni della sua orgogliosa affermazione: mi assicurò che il
passatempo preferito di quella trentina di domenicani di buona famiglia
era proprio risolvere rebus. Ce n'erano di piuttosto destri in quest'arte,
diversi addirittura si divertivano a creare nuovi indovinelli per gli altri.
"I boschi partoriscono figli che poi li distruggono. Cosa sono?" enunciò
tutto contento, nonostante la mia riluttanza a complicare con altri giochi
la nostra missione. "I manici delle scuri!" Frate Alessandro non fu
parco di dettagli. Di tutto quello che mi disse, ciò che maggiormente mi
colpì fu sapere che l'uso di enigmi a Santa Maria non aveva solo scopi
ricreativi.
Spesso i frati li usavano nelle loro prediche, trasformandoli in strumenti
di dottrina. Se ciò che diceva quel frate non era un'esagerazione, i muri
del convento ospitavano il maggior campo d'addestramento di creatori
di enigmi della cristianità, Betania esclusa. Per questa ragione, se
l'Augure proveniva da qualche convento, quello era il luogo perfetto.
"Datemi retta, padre Leyre" il bibliotecario aveva intuito le mie
congetture. "Quando avrete il numero e non saprete cosa farne,
consultate uno qualsiasi dei nostri fratelli. Chi meno vi aspettereste avrà
una soluzione per il vostro enigma."
"Uno qualsiasi, dite?" Il bibliotecario fece una smorfia.
"Sì, certo! Uno qualsiasi! Sono sicuro che chi è di turno nelle scuderie
ne sa più sugli indovinelli di un romano come voi. Domandate senza
paura al priore, al padre cuciniere, ai responsabili della dispensa, ai
copisti, a tutti! Dovete, però, fare attenzione che non vi stiano ad
ascoltare troppo e che non siate poi rimproverato per aver rotto il voto
del silenzio che ogni frate deve rispettare." E così dicendo tirò la
spranga che bloccava l'accesso principale del convento.
Una piccola valanga di neve cadde dal tetto, schiantandosi con un
fragore sordo ai nostri piedi. Se devo essere sincero, non mi aspettavo
che una cosa così banale come percorrere le mura esterne di una chiesa
all'alba potesse essere un esercizio tanto rischioso. L'intenso freddo del
mattino aveva trasformato la neve in una pericolosa lastra di ghiaccio.
Tutto era bianco, deserto e avvolto in un silenzio che intimidiva. La
sola idea di appoggiarsi al muro di mattoni del maestro Solari e
costeggiare lo steccato che circondava il terzo chiostro avrebbe
spaventato anche il più coraggioso: uno scivolone inopportuno poteva
costarci la nuca o lasciarci zoppi per il resto dei nostri giorni. Per non
parlare poi della difficoltà di spiegare ai frati che cosa facessimo a
quell'ora lontano dalle nostre preghiere, rischiando la vita fuori dal
convento.
Non ci pensammo nemmeno. Con cautela, cercando di bagnare i
sandali il meno possibile, avanzammo piano tra le lastre di ghiaccio
diretti verso il centro della parete laterale, parallelamente alla via. Lo
attraversammo quasi a gattoni e quando frate Alessandro e io ci
ritenemmo a una distanza sufficiente, con buona prospettiva
sull'insieme dell'edificio, finalmente le osservammo: una tenue luce,
proveniente dall'interno, le faceva brillare come gli occhi di un drago.
Si trattava, in effetti, di una piccola serie di finestre rotonde, di oculi,
che ornavano la chiesa per tutta la sua lunghezza. La facciata principale
restava dietro l'angolo, pochi passi più in là: la "faccia" era rivolta
altrove.
"Ma non guardarlo in faccia…" dissi battendo i denti.
Congelato dal freddo, nascondendo le mani nelle maniche dell'abito di
lana, contai: uno, due, tre… sette.
E quel sette mi sconcertò. Sette versi, sette oculi… La cifra del nome
del mittente anonimo era, senza dubbio, quel maledetto e ricorrente
sette.
"Ma sette di che?" domandò il bibliotecario.
Mi strinsi nelle spalle.
17
Quello che accadde in seguito illuminò il mio cammino.
"Così siete voi il padre romano che ha preso alloggio nella nostra
casa?" Il priore di Santa Maria delle Grazie, Vincenzo Bandelle, mi
scrutò con espressione severissima prima di invitarmi a passare nella
sacrestia. Finalmente incontravo l'uomo che aveva redatto per Betania
la relazione sulla morte di Beatrice d'Este.
"Frate Alessandro mi ha parlato molto di voi" proseguì. "A quanto pare,
siete uno studioso. Un intellettuale attento, dotato di forza di volontà,
grazie al quale questa comunità potrà arricchirsi durante la vostra
permanenza qui tra noi. Come avete detto di chiamarvi?"
"Agostino Leyre, priore." Bandelle aveva appena terminato gli uffici
dell'ora terza, alla luce di quel sole pallido che gravitava sulla val
Padana.
Stava per ritirarsi a preparare la sua omelia per il funerale di donna
Beatrice, quando lo avvicinai. Solo in parte fu un impulso irrazionale.
Non aveva forse insistito frate Alessandro, perché chiedessi lumi
riguardo al mio enigma a uno qualsiasi dei fratelli della comunità? Non
mi aveva assicurato che il più insospettabile di loro poteva avere la
risposta giusta? E chi era più insospettabile dell'abate?
Lo decisi poco dopo essere rientrato intirizzito e aver recuperato un po'
di calore tra le mura del convento. La fortuna volle che mi stessi
aggirando nei pressi della sacrestia e che padre Bandello si trovasse lì.
Il bibliotecario mi aveva lasciato solo.
Si era appena allontanato con il pretesto di scendere nelle cucine a
recuperare qualche provvista per la nostra nuova seduta di lavoro. Fu
così che approfittai di quell'opportunità.
Fra' Vincenzo Bandelle doveva avere poco più di sessant'anni, il viso
rugoso come una vela ripiegata sul suo albero, una mascella volitiva e
una sorprendente capacità di lasciare che i suoi gesti ne svelassero ogni
minima emozione. Era ancora più basso di quanto avessi immaginato la
notte in cui lo avevo visto in chiesa. Si muoveva nervoso tra gli armadi
dalle porte decorate della sacrestia, in dubbio su quale chiudere per
prima..
"E ditemi, padre Agostino" riprese, mentre riponeva il calice e la patena
della messa appena celebrata "ho una curiosità: qual è il vostro incarico
a Roma?"
"Sono stato assegnato al Sant'Uffizio."
"Ah, capisco… E, da quanto mi risulta, nei momenti liberi vi piace
risolvere enigmi. Bene" sorrise. "Sono sicuro che andremo d'accordo."
"E' proprio di questo che mi piacerebbe parlarvi."
"Davvero?" Annuii. Se il priore era l'eminenza che il bibliotecario
aveva descritto, era probabile che non gli fosse sfuggita la presenza
dell'Augure a Milano. Tuttavia dovevo essere cauto. Forse era lui stesso
l'autore dei messaggi anonimi, ma temeva di rivelare la propria identità
finché non fosse stato sicuro delle mie vere intenzioni. Poteva andare
anche peggio: magari non ne conosceva l'esistenza, ma se gliela avessi
rivelata chi gli avrebbe impedito di allertare il Moro riguardo la nostra
operazione?
"Ditemi ancora una cosa, padre Leyre. Voi che amate svelare segreti,
avete mai sentito parlare dell'arte della memoria?" Bandelle fece quella
domanda come per caso, mentre io cercavo invano di determinare il suo
grado di implicazione nella faccenda delle lettere. Forse peccavo di
eccesso di zelo: in effetti ogni nuovo monaco che conoscevo a Santa
Maria andava a ingrossare la mia lista di sospettati. E fra' Vincenzo non
costituiva un'eccezione. A dire il vero, di tutte le alternative possibili,
tra i quasi trenta frati che vivevano dentro quelle mura, il priore era
l'uomo che meglio rispondeva al profilo dell'Augure. Non so perché
non ce ne fossimo resi conto prima, a Betania. Mi accorsi di questo
particolare mentre notavo la disinvoltura con cui apriva e chiudeva
porte e reliquiari di quella stanza, e il grosso mazzo di chiavi che
custodiva sotto l'abito. Il priore era tra i pochi che avevano accesso ai
conti e ai progetti del duca per Santa Maria, e forse l'unico che avrebbe
potuto utilizzare una via ufficiale e sicura per far arrivare le sue lettere a
Roma.
"Ebbene?" insistette, sempre più divertito dalla mia aria meditabonda.
"Avete sentito parlare o no di quest'arte?" Negai con la testa, mentre
cercavo di rinvenire in lui qualche tratto che confermasse il mio
giudizio.
"E' davvero un peccato!" proseguì. "Pochi sanno che il nostro ordine ha
fornito grandi studiosi a una disciplina tanto meritevole."
"Non ne ho mai sentito parlare."
"E, quindi, non saprete nemmeno che lo stesso Cicerone menziona
quest'arte nel suo De oratore, o che un trattato ancora più antico, Ad
Herennium, ne parla per esteso e ci offre la formula precisa con cui
ricordare per sempre tutto quello che si desidera…"
"Ci offre? A noi domenicani?"
"Ma certo! Sono trenta o quarantanni, padre Leyre, che con molti
confratelli ci dedichiamo al suo studio. Voi stesso, che lavorate ogni
giorno con cause e documenti complessi, non avete forse mai sognato
di archiviare nella vostra memoria un testo, un'immagine, un nome,
senza preoccuparvi di ripeterlo mai più, perché sapete che lo porterete
con voi per sempre?"
"Sì, è chiaro. Ma solo i più dotati possono farlo…"
"E pur sentendone la necessità per i vostri incarichi" mi interruppe "non
vi siete preoccupato di verificare quale sia la miglior formula per
ottenere un simile prodigio? Gli antichi, che non avevano la stessa
nostra capacità di fare copie dei libri, inventarono uno strumento
magistrale: immaginarono "palazzi della memoria" nei quali conservare
le proprie conoscenze. Nemmeno di questi avete sentito parlare, vero?"
Scossi la testa, muto di perplessità.
"I greci, per esempio, immaginavano un grande edificio, pieno di stanze
e gallerie sontuose, e assegnavano a ogni finestra, arcata, colonnato,
scalinata o sala un significato differente. Nel vestibolo "custodivano" le
loro conoscenze di grammatica, nel salone quelle di retorica, in cucina
l'oratoria… E per ricordare qualsiasi cosa in precedenza
immagazzinata, dove vano soltanto recarsi con la loro immaginazione
in quel particolare angolo del palazzo ed estrarre l'informazione
nell'ordine inverso a quello con cui era stata sistemata lì. Ingegnoso,
non è vero?" Guardai il priore senza sapere cosa dire. Mi stava
spingendo a interrogarlo sulle lettere che avevamo ricevuto a Roma,
oppure no? Dovevo seguire il consiglio di frate Alessandro e
consultarlo senza indugi riguardo al mio enigma? Timoroso di perdere
la sua inaspettata confidenza, lasciai cadere un'insinuazione.
"Ditemi una cosa, padre Vincenzo: e se al posto di un "palazzo della
memoria" utilizzassimo una "chiesa della memoria"? Potremmo, per
esempio, camuffare il nome di una persona in una chiesa di pietra e
mattoni?"
"Vedo che siete perspicace, frate Agostino" mi strizzò un occhio non
senza una certa ironia. "E pratico. Ciò che i greci applicarono a palazzi
immaginali, i romani e persino gli egizi lo sperimentarono con edifici
reali. Se coloro che vi entravano conoscevano il "codice della memoria"
esatto, potevano camminare attraverso le loro sale e ricevere al
contempo importanti informazioni."
"E in una chiesa?" insistetti.
"Sì, anche in una chiesa si potrebbe fare" concesse. "Lasciate però che
vi mostri qualcosa, prima di spiegarvi come potrebbe funzionare un
meccanismo di questo tipo. Come vi dicevo, negli ultimi anni con
diversi padri domenicani di Ravenna, Firenze, Basilea, Milano e
Friburgo abbiamo elaborato un sistema di memorizzazione che si basa
su immagini o strutture architettoniche appositamente preparate per
questo."
"Preparate?"
"Sì. Adattate, ritoccate, ornate con particolari decorativi che ai profani
sembrano superflui, ma che sono invece fondamentali per quanti
conoscono l'alfabeto segreto da essi nascosto. Lo capirete con un
esempio, padre Agostino." Il priore estrasse da sotto il suo abito un
rotolo di carta che distese sul tavolo delle offerte. Era un foglio non più
grande del palmo della sua mano, bianco, con macchie di ceralacca in
un angolo. Vi era stampata sopra una figura femminile che teneva il
piede sinistro appoggiato su una scala. Appariva circondata da uccelli, e
strani oggetti erano appesi sul suo petto, mentre un'iscrizione in
caratteri latini sotto i suoi piedi la identificava chiaramente. La "signora
Grammatica", perché di lei si trattava, guardava il nulla con espressione
assente.
"Proprio in questi giorni abbiamo terminato una di quelle immagini
che, in futuro, servirà a ricordare le diverse parti dell'arte della
grammatica. E' questa" disse indicando quello stravagante disegno.
"Volete vedere come funziona?" Annuii.
"Osservate bene" mi incoraggiò il priore. "Se qualcuno ci interrogasse
anche in questo momento riguardo ai fondamenti della grammatica e
avessimo questa illustrazione davanti agli occhi, sapremmo cosa
rispondere senza esitare."
"Davvero?" Bandelle prese atto della mia incredulità.
"La nostra risposta sarebbe precisa: praedicatio, applicatici e
continentia. E sapete perché? E' semplice: perché l'ho letto in questa
immagine." Il priore si chinò sul foglio e iniziò a tracciarvi sopra cerchi
immaginari, indicando parti diverse del disegno.
"Osservatela bene: praedicatio è indicata dal passero posato sul braccio
destro, che inizia per P, e dal bastone che ha la forma di tale lettera. E'
l'attributo più importante della figura, perciò si indica con due
immagini, oltre a essere il motto del nostro ordine. In fin dei conti
siamo predicatori, non è così?" Mi concentrai sulla strana bandierina
retta dalla Grammatica e ripiegata su se stessa a formare la P di cui
parlava Randello.
"Il successivo attributo" proseguì"applicatici, è rappresentato dall'aquila
che la Grammatica tiene in mano. Aquila e applicatici iniziano con la
lettera A, così la mente dell'iniziato all'ars memoriae li metterà
immediatamente in relazione. Quanto alla continentia, la potete vedere
quasi scritta sul petto della donna. Se siete capace di interpretare le
forme di quegli oggetti, un arco, una ruota, un aratro e un martello,
come se fossero lettere, leggerete subito c-o-n-t… Continentia!" Era
stupefacente. In un'immagine apparentemente innocente qualcuno era
riuscito a racchiudere una teoria completa della grammatica. Di colpo
mi passò per la mente che i libri, ormai stampati a centinaia nelle
tipografie di Venezia, Roma o Torino, inserivano nei loro frontespizi
incisioni che avrebbero potuto contenere messaggi occulti. E noi,
ignari, non ci avremmo fatto caso. Nell'Archivio segreto non ci avevano
insegnato nulla di simile.
"E gli oggetti appesi alla scala o quelli sostenuti dagli uccelli? Hanno
anch'essi un significato?" domandai, ancora sbalordito da quella
inaspettata rivelazione.
"Mio caro fratello, tutto, ma proprio tutto, ha un significato. In questi
tempi in cui ogni signore, ogni principe o cardinale ha così tanti segreti
da nascondere agli altri, le sue azioni, le opere d'arte che commissiona o
gli scritti che protegge celano qualcosa di lui." Il priore concluse quella
frase con un sorriso enigmatico.
Era la mia occasione.
"E voi?" ne approfittai. "Nascondete qualcosa anche voi?" Bandelle mi
guardò senza perdere la sua espressione ironica. Si accarezzò la chierica
perfettamente rasata e si lisciò distrattamente i capelli.
"In effetti anche un priore ha i suoi segreti."
"E li nasconderebbe in una chiesa già costruita?" continuai ad
azzardare.
"Oh!" sbottò. "Sarebbe assai facile. Dapprima dovrebbe contare ogni
elemento: pareti, finestre, torri, campane… La cifra è la cosa più
importante! Poi, ridotta la chiesa a numeri, individuerebbe quali di essi
possano imparentarsi con lettere o determinate parole. E li metterebbe
in relazione tanto nel numero di caratteri che formano una parola,
quanto nel valore numerico di tale parola qualora a sua volta fosse
ridotta in cifra."
"Padre, questa è gematrial La scienza eretica degli ebrei!"
"Sì, in effetti è gematrìa. Ma non si tratta di un sapere disprezzabile
come date a intendere scandalizzandovi tanto. Gesù era ebreo e apprese
la gematrìa nel tempio. Come sapremmo altrimenti che Abramo e
Misericordia sono parole numericamente gemelle? O che la scala di
Giacobbe e il monte Sinai, sommati, in ebraico danno centotrenta,
indicandoci così che sono entrambi luoghi di ascensione ai cicli
designati da Dio?"
"Pertanto" lo interruppi "se voleste nascondere una parola nella chiesa
di Santa Maria, poniamo di sette lettere, scegliereste qualche elemento
del tempio caratterizzato dallo stesso numero a cui ammontano le
lettere di quella parola."
"Esatto."
"Per esempio… sette finestre? Sette oculi?"
"Sarebbe una buona scelta. Io però opterei per qualcuno degli affreschi
che ornano la chiesa. Permettono di aggiungere più sfumature che una
semplice successione di finestre. Più elementi accumuli in uno spazio,
maggiore è la versatilità che concedi all'arte della memoria. E, a dire il
vero, le facciate di Santa Maria sono un po' troppo disadorne per
questo."
"Lo pensate davvero?"
"Sì. Inoltre il sette è un numero soggetto a molte interpretazioni. E la
cifra sacra per eccellenza. La Bibbia vi ricorre costantemente. Non mi
verrebbe mai in mente di scegliere un numero così ambiguo per
nascondere qualcosa." Bandelle sembrava sincero.
"Vi propongo un accordo" aggiunse a sorpresa. "Io vi confido l'enigma
su cui sta lavorando ora la mia comunità e voi mi confidate il vostro.
Sono sicuro che potremo aiutarci a vicenda." Ovviamente accettai.
18
Il priore, soddisfatto, mi pregò di accompagnarlo dalla parte opposta
del convento. Desiderava mostrarmi qualcosa. E subito.
A passo spedito superammo l'altare maggiore, ci lasciammo alle spalle
il coro e la tribuna che stavano terminando di adornare per i funerali di
donna Beatrice, e infilammo il lungo passaggio che sboccava nel
Chiostro dei Morti. Il convento era un luogo sobrio, con muri di
mattoni a vista e colonne di granito regolari dalla forma impeccabile
lungo i corridoi pavimentati con cura. Mentre ci dirigevamo alla nostra
misteriosa destinazione, fra" Vincenzo fece un cenno a padre
Benedetto, il copista guercio, che come d'abitudine passeggiava senza
meta tra le arcate, lo sguardo perso in un breviario che non riuscii a
identificare.
"Ebbene?" grugnì nel sentirsi reclamato dal superiore. "Di nuovo in
visita all'opus Diaboli? Vi converrebbe seppellirla sotto uno strato di
calce!"
"Per favore, fratello! Dovete accompagnarmi" gli ordinò il priore. "Il
nostro ospite ha bisogno di qualcuno che sappia raccontargli le storie di
questo luogo, e nessuno meglio di voi può farlo. Siete il frate più
anziano della comunità. Persino più anziano delle pareti di questa casa."
"Storie, eh?" L'unico lume del vecchio brillò d'emozione nel vedere il
mio interesse. Ero stregato da quell'uomo che sembrava provare
godimento nel mostrare al mondo la sua deformità ed esibiva con
orgoglio la piaga lasciatagli in viso dall'occhio perduto.
"In questa casa si raccontano molte storie, non c'è dubbio.
Ma sapete perché chiamano questo cortile il Chiostro dei Morti?"
domandò, mentre si univa a noi. "E' facile: qui vengono inumati i nostri
frati, affinché ritornino alla terra così come vennero al mondo. Senza
onori n‚ lapidi che li ricordino, come ben sapete. Senza vanità. Solo con
l'abito del nostro ordine. Arriverà un giorno in cui tutto questo cortile
sarà disseminato di ossa."
"E' il vostro cimitero?"
"Molto di più: è la nostra anticamera al cielo." Bandelle nel frattempo si
era fermato di fronte a un enorme portone di legno a due battenti. Era
un ingresso dall'aspetto massiccio, con una solida serratura di ferro,
nella quale il priore non tardò a infilare un'altra delle chiavi che si
portava addosso. Benedetto e io ci guardammo. Il battito del mio cuore
accelerò: intuii che cosa intendeva mostrarmi l'abate. Già frate
Alessandro mi aveva messo sulle sue tracce e, naturalmente, mi ero
preparato per il gran momento. Là dietro, in una grande sala proprio
sotto la biblioteca, doveva trovarsi il famoso refettorio di Santa Maria
delle Grazie, il cui accesso era stato vietato ai monaci dallo stesso
Leonardo. Se non mi sbagliavo, era quella la ragione ultima della mia
presenza a Milano e il motivo che aveva indotto l'Augure a scrivere le
sue minacciose lettere alla Casa della verità.
Un nuovo dubbio mi assalì: forse Bandelle e io condividevamo senza
saperlo lo stesso enigma?
"Se questo luogo fosse benedetto" il volto del priore s'illuminò mentre
spingeva il portone "prima ci laveremmo le mani e voi aspettereste qui
fuori che io vi dessi licenza di entrare…"
"Ma non lo è!" strillò il guercio.
"No. Non ancora. Anche se questo non impedisce che la sua atmosfera
sacra infonda le nostre anime."
"Atmosfera sacra… sciocchezze!" E a queste parole entrammo tutti e
tre.
Proprio come supponevo, avevo appena messo piede nel futuro
refettorio del convento. Era un luogo buio e freddo, ingombro di grandi
cartoni che giacevano appoggiati alle pareti e dominato dal caos. Corde
e mattoni, paraventi, secchi e - cosa curiosa - una tavola con una grande
tovaglia di lino bianco apparecchiata di tutto punto per un pranzo
affollavano un ambiente che sembrava essere stato dimenticato da
molto tempo. La tavola fu ciò che attrasse maggiormente il mio
interesse perché era, chiaramente, l'unica traccia di ordine in mezzo a
quella confusione. Niente dava a intendere che fosse stata usata. I piatti
sembravano puliti e tutte le stoviglie erano ricoperte da un fine strato di
polvere, conseguenza di settimane d'abbandono.
"Fratello Agostino, vi prego di non spaventarvi per il deplorevole stato
di questo salone" disse Bandelle, mentre si rimboccava le maniche e
cercava di mettere un po' d'ordine in quel mare di tavole. "Questo sarà
il nostro refettorio. E' da tre anni che siamo in queste condizioni,
riuscite a immaginarlo?
I frati non possono accedere alla sala per espresso ordine di Leonardo,
che la vuol tenere chiusa finché non terminerà la sua opera. Però intanto
i nostri mobili si rovinano, accatastati in quell'angolo là dietro, in
mezzo alla sporcizia e a questo insopportabile odore di pittura."
"E' un inferno, non ve l'avevo detto? Un inferno con tanto di diavolo…"
"Benedetto, per l'amor di Dio!" lo riprese il priore.
"Non vi preoccupate" intervenni. "A Roma ci sono sempre lavori,
ovunque, quest'ambiente mi risulta familiare." Separata da alcuni
paraventi di legno, in uno dei vani laterali dell'immenso salone, si
indovinava una tavola a forma di U, sulla quale erano state accatastate
grandi panche verniciate di nero. Anche i resti di un prezioso
tabernacolo di legno giacevano in quel buco scuro, marcendo nella
muffa. Mentre raccoglievamo un po' di cianfrusaglie, Bandelle disse:
"Non c'è lavoro di decorazione nel nostro convento che non subisca
qualche ritardo. Ma i peggiori sono quelli di questa sala. Sembra che sia
impossibile portarli a termine".
"La colpa è di Leonardo" tornò a borbottare Benedetto. "E' da mesi che
si prende gioco di noi. Liberiamoci di lui!"
"Tacete, vi prego. Lasciate che spieghi il nostro problema a frate
Agostino." Bandelle guardò a destra e a sinistra, come per assicurarsi
che non ci fosse nessun altro ad ascoltare. Era una precauzione assurda:
da quando avevamo lasciato la chiesa non avevamo incrociato nessun
fratello, eccezion fatta per il ciclope, ed era poco probabile che
qualcuno di loro se ne stesse acquattato lì, invece di prepararsi per i
funerali o badare ai propri compiti quotidiani. Ciò nonostante il priore
sembrava insicuro, intimorito. Forse per questo abbassò tanto la voce,
quando si avvicinò al mio orecchio.
"Capirete subito la mia precauzione."
"Davvero?" Fra' Vincenzo annuì nervoso.
"Messer Leonardo, il pittore, ha fama di essere un uomo molto
influente e potrebbe farmi togliere di mezzo, se sapesse che vi ho
concesso di entrare senza il suo permesso…"
"Vi riferite al maestro Leonardo da Vinci?"
"Non gridate il suo nome!" mi zittì. "Vi meraviglia tanto?
Il duca in persona l'ha chiamato, quattro anni fa, perché contribuisse a
decorare questo convento. Il Moro desidera far collocare il sepolcro del
casato degli Sforza sotto l'abside della chiesa e gli occorre un contesto
magnifico, indiscutibile, con il quale giustificare la sua decisione
davanti alla propria famiglia. Ecco perché lo ha contattato. E credetemi
se vi dico che, da quando il duca si è imbarcato in questo progetto, non
c'è stato un solo giorno di pace in questa casa."
"Nemmeno uno" gli fece eco Benedetto. "E sapete perché?
Perché questo maestro, che veste sempre di bianco, che non vedrete mai
mangiare carne n‚ sacrificare un animale, è in realtà un'anima perversa.
Ha introdotto una sinistra eresia nei suoi lavori per questa comunità e ci
ha sfidati a individuarla prima che dichiari conclusa la propria opera. E
il Moro lo appoggia!"
"Ma Leonardo non è…"
"Un eretico?" mi interruppe. "No, certo. Apparentemente, no. Non
farebbe male a una mosca, trascorre tutto il giorno meditando o
prendendo appunti sui suoi quaderni e da l'impressione di essere un
uomo saggio. Ma sono sicuro che il maestro non è un buon cristiano."
"Posso chiedervi una cosa?" Il priore annuì.
"E' vero che avete ordinato di raccogliere ogni informazione possibile
sul passato di Leonardo? Perché non vi siete mai fidato di lui? Sono
stato messo al corrente dal fratello bibliotecario."
"Vedete, è stato subito dopo che ci ha lanciato la sua sfida.
Come potrete capire, ci siamo visti obbligati a indagare sul suo passato
per sapere che tipo d'uomo avevamo davanti. Voi avreste fatto lo
stesso, se avesse sfidato il Sant'Uffizio."
"Suppongo di sì."
"Vero è che incaricai frate Alessandro di tracciare un profilo della sua
opera: ci poteva tornare utile per anticipare i suoi passi. Fu così che
scoprimmo che già i francescani di Milano avevano avuto seri problemi
con il maestro Leonardo. A quanto sembra, aveva utilizzato fonti
pagane per documentare i suoi quadri, inducendo i fedeli in gravi
equivoci."
"Frate Alessandro mi ha parlato di questo e anche di un libro in odor
d'eresia di un certo frate Amedeo."
"ll Apocalypsis nova."
"Esatto."
"Ma quel libro è solo un piccolo esempio di ciò che riuscì a trovare.
Non vi ha detto nulla delle resistenze di Leonardo rispetto a certe scene
bibliche?"
"Resistenze?"
"Sì, un aspetto davvero significativo. A tutt'oggi non siamo stati capaci
di individuare una sola opera di Leonardo che rappresenti la
Crocifissione. Nemmeno una. E neppure un quadro che raffiguri
qualche scena della Passione di Nostro Signore."
"Forse nessuno gli ha mai commissionato qualcosa di simile."
"No, padre Leyre. Il toscano evita di dipingere questo genere di episodi
biblici per qualche oscura ragione. All'inizio pensavamo che potesse
essere ebreo, ma più avanti abbiamo scoperto che non lo è. Non osserva
le prescrizioni dello Shabbath, n‚ rispetta altre usanze ebraiche."
"E quindi?"
"Quindi… Credo che quest'anomalia si ricolleghi al problema che ci
interessa."
"Parlatemi di lui. Frate Alessandro non mi ha mai detto che Leonardo
vi avesse sfidato."
"Il bibliotecario non era presente, quando accadde. E solo una mezza
dozzina di frati della comunità è a conoscenza dei fatti."
"Vi ascolto."
"E' accaduto durante una delle visite di cortesia che donna Beatrice
faceva a Leonardo, circa due anni fa. Il maestro aveva terminato di
dipingere san Tommaso per la sua Ultima cena. Lo aveva rappresentato
come un uomo con la barba che alza il suo dito indice verso il cielo,
proprio accanto a Gesù."
"Immagino sia il dito che in seguito avrebbe messo nella piaga di
Cristo, dopo la sua resurrezione, vero?"
"Così pensavo e in tali termini lo spiegai a Sua Altezza, la principessa
d'Este. Ma Leonardo rise della mia interpretazione. Disse che noi frati
non capivamo nulla di simbolismo e che, se avesse voluto, avrebbe
potuto dipingere Maometto in persona proprio lì, davanti ai nostri
occhi, senza che ce ne rendessimo conto."
"Disse questo?"
"Donna Beatrice e il maestro risero, a noi però parve un'offesa. Ma cosa
potevamo fare? Inimicarci la sposa del Moro e il suo pittore preferito?
Se avessimo osato tanto, state pur certo che Leonardo ci avrebbe
incolpato del ritardo nei suoi lavori per l'Ultima cena." Il priore
proseguì: "In realtà fui io a sfidarlo. Volevo dimostrargli di non essere
impreparato come credeva nel campo dell'interpretazione dei simboli,
ma mi avventurai su un terreno che non avrei mai dovuto calpestare".
"A cosa vi riferite, padre?"
"In quel periodo mi recavo spesso in visita al palazzo ducale. Dovevo
informare il Moro sui progressi dei lavori di Santa Maria. E non erano
rare le occasioni in cui sorprendevo donna Beatrice intenta a svagarsi
nella sala del trono con un gioco di carte. I loro disegni riproducevano
figure strane, vistose, dipinte con colori vivaci: rappresentavano
impiccati, donne che sostenevano stelle, fauni, papi, angeli con gli
occhi bendati, diavoli… Presto venni a sapere che quelle carte erano
una vecchia eredità della famiglia. Le aveva disegnate attorno al 1441 il
vecchio duca di Milano, Filippo Maria Visconti, con l'aiuto del
condottiero Francesco Sforza. Più tardi, quando costui si era
impadronito del controllo del ducato, aveva regalato quel mazzo di
carte ai suoi figli e una copia era finita nelle mani del Moro."
"E cosa accadde?"
"Vedete, una di quelle carte rappresentava una donna vestita da
francescana che teneva in mano un libro chiuso. Mi colpì molto, perché
l'abito che portava era da uomo. E per di più sembrava incinta. Ve
l'immaginate? Una donna gravida con la tonaca dei francescani?
Sembrava una blasfemia. Ebbene, non so per quale motivo mi ricordai
della carta durante quella discussione con Leonardo e lanciai loro la
mia provocazione. "So cosa significa la carta della francescana" dissi.
Ricordo che donna Beatrice si fece molto seria. "Che cosa ne volete
sapere?" sbuffò. "E' un simbolo che parla di voi, principessa" dissi.
Questo sembrò interessarla. "La francescana è una dama incoronata, il
che significa che ricopre la vostra stessa dignità. Ed è incinta, il che
annuncia l'avvento di tale stato di grazia anche per voi. Questa carta è
un presagio di quanto vi riserva il destino.""
"E il libro?" domandai.
"Fu quello che più l'offese. Le dissi che la francescana teneva chiuso il
libro per nascondere che si trattava di un'opera proibita. "E di quale
opera si tratterebbe, secondo voi?" mi chiese il maestro Leonardo.
"Forse l'Apocalypsis nova, che voi conoscete molto bene" risposi non
senza sarcasmo. Leonardo si inalberò e fu allora che lanciò la sua sfida.
"Voi proprio non potete sapere" disse. "E' vero che quel libro è
importante, come o più della Bibbia. Ma il vostro orgoglio di teologo vi
impedirà per sempre di conoscerlo." E aggiunse: "Quando il futuro
figlio della duchessa nascerà, io avrò terminato di racchiudere i segreti
di un altro testo nel vostro Cenacolo. E vi assicuro che, anche se li
avrete davanti agli occhi, non saprete mai leggerli. Sarà questa la
grandezza del mio enigma. E la prova della vostra stoltezza".
19
"Quando potrò vedere l'Ultima cena?" domandai al priore.
Benedetto sorrise.
"Anche adesso, se volete" disse. "Si trova proprio davanti a voi. Dovete
solo aprire gli occhi." All'inizio non sapevo dove guardare. L'unico
dipinto che riuscivo a distinguere in quel refettorio che odorava di
polvere e umidità era una Maria Maddalena aggrappata ai piedi della
croce di Cristo. Spiccava sulla parete meridionale del salone e piangeva
amaramente davanti allo sguardo estatico di san Domenico. Le
ginocchia della Maddalena poggiavano su una pietra rettangolare sulla
quale si leggeva un nome che non avevo mai sentito: "Io Donaius
Montorfani P.".
"Quello è un lavoro del maestro Montorfano" Bandelle chiarì i miei
dubbi. "Un'opera pia, encomiabile, che è stata terminata quasi due anni
fa. Ma non è ciò che desiderate vedere." Il priore indicò allora la parete
opposta. La storia della carta e del suo libro segreto mi aveva distratto a
tal punto che quasi non ero in grado di decifrare quanto vedevano i miei
occhi. Una montagna di tavole impilate copriva buona parte dell'angolo
settentrionale del refettorio. Tuttavia la scarsa luce che vi filtrava mi
lasciò intravedere qualcosa che mi paralizzò.
In effetti, oltre la barriera di casse e cartoni, tra gli spazi lasciati dalla
grande impalcatura di legno che attraversava la parete da lato a lato, si
indovinava… un'altra sala! Ci misi un po' a capire che si trattava di
un'illusione. Ma che illusione! Seduti a una tavola rettangolare identica
alla tavolata da banchetto che tanto mi aveva colpito entrando, tredici
figure umane dalle espressioni e dagli atteggiamenti vivaci, freschi,
sembravano rappresentare un'opera teatrale solo per noi. Ma non erano
attori, che Dio mi perdoni: erano i ritratti più reali e stupefacenti che
avessi mai visto di Nostro Signore, Gesù Cristo, e dei suoi discepoli. E'
vero che alcuni dei loro volti, tra i quali quello dello stesso Nazareno,
non erano ancora definiti, eppure l'insieme era quasi terminato e…
respirava.
"Allora? Riuscite a vederlo ora? Distinguete quello che c'è dietro?"
Deglutii, prima di annuire.
Padre Benedetto, misteriosamente soddisfatto, mi diede una pacca
leggera sulla schiena invitandomi ad avvicinarmi a quella parete
magica.
"Venite più vicino, non vi morderà. E' l'opus Diaboli riguardo la quale
cercavo di mettervi in guardia. Ammaliatrice come il serpente del
Paradiso, e altrettanto velenosa…" Impossibile esprimere a parole ciò
che provai in quel momento. Avevo l'impressione di contemplare una
scena proibita, l'immagine catturata di qualcosa che era accaduto
quindici secoli prima e che Leonardo era riuscito a rendere immortale
con un realismo inconcepibile. Allora ignoravo perché il guercio la
chiamasse "opera del Diavolo", quando invece sembrava un dono degli
angeli. Come inebriato, camminai assorto verso il dipinto senza
guardare dove mettevo i piedi. A mano a mano che mi avvicinavo, la
parete andava acquistando sempre più vita. Gesù Santo! Di colpo
compresi che cosa ci faceva quella tavola apparecchiata ai piedi
dell'impalcatura: tovaglia, stoviglie, brocche, grandi bicchieri di
cristallo e persino i vassoi di maiolica sembravano disposti in maniera
identica due metri più in alto, sulla parete, in nulla inferiori a quelli
reali. Ma i discepoli? Da quali volti aveva copiato le loro espressioni?
Da dove aveva preso le loro vesti?
"Se desiderate, fratello Agostino, possiamo salire sul ponteggio per
guardare l'opera più da vicino. Non credo che il maestro Leonardo oggi
verrà a supervisionare il suo lavoro…"
"Certo che voglio" pensai.
"Scoprirete subito che per quanto vi avviciniate, non potete apprezzare
nulla di più." Il priore sorrise con malizia. "Qui succede il contrario che
con gli altri quadri: se uno si avvicina troppo all'opera, perde la
percezione dell'insieme, è frastornato e incapace di trovare un solo
tratto di pennello che gli serva da guida per interpretare il dipinto."
"Un'altra prova della sua eresia!" bramì il guercio. "Quell'uomo è un
mago!" Non seppi cosa dire. Per qualche istante, forse minuti - non
saprei -, non riuscii a distogliere lo sguardo dalle figure più
meravigliose che mai avessi ammirato in tutta la mia vita. Da vicino, in
effetti, non si vedevano segni, contorni n‚ raschiature di spatola o
schizzi sopra i tratti a carboncino. Ma che importava? Anche a dipinto
non ancora ultimato, con due degli apostoli appena abbozzati sulla
parete, il viso di Nostro Signore tuttora privo d'espressione e i profili
esterni di altre tre figure non tinteggiati, uno già poteva aggirarsi per
quel sacro banchetto. Bandelle, accorgendosi che il tempo passava,
tentò di riportarmi alla realtà.
"Ora ditemi, frate Agostino: con la vostra sagacia, che ha tanto colpito
frate Alessandro, non avete ancora notato niente di strano in
quest'opera?"
"No… Non so a cosa vi riferite, priore."
"Andiamo, padre. Non deludeteci. Avete accettato di aiutarci con il
nostro enigma. Se riusciamo a identificare le anomalie che presenta
questo dipinto e a metterle in relazione con qualche libro proibito,
potremo fermare Leonardo e accusarlo di essersi di nuovo ispirato a
fonti apocrife. Sarebbe la sua fine." Il priore attese un istante prima di
proseguire: "Vi fornirò un indizio. Non vi siete ancora reso conto che
su nessuno degli apostoli, nemmeno su Gesù Cristo, risplende l'abituale
aureola di santità? Non mi direte che questo nell'arte cristiana è
normale!".
Benedetto Iddio! Vincenzo Bandelle aveva ragione. La mia ottusità non
aveva limiti. Ero talmente preso dallo straordinario realismo dei
personaggi, che non mi ero accorto di quella mancanza fondamentale.
"E che mi dite dell'eucarestia?" si intromise il ciclope con voce
sguaiata. "Se questa è davvero un'Ultima cena, perché Gesù Cristo non
ha davanti a s‚ il pane e il vino per consacrarli? Dov'è il Santo Graal
con il suo prezioso sangue redentore?
E perché la sua scodella è vuota? Eretico! E' un eretico!"
"Che cosa state insinuando, fratelli? Che il maestro non ha seguito il
testo biblico per dipingere questa scena?" Mi sembrava di sentire
ancora le spiegazioni di frate Alessandro sul ritratto della Vergine che
Leonardo aveva dipinto per i monaci di San Francesco Grande. Anche
allora il toscano aveva ignorato tanto le indicazioni bibliche quanto le
istruzioni dei suoi committenti. La mia successiva domanda dovette,
forse, sembrar loro puerile.
"Gli avete domandato perché ha fatto così?"
"Ma certo! " rispose il priore. "E continua a riderci in faccia e a
chiamarci ingenui. Dice che non è compito suo aiutarci a interpretare la
sua Cena. Lo credereste? Quell'insolente passa di qui di tanto in tanto,
da un paio di pennellate a qualcuno degli apostoli, si siede per ore a
contemplare quel che ha fatto e quasi non si degna di parlare con la
comunità per spiegare le anomalie del suo lavoro…"
"Quanto meno si giustificherà richiamandosi a qualche passo
evangelico, no?" dissi intuendo già la sua risposta.
"Qualche passo evangelico?" La domanda del guercio suonò
canzonatoria. "Voi conoscete i Vangeli bene quanto me: ditemi dunque
dove si parla di Pietro alla tavola pasquale con un pugnale o di Giuda e
Cristo che mettono la mano nello stesso piatto… Non troverete nessuna
allusione a queste scene, nossignore."
"Esigete dunque che ve le spieghi!"
"Ci evita. Dice che deve rendere conto soltanto al duca, cioè a chi lo
paga."
"Volete dire che entra ed esce da questa casa a suo piacimento?"
"E in compagnia di chi vuole lui. A volte addirittura con donne della
corte, sulle quali vuol fare impressione."
"Perdonate la mia audacia, fra' Benedetto, ma per quanto sgradevole
debba risultare un simile comportamento a una persona timorata come
voi, queste non sono ancora argomentazioni con cui accusare qualcuno
di eresia."
"Come no? Non vi bastano? Non è sufficiente un Cristo senza attributi
divini, un'Ultima cena senza eucarestia e un san Pietro che nasconde un
pugnale da usare contro Dio solo sa chi?" Benedetto, rosso d'ira, storse
il naso, sbuffando contro quello che avevo appena detto loro. Il priore
cercò di essere più conciliante.
"Proprio non capite, vero?"
"No…" risposi.
"Fra' Benedetto sta cercando di spiegarvi che, anche se a voi questo
dipinto sembra solo una meravigliosa rappresentazione della Cena
pasquale, forse non lo è per nulla. Ho visto lavorare a incarichi simili
molti pittori, meno ambiziosi senza dubbio, ma ignoro cosa diavolo
voglia rappresentare Leonardo nella mia casa!" Il priore enfatizzò il
possessivo per dimostrare quanto fosse toccato dalla questione. Quindi,
afferratomi per le maniche dell'abito, proseguì con tono cupo: "Fratello,
abbiamo il grande timore che l'artista del Moro voglia farsi beffe della
nostra fede e della nostra Chiesa. Se non troviamo la chiave per
interpretare la sua opera, questa resterà per sempre qui a eterno ludibrio
della nostra stoltezza. Perciò abbiamo bisogno del vostro aiuto, padre
Leyre".
L'ultima frase di padre Bandelle echeggiò per l'enorme refettorio.
Allora fu il ciclope a tirarmi per le maniche verso un altro punto sotto
l'impalcatura, da cui si potevano distinguere con chiarezza i vari
commensali del Cenacolo.
"Volete delle prove? Ve ne darò un'altra perché bruciate
quell'impostore! " Lo seguii.
"Lo vedete?" strillò. "Osservate bene."
"Cosa devo vedere, padre Benedetto?"
"Leonardo, chi altrimenti? Non lo riconoscete? Quel vile si è ritratto tra
gli apostoli. E' il secondo da destra. Non c'è dubbio: il suo stesso
sguardo, le sue mani grandi e forti, persino la sua chioma bianca. Dice
che è Giuda Taddeo, ma ha i suoi lineamenti!"
"A dire il vero, padre, non vedo niente di male nemmeno in ciò"
replicai. "Anche il Ghiberti si è ritratto sulle porte di bronzo del
Battistero di Firenze e non è successo nulla. E' un'abitudine molto
toscana."
"Ah, sì? E perché Leonardo è l'unico personaggio di tutta la tavola,
insieme all'apostolo Matteo, che da le spalle a Nostro Signore? Credete
davvero che questo non significhi niente?
Nemmeno Giuda Iscariota ha un atteggiamento tanto insolente! Dovete
imparare una cosa" aggiunse in tono minaccioso.
"Tutto ciò che fa quel diavolo di da Vinci obbedisce a un disegno
occulto, a un fine recondito."
"Se dunque Leonardo impersona Giuda Taddeo, chi è veramente
Matteo, l'altro apostolo che da le spalle a Nostro Signore?"
"E' quello che ci aspettiamo di sapere da voi! Che identifichiate i
discepoli, che ci diciate cosa significa davvero questa maledetta Cena"
Cercai di placare quel vecchio sanguigno e umorale.
"Padri miei" dissi, rivolto al priore e al suo eccentrico confessore "per
mettere la mia mente al servizio di questo enigma ho bisogno che mi
spieghiate su cosa basate la vostra accusa contro il maestro Leonardo.
Se desiderate intentargli un processo, se cercate di interrompere i suoi
lavori con un argomento solido, dobbiamo lavorare con prove
inconfutabili, non con semplici sospetti. Non devo ricordarvi io che
Leonardo è un protetto del signore di Milano."
"Vi diremo tutto, non preoccupatevi. Ma prima vi prego di rispondere
ancora a una domanda…" Tornai ad ascoltare con piacere il tono sereno
del priore, che indietreggiò un paio di passi per esaminare l'Ultima cena
nel suo insieme.
"Sapete dirmi, così a prima vista, cosa rappresenta esattamente questa
scena?" La sua enfasi mi fece diffidare.
"Ditemelo voi, padre."
"Va bene. Apparentemente si tratta del momento descritto dal Vangelo
di Giovanni, in cui Gesù annuncia ai discepoli che uno di loro lo
tradirà. Il Moro e Leonardo hanno scelto il passo con grande cura."
"Amen, amen dico vobis: unus ex vobis tradet me" recitai a memoria.
"Uno di voi mi tradirà." Esatto."
"E cosa ci vedete di strano?"
"Due cose" chiarì. "Prima di tutto, a differenza delle Ultime cene
classiche, per questo dipinto non ha scelto il momento dell'istituzione
dell'eucarestia; in secondo luogo…" esitò "qui il traditore non sembra
Giuda…"
"Ah, no?" 'Giovanni 13, 21.
"Santo Cielo, guardate la parete" mi incitò Benedetto. "Mi resta un
occhio soltanto, ma vedo con chiarezza che chi intende tradire Cristo, o
addirittura ucciderlo, è Pietro."
"Pietro? Intendete san Pietro?"
"Sì, Simon Pietro. Quello lì" insistette il guercio, indicandomelo tra la
dozzina di volti. "Non vedete che nasconde un pugnale dietro la schiena
e si prepara ad aggredire Cristo?
Non vedete come minaccia Giovanni, stringendogli il collo con una
mano?" L'anziano sussurrava le sue accuse con veemenza, come se da
molto tempo esaminasse in segreto la disposizione di quelle figure e
fosse giunto a conclusioni che sfuggivano ai comuni mortali. Il priore,
al suo fianco, annuiva con qualche titubanza.
"E che mi dite, appunto, di quell'apostolo Giovanni?" La sua enfasi mi
allarmò. "Avete visto come lo ha dipinto? Imberbe, con mani sottili e
curate, e un viso da Madonna. Sembra proprio una donna!" Scossi la
testa, incredulo. Il volto di Giovanni non era terminato. Si intuiva
soltanto l'abbozzo di alcuni tratti dolci, morbidi, quasi da adolescente.
"Una donna? Siete sicuro? Durante la cena, secondo i Vangeli, nessuna
donna sedette a quella tavola…"
"Vedo che iniziate a comprendere" rispose Bandelle, più sereno.
"Perciò urge risolvere questo enigma. L'opera di Leonardo racchiude
troppi equivoci. Troppe allusioni velate. Dio sa quanto mi piacciono gli
enigmi, l'arte di celare informazioni in luoghi reali o dipinti, ma tutto
questo mi sfugge." Notai come il priore cercasse di moderarsi.
"Naturalmente" aggiunse senza aspettare risposta "è ancora troppo
presto perché possiate valutare tutte le sfumature del problema. Tornate
pure qui, quando vorrete. Approfittate delle assenze del pittore per
farlo. Sedetevi ad ammirare il suo dipinto murale e cercate di decifrarlo
sezione per sezione, così come abbiamo fatto noi. In pochi giorni sarete
invaso dalla stessa nostra inquietudine. Questa Cena vi ossessionerà." Il
priore frugò nel suo mazzo di chiavi, cercando quella giusta. Una
chiave grande e pesante, di ferro, con tre tacche a forma di croce latina.
"Tenete. Ne esistono solo tre copie: una ce l'ha Leonardo e spesso la
presta ai suoi apprendisti. Un'altra la custodisco io, e la terza ora è in
mano vostra. Potete contare su Benedetto o su me per qualsiasi
chiarimento. "
"Senza dubbio" aggiunse il guercio "vi saremo di maggior aiuto del
bibliotecario. "
"Posso domandarvi che cosa vi aspettate da questo povero inquisitore,
che ora è al vostro servizio?"
"Che troviate un'interpretazione complessiva e convincente della Cena.
Che identifichiate, se esiste, il libro al quale ha detto di essersi ispirato.
Che determiniate se si tratta o meno di un testo eretico come
Apocalypsis nova. E, in caso affermativo, che lo arrestiate. In cambio"
sorrise il priore "vi aiuteremo con il vostro enigma. A proposito, ancora
non ce ne avete parlato…"
"Cerco l'uomo che ha scritto questi versi." E così dicendo, gli tesi una
copia di Oculos ejus dinumera.
20
Bernardino quasi non osava sbirciare oltre il cavalietto. Anche se ormai
non era più un adolescente e aveva superato da tempo la soglia dei
trent'anni, quel genere di lavori lo rendeva nervoso. Non aveva mai
conosciuto una donna, forse era l'unico di tutta la sua corporazione, e
aveva giurato a Dio che mai lo avrebbe fatto. Lo aveva promesso anche
a suo padre, non appena compiuti i quattordici anni, e di nuovo al suo
maestro quando era entrato come apprendista nella bottega più
prestigiosa di Milano. Tuttavia, ora se ne pentiva. La figlia dei Crivelli
da due settimane metteva a dura prova la sua debole natura. Nuda, i
ricci dorati che le scendevano lungo i fianchi, ritta sul bordo del divano
e con lo sguardo azzurro rivolto al soffitto, quella contessina di
diciassette anni era l'immagine vivente del desiderio. Ogni volta che
abbandonava quell'espressione angelica e fissava i suoi occhi su di lui,
Bernardino si sentiva morire.
"Maestro Luini" la voce di donna Lucrezia gli arrivò in sordina, come
se si stesse insinuando anche lei nella sua mente "quando pensate che
sarà pronto il ritratto della bambina?"
"Presto, signora contessa, molto presto."
"Ricordate che il nostro contratto scade la settimana prossima"
insistette lei.
"Lo so bene, signora. Non esiste nella mia vita una data tanto presente
quanto questa." La madre di quella Afrodite sorvegliava spesso le
sedute di posa. Non che non si fidasse di Bernardino, un uomo dalla
reputazione impeccabile che di rado lavorava fuori da un convento, ma
aveva tanto sentito parlare della lussuria dei canonici e persino del
papa, che non considerava superfluo tener d'occhio quelle sessioni.
Inoltre Bernardino era un uomo molto attraente, forse un po'
effeminato, nonché l'unico gentiluomo che suo marito lasciava entrare
in casa senza temere per il suo onore. Il conte aveva ragioni da vendere
per essere geloso: i pettegolezzi su una relazione sentimentale tra la sua
bellissima sposa e il duca erano da tempo sulla bocca di tutti. Lucrezia
era molto desiderata. Una donna emancipata, eccitata da ogni novità.
Ed Elena, sua figlia, si profilava già come sua degna erede.
"E' bella, vero?" osservò con orgoglio la contessa. "Ha due mele al
posto dei seni, così fermi, così sodi… Non potete immaginare, maestro,
quanti uomini sono impazziti per lei."
"Impazziti?" Il pittore contenne a malapena il tremito del pennello. La
sua tela ormai raccoglieva quasi tutti i dettagli del corpo di Elena:
benché l'avesse immaginata con i capelli più scuri e lunghi, una cascata
bionda le accarezzava il ventre fino a nascondere quel meraviglioso
luogo di piacere a cui l'artista aveva rinunciato.
"Quello che non capisco, maestro, è perché abbiate scelto il tema della
Maddalena per ritrarre mia figlia. Proprio adesso! E' come voler
richiamare l'attenzione del Sant'Uffizio. Inoltre tutte le Maddalene sono
donne afflitte, lugubri. E che impressione, quell'orribile teschio tra le
sue mani…" Bernardino posò il pennello sulla tavolozza e si voltò
verso donna Lucrezia. La luce del meriggio la illuminava sul divano,
facendo risaltare forme che gli risultavano vagamente familiari: le
ciocche bionde e sinuose erano identiche a quelle di Elena, precisi gli
zigomi marcati, uguali le labbra umide e carnose. E altri seni formosi
s'indovinavano sotto un aderentissimo corpetto di tela olandese.
Vedendola lìadagiata poteva comprendere lo smodato desiderio del
Moro per una simile beltà.
Era persino logico che le fosse sfuggito quel suo chiacchiericcio
sull'Inquisizione.
"Contessa" disse "vi ricordo che siete stata voi a concedere piena libertà
a messer Leonardo perché decidesse il tema e vi inviasse un discepolo a
sua scelta."
"Sì. E' un peccato che il maestro sia tanto occupato con quel benedetto
Cenacolo."
"Che cosa posso dirvi? Messer Leonardo mi ha chiesto di dipingervi
una Maddalena e io eseguo. Inoltre, scelto da lui, questo tema dovrebbe
riempire d'orgoglio la vostra famiglia."
"Riempirci d'orgoglio? Maria Maddalena non era una puttana?"
esclamò. "Perché non commissionarvi un ritratto al naturale come
quello che il vostro maestro ha dipinto per me?
Perché insistere a stigmatizzare la mia famiglia con un'ombra che ci
perseguita da secoli?" Bernardino Luini tacque. I Crivelli erano
un'antica famiglia veneziana decaduta che ora, confidando nell'abilità
della bottega di Leonardo, pensava di trovare un buon partito per la
figlia grazie a un ritratto che ne esaltasse le virtù. E con una Maddalena
simile, non gli sarebbe risultato difficile… Di fatto erano state le loro
magre finanze, e non certo altri criteri, ad aver lasciato carta bianca al
maestro per scegliere l'argomento della tela. E lui non aveva sciupato
l'occasione. Bernardino non poté evitare una smorfia sarcastica nel
ricordare l'astuzia del toscano. Donna Lucrezia posava da anni nella sua
bottega milanese, prestando la sua immagine ad alcune delle tavole
migliori di Leonardo. Se ora il maestro aveva ottenuto di dipingere sua
figlia come la favorita di Gesù, era perché pensava di iniziarla presto ai
suoi misteri.
Non a caso Lucrezia era l'ultima discendente di una lunga stirpe di
donne ritenute eredi della vera Maria di Magdala.
Una genealogia di femmine dai lineamenti regolari e dolci, che da
secoli ispiravano poeti e pittori, non sempre consapevoli dell'eredità che
trasmettevano.
Luini diede un altro paio di pennellate, cercando di evitare il sorriso
contagioso di Elena. Quindi, con aria pensierosa, riprese la
conversazione.
"Credo che siate precipitosa nel vostro giudizio, signora.
Maria Maddalena… Santa Maria Maddalena" si corresse per tempo "fu
una donna coraggiosa come poche. La chiamavano casta meretrix e, a
differenza del resto dei discepoli che, escluso Giovanni, fuggirono da
Gerusalemme quando crocifissero Nostro Signore, lei lo accompagnò
fino ai piedi del Golgota.
Ecco, signora, la spiegazione del teschio nelle mani di vostra figlia. Ma
la Maddalena fu anche la prima persona alla quale Gesù Cristo apparve
dopo la resurrezione, dimostrando l'affetto profondo che nutriva per
lei."
"E perché credete che abbia fatto una cosa simile?" Luini sorrise
soddisfatto: "Per premiarla per il suo coraggio, naturalmente. Siamo in
molti a credere che proprio in quell'occasione Gesù, appena resuscitato,
abbia confidato alla Maddalena un grande segreto. Maria gli aveva
dimostrato di meritare una simile considerazione; e anche noi, ogni
volta che la dipingiamo, cerchiamo di avvicinarci a quella rivelazione".
"Ora che lo menzionate, anch'io ho udito messer Leonardo parlare di
quel segreto, benché eviti di fornire troppe spiegazioni a riguardo. Di
certo il vostro maestro è un uomo pieno di enigmi."
"L'intelligenza, signora, da molti è considerata un mistero.
Forse un giorno deciderà di svelarceli. O magari sceglierà vostra figlia
per farlo…"
"Tutto è possibile con quell'uomo. Lo conosco da quando arrivò a
Milano nel 1482, e le sue macchinazioni non hanno mai smesso di
sorprendermi. E' così imprevedibile…" Lucrezia si fermò un istante,
come se la sua mente si attardasse tra vecchi ricordi. Poi domandò con
vivo interesse: "Per caso voi conoscete il segreto della Maddalena?".
Luini tornò a guardare la tela.
"Pensate a questo, signora: il vero insegnamento di Cristo agli uomini
poteva giungere solo dopo che il Signore avesse superato la Passione e
fosse resuscitato con l'aiuto del Padre Eterno. Solo allora ebbe l'assoluta
certezza dell'esistenza del Regno dei cieli. E quando ritornò dalla
morte, chi incontrò per primo?
Maria Maddalena, l'unica che ebbe il coraggio di aspettarlo, anche
contravvenendo gli ordini del sinedrio e dei romani."
"Maestro Luini, noi donne siamo sempre state più coraggiose degli
uomini."
"O più imprudenti…" Elena continuava a non parlare, assistendo
divertita alla conversazione. Se non fosse stato per il camino ben
alimentato che aveva proprio dietro di s‚, si sarebbe presa un bel
raffreddore già da tempo.
"Ammiro quanto voi la tenacia delle donne, contessa" disse Bernardino,
provando di nuovo il pennello. "Per questo è giusto farvi sapere che, a
partire da quella rivelazione, Maria Maddalena godette di virtù anche
maggiori."
"Davvero?"
"Se un giorno vi saranno rivelate, vedrete con quanta fedeltà si
riflettono nel ritratto della vostra Elena. Allora sarete più che
soddisfatta di questa tela. "
"Messer Leonardo non mi ha mai parlato di simili virtù."
"Messer Leonardo, signora, è molto prudente. Le qualità della
Maddalena sono una faccenda delicata. Intimorirono persino i
discepoli, ai tempi di Nostro Signore. Nemmeno gli evangelisti vollero
raccontarci troppe cose su di lei!" Lo sguardo della contessa scintillò
malizioso: "E' naturale, era una puttana!".
"Maria non scrisse mai nemmeno una riga. Nessuna donna di quei
tempi lo fece" proseguì il maestro Luini, ignorando le sue provocazioni.
"Perciò chi voglia sapere di lei, deve seguire le orme di Giovanni.
Come vi ho detto, il prediletto fu l'unico a mostrarsi all'altezza delle
circostanze quando crocifissero Cristo. Chi ammira la Maddalena,
ammira anche Giovanni e considera il suo Vangelo come il più bello
dei quattro."
"Perdonate, se insisto: fino a che punto la Maddalena fu una persona
speciale per Cristo, maestro Luini?"
"Fino al punto di baciarla sulla bocca davanti ai discepoli." Donna
Lucrezia sussultò. Il suo corpetto frusciò.
"Come dite?"
"Domandate a Leonardo. Lui conosce i libri nei quali si raccontano
questi segreti. Solo lui sa quali furono i veri volti di Giovanni, Pietro
oppure Matteo… o addirittura della Maddalena. Non avete ancora visto
il suo meraviglioso lavoro nel convento di Santa Maria?"
"Sì, certo che l'ho visto" rispose malvolentieri, ricordando che proprio
per colpa del Cenacolo non era Leonardo a dipingere ora in casa sua.
"Sono stata lì alcuni mesi fa. Il duca desiderava mostrarmi i progressi
del lavoro del suo pittore preferito, e mi affascinò quella magnifica
opera sulla parete. Ricordo che dovevano ancora essere terminati i visi
di alcuni apostoli e nel convento nessuno seppe dirci quando sarebbero
stati pronti."
"Nessuno lo sa, è vero" ammise Luini. "Messer Leonardo non trova i
modelli per alcuni apostoli. Se è difficile ritrarre la perversità di un
Giuda, pur non mancando a corte visi sinistri, immaginatevi quanto sia
complicato trovare un volto puro e carismatico come quello di
Giovanni. Non sospettereste nemmeno quante facce ha dovuto
esaminare il maestro per trovarne una adatta al discepolo prediletto!
Tutte le volte che s'imbatte in questi ostacoli, Leonardo ne risente molto
e ritarda irrimediabilmente. "
"Portategli dunque mia figlia!" rise. "E che faccia sedere la Maddalena
alla tavola al posto di Giovanni!" La contessa Crivelli, divertita, si alzò
dal divano e con lei la nuvola di profumo nella quale fluttuava per il
palazzo. Maestosa, si avvicinò alla schiena del pittore e posò una mano
delicata sulla sua spalla.
"Per oggi basta con le chiacchiere, maestro. Terminate il ritratto il più
presto possibile e riceverete il resto del compenso.
Avete ancora due ore di luce, prima che tramonti il sole. Sfruttatele."
"Sì, signora." Le calzature di donna Lucrezia picchiettarono sui
pavimenti fino a svanire. Elena non batteva ciglio. Se ne stava sempre
lì, magnifica, con la pelle rosata e liscia, il corpo appena depilato dalle
domestiche di palazzo. Quando fu sicura che la madre fosse sparita nei
suoi appartamenti, saltò sul divano.
"Sì, sì, maestro!" applaudì, lasciando sfuggire il "Golgota", che rotolò
fino ai piedi del fuoco. "Proprio così! Presentatemi Leonardo!
Presentatemelo!" Luini la contemplò, asserragliato dietro la sua tela.
"Davvero volete conoscerlo?" sussurrò dopo aver dato un altro paio di
pennellate, quando ormai non poteva più fingere indifferenza.
"Certo che voglio! Voi stesso poco fa avete detto che forse rivelerà il
suo segreto a me…"
"Ma vi avverto, Elena: forse non vi piacerà per niente quello che
scoprirete. E' un uomo dal carattere forte. Sembra distratto, ma in realtà
è capace di notare tutto con la precisione di un orefice. Distingue il
numero di petali di un fiore solo guardandolo di sottecchi e si ostina a
studiare ogni minuzia, portando all'esasperazione chi lo circonda." La
contessina non si scoraggiò: "Questo mi piace, maestro!
Finalmente un uomo meticoloso!".
"Sì, sì, Elena. Però a lui le donne, vi dico la verità, non piacciono
troppo…"
"Oh!" un tono di delusione filtrò nella sua vocina. "Questa sembra
essere la norma tra i pittori, non è vero, maestro?" Quando la modella si
alzò in piedi mostrandosi in tutta la sua bellezza, il pittore si acquattò
ancora di più dietro il quadro. Un improvviso calore gli salì al viso,
facendolo arrossire e seccandogli la gola.
"Per… perché dite così, Elena?" Lei salì sul divano per vederlo da
sopra il cavalietto. Il suo corpo vibrò di soddisfazione.
"Perché sono quasi dieci giorni che mi ritraete nuda, voi e io chiusi in
questa stessa stanza, e non avete fatto il minimo tentativo di
avvicinarvi. Le mie dame di compagnia dicono che questo non è
normale e si domandano perfino, quelle pettegole, se non siete un
castratus." Luini non seppe cosa rispondere. Alzò lo sguardo per
cercare quello della sua interlocutrice e se la trovò a due palmi da lui,
profumata di essenza di tuberosa e palpitante. Non seppe mai spiegarsi
cosa successe dopo: la stanza iniziò a girargli intorno mentre una forza
potente, strana, che nasceva dalle sue viscere, lo dominò
completamente. Gettò via il pennello e la tavolozza e attirò la
contessina verso di s‚. Il contatto con quel corpo giovane pungolò la sua
virilità.
"Siete… vergine?" balbettò.
Lei rise.
"No. Non più." E avventandosi su di lui, lo baciò con un impeto che
Luini non aveva mai conosciuto.
21
L'Ultima cena diventò ben presto la mia ossessione, proprio come
aveva pronosticato padre Bandelle. Solo quel sabato pomeriggio, la
chiave in mano, andai a vederla quattro volte prima del tramonto, dopo
essermi assicurato che il luogo fosse ancora deserto. Credo che fu quel
giorno che nella comunità cominciarono a chiamarmi padre Trottola.
Ne avevano ben donde: ogni volta che un frate s'imbatteva in me, mi
trovava ad aggirarmi con aria persa nei pressi del refettorio, un'unica e
insistente domanda sulle labbra: "Qualcuno ha visto il maestro
Leonardo?".
Credo di essere arrivato al convento nel momento peggiore per
incontrarlo. I preparativi per i funerali di Beatrice d'Este avevano
trasformato le abitudini della città, ma ancor più quelle di Santa Maria
delle Grazie. Mentre frate Alessandro e io ci scervellavamo per
decifrare l'enigma dell'Augure, gli altri confratelli si dedicavano
soltanto ai preparativi per il giorno seguente. Erano passati ormai
tredici giorni dalla morte della principessa e il suo corpo riposava
imbalsamato in un'arca di legno d'acacia nella cappella di famiglia del
castello. Le delegazioni dei regni invitati alla sepoltura passeggiavano
impazienti per la fortezza del Moro e per il convento, in cerca di notizie
sulla cerimonia.
In realtà quell'immenso andirivieni non mi toccò fino al mattino di
domenica 15 gennaio, festività di San Mauro.
Ringraziai il cielo che i rintocchi di campana mi avessero svegliato
presto. Avevo dormito male, molto inquieto: avevo sognato i dodici
uomini del Cenacolo che si muovevano e parlottavano intorno al
Messia. Potevo quasi indovinare le intenzioni recondite di ciascuno di
loro, ma intuivo che il tempo per strappare loro quei segreti correva
contro di me…
Quella domenica donna Beatrice sarebbe stata tumulata nel nuovissimo
sepolcro degli Sforza, sotto l'altare maggiore di Santa Maria, ed era
probabile che il misterioso Augure che tante volte ci aveva messi in
guardia contro di lei decidesse di farsi vivo.
Dopo le orazioni dell'alba, mi diressi al refettorio. Di sicuro quello
sarebbe stato l'unico momento che avevo a disposizione per
raccogliermi nella sua comoda solitudine. Sarei tornato a perdere lo
sguardo fra i tratti vivaci e colorati del maestro Leonardo e a
immaginare che il misterioso lavoro del toscano non consistesse nel
decorare quella parete, ma nel recuperare da essa a poco a poco, con la
precisione di un chirurgo, una scena magica incisa sotto lo stucco dagli
stessi angeli.
Ero immerso in simili deliri quando, dopo aver svoltato a ovest del
Chiostro dei Morti, diretto verso il portone che chiudeva il refettorio, lo
trovai spalancato. Due uomini che non avevo mai visto prima
conversavano animatamente sulla soglia.
"Avete saputo del bibliotecario?" sentii dire a quello che mi stava più
vicino. Indossava calzoni rossi, una giubba abbottonata a righe gialle e
bianche, e aveva il viso di un cherubino dai ricci dorati. Udendolo
parlare di frate Alessandro, mi tirai il cappuccio sulla testa e, con aria
distratta, decisi di prestare attenzione da una prudente distanza.
"Mi ha raccontato qualcosa il maestro" rispose l'altro, un giovane
vigoroso, moro, dall'aspetto atletico e attraente. "Dicono che sia molto
nervoso, e tutti temono che possa commettere qualche sciocchezza."
"E' logico. Da troppo tempo insiste con quel benedetto digiuno… Temo
che stia perdendo la ragione."
"La ragione?"
"Credo che la mancanza di cibo gli stia procurando allucinazioni. E'
ossessionato dal timore che lo scoprano e lo allontanino dai libri.
Avreste dovuto vederlo stanotte, quando si è incontrato con il maestro.
Tremava di paura come un giunco scosso dal vento." Quello robusto
gettò un'occhiata verso l'angolo in cui me ne stavo acquattato,
obbligandomi a riprendere il mio tragitto per non essere scoperto.
Tuttavia riuscii a sentirgli dire un'ultima cosa.
"Allontanarlo dai libri, dite? Questo non è possibile" sentenziò. "Non
credo che oseranno fargli questo. Ha fatto troppo bene il suo lavoro per
meritare una punizione simile…"
"Quindi siete d'accordo con me?"
"Certamente. Il digiuno finirà per ucciderlo." Quella frase mi spaventò.
Che una cosa così privata, così interna al convento come il digiuno di
padre Alessandro fosse sulla bocca di alcuni laici, estranei alla
comunità, non era normale. Più tardi seppi che l'uomo dai calzoni rossi
era Salaino, il discepolo preferito e protetto di Leonardo, e che il moro
era un gentiluomo apprendista pittore che rispondeva al nome di Marco
d'Oggiono. Essi, come già m'aveva avvertito Bandelle, usavano spesso
la chiave del refettorio. Ci andavano quasi sempre per preparare le
miscele di pittura per il maestro o tenere in ordine i suoi strumenti. Ma
cosa ci facevano lì di domenica, con i funerali di donna Beatrice alle
porte, vestiti a festa? Com'era che parlavano con quella naturalezza di
frate Alessandro e, soprattutto, con quella conoscenza delle sue
abitudini? E perché affermavano che era nervoso? Incuriosito, passai
davanti a loro dirigendomi verso le scale della biblioteca, cercando di
non attirare troppo l'attenzione.
La mia mente, inarrestabile, continuava a bombardarmi di domande:
dove diavolo era stato la notte precedente il bibliotecario? Aveva
incontrato Leonardo? E perché? Non aveva forse criticato apertamente
il maestro durante le nostre conversazioni? Ora era diventato suo
amico?
Un brivido mi percorse la schiena. L'ultima volta che avevo parlato con
frate Alessandro era stato il giorno prima, ai vespri. Mi aveva promesso
di mostrarmi i manoscritti che Leonardo aveva consultato nella
biblioteca del convento, mentre io cercavo di individuare tra di essi il
libro chiuso che l'abate aveva visto sulle carte di donna Beatrice. A dire
il vero non avevo percepito nessun cambiamento nel suo umore. In un
certo modo mi faceva pena. Il frate che mi aveva accolto meglio, che
aveva avuto per me mille riguardi fin dal primo momento in cui avevo
messo piede a Santa Maria, era uno dei pochi a non sapere che cosa
bolliva in pentola in quel posto.
Quel pomeriggio avevo provato rimorso e avevo finito per confessargli
quanto sapevo di Leonardo e della sfida del Cenacolo. Glielo dovevo.
"Quello che sto per raccontarvi" lo avevo avvertito "non dovrà uscire
mai dalla vostra bocca…" Il bibliotecario mi aveva osservato
incuriosito.
"Lo giurate?"
"Su Cristo." Avevo annuito compiaciuto.
"Bene. Il priore crede che messer Leonardo abbia occultato un
messaggio segreto nel dipinto del refettorio."
"Un messaggio segreto? Nell'Ultima cena?"
"Sospetta che si tratti di qualcosa che contrasta la dottrina della Santa
Chiesa. Una credenza che messer Leonardo può aver desunto da uno
dei libri che voi gli avete fornito."
"Quale?" si era spazientito.
"Pensavo che voi lo sapeste."
"Io? Il maestro ha richiesto molti titoli dalla nostra biblioteca. "
"Quali?"
"Sono tanti…" esitò. "Non saprei… Per esempio gli interessava il De
secretis operibus artis et naturae et de nullitate magiae."13 "De secretis
operibus artis?"
"E' un manoscritto francescano raro. Se non mi sbaglio, ne sentì parlare
da fra' Amedeo di Portogallo. Ricordate?"
"L'autore dell'Apocalypsis nova."
"Proprio lui. In quel libro un monaco inglese, un certo Ruggero Bacone,
celebre inventore e scrittore accusato di eresia e fatto imprigionare dal
Sant'Uffizio, illustra le dodici forme diverse per nascondere un
messaggio in un'opera d'arte."
"E' un testo religioso?"
"No. E' piuttosto un testo tecnico."
"E quale altro libro può averlo ispirato?" avevo insistito.
Frate Alessandro si era accarezzato il mento con aria meditabonda. Non
mi era parso nervoso, n‚ turbato dalle mie domande. Era premuroso
come sempre, quasi che le mie confidenze su Leonardo non lo avessero
minimamente colpito.
"Lasciatemi pensare" aveva mormorato. "Forse ha consultato le vite dei
santi di fra' Jacopo da Varagine… Sì, potrebbe aver trovato lì quello
che cercate."
"Nelle opere del famoso vescovo di Genova?" ero stupito.
"Sì, fu vescovo in effetti. Più di trecento anni fa."
"E che cos'avrebbe a che vedere il da Varagine con il messaggio
occulto del Cenacolo?"
"Se tale messaggio esiste, questi libri potrebbero contenere la chiave
per decifrarlo" gli occhi del macilento Alessandro erano chiusi, come se
avesse cercato di concentrarsi. "Fra' Jacopo da Varagine, un
domenicano come noi, raccolse in Oriente quante più informazioni poté
sulle vite dei primi santi, così come su quelle dei discepoli di Nostro
Signore. Le sue scoperte hanno entusiasmato il maestro Leonardo."
Avevo inarcato le sopracciglia, incredulo. "In Oriente?"
"Non vi dovete stupire, padre Leyre" aveva proseguito. "I particolari
contenuti in questo libro non sono precisamente canonici."
"Ah, no?"
"No. La Chiesa non ammetterebbe mai i gradi di parentela che, secondo
fra' Jacopo, intercorrevano fra i Dodici. Sapevate, per esempio, che
Simone e Andrea erano fratelli? Forse questo spiega perché nel
refettorio Leonardo li abbia dipinti come gemelli."
"Davvero?"
"E sapevate, come afferma il da Varagine, che molti confondevano san
Giacomo con lo stesso Cristo? Non avete visto l'enorme somiglianza
che ha con Gesù anche nel Cenacolo?"
"Quindi… Leonardo avrebbe letto quest'opera."
"Molto di più. Deve averla studiata a fondo. E a quanto suggerite, con
maggior interesse che non l'opuscolo di Ruggero Bacone. Credetemi."
Frate Alessandro aveva concluso così la nostra ultima conversazione.
Per questo, quando sentii i due discepoli del toscano affermare che il
bibliotecario si era incontrato con Leonardo quella stessa notte, mi
allarmai. Quella casuale indiscrezione non solo confermava che il
bibliotecario mi aveva nascosto una cosa importante come la sua
amicizia con Leonardo, ma anche che colui che credevo essere il mio
unico amico a Santa Maria mi aveva tradito.
Ma perché?
22
Cercai il bibliotecario ovunque. Sul suo scrittoio giacevano ancora i due
tomi di Jacopo da Varagine che mi aveva mostrato il pomeriggio
precedente. Sbalzati a grandi lettere risaltavano il nome dell'autore e il
titolo del libro, Legenda aurea.
Dell'altro libro, invece, quello sulle arti segrete di padre Bacone, non
c'era traccia. Se frate Alessandro lo custodiva nella sua collezione, lo
teneva bene al sicuro.
Erano solo mie fantasie, o il bibliotecario aveva voluto sviare la mia
attenzione da quel trattato? Perché?
Le domande si accumulavano. Avevo bisogno che frate Alessandro mi
spiegasse alcune cose. Tuttavia, per quanto mi impegnassi a cercarlo in
chiesa, nelle cucine o nell'ala delle celle, nessuno sapeva che fine
avesse fatto. N‚ potei insistere troppo. Con la marea crescente di gente
che arrivava a Santa Maria per vedere da vicino il corteo funebre, non
era difficile perdere di vista il bibliotecario. Sapevo che prima o poi mi
sarei imbattuto in lui e allora mi avrebbe spiegato cosa diavolo stava
succedendo lì dentro.
Alle dieci del mattino la piazza di fronte alla chiesa e l'intero tragitto
che separava Santa Maria dal castello erano gremiti da una moltitudine
silenziosa. Tutti indossavano gli abiti buoni e tenevano in mano candele
e ramoscelli secchi, da agitare al passaggio del feretro della principessa.
La strada che avrebbe percorso il corteo era affollatissima. L'ingresso
alla chiesa, invece, per espresso desiderio del duca era stato ristretto
agli invitati e alle legazioni straniere. Sotto la tribuna era stato innalzato
un palco rivestito di velluto e cordoni dorati che terminavano in nappe,
dove il Moro e i suoi uomini di fiducia avrebbero intonato le loro
orazioni. Tutta l'area era sorvegliata dalle guardie personali del duca e
solo i monaci di Santa Maria godevano di una certa libertà per entrare e
uscire dalla chiesa.
Mi diressi verso la zona riservata della chiesa, non tanto con la speranza
di incontrare frate Alessandro quanto con l'idea di vedere per la prima
volta il maestro Leonardo. Se i suoi aiutanti avevano aperto il refettorio
quel mattino, era probabile che il loro mentore non si trovasse molto
lontano.
Il mio istinto non fallì.
Alle undici in punto un'improvvisa agitazione alterò la calma del
tempio di Santa Maria. La porta principale, sotto l'oculo più grande, si
aprì con grande fragore. Le trombe all'esterno squillarono, annunciando
l'arrivo del Moro e del suo seguito. Quell'avviso strappò una muta
ovazione tra i fedeli a cui era stato concesso di entrare. Fu allora che
una dozzina di uomini dal volto severo e dallo sguardo assente, coperti
da lunghi mantelli ornati di pelliccia nera, fecero il loro ingresso diretti
con passo marziale verso il pulpito. E lì lo vidi. Benché chiudesse il
gruppo, il maestro Leonardo spiccava come Golia tra i filistei. Ma non
fu solo la sua altezza a colpirmi: il toscano, invece dei broccati con
pietre preziose e dei mantelli di seta che avvolgevano gli altri cavalieri,
era vestito di bianco dalla testa ai piedi e sfoggiava una barba lunga,
ancora bionda e curata, che gli ricadeva liscia sul petto. Mentre
avanzava guardava ora da una parte ora dall'altra, come se cercasse
volti noti tra i convenuti. Sembrava il fantasma di un'altra epoca. E
contrastava con il Moro, che camminava tre passi davanti a lui: la pelle
scura e i capelli neri come la pece tagliati a caschetto del duca erano
l'esatto opposto della figura solare di quel gigante.
Chiunque lo notava. I gonfalonieri, gli alfieri delle varie casate reali che
partecipavano ai funerali, tutti percepivano la sua presenza prima di
quella dello stesso Ludovico. E tuttavia il toscano sembrava non
curarsene affatto.
"Siate i benvenuti nella casa del Signore." Il priore Bandelle, circondato
da monaci abbigliati per l'occasione, li accolse dall'altare. Vicino a lui
stavano l'arcivescovo di Milano, il superiore dei francescani e una
dozzina di chierici della corte.
Il Moro e il suo seguito si segnarono e presero posto sul palco loro
riservato, quasi nello stesso istante in cui il gruppo di musici con il
blasone degli Sforza entrava nel tempio annunciando l'arrivo del
feretro.
Il maestro Leonardo, in piedi nella terza fila del palco, rivolgeva
ovunque uno sguardo ansioso e annotava velocemente Dio sa cosa su
uno di quei taccuini che portava sempre con s‚. Mi sembrava che
contemporaneamente studiasse i volti della folla, e prestasse attenzione
agli accordi dell'organo di Santa Maria e allo sventolio degli stendardi
dei gruppi al seguito. Qualcuno mi aveva riferito che il pomeriggio
precedente era rimasto ad ammirare estasiato il volo di quattrocento
colombe liberate davanti al Duomo; mi avevano addirittura assicurato
che aveva preso nota con aria soddisfatta delle salve di cannone fatte
sparare dal nunzio di Sua Santità sotto le mura cittadine in onore della
defunta. Per lui tutto meritava di essere registrato. Tutto racchiudeva le
tracce della scienza segreta della vita.
Certo non fui l'unico a osservare i suoi movimenti durante la cerimonia:
intorno a me la gente non faceva che mormorare su di lui. Quanto più
mi perdevo nel suo sguardo azzurro e nel suo portamento maestoso,
tanto più sentivo la necessità di conoscerlo. L'Augure prima e padre
Bandelle poi avevano accresciuto quella sete, che ora mi bruciava
dentro.
Gli invitati non contribuirono esattamente a placare la mia agitazione.
Bisbigliavano senza tregua dell'ultima follia del toscano: un trattato
sulla pittura, in cui avrebbe screditato poeti e scultori allo scopo di
esaltare la superiorità della propria arte. La sua mente dotata era in
grado allo stesso tempo di distrarre il Moro dal suo dolore, disegnare
ponti levatoi impossibili, torri d'assalto che si muovessero senza cavalli
o gru per scaricare i barconi della lana dei Navigli.
Da Vinci, assorto, ignorava le passioni che suscitava. Ora sembrava che
scarabocchiasse sul suo quaderno un bozzetto del singolare abito
indossato dal duca per l'occasione: un bellissimo mantello di seta nera,
pieno di tagli, forse per dare a intendere che lo aveva squarciato per il
dolore con le sue stesse mani.
Allora non potevo immaginare che di lì a poco avrei conversato con il
maestro.
Fu frate Gilberto, il sacrestano di Santa Maria, a propiziare quel primo
contatto con il pittore, in circostanze tanto drammatiche quanto
inaspettate.
Accadde mentre fra' Bandelle pronunciava la formula della
consacrazione. Quel ragazzone del Nord, dalle guance arrossate e i
capelli color stoppa, mi si avvicinò da dietro e tirò con decisione il mio
abito.
"Padre Agostino! Ascoltatemi!" supplicò fra' Gilberto, sconvolto. I suoi
occhi sporgenti quasi uscivano dalle orbite. Erano iniettati di sangue.
"E' appena successa una cosa terribile in città! Dovevo informarvi
subito!"
"Una cosa terribile?" Le mani del germano tremavano.
"E' un castigo di Dio" sibilò. "Un castigo per quanti sfidano
l'Altissimo…!" Il sacrestano non poté terminare. Benedetto, l'irascibile
guercio confessore del priore, e il gracile Andrea da Inveruno si
avvicinarono a noi con un'identica espressione di urgenza.
"Dobbiamo andare subito. E in fretta!"
"Venite con noi, padre Agostino?" chiese quasi senza fiato il
sacrestano. "Credo che avremo bisogno di sostegno." Tanta premura mi
allarmò. Non sapevo dove dovessi accompagnarli n‚ perché, ma quando
vidi un paggio del duca avvicinarsi a Leonardo e sussurrargli qualcosa
all'orecchio, mentre lo trascinava via da lì con espressione spaventata,
accettai. Era appena successo qualcosa di strano. Di grave. E io volevo
sapere cos'era.
23
Le due guardie del duca quasi non credevano ai propri occhi.
Davanti a loro, il corpo senza vita di un frate. Stretta intorno al collo
una corda spessa quanto un pugno, che lo teneva sospeso a una trave
della loggia di piazza Mercanti.
La guardia in capo Andrea Rho non aveva ancora fatto colazione. In
realtà non aveva quasi finito di allacciarsi l'uniforme, quando quella
notizia aveva interrotto sul nascere la sua noiosa mattinata domenicale.
Con i capelli arruffati, lo stomaco vuoto e l'inconfondibile odore di orso
appena sveglio, Rho si era recato controvoglia a vedere che cosa
succedeva.
Poté fare ben poco. Il disgraziato aveva la pelle bluastra e fredda, le
vene del viso gonfie, gli occhi aperti e secchi. Il terrore dipinto su
quelle pupille suggeriva una morte crudele; il defunto aveva agonizzato
un bel po' prima di soffocare. Le sue braccia, ora abbandonate,
cadevano parallele lungo l'abito bianco di san Domenico, mentre dalle
maniche spuntavano appena due mani curate, magre, rigide. L'olezzo
dolciastro della morte raggiunse il naso del capitano.
"Ebbene?" Lo sguardo di Andrea scivolò su una folla di curiosi, assetati
di scene forti. Molti tornavano a casa frustrati per non essere riusciti a
vedere la sontuosa carrozza funebre della duchessa, e quello scompiglio
per strada prometteva di ricompensarli. Rho sospettava di tutti. Cercava
qualche volto complice, qualcuno che osservasse la scena con
soddisfazione. "Che cosa abbiamo qui?"
"E' un religioso, signore. Un frate" rispose marziale il suo compagno,
mentre cercava di tenere a distanza quella ressa con le braccia
incrociate e la sua picca conficcata in terra.
"Questo lo vedo anch'io, Adriano. Mi hanno svegliato con questa
notizia."
"Ecco, signore" esitò il soldato "quest'uomo è stato trovato stamattina
stessa. Nessuna bottega n‚ magazzino della zona era aperto oggi, per
cui nessuno ha visto niente…"
"L'hai perquisito?"
"Non ancora."
"No? Non sai nemmeno se, prima di impiccarlo, lo hanno derubato?"
Adriano scosse la testa con una smorfia di apprensione.
Era probabile che non avesse mai toccato un cadavere. Rho gli regalò
un'occhiata di disprezzo, prima di rivolgersi alla calca dei curiosi.
"Nessuno sa niente, eh?" gridò loro. "Siete un branco di codardi. Ratti!"
Nessuno reagì. Osservavano estasiati l'impercettibile dondolio del
monaco, facendo congetture a bassa voce sull'accaduto. I religiosi - Dio
ne era testimone - non giravano certo con le borse piene e ai briganti di
strada quasi mai conveniva aggredirli. Ma se non si trattava di ladri, chi
aveva ucciso quel frate? E perché lo avevano giustiziato a quel modo,
abbandonandolo nel mezzo della pubblica via?
Andrea Rho girò un paio di volte il cadavere, prima di formulare
un'altra domanda maliziosa al suo compagno.
"Bene, Adriano. Cerchiamo di essere perspicaci. Tu cosa diresti che è
successo qui? Lo hanno ammazzato o si è impiccato da sé?" Il ragazzo,
schiena ingobbita e sguardo poco presente, meditò un istante la
domanda, come se gli valesse una promozione.
Ruminò la sua risposta con cautela e quando fu sul punto di aprire la
bocca per dire qualcosa… non poté. Una voce possente si alzò tra la
folla: "Si è tolto la vita!" gridò qualcuno da molto indietro. "Si è ucciso!
Su questo non c'è dubbio, capitano!" Era un timbro virile, brusco, che
fece quasi tremare i portici del mercato e zittì la folla.
"E inoltre" proseguì"conosco il suo nome: frate Alessandro Trivulzio,
bibliotecario del convento di Santa Maria delle Grazie! Che Dio
accolga quest'anima al suo fianco!" A quel punto lo sconosciuto
avanzò, aprendosi un varco tra i curiosi. Adriano, la bocca ancora
aperta, lo osservava immobile. Si trattava di un individuo fuori dal
comune: alto, robusto, vestito in modo impeccabile con una tunica di
cotone che gli scendeva fino ai piedi e una folta chioma raccolta sotto
un berretto di lana. Lo accompagnava un ragazzino dall'aspetto schivo,
che non doveva avere più di dodici o tredici anni e sembrava molto
impressionato dalla presenza del morto.
"Però! Finalmente un coraggioso! E voi chi siete, se è lecito saperlo?"
chiese Rho. "Come potete essere tanto sicuro di quello che dite?" Il
colosso cercò gli occhi di Andrea Rho, prima di rispondere.
"E' molto facile, capitano. Se prestate attenzione all'aspetto del suo
corpo, vedrete che non mostra altri segni di violenza che quelli della
rottura del collo. Se avesse opposto resistenza alla morte o fosse stato
aggredito, i suoi abiti sarebbero sporchi, forse strappati o insanguinati.
E non è così. Questo frate ha accettato la propria fine di buon grado. E
se prestate ancora maggior attenzione, vedrete sotto di lui il barile che
gli è servito da patibolo per arrivare alla trave e impiccarcisi."
"Siete esperto di morti, signore" disse l'altro, ironico.
"Ne ho visti più di quanti possiate immaginare, e da vicino!
Lo studio dei cadaveri è una delle mie passioni. Ne ho persino sventrati,
per trasformare le loro viscere in scienza." Il gigante sottolineò quella
frase, sapendo che un mormorio d'orrore si sarebbe diffuso per tutta la
piazza. "Se aveste avuto l'occasione di osservare tanti impiccati quanti
ne ho visti io, capitano, vi sareste reso conto anche di un'altra cosa."
"Quale cosa?"
"Che questo corpo è appeso qui già da qualche ora."
"Davvero?"
"Non c'è dubbio" affermò. "Basta osservare l'esercito di mosche che gli
ronzano intorno. Le mosche di quella specie, piccole e frenetiche, si
avvicinano a un defunto solo dopo due o tre ore. Guardate come
svolazzano in cerca di cibo…! Non è straordinario?"
"Non mi avete ancora detto chi siete!"
"Mi chiamo Leonardo, capitano. E sono al servizio del duca proprio
come voi."
"Non vi avevo mai visto prima."
"I domìni del Moro sono estesi" Leonardo represse una risata,
sconveniente in una simile circostanza. "Sono un artista e lavoro a
diversi dei suoi progetti, uno dei quali nel convento di Santa Maria
delle Grazie: ecco perché conoscevo bene questo sventurato. Sapete?
Era un buon amico." Mentre faceva mostra di segnarsi, la guardia
ducale studiò i modi di quello straniero. Concluse che doveva trovarsi
davanti a una personalità cittadina. Come tutti a Milano, aveva sentito
parlare di un certo saggio chiamato Leonardo e delle sue doti
straordinarie. Cercava di ricordare cosa dicevano di lui: non solo che
era capace di catturare l'animo umano su una tela, o di fondere nel
bronzo la più grande statua equestre di tutti i secoli per commemorare il
defunto Francesco Sforza, ma che possedeva anche conoscenze
mediche che avevano del miracoloso.
Quell'individuo corrispondeva abbastanza all'idea che si era fatto di lui.
"Ditemi dunque, maestro Leonardo, perché secondo voi un frate del
convento di Santa Maria delle Grazie avrebbe scelto di impiccarsi qui?"
"Capitano, questo lo ignoro" rispose con tono più amabile.
"Pur riuscendo a interpretare con facilità i segni esteriori, spesso è
impossibile comprendere la volontà degli uomini.
Tuttavia, forse la risposta è molto semplice: proprio come io vengo
spesso in questo luogo a comprare tele e colori, così egli potrebbe
esserci arrivato in cerca di qualche altra merce. Poi un pensiero funesto
deve avergli attraversato la mente, facendogli decidere che era un buon
momento per morire… Non credete?"
"Di domenica?" Il capitano Rho era dubbioso. "E con i funerali della
principessa Beatrice che si stavano celebrando nel suo stesso convento?
No, io non credo." Il gigante si strinse nelle spalle: "Solo Dio sa cosa
può passare nella mente di uno dei suoi servi…".
"Già."
"Forse se staccate il suo cadavere e lo esaminate con attenzione, potrete
trovare qualche indizio su ciò che era venuto a cercare in questa piazza.
Se lo ritenete opportuno, metto al vostro servizio le mie conoscenze
mediche: sono a vostra completa disposizione per stabilire la causa e il
momento della sua morte.
Basterà che facciate pervenire il suo corpo nel mio studio di…" Il
maestro non concluse la frase. Gilberto, Andrea, Benedetto e io
raggiungemmo il capannello di curiosi in quel preciso istante. Il guercio
marciava in testa, muto, con la stessa espressione che hanno le fiere
prima di attaccare. Quando il suo unico occhio riconobbe la tunica
bianca di Leonardo accanto al corpo di fratel Alessandro, impallidì.
"Messer Leonardo! Che non vi venga in mente di profanare il corpo di
un servo di san Domenico!" gridò, prima ancora di raggiungerlo.
Il toscano voltò la testa verso di noi. Un secondo più tardi ci salutava
con un inchino e ci presentava le sue condoglianze: "Padre Benedetto,
mi dispiace. Sono rattristato per questa morte tanto quanto voi".
Il guercio lanciò un'occhiata al viso inerte di frate Alessandro,
riconoscendolo all'istante. Sembrava impressionato. Ma di sicuro non
tanto quanto lo ero io. Palpai attonito le sue mani fredde e rigide,
incapace di credere che fosse morto. E cosa pensare di Leonardo? Cosa
ci faceva lì il maestro pittore, mostrando tanta partecipazione per la
sorte del bibliotecario?
Non era forse la conferma definitiva che frate Alessandro e lui avevano
intrattenuto una stretta amicizia? Feci il segno della croce, giurando a
me stesso di chiarire la vicenda, proprio mentre il toscano mormorava:
"Che il Signore lo accolga nella sua gloria".
"E a voi che importa?" Frate Benedetto, furioso, assalì il gigante con
astio. "In fondo per voi, maestro, non si trattava che di uno sciocco
utile! Ammettetelo almeno ora, davanti al suo corpo."
"Padre, lo avete sempre sottovalutato."
"Non quanto voi." Un sussulto fece vacillare il maestro.
"Inoltre" proseguì Benedetto "mi sorprende che pronunciate un giudizio
tanto prematuro sulla sua morte. Non si addice alla vostra fama. Il
nostro bibliotecario amava la vita, perché avrebbe dovuto togliersela?"
Attendevo la risposta del toscano, ma non aprì bocca. Forse aveva
intuito il gioco del guercio. I frati di Santa Maria avrebbero cercato di
convincere le guardie che il nostro confratello era stato vittima di
un'aggressione. Accettare l'ipotesi del suicidio equivaleva a disonorarlo,
e avrebbe inoltre reso impossibile seppellirlo in terra consacrata.
Facendo attenzione staccammo il cadavere dall'improvvisato patibolo.
Il bibliotecario conservava dipinta sul viso quella sua curiosa
espressione: era una smorfia beffarda, quasi divertita, che contrastava
con lo sguardo alterato, pieno di terrore. Il toscano, con un gesto
pietoso che nessuno si aspettava, gli si avvicinò, gli chiuse gli occhi e
gli mormorò qualcosa all'orecchio.
"Messer Leonardo, parlate anche con i morti?" Andrea Rho, la testa a
un palmo da quella del pittore, rise alla sua stessa battuta.
"Sì, capitano. Vi ho già detto che eravamo buoni amici." E cosìdicendo
afferrò la mano dell'adolescente dai ricci biondi e dallo sguardo
trasparente insieme al quale era arrivato, e si diresse verso il vicolo
degli Armorari.

24
Ancora oggi non mi spiego perché reagii in quel modo.
Quando vidi il maestro Leonardo allontanarsi tra la folla, ricordai il
consiglio di frate Alessandro: "Chi meno vi aspettereste, avrà una
soluzione per il vostro enigma". E se la risposta sull'identità dell'Augure
l'avesse avuta proprio il suo più acerrimo nemico? Che cosa potevo
perderci nell'interrogarlo? Avrebbe forse sviato le mie indagini
scambiare un paio di frasi con quel gigante dalla tunica bianca e gli
occhi azzurri?
Fu allora che decisi di tentare.
Lasciai fra' Benedetto, fratel Gilberto e Andrea che, rimboccate le
maniche, raccoglievano le spoglie mortali di frate Alessandro. Mi
scusai come potevo e affrettai il passo verso lo stesso vicolo per il quale
si era appena avviato il maestro.
Quanto svoltai l'angolo e non lo vidi, mi misi a correre.
"Vi prendete molti fastidi per fermare un povero artista." Il vocione del
maestro tuonò all'improvviso alle mie spalle. Si era fermato a curiosare
presso una bancarella di verdure e io, senza accorgermene, lo avevo
superato.
Leonardo e il suo efebo sorrisero insieme, le labbra dischiuse allo
stesso modo e gli identici occhi chiari socchiusi.
"Vediamo se indovino" proseguì il gigante, mentre soppesava alcune
teste d'aglio. "Vi manda il tirapiedi del priore, il frate con un occhio
solo, quel Benedetto, per chiedermi se so qualcosa sulla morte del
vostro confratello. O sbaglio?"
"Siete in errore, maestro" spiegai, tornando sui miei passi.
"Non è padre Benedetto che mi manda, ma la mia stessa curiosità."
"La vostra curiosità?" Avvertii uno strano solletico allo stomaco. Da
vicino Leonardo era molto più attraente di quanto mi fosse sembrato nel
palco delle autorità, in chiesa. I suoi lineamenti regolari rivelavano un
uomo di saldi princìpi. Aveva mani grandi, forti, capaci di strappare un
molare alla radice, se occorreva… o di dar vita a un muro con i suoi
disegni magici. Quando il suo sguardo mi attraversò, provai la curiosa
impressione che non avrei potuto mentirgli.
"Permettete che mi presenti" dissi, mentre riprendevo fiato. "In realtà
non appartengo alla comunità di Santa Maria.
Sono solo un ospite. Mi chiamo Agostino Leyre. Padre Leyre."
"Ebbene?"
"Mi trovo a Milano di passaggio. Ma non volevo perdere l'occasione di
farvi sapere quanto ammiro il vostro lavoro nel refettorio. Avrei
desiderato vederlo in circostanze più felici, tuttavia Dio dispone
secondo la propria volontà."
"Il refettorio, sì…" Il gigante abbassò lo sguardo al suolo.
"E' un peccato che non tutti i frati di Santa Maria la pensino come voi."
"Anche frate Alessandro vi ammirava. "
"Lo so, fratello. Lo so. Il frate bibliotecario mi ha aiutato in alcune fasi
difficili del mio lavoro."
"E' a questo che si riferiva padre Benedetto, quando diceva che per voi
era uno sciocco utile?" Leonardo mi osservò con attenzione, come se
studiasse quali parole usare con l'uomo che aveva di fronte. Forse non
mi aveva identificato come l'inquisitore di cui, senza dubbio, i suoi
discepoli dovevano avergli parlato. Oppure se lo aveva fatto, fece in
modo che non me ne rendessi conto.
"Forse ancora non lo sapete, padre, ma frate Alessandro mi è stato di
grande aiuto per ultimare uno dei personaggi più importanti del
Cenacolo. Ed è stato tanto generoso con me, tanto disinteressato, da
posare senza chiedermi niente in cambio e accettando le difficoltà che
quel suo gesto gli avrebbe creato."
"Difficoltà? Che genere di difficoltà?" Non capivo.
Leonardo inarcò le sopracciglia nel vedere la mia espressione stupita.
Immagino che non concepisse che un particolare di tale importanza
avesse potuto sfuggirmi. E con quel suo tono sereno e solenne, si degnò
di illuminarmi.
"Il lavoro di un pittore è più duro di quello che la gente crede" disse
molto serio. "Per mesi vaghiamo in cerca di un'espressione, un profilo,
un volto che corrisponda alle nostre idee e che ci serva da modello. A
me mancava un Giuda. Un uomo che avesse il male scavato nel viso.
Ma non un male qualsiasi: mi serviva una bruttezza intelligente e
sveglia, che rispecchiasse la lotta interiore di Giuda nel portare a
compimento la missione affidatagli proprio da Dio. Converrete con me
che, senza il suo tradimento, il destino di Cristo non si sarebbe mai
consumato."
"E lo avete trovato?"
"Come?" Il gigante sussultò. "Ancora non avete capito?
Frate Alessandro è stato il mio modello per Giuda! Il suo volto aveva
tutte le caratteristiche che cercavo. Era un uomo intelligente ma
tormentato, dai tratti duri, affilati, che quasi ferivano quando ti
guardava."
"Si è lasciato ritrarre come Giuda?" domandai sbalordito.
"Di buon grado, padre. Del resto non fu l'unico. Altri padri della
comunità hanno posato per quest'opera. Ho scelto solo quelli dai
lineamenti più puri."
"Ma Giuda…" protestai.
"Padre, comprendo il vostro stupore. Tuttavia dovete sapere che frate
Alessandro è sempre stato consapevole di ciò a cui si esponeva. Era
cosciente che nessuno nella sua comunità l'avrebbe più guardato nello
stesso modo, dopo essersi prestato a una cosa simile."
"E' comprensibile, non credete?" Leonardo meditò per un attimo se
continuare a parlarmi.
Poi, mentre prendeva di nuovo la mano del ragazzo, aggiunse qualcosa
che mi parve provenire dal più profondo dei suoi pensieri.
"Ciò che non potevo prevedere, e ancor meno desiderare" sussurrò "è
che frate Alessandro avrebbe terminato i suoi giorni proprio come
l'Iscariota: impiccato e solo, lontano dai suoi compagni e ripudiato da
quasi tutti. O forse, padre, non avete notato nemmeno questa strana
coincidenza?"
"A dire il vero, finora no."
"Imparerete presto, padre Leyre, che in questa città niente accade per
caso. Che tutte le apparenze ingannano. E che la verità si trova dove
uno meno se l'aspetta." E con quelle parole, il maestro si dileguò nel
vicolo. Senza che io osassi domandargli di cosa aveva parlato con frate
Alessandro la sera prima della sua morte, o se per caso avesse sentito
parlare di un suo feroce nemico che in pochi conoscevamo come
l'Augure.
25
Luini desiderò con tutte le sue forze fuggire da lì, ma la sua scarsa
volontà lo tradì ancora una volta. Benché la sua coscienza gli urlasse di
scappare da quella giovane, il suo corpo già godeva ai ritmici
incitamenti di donna Elena. "E cosa mi importa della coscienza?"
pensò, salvo pentirsene un istante dopo.
Il maestro non si era mai trovato in una situazione simile.
Una delle donne più desiderabili del ducato lo conduceva per i sentieri
della passione, senza che lui avesse profferito una sola parola. La figlia
dei Crivelli era bella: senza dubbio la Maddalena dal viso più angelico
che avesse mai contemplato. E tuttavia Luini non poteva fare a meno di
sentirsi come Adamo, trascinato alla perdizione per mano di un'Eva
lussuriosa. Ecco, ora stava mordendo la mela del peccato e i suoi umori
gli facevano perdere un'innocenza custodita con tanto impegno fino ad
allora. Per quanto strano potesse sembrare, il maestro Bernardino
rientrava tra i pochi che ancora credevano che il vero albero della
conoscenza del bene e del male fosse stato nascosto da Dio tra le gambe
delle donne. Nutrirsi dei suoi frutti, anche una sola volta, equivaleva
alla condanna eterna.
"Miserere domine…" sospirò.
Se donna Elena gli avesse concesso un solo istante di tregua, il pittore
sarebbe scoppiato in lacrime. Invece no: rosso come un cappello
cardinalizio, cedette a ogni singola sollecitazione della contessina,
inorridendo quando costei, mentre si dimenava sulla sua virilità, gli
domandava con insistenza quali fossero le virtù di Maria Maddalena.
"Ditemelo, raccontatemi tutto!" ansimava e rideva con lo sguardo
alterato dal desiderio. "Spiegatemi perché vi interessa tanto la
Maddalena! Svelatemi il segreto di Leonardo!" Luini, senza fiato, con i
calzoni sotto le ginocchia e seduto sullo stesso divano che poco prima
aveva occupato donna Lucrezia Crivelli, faceva sforzi immani per non
balbettare.
"Ma Elena" rispondeva senza più volontà "così non posso."
"Promettetemi che me lo racconterete!" Luini non rispose.
"Promettete!" E quel maestro peccatore, estenuato, finì per promettere
due volte sul nome di Cristo. Dio solo sa perché.
Quando tutto fu finito ed ebbe recuperato il fiato, il pittore si alzò
lentamente e si rivestì. Era confuso. Turbato. Il titano Leonardo lo
aveva avvertito di quanto fossero pericolose le figlie del serpente, e
come abbandonarsi a loro significasse mancare al supremo obbligo di
ogni pittore, violando il sacro precetto della creazione solitaria. "Solo se
ti mantieni lontano da spose o amanti, potrai dedicarti anima e corpo
alla suprema arte della creazione" aveva scritto. "Se, al contrario, hai
una donna, dovrai dividere i tuoi doni per due. Per tre se hai un figlio, e
perderai tutto se metterai al mondo due o più creature." Quei moniti
cominciavano a riemergere dal profondo della sua mente, facendolo
sentire debole e indegno. Aveva peccato. In pochi minuti la sua
reputazione di uomo perfetto era andata distrutta, lasciando il posto a
una brutta parodia di se stesso. E il male era irreversibile.
Elena, ancora nuda sul divano, guardava il suo pittore senza
comprendere perché, d'improvviso, si fosse irrigidito.
"Vi sentite bene?" domandò con dolcezza.
Il maestro taceva.
"Forse non vi è piaciuto?" Luini, con gli occhi umidi e una smorfia
trattenuta, cercò di soffocare i rimorsi che lo angosciavano. Cosa
poteva dire a quella creatura? Avrebbe forse compreso la sua
sensazione di sconfitta, di debolezza davanti alla tentazione? Peggio
ancora: non le aveva appena promesso, invocando Gesù a testimone, di
rivelarle ciò che tanto desiderava sapere? E come avrebbe fatto, se
anche lui come Elena aveva lo stesso desiderio di conoscere quel
segreto? Dando le spalle alla sua amante, maledisse tra sé e sé la
propria debolezza. Cosa avrebbe fatto? Avrebbe peccato due volte lo
stesso pomeriggio, dapprima venendo meno alla sua castità e poi alla
sua parola?
"Siete triste, amore mio" sussurrò la ragazza, accarezzandogli le spalle.
Il pittore chiuse gli occhi, ancora incapace di articolare una parola.
"Invece voi mi avete riempito di felicità. Vi sentite forse in colpa per
avermi dato quello che vi gridavo di darmi? Vi pesa di aver dato
piacere a una dama?" La contessina, leggendo nel suo silenzio i pensieri
cupi di quell'uomo distrutto, cercò di alleggerirgli la coscienza.
"Non avete nulla da rimproverarvi, maestro Luini. Altri, come fra'
Filippo Lippi, approfittarono dei loro lavori nei conventi per sedurre
giovani novizie. Ed era un chierico!"
"Che dite?"
"Oh!" Elena rise nel veder sussultare il suo amante. "Dovreste
conoscere la storia, maestro. Padre Lippi morì meno di trent'anni fa: di
sicuro il vostro Leonardo lo incontrò a Firenze. Era molto famoso."
"E dite che fra' Filippo…?"
"Certamente!" Elena gli sedette in braccio. "Nel convento di Santa
Margherita, mentre terminava alcune tavole, sedusse una certa Lucrezia
Buti ed ebbe persino un figlio da lei. Non lo sapevate? Andiamo! Molti
credono che fu la disonorata famiglia Buti a spedirlo all'altro mondo
con una buona dose di arsenico. Vedete? Voi non siete colpevole di
niente! Non avete violato nessun voto sacro! Avete solo dato amore a
chi ve lo chiedeva!" Il maestro esitava. Pur sfinito, capiva che la bella
Elena cercava di aiutarlo. Commosso, riuscì infine ad articolare una
frase comprensibile.
"Elena… Se ancora lo desiderate, se ancora volete avvicinarvi a quel
mistero che tanto vi affascina e che ispira il ritratto che sto dipingendo
per voi, vi racconterò il segreto di Maria Maddalena. " La contessina lo
osservò incuriosita. Luini sembrava pronunciare con dolore ogni
singola parola.
"Siete un uomo d'onore. Manterrete la vostra promessa, lo so."
"Sì. Ma ora dovete promettermi che non mi toccherete mai più. E che
non parlerete con nessuno di quanto vi svelerò."
"E quel segreto, maestro, mi farà conoscere la ragione della vostra
tristezza?" Il pittore cercò lo sguardo trasparente della contessina, anche
se poté a malapena sostenerlo. L'insistente preoccupazione di Elena
Crivelli per il suo benessere lo disarmò. Ricordò allora quello che
aveva sentito dire sulla stirpe delle Maddalene: il loro sguardo era
capace di blandire il cuore di qualsiasi uomo, grazie al potente
incantesimo d'amore che racchiudeva. Gli antichi trovatori non
mentivano. Quella creatura non meritava forse di conoscere la verità
sulle sue origini? Sarebbe stato tanto crudele da non indicarle qual era il
cammino che doveva percorrere per scoprirla?
E così Bernardino Luini, costringendosi al suo miglior sorriso,
acconsentì infine alla richiesta di Elena.
26
Il segreto di Maria Maddalena secondo il maestro Luini "Ascoltate,
dunque" disse.
"Avevo appena compiuto tredici anni quando il maestro Leonardo mi
accolse nella sua bottega a Firenze. Mio padre, un soldato di ventura
che aveva messo insieme una certa quantità di denaro grazie ai Visconti
di Milano, reputò conveniente che fossi istruito nell'arte della pittura
prima di consacrarmi alla vita monastica o, almeno, a un'esistenza
secolare retta dalle leggi di Dio. Lui, allora, aveva le idee più chiare di
me: desiderava tenermi lontano dal fragore della guerra e proteggermi
sotto l'ampio mantello della Chiesa. E poiché a Milano non esisteva un
buon laboratorio di belle arti, mi assegnò una dote annuale e mi inviò
nella raffinata Firenze, governata allora da Lorenzo il Magnifico.
"Tutto ebbe inizio lì.
"Messer Leonardo da Vinci mi sistemò in una villa enorme e
malandata. All'esterno era nera, metteva paura. All'interno, però, era
luminosa e quasi priva di pareti. Le stanze erano state eliminate per
lasciar posto a una successione di grandi spazi, ingombri degli oggetti
più strani che uno potesse immaginare.
Al pian terreno, accanto all'ingresso, si trovavano intere collezioni di
erbari, vasi e gabbie con allodole, fagiani e persino falconi da caccia. Di
fianco si ammucchiavano stampi per fondere teste, zampe di cavallo e
corpi di tritoni in bronzo. C'erano specchi ovunque. E candele. Per
raggiungere la cucina bisognava attraversare un corridoio sorvegliato
da scheletri di legno, che intimorivano chiunque. Il solo pensiero di
cosa il maestro potesse nascondere in soffitta mi riempiva di terrore.
"Nella casa vivevano anche altri discepoli del maestro. Erano tutti più
grandi di me, cosicché, dopo gli scherzi dei primi giorni, mi trovai in
una situazione più o meno confortevole e potei iniziare ad abituarmi
alla nuova vita. Credo che Leonardo si fosse invaghito di me. Mi
insegnò a leggere e scrivere in latino e greco, e mi spiegò che senza
quella preparazione era inutile mostrarmi un'altra forma di scrittura che
chiamava "la scienza delle immagini".
"Ve lo immaginate, Elena? Le mie materie di studio si moltiplicarono
per tre e inclusero discipline insolite come la botanica o l'astrologia. In
quegli anni il motto del maestro era lege, lege, relege, ora, labora et
invenies 14 mentre le sue letture preferite (e di conseguenza anche le
nostre) erano le vite dei santi di Jacopo da Varagine.
"Tommaso, Andrea e gli altri apprendisti odiavano quegli scritti, ma per
me fu tutta una scoperta. Da essi imparai cose incredibili. Nelle loro
pagine trovai decine di notizie curiose, miracoli e avventure di santi,
discepoli e apostoli di cui non avrei mai immaginato l'esistenza. Per
esempio, lì lessi che Giacomo il Minore era detto "il fratello del
Signore" perché si assomigliavano come due gocce d'acqua. Quando
Giuda concordò con il sinedrio di baciare Nostro Signore nel Giardino
degli ulivi come segnale, temeva che i sicari scambiassero il vero Gesù
con il suo quasi gemello san Giacomo.
"Naturalmente di questo i Vangeli non dicono una sola parola.
"Mi dilettai inoltre con le avventure dell'apostolo Bartolomeo. Quel
discepolo dall'aspetto di gladiatore terrorizzava gli altri undici con la
sua incredibile capacità di prevedere il futuro. Tuttavia tanta scienza gli
servì a poco: non seppe prevedere che sarebbe morto martire in
Armenia.
"Quelle rivelazioni andarono sedimentando man mano dentro di me,
facendomi sviluppare una capacità unica per immaginare i volti e il
carattere di personaggi tanto importanti per la nostra fede. Era ciò che
Leonardo voleva: stimolare la nostra visione delle storie sacre e dotarci
di quel dono speciale di trasferirle sulle nostre tele. Mi consegnò allora
una lista di virtù apostoliche, attinta da Jacopo da Varagine, che ancora
conservo. Eccola: chiamò Bartolomeo Mirabilis, il prodigioso, per la
sua capacità di anticipare il futuro. Il fratello gemello di Gesù era
Venustus, il pieno di Grazia…" Elena, divertita dalla venerazione con
cui Luini dispiegava quel pezzo di carta che custodiva in una tasca
cucita sulla sua camicia, glielo strappò dalle mani e lo lesse senza
comprenderlo del tutto: Bartolomeo Giacomo il Minore Andrea Giuda
Iscariota Pietro Giovanni Tommaso Giacomo il Maggiore Filippo
Matteo Giuda Taddeo Simone Mirabilis Venustus Temperator
Nefandus Exosus Mysticus Litator Oboediens Sapiens Navus
Occultator Confector Il prodigioso Il pieno di grazia Colui che modera
L'empio Colui che odia Colui che conosce il mistero Colui che placa gli
dèi Colui che obbedisce L'amante delle cose elevate Il diligente Colui
che nasconde Colui che porta a termine "E lo avete conservato per tutti
questi anni?" disse, giocherellando con quel foglio sudicio.
"Sì. La ricordo come una delle lezioni più importanti del maestro
Leonardo."
"Tanto ora non lo vedrete più!" rise lei.
Luini la ignorò. Elena teneva provocatoriamente il suo elenco sopra la
testa, in attesa che il pittore si lanciasse su di lei per recuperarlo. Lui
non cadde nella trappola. Aveva visto così tante volte quell'elenco,
l'aveva studiato con così intensa devozione, cercando di ricavare dalle
loro qualità i profili dei Dodici, che ormai non gli occorreva più. Lo
sapeva a memoria.
"E la Maddalena?" chiese infine la contessina, piuttosto delusa. "Lei
non c'è tra questi nomi. Quando mi parlerete di lei?" Luini, lo sguardo
perso nel crepitio del camino, proseguìil suo racconto.
"Come vi ho detto, studiare l'opera di fra' Jacopo da Varagine mi segnò.
Ora, a distanza di anni, riconosco che, tra tutti i suoi racconti, ad
attrarre maggiormente la mia attenzione fu quello su Maria Maddalena.
Per qualche ragione messer Leonardo volle che lo studiassi con
particolare dedizione. E così feci.
"A quell'epoca le rivelazioni con cui il maestro integrava la lezione del
vescovo di Genova non mi preoccupavano affatto: a tredici anni ancora
non distinguevo tra ortodossia ed eterodossia, tra quanto è accettato
dalla Chiesa e quanto non lo è.
Forse per questo la prima cosa che si impresse nella mia mente fu il
significato del suo nome: Maria Maddalena significa "mare amaro",
"colei che illumina" e anche "l'illuminata". Del primo significato il
vescovo scrisse che aveva a che vedere con il fiume di lacrime versate
da questa donna nel corso della sua vita. Amò con tutto il cuore il Figlio
di Dio, ma Egli era venuto al mondo con una missione più importante
che quella di formare una famiglia con lei. Così la Maddalena dovette
imparare ad amarlo in un modo diverso. Leonardo mi mostrò che il
miglior simbolo per ricordare le virtù di questa donna era il nodo. Già
ai tempi degli egizi il nodo era associato alla magia della dea Iside.
Nella loro mitologia, mi spiegò, Iside aveva aiutato Osiride a
resuscitare e si era avvalsa della sua destrezza nello sciogliere i nodi per
raggiungere il proprio obiettivo.
La Maddalena fu l'unica che assistette al ritorno alla vita di Cristo, ed è
giusto pensare che anche lei dovesse essere esperta nella scienza dei
nodi. Una scienza, diceva il maestro, non esente da amarezze: chi non
prova angoscia dinanzi a un laccio ben annodato, nel momento di
disfarlo?
"Quando vedrai dipinto un nodo ben visibile su una tela, ricordati che
quell'opera è stata dedicata alla Maddalena" mi insegnò.
"Quanto alle altre due accezioni del suo nome, ancora più profonde e
misteriose se possibile, avevano a che fare con un concetto caro al
maestro Leonardo e di cui ci parlava di continuo: la luce. Secondo lui la
luce è l'unico luogo nel quale riposa Dio. Il Padre è luce. Il cielo è luce.
Tutto, in fondo, lo è.
Per questo continuava a ripetere che se noi uomini avessimo appreso a
dominarla, saremmo stati capaci di evocare il Padre e di parlare con lui
ogni volta che ne avessimo avuto bisogno.
"Quello che allora non sapevo era che quel concetto della luce come
mediatrice dei nostri dialoghi con Dio era arrivato in Europa proprio
grazie alla Maddalena.
"Vi racconterò anche questo.
"Dopo la morte di Gesù sul Golgota, Maria Maddalena, Giuseppe di
Arimatea, Giovanni, il discepolo prediletto, e un piccolo gruppo di
fedeli seguaci del Messia fuggirono ad Alessandria, per evitare le
persecuzioni che si erano abbattute su di loro. Alcuni restarono in
Egitto e fondarono le prime e più sagge comunità cristiane che si
ricordino, ma la Maddalena, depositaria dei grandi segreti del suo
amato, non si sentiva al sicuro in una terra così vicina a Gerusalemme.
Per questo finì per nascondersi in Francia, alle cui coste approdò
cercando un rifugio più sicuro".
"E di quali segreti si trattava?" La domanda della contessina riportò il
maestro alla realtà.
"Grandi segreti, Elena. Così grandi che da allora solo pochissimi
mortali prescelti hanno potuto accedervi." La giovane spalancò gli
occhi.
"Sono i segreti che Gesù le rivelò dopo essere resuscitato dai morti?"
Luini annuì.
"Sono quelli. Ma a me ancora non sono stati rivelati." Quindi il maestro
riprese il suo racconto.
"Maria Maddalena, detta anche di Betania, approdò nel Sud della
Francia in un paesino che da allora si sarebbe chiamato Les Saintes-
Maries de la Mer, perché furono diverse le Marie che arrivarono con
lei. Là predicò la buona novella di Gesù e iniziò la propria gente al
"segreto della luce", che più avanti sarebbe stato accolto da eresie come
quella dei catari e degli albigesi. E finìaddirittura per diventare la nuova
patrona di Francia, No tr‚-Dame de Lumière.
"Ma l'epoca delle rivelazioni pacifiche finì presto. La Chiesa si rese
conto che quelle idee costituivano un pericolo per l'egemonia di Roma e
volle porre fine alla loro diffusione. Dal suo punto di vista era logico:
come poteva il papa accettare l'esistenza di comunità cristiane che non
avessero bisogno di una curia regolare per rivolgersi a Dio? Poteva
forse il rappresentante di Cristo in terra mettersi in posizione di
inferiorità o anche solo a pari livello rispetto alla Maddalena? E che
dire dei suoi seguaci? Non era idolatria venerare una cosa come la luce?
La Chiesa, dunque, condannò, calunniò e degradò da subito quella
donna che aveva amato Gesù e che come nessun altro mortale aveva
saputo della sua condizione umana.
"Mia cara Elena, lasciate che vi spieghi qualcos'altro.
"Un giorno dell'inizio del 1479, mentre Firenze ancora doveva
riprendersi dal feroce attentato contro il nostro venerabile Lorenzo de'
Medici, 15 il maestro Leonardo ricevette una strana visita nella sua
bottega. Un uomo intorno alla cinquantina arrivò nel nostro laboratorio,
mentre il sole di mezza mattina splendeva alto. Sfoggiava una zazzera
bionda e ricciuta, e si vantava della propria somiglianza con i cherubini
che stavamo abbozzando con scarsa destrezza sulle nostre tele. Quello
strano tipo aveva modi affabili ed era elegantemente vestito di nero.
Arrivò senza annunciarsi e passeggiò per i domini del maestro come se
fossero i suoi. Si prese persino la libertà di esaminare uno per uno i
lavori che stavamo eseguendo. Il mio era, casualmente, un ritratto di
una Maddalena, che teneva tra le mani un recipiente di alabastro. Ciò
parve rallegrare oltremodo il visitatore.
"Vedo che messer Leonardo vi insegna bene!" approvò. "Il vostro
schizzo ha grandi potenzialità… Continuate così."
"Mi sentii lusingato.
""A proposito" disse poi "sapete qual è il significato della brocca che
regge la vostra Maddalena?"
"Scossi il capo.
""Si trova nel capitolo tredici del Vangelo di san Marco, ragazzo.
Questa donna unse Gesù versando il recipiente degli unguenti sui suoi
capelli, come una sacerdotessa avrebbe fatto con un vero re… Un re
mortale, in carne e ossa."
"Il maestro arrivò in quel momento. Con sorpresa di tutti non solo non
si adombrò nel vedere un intruso nella sua bottega, ma il suo viso si
illuminò. Non appena lo ebbe riconosciuto, si strinsero in un affettuoso
abbraccio, si baciarono sulle guance e cominciarono a parlare seduta
stante del divino e dell'umano. Fu allora che ascoltai per la prima volta
una cosa che mai avrei immaginato sulla vera Maria Maddalena.
"Caro Leonardo, i lavori proseguono a buon ritmo" disse soddisfatto il
cherubino. "Anche se dalla morte di Cosimo il Vecchio ho
l'impressione che i nostri sforzi possano finire nel nulla in qualsiasi
momento. La Repubblica di Firenze, sono sicuro, dovrà affrontare
prove terribili in un futuro non molto lontano."
"Il maestro prese le mani sottili del visitatore e le strinse tra le sue,
grandi come quelle di un fabbro.
"Finire nel nulla, dici?" il suo vocione scosse tutto la stanza. "Ma se la
tua Accademia è un tempio del sapere solido come le piramidi d'Egitto!
Non è forse vero che in pochi anni si è trasformata nel luogo di
pellegrinaggio preferito dei giovani che vogliono saperne di più sui
nostri brillanti antenati? Hai tradotto con successo opere di Piotino,
Dionigi Areopagita, Proclo e persino dello stesso Ermete Trismegisto, e
hai trasposto al latino i segreti degli antichi faraoni. Come può far
acqua tutto questo patrimonio? Mio vecchio amico, sei il pensatore più
illustre di Firenze!"
"L'uomo dal saio nero arrossì.
"Le tue parole sono davvero gentili, amico Leonardo. Tuttavia la nostra
lotta per recuperare il sapere che l'umanità perse ai tempi mitici dell'età
dell'oro è nella sua fase più delicata. Per questo sono venuto a trovarti."
""Proprio tu parli di sconfitta?"
"Sai già qual è la mia ossessione, da quando ho tradotto le opere di
Platone per il vecchio Cosimo, vero?"
"Certo. La tua vecchia idea dell'immortalità dell'anima!
Tutto il mondo onorerà il tuo nome per quella scoperta! Lo posso quasi
vedere scolpito in lettere dorate sopra grandi archi di trionfo: 'Marsilio
Ficino, l'eroe che ci ha restituito la dignità'. Persino il papa ti riempirà
di benedizioni "
"Il cherubino rise: "Sempre così esagerato, Leonardo".
""Lo credi davvero?"
"In realtà il merito è di Pitagora, Socrate, Platone e anche di Aristotele.
Non mio. Io li ho solo tradotti in latino, perché tutti possano attingere a
quel sapere."
"Allora, Marsilio, che cosa ti preoccupa?"
""Mi preoccupa il papa, maestro. Ci sono buone ragioni per credere che
sia stato lui a dar ordine di assassinare Lorenzo de' Medici nel Duomo.
E sono sicuro che non sono state solo ambizioni politiche a motivare il
suo tentativo mancato, ma anche religiose."
"Leonardo inarcò le folte sopracciglia, senza osare interromperlo.
"Viviamo ormai da molti mesi con quel maledetto interdictum nella
nostra città. Dall'attentato contro i Medici la situazione è diventata
insostenibile. Nelle chiese sono proibiti la celebrazione di sacramenti o
gli atti di culto, e il peggio è che questa pressione continuerà finché io
non mi arrenderò…"
"Tu?" Il titano ebbe un sussulto. "E cosa c'entri tu con tutto questo?"
"Il papa vuole che l'Accademia rinunci al possesso di una serie di testi e
documenti antichi, nei quali si affermano cose contrarie alla dottrina
della Chiesa. La congiura contro Lorenzo cercava, tra l'altro, di
impossessarsene con la forza. A Roma sembrano particolarmente
interessati a portarci via gli scritti apocrifi dell'apostolo Giovanni che,
come sai, sono nelle nostre mani già da qualche tempo."
"Capisco…"
"Il mio maestro si accarezzò la barba, come faceva sempre quando
meditava qualche cosa.
"Che informazioni temi di perdere, Marsilio?" domandò.
"In quegli scritti, copie di copie di righe inedite dell'apostolo prediletto,
si narra la storia dei Dodici dopo la morte di Gesù.
Secondo tali racconti, le redini della prima Chiesa, di quella originaria,
non furono mai nelle mani di Pietro, ma di Giacomo.
Ti immagini? La legittimità del papato salterebbe per aria!"
"E credi che a Roma sappiano dell'esistenza di quei documenti e
vogliano entrarne in possesso a tutti i costi…"
"Il cherubino annuì, poi aggiunse un'altra cosa: "I testi di Giovanni non
si fermano lì".
"Davvero?"
"Dicono che oltre alla Chiesa di Giacomo, tra i discepoli si produsse
un'altra scissione guidata da Maria Maddalena e promossa dallo stesso
Giovanni."
"Il maestro fece una smorfia di sorpresa, mentre l'uomo dal saio nero
proseguiva.
"Secondo Giovanni, la Maddalena fu sempre molto vicina a Gesù. Al
punto che molti ritennero dovesse essere lei a portare avanti i suoi
insegnamenti, e non quel gruppo di discepoli codardi che lo avevano
rinnegato nei momenti di pericolo…"
"Perché mi racconti tutto questo ora?"
""Perché tu, Leonardo, sei stato prescelto come depositario di queste
informazioni."
"Il cherubino dallo sguardo nobile riprese fiato, prima di continuare:
"So quanto sia pericoloso conservare questi testi.
Potrebbero mandare al rogo chiunque. Tuttavia, prima che vengano
distrutti ti prego di studiarli, affinché tu apprenda quanto possibile su
quella Chiesa della Maddalena e di Giovanni di cui ti ho appena
parlato: quando ti si presenterà l'occasione, disseminerai di tracce di
questi "nuovi vangeli" le tue opere. Così si compirà l'antico proverbio
biblico: chi ha occhi per vedere…".
"… veda."
"Leonardo sorrise. Non ci pensò molto. Quello stesso pomeriggio
promise al cherubino di farsi carico di quell'eredità. So anche che si
incontrarono ancora e che l'uomo vestito di nero consegnò al maestro
libri e documenti che questi poi studiò con molta attenzione. In seguito,
di fronte alla piega presa dagli avvenimenti, l'ascesa al potere di frate
Savonarola e la caduta dei Medici, raggiungemmo Leonardo a Milano
al servizio del duca e cominciammo a lavorare ai compiti più diversi.
Dopo esserci consacrati solo alla pittura passammo al disegno e alla
progettazione di macchine da guerra o di congegni per volare. Ma quel
segreto, quella strana rivelazione cui assistetti nella bottega di
Leonardo, non si cancellò mai dalla mia memoria.
"Elena, volete che vi sorprenda con una rivelazione ulteriore?
"Benché il maestro non sia mai più tornato sull'argomento con nessuno
dei suoi apprendisti, credo che messer Leonardo stia proprio ora
mantenendo la promessa che fece a Firenze a quel Marsilio Ficino. Ve
lo dico con il cuore in mano: ogni volta che vado a vedere i suoi lavori
nel refettorio dei domenicani, mi vengono in mente le ultime parole
rivolte dal maestro al cherubino quel lontano pomeriggio d'inverno…
"Quando vedrai in uno stesso dipinto il viso di Giovanni e il tuo, amico
Marsilio, saprai che è lì, e in nessun altro luogo, che ho deciso di
nascondere il segreto che mi hai confidato."
"E sapete? Ho ritrovato il viso del cherubino nell'Ultima cena!"
27
Seppellimmo il fratello bibliotecario nel Chiostro dei Morti poco prima
dei vespri di martedì 17 gennaio. Non volevano che il suo corpo
iniziasse a decomporsi nella cappella in cui lo avevamo vegliato e si
decise di seppellirlo rapidamente. Due novizi l'avvolsero in un telo di
lino bianco e, sostenendolo con due cinghie, lo calarono in fondo a una
fossa che si ricoprì subito di terra e neve. La sua fu una cerimonia
veloce, che non seguì il protocollo, un addio in tutta fretta, appena
giustificato dal nostro obbligo di cenare prima che facesse buio. E
mentre i frati parlottavano tra loro del riso con legumi che li aspettava o
dei dolcetti di miele che ancora avanzavano da Natale, uno strano
malessere si impadronì di me. Per quale motivo il priore e il suo seguito
- tesoriere, cuoco, Benedetto il guercio e tutti gli altri - stavano
partecipando come se nulla fosse alla seconda sepoltura in meno di una
settimana nel loro convento?
Perché sembrava che gli importasse così poco del fratello Alessandro?
Nessuno avrebbe versato una lacrima per lui?
Solo padre Bandelle dimostrò, alla fine, un briciolo di umanità per lo
sventurato che giaceva sotto i nostri piedi. Nella sua breve omelia
aveva insinuato di essere in possesso delle prove per dimostrare che il
frate era stato vittima dell'agguato di qualche pazzo arrivato a Milano in
quei giorni. "Perciò nessuno più di lui merita cristiana sepoltura in
questo luogo." Tuttavia Bandelle ci aveva ammonito con tono severo:
"Non credete alle menzogne che già circolano in città". E senza
distogliere lo sguardo da quel fardello funebre, che scendeva piano
piano, aveva aggiunto: "Il fratello Trivulzio, che Dio lo riceva ora nella
sua gloria, è morto martire per mano di un abominevole criminale, che
prima o poi riceverà il suo castigo. Io stesso mi impegnerò in questo
senso".
Crimine o suicidio che fosse, per quanto cercassi di mettere a tacere i
miei sospetti non mi risultava facile accettare che per Santa Maria due
funerali in così breve spazio di tempo fossero all'ordine del giorno. Le
ultime parole che il maestro Leonardo mi aveva rivolto prima di
scomparire, diretto alla sua bottega, colpirono la mia mente come il
tuono che annuncia la tempesta: "… In questa città niente accade per
caso…
Non dimenticatelo mai".
Quella sera non cenai.
Non potevo.
Gli altri frati, meno scrupolosi di questo povero servo di Dio, corsero a
riempirsi lo stomaco nella sala adibita a refettorio, facendo piazza pulita
degli avanzi del banchetto funebre offerto dal duca il giorno dei funerali
della sua sposa. Con il vero refettorio invaso da ponteggi e colori, le
abitudini dei frati da anni erano nello scompiglio e ormai sembrava loro
quasi normale che i pasti fossero serviti al piano nobile.
Tanta precarietà aveva, però, un aspetto positivo: finché duravano i
lavori, sapevo che la sala dell'Ultima cena all'ora dei pasti sarebbe stata
il nascondiglio perfetto per ritirarmi a meditare. Lìnessun frate avrebbe
disturbato le mie riflessioni e nessun visitatore estraneo al convento
avrebbe curiosato in un luogo sottosopra, freddo e polveroso come
quello.
E verso il refettorio, con la mente rivolta ai giorni condivisi con frate
Alessandro e all'enigma interrotto che ci aveva tenuto impegnati, diressi
i miei passi per pregare per l'eterno riposo della sua anima.
La sala era vuota. Le ultime luci del pomeriggio illuminavano appena la
parte inferiore dell'opera del toscano, mettendo in risalto i piedi di
Nostro Signore, che apparivano incrociati l'uno sull'altro. Era forse
un'anticipazione di ciò che Cristo stava per affrontare sul Calvario? O il
maestro aveva dipinto i suoi piedi in quel modo per qualche altra oscura
ragione? Mi segnai. Il debole chiarore che filtrava dal colonnato
irregolare del vicino chiostro conferiva un che di spettrale alla scena.
Solo allora, nel guardare meglio i commensali della Santa Cena, me ne
resi conto.
Era vero: Giuda aveva il viso di frate Alessandro.
Come avevo fatto a non accorgermene prima?
Il malvagio apostolo se ne stava seduto lì, alla destra del Galileo,
ammirando in silenzio la sua serena bellezza. In effetti, escluse
l'espressione di stupore di Giacomo il Maggiore e l'animata discussione
che sembravano intrattenere Matteo, Giuda Taddeo e Simone
all'estremità opposta del tavolo, il resto degli apostoli aveva le labbra
sigillate. C'era qualcosa di ironico nel pensare che, in quel preciso
istante, l'anima di frate Alessandro forse stava contemplando davvero il
volto del Padre Eterno.
Se però, come Giuda, il bibliotecario aveva deciso di togliersi la vita e
Bandelle sbagliava nel presumerne l'innocenza, non era la gloria di Dio
ad attenderlo, bensì i tormenti eterni.
Mentre il mio sguardo vagava sul dipinto, un altro particolare catturò la
mia attenzione. Giuda e Nostro Signore sembravano contendersi un
pezzo di pane, o forse un frutto, che nessuno dei due arrivava ad
afferrare. Il traditore, che teneva nella destra la borsa dei denari
dell'infamia, allungava la mano sinistra verso l'esterno del tavolo
cercando di prendere qualcosa. Il Signore, ignaro di quel gesto, tendeva
la sua destra nella stessa direzione. Cosa poteva esserci lì che
interessasse al contempo l'uno e l'altro? Cosa poteva rubare Giuda al
Nazareno in quell'istante, quando il Figlio di Dio già sapeva che lo
aveva tradito e che la sua sorte era segnata?
Ero perso in queste elucubrazioni, quando una visita inaspettata
interruppe i miei pensieri.
"Scommetto dieci contro uno che non ci capite niente, vero?" Sussultai.
Una figura che non riuscii a identificare, coperta da un mantello
granata, attraversò la penombra e si fermò a pochi passi da me.
"Siete padre Leyre, per caso?" domandò.
Le mie pupille si dilatarono nello sforzo di distinguere il viso di una
donna, dolce e tondo, sotto un copricapo viola adorno di piume. Quella
donzella era travestita da uomo, una cosa non solo proibita ma anche
pericolosa, e mi osservava con aperta curiosità. Era alta più o meno
come me e le sue fattezze femminili erano ben dissimulate sotto i suoi
abiti ampi. Mentre attendeva la mia risposta, uno dei suoi guanti di
pelle accarezzava l'impugnatura lucente di uno stocco.
Credo che le risposi balbettando.
"Non vi preoccupate, padre" sorrise. "La spada è per proteggervi. Non
vi farà del male. Sono venuta a cercarvi, perché tutti i vostri dubbi
meritano una risposta. E per riceverla il mio signore crede che dobbiate
restare vivo." Ammutolii.
"Ho bisogno che mi accompagniate in un luogo più discreto" aggiunse.
"Una questione urgente reclama la vostra presenza in un altro punto
della città. " Il suo invito non suonò come una minaccia, ma come una
cortese richiesta. Una donna dalle maniere raffinate si distingueva
anche sotto quella cappa, e lasciava trapelare un'energia poco comune.
Aveva uno sguardo sveglio, felino e un atteggiamento fermo, che non
avrebbe accettato un no in risposta.
E benché le tenebre si fossero già impadronite della sala, l'intrusa tornò
sui propri passi trascinandomi con s‚ attraverso il corridoio che univa il
refettorio alla chiesa e che abitualmente percorrevamo solo noi frati.
Come poteva conoscere tanto bene quegli ambienti? Quando
sboccammo sulla strada senza aver visto nemmeno l'ombra di un
domenicano, la donna travestita mi intimò di affrettare il passo.
Impiegammo dieci minuti a raggiungere la chiesa di Santo Stefano,
lontana quattro o cinque isolati. Ormai era notte. Girammo sulla destra
del tempio e ci addentrammo in un vicoletto che sarebbe stato difficile
individuare senza una guida esperta. La facciata di mattoni di un
imponente palazzo a due piani, illuminata da due torce accese da poco,
risplendeva in fondo allo stretto passaggio. La mia interlocutrice, che
non aveva pronunciato più parola da quando avevamo abbandonato
Santa Maria, mi fece strada.
"Siamo già arrivati?" domandai.
Ci venne incontro un servitore, che indossava una giubba di lana stretta
in vita e un cappuccio.
"Se vostra eccellenza si degna di seguirmi" disse cerimonioso "vi
condurrò al cospetto del mio signore. E' impaziente di ricevervi."
"Il vostro signore?"
"Proprio così" rispose, mentre si esibiva in un inchino esagerato.
La spadaccina sorrise.
La dimora era decorata da oggetti di straordinario valore.
Vecchie colonne romane di marmo, statue dissotterate non molto tempo
prima, tele e arazzi si accumulavano sulle pareti e in ogni angolo della
casa. Quella superba magione era costruita intorno a un ampio cortile
centrale, con un labirinto di siepi in mezzo, verso cui ci dirigemmo. Mi
stupì quel silenzio.
Soprattutto quando, uscendo all'aperto, notai che i vialetti del labirinto
erano affollati di persone dai volti seri, come in attesa di qualche evento
fatale.
Così era: nell'attraversare il cortile distinsi un capannello di servitori la
cui attenzione era tutta concentrata su due individui, che si fissavano
con aria di sfida. Erano in maniche di camicia, stringevano due spade
sguainate dalle lame strette e, nonostante il freddo, sudavano
copiosamente. La mia anfitriona si scoprì il capo e contemplò la scena
estasiata.
"E' già iniziato" disse delusa. "Il mio signore voleva che vedeste
questo."
"Questo?" mi allarmai. "Un duello?" Prima che potesse replicare, il più
anziano dei due uomini, un individuo corpulento, alto, con pochi capelli
e spalle larghe, si lanciò contro il più giovane scaricando su di lui tutta
la forza della sua arma.
"Domine Jesu Christe!" gridò l'aggredito, mentre respingeva la carica
incrociando la propria arma sul petto e spalancava gli occhi per il
terrore.
"Rex Gloriae!" replicò il suo aggressore.
Quello non era un allenamento. La furia del calvo cresceva
progressivamente, mentre le lame cozzavano l'una contro l'altra con
violenza. I suoi colpi erano rapidi, duri. Clan, clan, clan. Ogni impatto
suonava come la nota di una melodia frenetica e mortale.
"Mario Forzetta" mi sussurrò la spadaccina, indicando il giovane che
ora indietreggiava per riprendere fiato "è un apprendista pittore di
Ferrara. Ha voluto ingannare il mio signore in un accordo. Il duello è al
primo sangue, come in Spagna."
"Come in Spagna?"
"Colui che per primo ferisce l'avversario, vince." La lotta si inasprì.
Uno, due, tre, quattro nuovi colpi echeggiarono nel cortile, forti come
quelli di una bombarda. Lo scintillio metallico delle spade si proiettava
sui balconi.
"Non sarà la vostra giovinezza a salvarvi la vita" gridò il calvo "ma la
mia clemenza!"
"Tenetela per voi, Jacaranda!" L'orgoglio di quel Forzetta durò poco.
Tre violenti fendenti minarono ben presto la sua resistenza, riducendolo
in ginocchio e obbligandolo ad appoggiare le mani a terra. Il suo
avversario sorrise trionfante, mentre un'ovazione percorreva il cortile. Il
nemico del padrone di casa aveva perso il combattimento. Rimaneva
solo da rispettare il rituale: così, con la precisione di un chirurgo, la
spada del vincitore lacerò l'aria fino a sfiorare con la punta la guancia
del giovane, da cui all'istante sgorgò un liquido di un vermiglio intenso.
Al primo sangue.
"Vedete?" ruggì soddisfatto. "Dio ha fatto giustizia delle vostre
menzogne. Non mi ingannerete più con false antichità.
Mai più." Quindi, girandosi verso l'angolo in cui mi trovavo io,
compiaciuto nel vedere il mio abito bianco e il mio cappuccio nero tra
la sua gente, accennò un inchino e aggiunse ancora qualcosa, in modo
che tutti lo potessero sentire.
"Questo ruffiano ha avuto quello che si merita…" sentenziò. "Anche se
credo che per una persona illustre come voi, giustizia non sia ancora
stata fatta, vero padre Leyre?" Restai senza parole. La luce diabolica
dei suoi occhi mi sconcertò. Chi era quell'individuo che sapeva il mio
nome? A che ingiustizia si riferiva?
"I predicatori sono sempre benvenuti in questa casa" disse. "Anche se
vi ho mandato a chiamare perché desidero che insieme riabilitiamo il
nome di un amico comune."
"Ne abbiamo uno?" balbettai.
"L'abbiamo avuto" precisò. "O non credete forse anche voi che dietro la
morte del nostro frate Alessandro Trivulzio si nasconda qualcosa di
strano?" Il vincitore, che ben presto seppi chiamarsi Oliviero Jacaranda,
abbandonò la scena del duello e mi si avvicinò, battendo lievemente
sulla mia spalla in segno di amicizia. Quindi sparì dentro il palazzo. La
mia guida mi pregò di attenderlo lì insieme a lei. Potei così osservare il
piccolo esercito di servitori di Jacaranda che entrava in azione: in poco
più di dieci minuti smontarono la pedana sulla quale si era tenuto il
duello e portarono via quel Forzetta, ferito e con le mani legate, verso i
sotterranei del palazzo. Mentre mi passava vicino, potei vedere che il
disgraziato era quasi un bambino. Un ragazzo dal viso rotondo e gli
occhi di smeraldo che, per un fugace istante, fissarono i miei
implorando aiuto.
"Gli spagnoli sono uomini d'onore." La donna, che aveva sciolto la sua
chioma bionda e deposto la cintura e lo stocco, mi parlò con tono
gentile: "Oliviero è di Valencia, come il papa. Del resto, è il suo
fornitore preferito".
"Il suo fornitore?"
"E' antiquario, padre. Un'attività nuova, molto redditizia, che recupera
dal passato i tesori lasciati sepolti dai nostri avi.
Non immaginate nemmeno che cosa si può trovare a Roma, scalfendo
semplicemente il suolo dei sette colli!"
"E voi, madamigella, chi siete?"
"Sua figlia. Maria Jacaranda, per servirvi."
"E perché vostro padre voleva che lo vedessi duellare con quel
Forzetta? Che cos'ha a che vedere tutto questo con la memoria di padre
Trivulzio?"
"Ve lo spiegherà subito" rispose. "La colpa è del commercio dei libri
antichi. Non so se siete al corrente che in queste terre circolano volumi
il cui valore supera quello dell'oro, e non mancano ladruncoli come
quel Forzetta che trafficano con essi o, anche peggio, pretendono di
spacciare libri moderni per antichi, esigendo somme sproporzionate."
"E credete davvero che questo argomento sia di mia competenza?"
"Lo sarà" promise enigmatica.
28
Il gentiluomo, in effetti, ricomparve ben presto. I suoi servitori avevano
fatto sparire ormai tutte le tracce del duello e la dimora recuperava a
poco a poco il suo aspetto confortevole e raffinato.
Il padre di Maria non riusciva a nascondere la propria soddisfazione. Si
era rinfrescato e profumato, e tornò vestito di una specie di toga di lana
ruvida che gli arrivava fino ai piedi.
Salutò sua figlia con un complimento e mi invitò subito ad
accomodarmi nel suo studio. Desiderava parlarmi in privato.
"So che il mio lavoro non piace agli uomini di fede come voi, padre
Leyre." La sua prima frase mi sconcertò. Quell'individuo si esprimeva
in un miscuglio di spagnolo e dialetto milanese, che gli conferiva
un'aura davvero singolare. E il suo studio era altrettanto strano: un
locale unico, pieno di strumenti musicali, tele e frammenti di capitelli
antichi.
"Vi piace ciò che vedete?" La sua domanda interruppe il mio esame
silenzioso. "Padre, lasciate che vi spieghi: il mio lavoro consiste nel
recuperare dall'oblio oggetti che i nostri avi lasciarono sotto terra. A
volte sono monete, altre volte semplici ossa, e spesso si tratta di effigi
di divinità pagane che, per persone come voi, non avrebbero mai
dovuto tornare alla luce. Adoro quelle sculture della Roma imperiale.
Sono belle, proporzionate… perfette. E care. Molto care. Il mio
commercio, perché negarlo, prospera più che mai." Jacaranda
s'interruppe per mescere del vino in coppe d'argento e offrirmene una.
Poi continuò con tono di vanto: "Maria vi avrà detto che il Santo Padre
benedice la mia attività. Di fatto, da anni si riserva il privilegio di
vedere i miei oggetti per primo. Li sceglie e colleziona fin da quando
era cardinale, e li paga generosamente".
"Me l'ha detto, certo. Tuttavia" feci una smorfia "dubito che mi abbiate
mandato a chiamare per mettermi al corrente dei vostri affari. O
sbaglio?" Il padrone del palazzo si lasciò scappare un ghigno cinico.
"So molto bene chi siete, padre Leyre. Pochi giorni fa vi siete
accreditato come inquisitore presso i funzionari ducali e avete
presentato i vostri rispetti per il duca prima dei funerali di donna
Beatrice. Venite da Roma. Alloggiate nel convento di Santa Maria e
passate la maggior parte del vostro tempo a risolvere enigmi in latino.
Come vedete, padre, non avete quasi segreti per me." L'antiquario
bevve un sorso di quel vino rosso e corposo prima di sottolineare:
"Quasi…".
"Non vi capisco."
"Permettete che vada dritto al punto. Sembrate un uomo intelligente e
forse potete aiutarmi a risolvere un problema che abbiamo in comune.
Si tratta di frate Alessandro Trivulzio, padre. " Finalmente tirava in
ballo la morte del bibliotecario.
"Molto prima che voi arrivaste a Milano, lui e io eravamo buoni amici.
Potremmo persine dire che eravamo soci. Trivulzio faceva da
intermediario tra alcune famiglie importanti di Milano e la mia attività
di antiquario. Tramite lui facevo pervenire loro le mie offerte senza
sollevare sospetti nella curia, e frate Alessandro riceveva un certo
compenso per tutto ciò." Indietreggiai di un passo.
"Vi stupisce, padre Leyre? Altri frati a Bologna, Ferrara o Siena mi
aiutano in questo genere di compiti. Non ammazziamo nessuno;
aggiriamo solo proibizioni e scrupoli assurdi che, ne sono sicuro, un
giorno ricorderemo come qualcosa di ridicolo, frutto di menti antiquate.
Che c'è di male nel recuperare frammenti del nostro passato e
consegnarli ai ricchi per loro piacere? Forse un obelisco egizio non
spicca anche a Roma, davanti a San Pietro?"
"Signore, vi state gettando nella bocca del lupo" replicai molto serio.
"Vi ricordo che faccio parte di quella curia che cercate di aggirare."
"Sì, lo so, ma lasciatemi continuare. Sfortunatamente, non è solo la
vostra severa curia a ostacolare il nostro lavoro. Come potrete
immaginare, vendo opere d'arte e reperti antichi a ricche signore della
corte, spesso di nascosto dai mariti, anch'essi contrari a questo genere
di commerci. L'aiuto di frate Alessandro è stato decisivo in alcune delle
mie operazioni più importanti. Aveva la squisita abilità di farsi invitare
in qualunque dimora di Milano con il pretesto di una confessione o
altro, e a quel punto era capace di concludere un accordo sotto il naso
stesso dei nobili lombardi."
"E cosa otteneva in cambio? Denaro…? Permettete che ne dubiti."
"Libri, padre Leyre. In cambio riceveva libri manoscritti o a stampa, a
seconda del valore della vendita. Opere copiate con maestria o
riprodotte con torchi moderni in Francia e Germania. Veniva pagato in
natura, se preferite questa definizione. La sua unica ossessione era
quella di riunire volumi su volumi per la biblioteca di Santa Maria. Ma
suppongo che questo già lo sappiate."
"Quello che ancora non capisco è perché mi raccontiate tutto ciò. Se il
fratello Alessandro era vostro amico, perché macchiate la sua memoria
con queste confidenze?"
"Niente di più lontano dalle mie intenzioni" rise nervoso.
"Permettete, padre, che vi spieghi un'altra cosa: poco prima di morire il
vostro bibliotecario ha collaborato con me a un incarico molto speciale.
La richiesta partiva da una delle mie migliori clienti, cosicché gli ho
affidato quella commissione senza pensarci un solo minuto. A dire il
vero, era la prima volta che una cliente di alto lignaggio non mi
chiedeva la statua di qualche fauno per adornare una villa. La sua
richiesta, per strana che fosse, ci ha entusiasmato entrambi." Osservai
Jacaranda con interesse.
"La mia cliente voleva solo che le risolvessi un piccolo enigma, quasi
una cosa di famiglia. In quanto esperto di antichità, pensava che io
avrei potuto identificare un certo oggetto prezioso di cui possedeva una
descrizione piuttosto precisa."
"Un gioiello, forse?"
"No. Niente di tutto ciò. Si trattava di un libro."
"Un libro? Come quelli che voi utilizzavate per pagare…?"
"Questo non era mai stato stampato" m'interruppe. "Inoltre, sembrava
trattarsi di un manoscritto antico assai raro e di straordinario valore. Un
esemplare unico. La mia cliente era venuta a sapere della sua esistenza
da fonti misteriose e lo desiderava più di qualunque altro tesoro al
mondo."
"E che libro era?"
"Non l'ho mai saputo! Mi fornì soltanto alcuni particolari del suo
aspetto esteriore: un tomo rilegato di blu, di poche pagine, con il
frontespizio ornato da quattro chiodi dorati e il profilo delle pagine
miniato con quello stesso metallo prezioso. Un piccolo gioiello con
l'aspetto di un breviario, importato senza dubbio dall'Oriente."
"Così vi siete messo sulle tracce dell'opera con l'aiuto di frate
Alessandro" intervenni.
"Avevamo due piste valide da seguire. La prima era la persona della
quale la mia cliente aveva sentito parlare per la prima volta di quel
testo: il maestro Leonardo da Vinci. Per fortuna il vostro bibliotecario
lo conosceva bene e non gli sarebbe stato difficile avvicinarlo e
verificare se il pittore ne era in possesso oppure no."
"E la seconda?"
"La signora mi fece avere un disegno preciso del libro che dovevo
recuperare…"
"La vostra cliente aveva un disegno del libro?"
"Proprio così. Compariva in un gioco di carte a lei molto caro: su una
delle carte, che mostrava la figura di una donna, era rappresentata anche
quell'opera. Non un granché, certo, ma mi era capitato di lavorare anche
con meno informazioni.
Sulla carta in questione si vedeva una religiosa che teneva questo libro
in mano. Un volume chiuso, senza titolo n‚ alcun altro segno
d'identificazione."
"Un libro su delle carte da gioco? "mi inquietai." Non era stato frate
Bandelle a parlarmi in precedenza di qualcosa del genere?"
"Posso chiedervi chi era la vostra cliente?" gli domandai.
"Certo. Proprio per questo vi ho convocato: la principessa Beatrice
d'Este." Spalancai gli occhi.
"Beatrice d'Este? La sposa del Moro? Volete dire che frate Alessandro
e donna Beatrice si conoscevano?"
"E bene, anche. E ora, come sapete, sono morti entrambi."
"Cosa state insinuando?" Jacaranda si accomodò dietro il suo scrittoio,
soddisfatto di aver catturato tutta la mia attenzione.
"Vedo che cominciate a capire la mia preoccupazione, padre Leyre.
Ditemi, fino a che punto avete conosciuto messer Leonardo?"
"Ho parlato con lui soltanto una volta. Questa mattina."
"Dovete sapere che si tratta di una persona singolare, la più stravagante
e misteriosa che si sia mai vista da queste parti.
Utilizza ogni minuto del giorno per lavorare, leggere, disegnare e
riflettere sugli argomenti più assurdi che uno possa immaginare.
Inventa addirittura ricette di cucina per divertire il duca: per i suoi
banchetti modella macchine da guerra di marzapane dall'aspetto
stravagante. Inoltre, è un uomo diffidente.
E' molto geloso delle sue cose, delle sue proprietà. Non lascia mai che
qualcuno spii tra i suoi appunti e ancor meno che curiosi nella sua
biblioteca, la quale dev'essere senza dubbio grande e ben fornita. Scrive
addirittura da destra a sinistra, come gli ebrei!"
"Davvero?"
"Non vi mentirei su una cosa simile. Se voleste leggere qualcuno dei
suoi quaderni, dovreste ricorrere a uno specchio: solo riflettendo in esso
le sue pagine, potreste comprendere ciò che ha scritto. Non è forse uno
stratagemma diabolico? Chi conoscete voi capace di scrivere al
contrario, come niente fosse?
Quell'uomo, credetemi, nasconde segreti terribili."
"Continuo a non comprendere perché mi raccontiate ciò" insistetti.
"Perché… " fece una pausa teatrale "sono sicuro che hanno ucciso il
nostro comune amico, padre Alessandro, per ordine di Leonardo da
Vinci. E credo che la colpa di tutto sia da attribuire a quel maledetto
libro. Lo stesso libro che bramava la principessa e che ha finito per
costare la vita anche a lei." Impallidii, ne sono certo.
"Questa è un'accusa molto grave!"
"Verificatela" mi sollecitò. "Siete l'unico che può farlo. Vivete a Santa
Maria delle Grazie, ma non siete venduto al duca come gli altri. Il
priore desidera che il monastero sia ultimato con i soldi del Moro e
dubito che osi attaccare il suo artista preferito, mettendo in pericolo le
sue sovvenzioni. Vi invito a risolvere questo enigma insieme a me:
trovate quel libro! Non solo farete luce sulle morti della principessa e di
frate Alessandro, ma otterrete anche le prove per accusare Leonardo di
omicidio."
"Signor Jacaranda, i vostri metodi non mi piacciono."
"I miei metodi!" rise. "Avete osservato l'uomo che ho sconfitto in
duello?"
"Forzetta?"
"Proprio lui. Allora vi dirò qualcosa di più sui miei metodi: lavorava
per me. Gli ordinai di impossessarsi del "libro blu" nella bottega di
Leonardo. Forzetta è stato discepolo del toscano e conosce bene i
luoghi in cui potrebbe essere nascosto."
"Gli avete ordinato di derubare Leonardo da Vinci?"
"Padre, volevo risolvere la questione. Ma devo riconoscere la mia
sconfitta. Quell'incapace ha preso dal suo studio un'altra opera: la
Divini Platonis opera omnia. Un libro stampato qualche anno fa a
Venezia e di scarsissimo valore. E ha provato a imbrogliarmi,
vendendomelo come se fosse l'incunabolo che cercavo. "
"Divini Platonis…" mormorai. "Conosco quell'opera."
"Davvero?" Annuii: "E' la famosa traduzione delle opere complete di
Platone, eseguita da Marsilio Ficino per Cosimo il Vecchio di Firenze".
"Ebbene, quel furfante assicurava che Leonardo la teneva in grande
considerazione. Che per giorni l'aveva utilizzata per dare un volto a uno
degli apostoli del Cenacolo. E a me cosa diavolo importa! Ho perso un
amico per colpa sua e voglio sapere perché. Mi aiuterete?"
29
Porta Romana era il quartiere elegante di Milano. Percorsa giorno e
notte dalle carrozze più sfarzose della Lombardia, costituiva l'unico
accesso monumentale a Milano. I suoi portici erano sempre gremiti di
gente di bell'aspetto e le dame amavano passeggiarvi per capire che aria
tirava in città. Nunzi pontifici, legazioni straniere o cavalieri, tutti
cercavano di farsi vedere da quelle parti per sentirsi ammirati. La sua
posizione piuttosto centrale contribuiva a fare di Porta Romana una
galleria di vanità senza eguali.
Proprio a metà della via sorgeva uno dei suoi palazzi più sontuosi, un
edificio pubblico molto amato dai milanesi e punto d'incontro abituale
di confraternite, corporazioni e persino giudici. Era a tre piani, con sei
ampi saloni e un labirinto di studi privati che cambiavano proprietario
con facilità.
Ebbene, la sera che trascorsi in casa di Oliviero Jacaranda, tutti i saloni
di quel palazzo fervevano d'attesa. Oltre trecento persone s'accalcavano
nella via, desiderose di ammirare l'ultima opera del maestro Leonardo;
molti dei dignitari della città si erano dati appuntamento con quel
pretesto per commentare gli ultimi avvenimenti di corte. Non c'era
cittadino o cittadina che non desiderasse un invito a quell'evento.
Il toscano aveva organizzato l'esibizione del proprio dipinto in tutta
fretta, forse su richiesta dello stesso duca che, a sole quarantotto ore
dalla sepoltura della sua sposa, già pensava a vivacizzare la vita
pubblica milanese.
Il maestro Luini giunse accompagnato da una radiosa Elena Crivelli.
Aveva tanto insistito che il giovane maestro aveva acconsentito a
portarla con sé. Luini ancora arrossiva al pensiero di quanto era
accaduto tra loro pochi giorni prima, e il suo animo era tuttora agitato
come il mare in tempesta. Per rendergli tutto più difficile, la figlia di
donna Lucrezia aveva scelto per l'occasione una tenuta magnifica: un
abito blu guarnito di pelliccia, abbinato a un corpetto dalla scollatura
quadrata bordato con filo d'oro. I capelli raccolti in una retina
tempestata di gemme e il carminio delle sue labbra la facevano
sembrare una dea. Luini si sforzava di mantenere le distanze, per non
sfiorarla nemmeno.
"Maestro Bernardino!" il vocione di Leonardo lo fermò non appena
arrivarono al secondo piano del palazzo. "Che piacere incontrarvi! E in
così bella compagnia! Ditemi, chi portate con voi?" Luini chinò il capo,
cerimonioso, sorpreso dalla sfacciata curiosità del maestro.
"E' Elena Crivelli, messere" si affrettò a rispondere. "Una giovane che
vi ammira e che ha insistito per accompagnarmi alla vostra
presentazione."
"Crivelli? Che sorpresa! Per caso siete parente del pittore Carlo
Crivelli?"
"Sono sua nipote, signore." Gli occhi chiari di Elena risvegliarono certi
ricordi del toscano. Leonardo sembrava inebriato.
"Siete, dunque, la figlia…"
"Di Lucrezia Crivelli, che conoscete bene."
"Donna Lucrezia! Certo!" disse, guardando di nuovo Luini.
"E siete venuta con il maestro Bernardino, che senza dubbio avete
conosciuto durante le vostre sedute di posa. Voi siete la sua nuova
Maddalena!"
"Infatti."
"Magnifico! Siete arrivata in un momento più che opportuno."
Leonardo scrutò di nuovo la giovane, alla ricerca dei lineamenti che
tanto lo avevano colpito in sua madre. Una rapida occhiata gli bastò per
notare la stessa architettura della fronte, identico il naso, persino gli
zigomi e il mento erano gemelli.
Il prodigio geometrico del viso di donna Lucrezia aveva trovato una
nobile continuazione in quello di sua figlia.
"Se avete tempo, mi piacerebbe che mi accompagnaste nella saletta da
me allestita per mostrare il mio ritratto. Presto sarà piena di invitati e
non avremo più occasione di ammirarlo in privato." Il maestro indicò
loro una piccola stanza, contigua alla gigantesca scalinata. La saletta
era stata preparata con cura.
Ciascuna delle sue pareti era ricoperta da enormi teli neri, che
mettevano in risalto una piccola tavola di noce, racchiusa in una cornice
liscia di legno di pino chiaro.
"Sapete?" proseguì Leonardo. "Ho pensato che questa fosse la miglior
occasione per farlo vedere. La morte di donna Beatrice ci ha rattristato
a tal punto che abbiamo bisogno di tutta la bellezza possibile per
recuperare il nostro spirito. Il maestro Luini forse ve l'avrà già detto: ho
bisogno di allegria intorno a me. Di vita. E poiché ogni volta che una
mia tavola è uscita dalla bottega, ho ottenuto molti consensi…"
"Avete pensato che mostrare una nuova opera vostra potesse riportare
la gente per le strade" approvò Bernardino.
"Esatto. E nonostante il freddo, sembra che ci riuscirò. Ebbene?" Il
toscano cambiò argomento, indicando ora la sua composizione. "Cosa
ve ne pare?" I tre fissarono i propri occhi sulla parete. L'olio era
sensazionale. Una giovane donna, avvolta in un abito rosso del quale
Leonardo era riuscito a rappresentare non solo le tonalità del velluto,
ma addirittura i singoli punti del broccato del colletto, li osservava
serena alla loro stessa altezza. Portava i capelli raccolti in una lunga
coda e un sottile diadema cingeva le sue terapie con una tenerezza
infinita. Era un ritratto incredibile. Un altro capolavoro del maestro. Se
invece di quella cornice una finestra avesse fatto da sfondo, nessuno
avrebbe potuto dire che quella dama non fosse stata realmente lì, a
osservarli. 16 Elena e Bernardino si guardarono perplessi, senza sapere
cosa dire.
"Credevamo…" balbettò Luini. "Maestro, credevamo che avreste
mostrato un ritratto di donna Beatrice."
"E perché avrei dovuto farlo?" sorrise. "La principessa d'Este non trovò
mai il tempo per posare per me." Gli occhi di Elena erano umidi per
l'emozione.
"Ma quella è… è…"
"E' vostra madre, donna Lucrezia. Sì" disse il toscano, arricciando il
suo enorme naso. "Senza dubbio una delle donne più belle che abbia
conosciuto. E bellezza, armonia è proprio quello di cui abbiamo
bisogno in queste ore di lutto, non vi pare?" La giovane Elena non
riusciva a distogliere lo sguardo dal ritratto.
"Non avrei mai mostrato questo lavoro in pubblico, se non fosse stato
necessario. Dovete credermi."
"E'… " esitò Elena "… è forse per la vostra teoria sulla luce?
Bernardino mi ha spiegato quanto sia importante per voi."
"Davvero?" Un lampo malizioso attraversò gli occhi del toscano.
"Per voi la luce è l'essenza del divino. La sua presenza o la sua assenza
in un quadro rivelano tutto sull'intenzione finale dell'artista. Non è
così?"
"Perbacco, Elena… Voi mi sorprendete. E ditemi: che genere di
proposito occulto indovinate in questo ritratto?" La contessina esaminò
di nuovo il dipinto. Al viso splendente di sua madre mancava solo la
parola.
"E' come un segnale, maestro."
"Un segnale?"
"Oh, sì. State inviando segnali in mezzo all'oscurità. Come un faro nella
notte. Inviate segnali agli uomini di fede. A coloro che preferiscono la
luce alle tenebre. " Il maestro era confuso.
Di colpo la sua sorpresa si trasformò in preoccupazione.
Ed Elena lo notò. Vide il maestro assicurarsi che nessun altro ascoltasse
la loro conversazione. Poi domandò alla contessina di concedere a
Bernardino e a lui un minuto per parlare in privato. La dama si
allontanò sollecita verso uno dei finestroni affacciati su Porta Romana.
"Maestro Luini, si può sapere che cosa avete combinato?" Il bisbiglio di
Leonardo s'infilzò come un pugnale nelle orecchie del suo discepolo.
"Maestro, io…"
"Le avete parlato della luce! A una bambina!"
"Ma…"
"Nessun ma. Sa anche che la luce è uno degli attributi della sua
famiglia? Che altro le avete rivelato, scriteriato?" Luini era paralizzato
dal terrore. Di colpo comprendeva il terribile errore che aveva fatto,
accettando di farsi accompagnare da Elena. Sentendosi mancare il fiato,
chinò la testa senza sapere che dire.
"Ah, già" proseguì Leonardo. "Ora capisco tutto."
"Cosa, maestro?" Un nodo gli strinse la gola, come se stesse per
strangolarlo.
"Avete giaciuto con lei. Non è vero?"
"Giaciuto?"
"Rispondete!"
"Io… Mi dispiace, maestro."
"Vi dispiace? Non vi rendete conto di quello che avete fatto?" Leonardo
cercò di soffocare le sue parole, per non richiamare l'attenzione della
contessina.
"Vi siete accoppiato con una Maddalena. Voi! Un fedele della causa di
Giovanni!" Il maestro deglutì. Gli occorreva tempo per pensare. La sua
mente tentava di inquadrare quella situazione, come quando cercava di
far combaciare gli ingranaggi delle sue macchine.
Che altro poteva fare? Il gigante finì per interpretarlo come l'ennesimo
segno della Provvidenza. Un altro indizio che i tempi stavano
cambiando a grande velocità, e che presto il suo segreto gli sarebbe
sfuggito di mano.
Come aveva potuto essere così ingenuo? Come non prevedere
l'eventualità che il giovane discepolo incaricato di sorvegliare da vicino
la figlia di donna Lucrezia potesse finire tra le sue braccia? Leonardo,
che ripudiava l'amore carnale, doveva affrettarsi. Credo che fu quello il
giorno in cui il maestro decise l'opportunità di iniziare Elena ai misteri
del suo apostolato, prima che altri amanti la sviassero dal suo cammino.
Sì. Fu allora che reclamò la contessina al suo fianco e fece una cosa che
nessuno gli aveva mai visto fare con qualcun altro: le parlò delle sue
preoccupazioni.
"Perdonate questa parentesi" si scusò. "Desidero dirvi che la vostra
visita non poteva essere più opportuna. Avevo bisogno di parlare con
persone di fiducia. Credo che mi stiano spiando.
Che sorveglino i miei movimenti e quelli dei miei aiutanti."
"Voi, maestro?" Luini si allarmò.
"Vedete" proseguì"sono anni che lo sospetto. Voi sapete, Bernardino,
che ho sempre diffidato della gente. Da anni cifro tutta la mia
corrispondenza, annoto le mie idee in modo tale che pochissimi
possano leggerle e diffido di coloro che si avvicinano a me solo per
curiosare nelle mie cose. Tuttavia domenica scorsa, il giorno dei
funerali della principessa, quegli antichi timori hanno trovato conferma
in modo drammatico.
In quella giornata, qui vicino, sono morti in circostanze stranissime due
uomini di Dio." Bernardino ed Elena scossero il capo increduli. Non ne
avevano avuto alcuna notizia.
"Uno è stato trovato impiccato in piazza Mercanti. Aveva addosso una
carta che voi, maestro Luini, conoscete bene quanto me. Appartiene a
un mazzo disegnato per i Visconti a metà del secolo e raffigura una
sorella di san Francesco con la croce del Battista in una mano e il libro
di Giovanni nell'altra."
"La Maddalena…! "
"In effetti è una delle sue molte rappresentazioni" proseguì. "I nodi
sulla corda che cinge il suo ventre gonfio lo confermano. Ma sono
pochi, pochissimi, a conoscere il codice."
"Continuate, vi prego" lo sollecitò Bernardino.
"Come potrete immaginare, messer Luini, ho interpretato il
ritrovamento della carta come un segnale. Un avviso che qualcuno mi
sta cercando. Ho tentato di convincere i soldati del duca che il frate si
era suicidato. Volevo guadagnare tempo per fare le mie verifiche, ma la
seconda morte ha confermato i miei timori."
"Quali timori?" chiese Elena con gli occhi spalancati.
"Vedete, Elena, anche l'altro morto era un mio vecchio amico." La
contessina sussultò.
"Li… conoscevate?"
"Esatto. Tutti e due. Giulio, la seconda vittima, è morto dissanguato
davanti alla Maestà. Qualcuno gli ha trapassato il cuore con una
sciabola. Non gli ha rubato denaro, n‚ alcun oggetto personale
tranne…"
"Tranne?"
"… tranne la carta della francescana che poi hanno trovato addosso al
frate. Ho la sgradevole sensazione che l'assassino volesse che io fossi
informato dei suoi crimini. In fin dei conti la Maestà è opera mia e il
frate impiccato era membro del convento di Santa Maria. " Pur
timorosa di risultare inopportuna, Elena prese di nuovo la parola.
"Maestro, tutto ciò è in relazione con la vostra scelta di mostrare
proprio ora il ritratto di mia madre? Questo quadro ha qualcosa a che
vedere con le terribili notizie che ci avete dato?"
"Lo capirete subito, Elena" rispose il maestro. "Vostra madre posò per
me non solo in occasione di questo ritratto. Quando era più giovane, mi
servì da modella per la Vergine della Maestà. L'ho ridipinta solo pochi
mesi fa, e mi sono di nuovo rivolto a lei. Un volta consegnata questa
nuova versione, i francescani l'hanno subito sostituita a quella vecchia.
Si è svolto tutto così rapidamente, che non ho avuto il tempo di
avvertire i Fratelli della sua sostituzione."
"I Fratelli?" Ma questa volta Elena non osò interromperlo.
"Vedo che il maestro Luini ancora non vi ha raccontato tutto" sussurrò
Leonardo. "Quella tavola era come un vangelo per loro. Era il loro
balsamo spirituale, soprattutto dopo che l'Inquisizione li privò dei loro
libri sacri. Venivano a venerarla a decine. Tuttavia, quando i
francescani se ne resero conto e iniziarono a scontrarsi con me, mi vidi
costretto a presentare loro una nuova versione, privata dei simboli che
rendevano la tavola così speciale. Ho lasciato passare dieci anni prima
di portare a termine il loro incarico, ma ormai non potevo più
rimandare. Per disgrazia non ho avvisato i Fratelli che smettessero di
recarsi alla chiesa di San Francesco per cercare la sua illuminazione e
l'ultimo di loro, il mio caro Giulio, ha pagato con la vita quell'errore.
Qualcuno lo stava aspettando."
"Avete idea di chi possa essere?"
"No, Bernardino. Ma ciò che lo muove è l'impulso di sempre. Lo stesso
che portò san Domenico a fondare l'Inquisizione: eliminare gli ultimi
cristiani puri. Pretendono di soffocare con la forza quello che non sono
riusciti a spegnere a Monts‚gur, annientando i catari."
"E ora, messere, dove andranno i Fratelli per saziare la loro fede?"
"Al Cenacolo, naturalmente. Ma ciò avverrà solo quando sarà ultimato.
Perché credete che lo stia dipingendo sulla parete e non su una tavola?
Pensate forse che sia per le dimensioni? Niente affatto." Levò l'indice in
segno di negazione. "E' perché nessuno possa strapparlo da lì o
obbligarmi a rifarlo.
Solo così i Fratelli avranno di nuovo un luogo per il loro perenne
conforto. A nessuno verrà in mente di cercarli proprio sotto il naso
degli inquisitori."
"Maestro, è ingegnoso ma… molto rischioso." Leonardo sorrise di
nuovo.
"Tra i cristiani di Roma e noi, Bernardino, c'è una grande differenza.
Loro hanno bisogno di sacramenti tangibili per sentirsi benedetti da
Dio. Ingeriscono pane, si ungono con olii o si immergono in acque
sante. I nostri sacramenti invece sono invisibili: la loro forza sta proprio
nel loro carattere astratto. Chi riesce a percepirli dentro di s‚, sente un
tuffo al cuore e un'allegria che lo pervade tutto. Uno sa di essere salvato
quando percepisce questa corrente dentro di s‚. La mia Ultima cena
dispenserà loro un simile privilegio. Perché credete che il mio Cristo
non ostenti l'ostia dei romani? Perché il suo sacramento è un altro…"
"Maestro…" Luini lo interruppe. "Parlate davanti a Elena come se lei
sapesse della vostra fede. Mentre è vero che ancora non conosce la
portata di quanto dite."
"Ebbene?"
"Spero che mi concediate una grazia: datemi il permesso di condurla al
Cenacolo e iniziarla lìal vostro linguaggio. Forse così…" Bernardino
esitò, come se misurasse le parole "forse potremo purificarci entrambi e
meritare un nuovo posto accanto a voi. Lei vuole così." Il toscano non
sembrò molto sorpreso.
"E' vero, Elena?" La giovane annuì.
"Allora dovete sapere che l'unico modo per conoscere la mia opera è
farne parte. Voi, Bernardino, lo sapete meglio di chiunque altro"
borbottò. "Io sono l'unica omega verso cui, d'ora in avanti, dovrete
dirigervi."
"Maestro, se la vostra intenzione è quella di guidarla verso di voi,
perché non la prendete come modella? Vi siete servito di sua madre per
il vostro vangelo della Maestà. Perché non ricorrere alla figlia per il
dipinto murale che state terminando?" Leonardo esitò.
"Per il Cenacolo!"
"E perché no?" rispose Luini. "Non state cercando forse una modella
per l'apostolo prediletto? Credete di trovare un viso più angelico del suo
per completare Giovanni?" Elena abbassò lo sguardo, compiaciuta.
Quel santone vestito di bianco si accarezzò pensieroso la folta barba,
mentre scrutava di nuovo la giovane Crivelli. Quindi scoppiò in una
risata che rimbombò per tutta la stanza.
"Sì" tuonò. "Perché no? In fin dei conti non immagino nessuno più
adatto di lei a questo scopo."
30
"Oliviero Jacaranda?" Una smorfia di disprezzo si dipinse sul viso del
priore al solo pronunciare quel nome. Fra' Vincenzo mi mandò a
chiamare non appena gli dissero che ero tornato al convento. A quanto
pareva, la comunità era in allarme da ore a causa della mia assenza
improvvisa. Al calar della notte alcuni padri, armati di pali e bastoni,
erano usciti a cercarmi. Così quando Maria Jacaranda mi riaccompagnò
alle porte del convento, incolume anche se con la mente alquanto
turbata, il priore si affrettò a reclamarmi al suo cospetto.
"E così, fratello Leyre, avete trascorso la serata in compagnia di
Oliviero Jacaranda, a casa sua?" Sembrava preoccupato.
"Vedo che lo conoscete, priore."
"Naturale" replicò. "Tutta Milano sa chi è quel verme. Commercia in
oggetti liturgici, compra e vende al tempo stesso ritratti di santi e di
Veneri nude, e ha più denaro di molti nobili della cerchia del duca. Ma
non capisco" aggiunse, socchiudendo gli occhi con un'espressione
astuta "cosa potesse volere da voi."
"Desiderava parlarmi di frate Alessandro, priore."
"Di padre Trivulzio?" Annuii. Bandelle sembrava sconcertato.
"A quanto sembra i due intrattenevano una specie di relazione
commerciale. Erano soci, per così dire."
"Questa è una sciocchezza Che interesse poteva nutrire padre Trivulzio,
che Dio l'abbia in gloria, nei confronti di un uomo immorale e
depravato come quello?"
"Se ciò che mi ha detto il signor Jacaranda è vero, frate Alessandro
conduceva una doppia vita. Davanti a voi era un uomo timoroso di Dio,
amante delle lettere e dello studio; ma lontano dal vostro sguardo
protettore si era trasformato in un trafficante di antichità." La mente di
Bandelle ribolliva come una pentola di minestra.
"Stento a credervi" borbottò. "Tuttavia, a ben guardare, forse questo
spiegherebbe certe cose…"
"Certe cose? A che cosa vi riferite, priore?"
"Ho parlato con le guardie del Moro riguardo alle circostanze della
morte di frate Alessandro. C'è un punto oscuro, che nessuno di noi ha
saputo chiarire. Una profonda contraddizione che ci lascia sconcertati."
"Spiegatevi, vi prego."
"Vedete, sul corpo di padre Trivulzio le guardie non hanno trovato
segni di violenza n‚ di resistenza. Tuttavia, sembra che non si sia
impiccato da solo. Con lui in quel momento c'era qualcun altro:
qualcuno che ha lasciato la propria singolare firma incastrata in uno dei
piedi scalzi del bibliotecario." Il priore frugò nelle tasche, quindi mi
tese una specie di cartoncino rettangolare dai bordi fini, molto
deteriorato dall'uso: era pieno di scarabocchi e di versi all'apparenza
incomprensibili.
"Guardate" mi disse, mentre me lo porgeva.
Il mio viso dovette esprimere stupore, perché il priore mi osservò con
aria soddisfatta: aveva catturato tutta la mia attenzione. E come avrei
potuto restare impassibile? Parte di quei segni corrispondeva all'enigma
che mi aveva condotto fin lì. E in effetti: Oculos ejus dinumera, la
singolare firma dell'Augure, occupava il centro del cartoncino. I suoi
sette versi erano stati scritti con grafia tremante e davano l'impressione
di essere stati oggetto di un intenso esame, come se le annotazioni che
li circondavano facessero parte degli sforzi di un erudito per trovar loro
un senso.
"E' il mio enigma!" ammisi.
""Conta i suoi occhi, / ma non guardare la faccia. / Sul fianco troverai /
la cifra del mio nome…" Sì, lo so. Me lo confidaste prima della morte
di frate Alessandro, ricordate? Ma queste note" disse tracciando con il
dito un cerchio immaginario sopra allo scritto "non sono mie, padre
Leyre." Un lampo di malizia brillò nei suoi occhi.
"E questo non è tutto. Guardate!" Padre Bandelle voltò il cartoncino.
L'inconfondibile figura di una francescana, che nella mano destra
teneva una croce e nella sinistra un libro, mi paralizzò.
"Gesù Santo!" esclamai. "La carta… La vostra carta!"
"No, la carta di Leonardo semmai" mi corresse. "Nessuno sa chi l'abbia
lasciata sul corpo di frate Alessandro dopo la sua morte, ma è ovvio che
significa qualcosa. Vi ricordo che il toscano ci sfidò proprio con questa
figura. E ora essa compare insieme al vostro enigma, su un piede del
bibliotecario. Cosa ne pensate?" Inspirai a fondo prima di rispondere.
"Priore, c'è una cosa che ancora non vi ho raccontato." Bandelle
corrugò la fronte.
"Alla luce delle vostre rivelazioni non so come interpretarla, ma il
signor Jacaranda e io abbiamo parlato proprio di questa carta. O,
meglio, del libro che tiene in mano questa donna."
"Il libro?"
"Non è un libro qualunque, priore. Jacaranda voleva impadronirsene
per onorare un importante incarico e ha affidato questo lavoro a frate
Alessandro. A quanto pare, chi possiede un volume tanto importante è
il maestro Leonardo: per il nostro bibliotecario sarebbe stato più facile
che per chiunque altro avvicinarlo e fargli un'offerta. Una semplice
operazione commerciale che è costata già la vita a due persone."
"Due persone, dite?"
"Ancora non ve l'ho detto, priore, ma la cliente che desiderava entrare
in possesso di quel libro era Beatrice d'Este, che riposi in pace."
"Dio del cielo!" Il priore mi invitò a proseguire.
"Jacaranda ignora perché la duchessa abbia richiesto i suoi servizi per
impadronirsi del libro e non si sia rivolta direttamente al maestro
Leonardo. Ma è convinto che, in un modo o nell'altro, Leonardo sia
implicato in queste morti."
"E voi cosa pensate, padre Leyre?"
"Ho difficoltà a crederlo. Leonardo è un artista, non un soldato." Fra'
Vincenzo abbassò lo sguardo, preoccupato.
"Anch'io sono di questa opinione, ma a quel che vedo le morti si stanno
accumulando in modo strano intorno al maestro."
"Che cosa volete dire?"
"Ieri stesso è accaduto qualcosa di inspiegabile, non molto lontano da
qui. La chiesa di San Francesco è stata profanata dall'uccisione di un
pellegrino."
"Un crimine?" La notizia mi atterrì. "Su suolo consacrato?"
"Proprio così. Allo sventurato hanno trapassato il cuore davanti
all'altare maggiore, sotto la nuova pala di Leonardo.
Dev'essere accaduto poche ore prima della morte di frate Alessandro. E
volete sapere un'altra cosa?" Il priore riprese fiato, prima di proseguire:
"Tra i suoi averi la polizia ha trovato il mazzo a cui appartiene questa
carta.
Chi ha ucciso quell'uomo gli ha rubato la carta, ha annotato il vostro
enigma sul suo rovescio e poi l'ha lasciata sul piede del nostro
bibliotecario. Dovete aiutarmi a trovarlo. Non vorrei sbagliarmi, ma
anche il nostro assassino, chiunque egli sia, è sulle tracce del maledetto
libro di Leonardo".
31
"Dovete consegnarmi il vostro prigioniero." Maria Jacaranda mi guardò
stupefatta. Non indossava più gli abiti maschili della notte precedente,
ma un vestito ampio con maniche bianco-azzurre e un corpetto a righe.
Portava la chioma bionda raccolta in una graziosa retina e il suo aspetto
era radioso.
Era evidente che la giovane Jacaranda non si aspettava di rivedermi
così presto, meno ancora che tornassi al loro palazzo con una richiesta
tanto singolare. Quel che ignorava era che, in fondo, a questo
inquisitore non restava altra soluzione.
A quanto sapevo, Mario Forzetta, lo spadaccino sconfitto da suo padre
in duello, era l'ultima persona che aveva cercato di impadronirsi del
"libro blu" raffigurato sulla carta di Leonardo. E l'unica ancora in vita.
Dovevo parlare con lui!
"A dire il vero, non credo che a mio padre piacerà molto quest'idea"
disse, non appena ebbe udito le mie maldestre spiegazioni.
"Vi sbagliate, Maria. Eravate presente quando don Oliviero mi ha
chiesto di aiutarlo a trovare il libro di Leonardo. Ed è proprio per
questo che sono venuto."
"Che cosa pensate di fare con Mario?"
"Prima di tutto lo prenderò sotto la mia custodia, che è poi quella del
Sant'Uffizio. Quindi lo porterò con me, per interrogarlo." Il riferimento
alla Santa Inquisizione fece cadere le scarse resistenze della giovane.
La bella Maria, impressionata dalla mia serietà, mutò la propria
diffidenza in parole d'approvazione e accettò di accompagnarmi fino
nei sotterranei del palazzo, al fine di evitare un conflitto con i
domenicani durante l'assenza del padre. Mi spiegò che era partito per
un viaggio subito dopo il nostro incontro e prevedeva che non sarebbe
tornato a Milano prima di una settimana. Fino ad allora era lei la
responsabile del buon funzionamento della casa: doveva custodire tutti i
suoi possedimenti, tra cui naturalmente il giovane Forzetta.
"E' violento?"
"Oh no, nient'affatto. Credo che non sarebbe capace di far male a una
mosca. Ma è astuto: fate attenzione con lui."
"Astuto?"
"E' una qualità appresa da Leonardo" aggiunse Maria. "Tutti i suoi
discepoli lo sono." Il ragazzo era stato imprigionato in una parte del
palazzo che in passato era servita da carcere. Mura spesse e ripide scale
conducevano a uno strano mondo sotterraneo, impossibile da
immaginare se si aveva accesso unicamente ai giardini. La clemenza di
Jacaranda aveva riservato al suo temerario servitore un murus strictus,
cioè una cella le cui dimensioni erano sufficienti perché potesse
sdraiarsi, alzarsi in piedi e muovere un paio di passi da una parete
all'altra. Senza finestre, n‚ altra vista che l'oscurità più impenetrabile,
Mario Forzetta poteva considerarsi fortunato. A pochi metri da lì Maria
mi mostrò i muri strettissimi, celle dove non avrebbe potuto n‚ alzarsi
n‚ sdraiarsi completamente e dalle quali tutti uscivano impazziti o
morti.
Quando mi lasciò davanti alla porta della sua cella, una sensazione di
soffocamento si impossessò di me. Non volevo che la figlia di
Jacaranda mi vedesse vacillare. Detestavo le prigioni: i luoghi chiusi mi
facevano star male. In realtà l'unico incarico da inquisitore che non
rifiutavo mai era quello amministrativo.
Preferivo il peso opprimente degli incartamenti a quell'odore di umidità
e allo stillicidio delle infiltrazioni sulla pietra. Quell'ambiente dunque
mi mozzò il fiato. Quando rimasi solo, con una lucerna e un pesante
mazzo di chiavi di ferro in mano, dovetti aspettare un po' prima di
riuscire a parlare.
"Mario Forzetta?" Nessuno rispose.
Dall'altra parte di quel catenaccio divorato dalla ruggine sembrava
attendermi solo la morte. Introdussi una delle chiavi nella serratura ed
entrai nella cella. Forzetta era lì, in piedi, appoggiato a una delle pareti
con lo sguardo perso. Non appena avvertì il bagliore della mia lampada,
il poveretto si coprì gli occhi. Indossava ancora la camicia macchiata di
sangue.
La ferita sulla guancia aveva acquistato un colore ceruleo preoccupante.
I capelli erano coperti di polvere e il suo aspetto, nonostante il breve
periodo di reclusione, era deplorevole.
"Quindi sei di Ferrara, come donna Beatrice…" dissi mentre mi sedevo
sul suo giaciglio, dandogli il tempo per abituarsi alla luce. Annuì
confuso. Non aveva mai sentito la mia voce, n‚ sapeva con esattezza chi
io fossi.
"Figlio mio, quanti anni hai?"
"Diciassette."
"Diciassette anni!" pensai. "E' ancora un ragazzo." Mario non toglieva
gli occhi dal mio abito bianco e nero, stupito per una visita così
singolare. A essere sincero, tra noi due si stabilì ben presto una certa
complicità. Decisi di trame vantaggio: "Va bene, Mario Forzetta. Ti
dirò perché sono venuto. Ho il permesso di portarti via da qui e
rimetterti in libertà, se raggiungiamo un accordo" mentii. "Dovrai solo
rispondere ad alcune domande. Se dirai la verità, ti lascerò andare."
"Padre, io dico sempre la verità." Il giovane si staccò dalla parete e si
mise a sedere al mio fianco. Visto da vicino, in effetti, non sembrava un
ragazzo pericoloso. Deboluccio e un po' curvo di spalle, era
evidentemente poco dotato per le attività fisiche. Non mi meravigliai
che Jacaranda lo avesse battuto tanto facilmente.
"So che sei stato discepolo del maestro Leonardo, è vero?" gli chiesi.
"Sì. E' così."
"Che cosa è successo? Perché hai abbandonato la sua bottega?"
"Non ero degno di lui. Il maestro è molto esigente con i suoi
apprendisti."
"Che intendi dire?"
"Che non superai le prove a cui mi sottopose. Tutto qui."
"Prove? Che genere di prove?" Mario inspirò profondamente, mentre
osservava le sue mani legate con i ceppi. Alla luce della lampada scoprì
di avere i polsi coperti di lividi.
"Erano prove d'intelligenza. Al maestro non basta che i suoi discepoli
sappiano mescolare i colori o abbozzare un profilo su un cartone. Esige
menti sveglie…"
"E le prove?" insistetti.
"Un giorno mi portò a vedere alcune delle sue opere e mi chiese di
commentarle. Andammo al Cenacolo, quando aveva appena iniziato a
dipingerlo, ma anche al castello ducale per ammirare alcuni dei suoi
ritratti. Suppongo di non essere stato all'altezza, perché poco tempo
dopo mi chiese di lasciare la sua bottega. "
"Capisco. E per questo decidesti di vendicarti e di derubarlo, non è
così?"
"No! Niente affatto" si agitò. "Non deruberei mai il maestro. E' stato
come un padre per me. Ci portava con s‚ ovunque per insegnarci a
lavorare e ci dava anche da mangiare. Quando non aveva abbastanza
denaro, ricordo che ci riuniva nel vostro refettorio, quello dei
domenicani di Santa Maria: ci faceva sedere come gli apostoli intorno a
una grande tavola e ci osservava da una certa distanza mentre
mangiavamo…"
"Quindi hai assistito all'evoluzione del Cenacolo."
"Certo. E' il capolavoro del maestro. Studia da anni per poterlo
completare. "
"Con l'aiuto di libri come quello che gli hai rubato, vero?" Mario
protestò di nuovo: "Padre, non gli ho rubato nulla!
E' stato don Oliviero a chiedermi di recarmi alla sua bottega e di
procurarmi nella sua biblioteca un libro antico con rilegatura blu".
"Questo è rubare."
"No, non lo è. L'ultima volta che andai nel suo laboratorio, chiesi quel
libro al maestro. Quando gli spiegai perché lo volevo, dicendogli che
era per accontentare una richiesta del mio nuovo signore, mi consegnò
il volume che più tardi ho recapitato personalmente a don Oliviero. Era
una specie di regalo, in ricordo dei vecchi tempi. Mi disse che ormai
non ne aveva più bisogno. "
"E tu hai voluto venderlo al signor Jacaranda."
"E' stato messer Leonardo a insegnarmi che a coloro che vivono
dell'oro, oro bisogna domandare. Per questo gli ho proposto un prezzo.
Nient'altro. Ma don Oliviero non ha voluto ascoltare ragioni: fuori di s‚,
mi ha messo in mano una spada e mi ha costretto a difendere il mio
onore in duello. Poi mi ha imprigionato quaggiù." Quel ragazzo mi
sembrava sincero. Senz'altro molto più di Jacaranda, un essere
meschino, capace di coinvolgere nei suoi traffici frati e adolescenti per
impossessarsi di un libro antico, che gli avrebbe fruttato un bel mucchio
di ducati. E se avessi preso Mario al mio servizio? Se avessi
approfittato delle conoscenze di quell'antico alunno di Leonardo,
maestro di enigmi, e lo avessi messo alla prova con i miei problemi?
Decisi di tentare la sorte: "Cosa sai di un mazzo di carte in cui appare
una donna vestita da francescana, con un libro in mano?".
Mario mi guardò sorpreso.
"Sai di cosa sto parlando?" lo incalzai.
"Don Oliviero mi mostrò quella carta, prima di mandarmi a cercare il
libro del maestro."
"Continua."
"Quando mi recai da messer Leonardo, gli mostrai la carta e lui si mise
a ridere. Mi disse che racchiudeva un grande enigma e che, se non ero
capace di decifrarlo da solo, non me ne avrebbe mai parlato. Si
comporta sempre così. Non ti svela mai niente, a meno che uno non lo
scopra prima per conto suo."
"Ti disse almeno come fare?"
"Il maestro introduce tutti i suoi discepoli all'arte della lettura occulta
delle cose. E' stato lui a istruirci sull'ars memorìae dei greci, sui codici
numerici degli ebrei, sulle lettere che disegnano figure degli arabi, sulla
matematica segreta di Pitagora… Ma io, come vi ho detto, sono stato
un alunno poco brillante, che non ha tratto molti vantaggi dai suoi
insegnamenti."
"Mi aiuteresti a risolvere un enigma, se te lo chiedessi?" Mario esitò un
momento, prima di annuire.
"E' un enigma degno del tuo antico maestro" gli spiegai, mentre
cercavo il pezzo di carta su cui avevo ricopiato l'indovinello.
"Racchiude il nome di una persona che cerco. Osserva con attenzione il
testo e studialo" dissi porgendoglielo. "Fallo per me. In ringraziamento
per il dono che ti concederò oggi." Il ragazzo si avvicinò alla luce della
lampada per vedere meglio.
"Oculos ejus dinumera… E' in latino."
"Esatto."
"Quindi… mi libererete?"
"Dopo averti chiesto un'ultima cosa, Mario. A quanto pare avresti
riferito a don Oliviero che Leonardo aveva utilizzato il libro in
questione per rappresentare uno dei discepoli del Cenacolo."
"E' vero."
"Di che discepolo si trattava?"
"Dell'apostolo Matteo."
"Sai anche perché usò proprio quell'opera per dargli un volto?"
"Credo di sì… Matteo ha scritto il Vangelo più conosciuto del Nuovo
Testamento, quindi il maestro desiderava che l'uomo che avrebbe
prestato il proprio volto a quell'apostolo potesse vantare almeno la sua
stessa dignità."
"E chi è quell'uomo? Platone?"
"No. Non è Platone" sorrise. "E' tuttora in vita e forse ne avete sentito
parlare: ha tradotto la Divini Platonis opera oninia e lo chiamano
Marsilio Ficino. Una volta sentii dire al maestro che quando lo avesse
dipinto in una delle sue opere, quello sarebbe stato il segnale."
"Quale segnale?" Forzetta esitò un istante prima di rispondere.
"Padre, è da molto tempo che non parlo con il maestro. Ma se
mantenete la vostra promessa e mi liberate, lo scoprirò per voi. Vi do la
mia parola. Proprio come farò con questo enigma che mi avete affidato.
Non vi deluderò. "
"Ti ricordo che ti stai impegnando con un inquisitore."
"E vi do di nuovo la mia parola. Concedetemi la libertà e la manterrò."
Cosa avevo da perdere? Quello stesso pomeriggio, prima dell'ora nona,
Mario e io lasciammo il palazzo degli Jacaranda sotto lo sguardo
dubbioso di Maria. Una volta in strada, il ragazzo dai capelli neri e
dalla cicatrice in viso baciò la mia mano, si accarezzò i polsi liberi e
prese a correre verso il centro della città. Fu curioso: non mi domandai
nemmeno se l'avrei rivisto. In fondo poco importava. Ormai ne sapevo
di più sul Cenacolo di molti frati che abitavano sotto il suo stesso tetto.
32
Nelle prime ore del mattino di giovedì 19 gennaio, Matteo Bandelle, il
nipote adolescente del priore, irruppe nel refettorio di Santa Maria delle
Grazie. Aveva lo sguardo alterato e gli occhi lucidi. Arrivò ansimando,
l'animo inquieto e la paura dipinta sul volto. Aveva bisogno di parlare
con suo zio. Trovarselo lì, davanti all'enigmatica pittura murale di
Leonardo, lo confortò e lo spaventò allo stesso tempo. Se ciò che gli
avevano detto dalle parti di piazza Mercanti era vero, restare troppo
tempo in quel luogo, osservare i progressi di quell'opera diabolica,
poteva portarli tutti alla tomba.
Matteo si avvicinò con cautela, per non interrompere la conversazione
che l'abate stava intrattenendo con il suo inseparabile segretario, padre
Benedetto.
"Ditemi una cosa, priore…" riuscì a sentire "quando messer Leonardo
dipinse san Simone e san Giuda Taddeo, notaste qualcosa di insolito nel
suo comportamento?"
"Insolito? Cosa intendete con insolito, padre?"
"Andiamo, priore! Sapete esattamente cosa intendo dire.
Consultò qualche appunto o bozzetto per dotare questi discepoli dei
loro tratti caratteristici? O ricordate forse se gli fece visita qualche
persona, dalla quale possa aver ricevuto istruzioni per portare a termine
quei volti?"
"E' una strana domanda, padre Benedetto. Non so dove vogliate
arrivare. "
"Dunque…" il guercio si schiarì la voce. "Mi avete chiesto di scoprire
quanto potevo sull'enigma che frate Alessandro e padre Leyre avevano
per le mani. Ma, a dire il vero, in mancanza di altre informazioni, ho
finito per investigare su cosa hanno fatto i due fratelli nei giorni
precedenti la morte del bibliotecario." Matteo rabbrividì di terrore. Il
priore e il suo segretario parlavano dello stesso argomento che lo aveva
condotto lì.
"Ebbene?" insistette suo zio, inconsapevole del suo spavento.
"Padre Leyre ha passato qui le proprie ore libere, grazie alla chiave che
gli avete dato. Tutto normale, insomma."
"E frate Alessandro?"
"E' questa la cosa strana, frate Bandelle. Il sacrestano l'ha sorpreso
diverse volte a parlare con Marco d'Oggiono e Andrea Salaino, i
discepoli prediletti di Leonardo. Si ritrovavano nel Chiostro dei Morti e
lì chiacchieravano a lungo. I fratelli che li hanno incontrati concordano
sul fatto di averli sentiti parlare dell'enorme preoccupazione del toscano
per il ritratto di san Simone. "
"E questo vi ha sorpreso?" Matteo vide suo zio fare una smorfia,
arricciando il naso e aggrottando la fronte, come faceva spesso. "Il
maestro è un maniaco del particolare, del dettaglio, delle minuzie…
Dovreste saperlo. Non conosco nessun artista che ritocchi così tante
volte il proprio lavoro."
"E' senz'altro come dite, priore. Tuttavia in quei giorni frate Alessandro
ha assecondato più del solito i capricci di Leonardo. Ha cercato libri e
incisioni per lui. Ha lavorato al di fuori delle sue ore di biblioteca. Si è
recato addirittura alla fortezza ducale per sorvegliare il trasporto di un
pacco molto pesante, di cui ancora non sono riuscito a sapere niente." Il
priore si strinse nelle spalle: "Forse, padre, non è così strano come
sembra. Frate Alessandro non ha posato per lui?
Non è stato scelto tra molti altri per dare un volto a Giuda? E' chiaro
che hanno avuto modo di fare amicizia e che Leonardo può avergli
chiesto di aiutarlo nei giorni precedenti la sua dipartita".
"Credete che sia stata una casualità? Immagino che padre Leyre vi
abbia già parlato dei suoi sospetti, no?"
"Padre Leyre, padre Leyre" brontolò il priore. "Quell'uomo ci nasconde
qualche segreto. Glielo leggo in viso ogni volta che parliamo… "
Matteo non sapeva se interromperli o no. Più li sentiva divagare sul
Cenacolo e i suoi segreti, più si spazientiva. Lui sapeva qualcosa di
importante su quel dipinto!
"Ma egli ritiene che Leonardo sia implicato nell'assassinio di frate
Alessandro, non è vero?"
"Vi sbagliate. Questo è quanto gli ha detto Oliviero Jacaranda, un
vecchio nemico del maestro. Che Leonardo sia un uomo stravagante,
dai gusti insoliti, che non si faccia vedere molto a messa e che si vanti
di aver racchiuso un mistero in questa parete, non lo trasforma in un
assassino."
"Hmm…" il guercio esitò. "Questo è vero. Ma lo trasforma in un
eretico. Perché a chi, se non a un uomo della sua vanità, sarebbe venuto
in mente di dipingersi nell'Ultima cena? E nelle vesti di Giuda Taddeo,
niente meno!"
"E' un'ambiguità interessante. Dipinge se stesso come il Giuda "buono"
e utilizza frate Alessandro come Giuda "cattivo"."
"Priore, con il dovuto rispetto, avete notato come si è rappresentato
Leonardo nell'Ultima cena?"
"Certo" rispose mentre lo localizzava sulla parete. "Sta di schiena a
Nostro Signore."
"Esatto! Leonardo o Taddeo, come preferite, discute con san Simone
anziché prestare attenzione all'annuncio del tradimento che Cristo ha
appena fatto loro. Perché? Perché per il maestro è più importante san
Simone di Nostro Signore? E spingendoci ancora più in là: se sappiamo
che ogni discepolo rappresenta una persona significativa per il maestro,
chi è quell'apostolo realmente?"
"Non capisco dove volete arrivare."
"E' facile" replicò Benedetto. "Se i personaggi dell'Ultima cena non
sono quelli che appaiono, e lo stesso messer Leonardo mostra una
maggiore predilezione per san Simone che per il Messia, quel Simone
dev'essere per forza qualcuno di fondamentale per lui. E frate
Alessandro lo sapeva."
"San Simone… san Simone il Cananeo…" Il priore si accarezzava le
tempie, come se cercasse di incastrare nel rompicapo del Cenacolo la
tessera che fra' Benedetto gli aveva appena fornito. Matteo, sempre in
silenzio, si stava spazientendo. Il suo messaggio era urgente!
"Ora che insistete, fratello, ricordo che qualcosa di insolito accadde
quando Leonardo completò questa parte del Cenacolo disse alla fine lo
zio, che ancora non si era accorto della sua presenza nel refettorio.
"Davvero?" L'unico occhio di Benedetto si illuminò.
"Fu abbastanza strano. Erano tre anni che Leonardo esaminava
candidati per impersonare gli apostoli. Ci fece posare tutti, ricordate?
Poi convocò le guardie del duca, i giardinieri, gli orefici, i paggi… Da
tutti traeva qualcosa di utile: un'espressione, un profilo, il contorno di
una mano, un braccio. Ma quando arrivò il momento di dipingere
l'angolo destro della parete, Leonardo interruppe i suoi colloqui e smise
di ispirarsi a modelli viventi…" Il guercio si strinse nelle spalle.
"Quello che sto cercando di spiegarvi, padre Benedetto, è che per
dipingere san Simone Leonardo non utilizzò nessuno di quei soggetti."
"Quindi lo inventò?"
"No. Utilizzò un busto. Una scultura che fece portare dal castello del
Moro."
"E' lei! La cassa di frate Alessandro!"
"Ricordo bene il giorno in cui portarono quel pezzo di marmo al
convento" proseguì Bandelle senza scomporsi. "Splendeva un sole che
spaccava le pietre e quel tiro a due cavalli fece uno sforzo memorabile
per trascinare fin qui il cassone che conteneva la scultura. Non so
perché ci misero tanto in quell'operazione, comunque mentre ormai lo
stavano depositando a terra, arrivò donna Beatrice."
"Donna Beatrice?"
"Oh, sì! Era radiosa, indossava uno di quegli abiti ornati di pizzo che
tanto le piacevano e aveva le guance arrossate per il caldo. Arrivò
scortata, come sempre, ma ruppe il protocollo per avvicinarsi ai
manovali che stavano scaricando il busto. E volete sapere una cosa? Li
sgridò. "
"Davvero? La principessa diede un ordine diretto a quei manovali?"
"Non solo, fratello. Abbandonò la sua regale compostezza.
Li insultò, li umiliò con parole volgari e minacciò di farli impiccare, se
avessero anche minimamente danneggiato il suo filosofo."
"Il suo… filosofo? Ma non era un busto di san Simone?"
"Siete stato voi a domandarmi se ricordavo qualcosa di insolito, no?
Ecco, questo è l'evento più insolito che ricordi."
"Perdonate, priore. Proseguite, vi prego."
"Leonardo sistemò quel busto vicino all'entrata del refettorio, sopra un
mucchio di sacchi di terra. Era un busto vecchio, un'antichità. Di tanto
in tanto lo spostava, per studiare l'effetto delle distinte luci del giorno.
Quando arrivò a conoscerlo a memoria, si affrettò a tracciarne i
lineamenti sulla parete. La sua tecnica era prodigiosa."
"Ma dove aveva preso quel busto?"
"Questa è la cosa più curiosa: da quanto venni a sapere in seguito,
donna Beatrice lo aveva fatto portare da Firenze solo per compiacere il
maestro." Matteo non poteva più resistere. Aveva bisogno di
interromperli, ma ancora non osava.
"Donna Beatrice fu sempre così accomodante con il maestro?"
domandò il guercio.
"Certamente. Leonardo era il suo artista preferito."
"E potete chiarirmi il motivo dell'interesse di Leonardo per un san
Simone di Firenze?"
"Stupì anche me. Se fossero andati a Firenze per recuperare un Battista,
che in fondo è il santo patrono della città, avrebbe avuto anche senso.
Ma un Simone…"
"Quello non è Simone, zio! Non è lui!" Matteo, rosso di disperazione,
colse di sorpresa i frati. Sapeva di non dover interrompere i discorsi dei
più anziani, ma non fu più capace di tenere a freno la lingua.
"Matteo!" Il priore era sbalordito. Suo nipote di dodici anni se ne stava
lì davanti a lui, dondolandosi da un piede all'altro, il viso rigato di
lacrime e lo sguardo atterrito. "Cosa ti è successo?"
"Io so chi è quell'apostolo, zio" mormorò, mentre cercava di trattenere i
tremiti del suo corpo. Poi svenne.
33
Frate Benedetto e il priore Bandelle ebbero il loro bel da fare a
rianimare Matteo. Il ragazzo si svegliò agitato, faticava ad articolare le
parole e, quando ci riusciva, il suo corpo tremava di freddo e paura.
Chiedeva in modo ossessivo che lo portassero fuori dal refettorio il più
presto possibile. "E' un'opera di Satana" balbettava tra i singhiozzi, con
grande sconcerto del guercio e dello zio. Poiché non era possibile
calmarlo, accolsero le sue suppliche e gli trovarono rifugio in
biblioteca. Lì, al tepore dell'ambiente riscaldato, a poco a poco tornò in
s‚.
Dapprincipio si rifiutava di parlare. Si aggrappava al braccio del priore
con tutte le sue forze e scuoteva il capo, ogni volta che gli rivolgevano
la parola. Il ragazzo non presentava ferite n‚ ematomi visibili; benché
fosse sporco e avesse l'abito inzaccherato di fango, non sembrava fosse
stato aggredito. E allora? Benedetto scese alle cucine in cerca di un po'
di latte caldo e del panforte di Siena, che tenevano per le occasioni
speciali. Con lo stomaco rifocillato e il corpo riscaldato, a Matteo pian
piano si sciolse la lingua.
Quello che raccontò li fece ammutolire.
Com'era sua abitudine, il novizio si era recato di primo mattino a piazza
Mercanti per comprare alcune vettovaglie destinate alla dispensa del
convento. Il giovedì era il giorno migliore per fare provviste di grano e
verdura, cosicché aveva preso alcune monete dalla borsa di frate
Guglielmo e si era avviato, deciso a sbrigare quel compito il più in
fretta possibile.
Nel passare davanti al Palazzo della Ragione, il solenne edificio di
pietra e mattoni a tre piani che domina piazza Mercanti, s'imbatté in un
enorme capannello di gente. Sembravano in estasi. Ascoltavano a bocca
aperta l'arringa di un oratore che aveva improvvisato il suo pulpito
proprio sotto i portici del palazzo. All'inizio la scena non aveva
richiamato più di tanto la sua attenzione; tuttavia, mentre già stava per
voltare le spalle a quella folla, di colpo qualcosa lo aveva trattenuto.
Matteo conosceva quel predicatore.
"Proprio qui, sotto questa loggia, un vero credente ha dato la propria
vita per Dio!" lo aveva sentito gridare. "Un bon homme, che si è
sacrificato per la sua fede e per voi! Come Cristo! E a che scopo? Per
niente! Non vi turbate nemmeno, quando lo ricordo! Non vi accorgete
che assomigliamo ogni giorno di più agli animali? Non vedete che con
questo vostro atteggiamento passivo state voltando le spalle a Dio?" Il
priore e il guercio repressero il loro stupore. Sotto quella loggia che
Matteo stava descrivendo, era stato trovato impiccato frate Alessandro.
Mentre beveva il latte, il novizio continuò il suo racconto. Quando
rivelò loro l'identità di quell'oratore, rimasero ancora più perplessi.
Matteo esitò un istante… L'uomo che accusava i passanti di aver perso
la propria anima perché non riconoscevano gli inviati dell'Altissimo,
era frate Gilberto. Il sacrestano tedesco con i capelli color stoppa,
l'uomo che sorvegliava le porte di Santa Maria, aveva abbandonato il
proprio posto quel mattino stesso per precipitarsi a predicare là dove il
bibliotecario aveva messo fine ai suoi giorni. Perché?
Ma la cosa più singolare del suo racconto doveva ancora arrivare.
"Sarete tutti dannati, se non rinunciate alla Chiesa di Satana e ritornate
alla vera religione!" aveva minacciato il sacrestano, fuori di s‚. "Non
mangiate nulla che provenga da un coito! Evitate la carne! Aborrite le
uova e il latte! Tenetevi lontani dai falsi sacramenti! Non ricevete una
falsa comunione o un finto battesimo! Disobbedite a Roma e correggete
la vostra fede, se volete ancora salvarvi!" Il guercio scosse la testa:
"Frate Gilberto ha detto questo?".
Il priore incoraggiò il ragazzo a proseguire. Matteo, più sereno,
raccontò loro che quando il sacrestano lo aveva individuato in mezzo
alla folla, era sceso come una saetta dal suo palco improvvisato e lo
aveva afferrato per il collo, mostrandolo alla folla.
"Guardatelo bene!" aveva detto, scuotendolo come un sacco. "E' il
nipote del priore di Santa Maria delle Grazie. Se adesso che è ancora un
bambino nessuno lo educa alla vera fede, che cosa ne sarà di lui? Ve lo
dico io!" aveva tuonato. "Diventerà un servitore di Satana come suo
zio! Un maledetto rinnegato di Dio! E trascinerà centinaia di stolti
come voi alla perdizione eterna!" Il volto del priore si corrugò, severo.
"Ha detto così? Sei sicuro, figlio mio?" Il novizio annuì.
"Poi mi ha spogliato."
"Ti ha spogliato?"
"E mi ha sollevato in aria, così che tutti potessero vedermi."
"Ma perché, Matteo? Perché?" Gli occhi del ragazzino si inumidirono
nel ricordare quel momento.
"Non lo so, zio. Io… io l'ho solo sentito gridare alla gente di non
credere che un bambino è puro solo perché non ha perso la sua
innocenza. Che tutti veniamo al mondo per purgare i nostri peccati e
che se non lo facciamo nella presente esistenza, ritorneremo di nuovo in
questa valle di lacrime sotto forma di spregevole materia per una vita
anche peggiore di quella precedente."
"La reincarnazione non è una dottrina cristiana!" protestò il guercio.
"Ma è catara" lo interruppe il priore. "Fratello, lasciatelo continuare."
Matteo si asciugò gli occhi e proseguì: "Poi… poi ha detto che anche se
i frati di questo convento professano la Chiesa di Satana e seguono un
papa che adora le divinità antiche, la nostra casa non tarderà a
trasformarsi nel faro che guiderà il mondo verso la salvezza".
"Ha detto questo?" Il guercio si accigliò. "E ha spiegato perché?"
"Non lo assillate, fratello." Il novizio si aggrappò di nuovo allo zio.
"E' falso, vero?" piagnucolò. "Non siamo la Chiesa di Satana…"
"Certo che no, Matteo" Bandelle gli accarezzò la testa.
"Perché dici così?"
"E' che… è che frate Gilberto si è arrabbiato molto, quando ho detto
che non era vero. Mi ha dato uno schiaffo e ha urlato che solo quando
ci cacceranno dal Cenacolo e questo verrà aperto alla contemplazione
del mondo intero, allora tornerà a splendere la vera Chiesa." Una
crescente sensazione di rabbia invase il priore.
"Ti ha messo le mani addosso!" mormorò indignato.
Matteo non ci fece caso.
"Frate Gilberto ha aggiunto che quanto più guardiamo il Cenacolo,
tanto più ci avviciniamo alla sua Chiesa. Che la parete del maestro
Leonardo nasconde il segreto della salvezza eterna. Che per questo sia
lui sia frate Alessandro hanno accettato di essere ritratti vicino a
Cristo."
"Ha raccontato questo?"
"Sì…" soffocò un singhiozzo. "Lìdipinti, si sono guadagnati la gloria."
Il ragazzo scrutò i volti seri dei suoi due superiori. Fu il guercio a dare
una risposta ai suoi dubbi: non era stato solo il bibliotecario a posare
come Giuda. Anche altri frati, come Gilberto, si erano lasciati ritrarre
da Leonardo facendo le veci degli apostoli. Il tedesco aveva incarnato
Filippo, ma pure i volti di Bartolomeo, dei due Giacomo e di Andrea
erano stati ceduti loro dai monaci. Persino lo stesso Benedetto si era
prestato a lasciarsi ritrarre come Tommaso. "Sono di profilo, perché
non mi si veda l'occhio mancante" spiegò.
Il guercio accarezzò Matteo, sempre più impressionato.
"Sei un giovane coraggioso" gli disse. "Hai fatto bene a insistere perché
uscissimo da lì. Il male può farci perdere la ragione, come fece il
serpente con Eva." Qualcosa riguardo le vere identità degli apostoli
però doveva continuare a tormentarlo, perché in modo quasi inopinato
Benedetto rivolse a Matteo una domanda che sorprese lo stesso priore.
"Poco fa hai detto che sapevi chi era davvero l'apostolo Simone. L'hai
sentito dire al sacrestano?" Il novizio distolse lo sguardo
concentrandosi sui tavolini vuoti dello scriptorium e annuì.
"Mentre mi teneva lì, nudo e sospeso in aria perché mi vedessero tutti,
ha raccontato la storia di un uomo vissuto prima di Cristo, che aveva
predicato l'immortalità dell'anima."
"Davvero?"
"Ha detto che quell'uomo aveva studiato la lezione dei più antichi saggi
del mondo. E ha aggiunto anche cose riguardo al digiuno, alla preghiera
e al freddo. "
"Che cos'ha detto esattamente?" insistette Benedetto.
"Che queste tre cose ci aiutano ad abbandonare il corpo, dove albergano
tutti i peccati e le viltà, e a identificarci solo con l'anima… Ha detto
anche che nel Cenacolo quell'uomo, vestito di un bianco immacolato,
continua a impartire i suoi insegnamenti."
"Su quella parete soltanto uno dei tredici veste così" osservò Bandelle.
"Ed è Simone."
"Ma ha fatto il nome di questo saggio così importante?" insistette il
guercio.
"Sì. L'ha chiamato Platone."
"Platone!" Benedetto sobbalzò. "Certo! Il filosofo di donna Beatrice! Il
busto che fece arrivare da Firenze era il suo…!" 17 Il priore si
massaggiò le tempie con aria perplessa.
"Perché Leonardo avrebbe dovuto dipingersi mentre ascolta Platone,
anziché Cristo?"
"Come? Ancora non lo capite, padre? Ma è chiarissimo!
Sul suo dipinto murale Leonardo ci sta indicando da dove provengono
le sue conoscenze. Leonardo, come frate Gilberto e frate Alessandro, è
cataro, priore. L'avete detto voi prima. E avete ragione. Platone, come
più tardi i catari, sostenne che la vera conoscenza umana deriva
direttamente dal mondo spirituale, senza mediatori. Senza Chiesa, n‚
messe. La chiamava gnosis, priore, la peggiore delle eresie."
"Come potete esserne tanto certo? Una testimonianza simile non basta
ad accusarlo di eresia. "
"Ah, no? Non vedete che Leonardo veste sempre di bianco, come
Simone nel Cenacolo? Non sapete che non mangia carne e pratica il
celibato? Avete mai saputo che avesse una donna?"
"Anche noi indossiamo abiti chiari e digiuniamo, padre Benedetto.
Inoltre di Leonardo dicono che gli piacciano gli uomini, il che non
equivale esattamente a essere celibe come affermate voi" chiosò fra'
Vincenzo, davanti allo sguardo sconcertato del giovane Matteo.
"Dicono! E chi lo dice, priore? Non sono altro che dicerie.
Leonardo è una persona solitaria. Rifugge come la peste l'idea di
accompagnarsi con qualcuno. Scommetto che è celibe proprio come i
parfaits del catarismo… Tutto torna!" Il priore non nascose la sua
inquietudine.
"Supponiamo che abbiate ragione. In questo caso, cosa dobbiamo
fare?"
"Per prima cosa" riprese Benedetto "convincere della sua eresia padre
Leyre. E' un inquisitore ed è quasi un miracolo divino che sia qui. Di
sicuro saprà molto più di noi sul catarismo."
"E poi?"
"Arrestare frate Gilberto e interrogarlo, è ovvio" rispose.
"Questo non sarà possibile…" Matteo sussurrò quella frase, quasi
temesse di importunare. Anche se ormai si sentiva rincuorato, non
aveva ancora finito di raccontare ciò che aveva visto in piazza
Mercanti.
"Che cosa dici?"
"Che non potete più arrestarlo."
"E perché, Matteo?"
"Perché…" esitò "dopo aver terminato il suo sermone, fratello Gilberto
ha dato fuoco al suo abito e si è bruciato in pubblico."
"Santo Dio!" Il guercio si coprì la bocca inorridito. "Vedete, priore?
Non ci sono più dubbi. Il sacrestano ha preferito sottoporsi all'enduro,
piuttosto che al nostro giudizio…"
"Ilendura?" La domanda del giovane Matteo rimase senza risposta,
aleggiando nell'atmosfera rarefatta della biblioteca. Benedetto chiese il
permesso di ritirarsi a meditare e abbandonò la sala in tutta fretta. Quel
mattino stesso, impressionato dalle rivelazioni di Matteo, venne a
raccontarmi che a Santa Maria delle Grazie avevano vissuto almeno
due bonhommes, come gli antichi catari chiamavano se stessi. Un
inquisitore doveva saperlo. Ma il guercio pose l'accento soprattutto su
una seconda scoperta, che riteneva ancor più di mia pertinenza: alla fine
era riuscito a identificare l'interlocutore del maestro Leonardo alla
tavola pasquale del Cenacolo. Ora sapeva chi era davvero l'uomo dal
mantello bianco e dalle mani aperte, in segno d'offerta, che distoglieva
da Cristo l'attenzione di almeno due discepoli: Platone. La sua
confidenza giunse opportuna e riempìuna lacuna che non riuscivo a
colmare fin dal mio incontro con Oliviero Jacaranda. La presenza del
filosofo nel refettorio chiariva perché il maestro da Vinci custodisse
nella sua biblioteca l'opera omnia dell'ateniese. Libri che a quel punto,
di sicuro, dovevano trovarsi in qualche angolo del palazzo di Jacaranda,
senza che nessuno prestasse loro l'attenzione che meritavano.
Il cerchio, dunque, si stava chiudendo.
34
Roma, tre giorni dopo La guardia pontificia, tesa come una balestra,
indicò dritto davanti a s‚, mostrando al maestro generale dei
domenicani il percorso da seguire. Quelle misure di sicurezza parvero
eccessive anche a padre Torriani, una vecchia conoscenza per gli
uomini del papa. Ma i loro ordini erano severi: era appena morto
d'indigestione il terzo cardinale in sei mesi e il pontefice, che molti
accusavano di quelle morti repentine, aveva ordinato una parvenza
d'indagine che includeva il rigoroso controllo degli accessi al palazzo
pontificio.
L'atmosfera non era buona. Roma aveva ragioni sufficienti per tremare,
quando Alessandro VI nominava cardinale qualche uomo illustre della
sua comunità. Tutti sapevano che se il Santo Padre ambiva ai suoi
possedimenti, non doveva fare altro che nominarlo cardinale prima e
assassinarlo con discrezione poi. Le leggi lo tutelavano: il papa era
l'unico e legittimo erede dei beni della sua curia. E con Sua Eminenza il
cardinale Michieli, ricchissimo patriarca di Venezia il cui corpo ormai
giaceva nell'obitorio pontificio, la legge era stata applicata ancora una
volta con assoluta precisione.
Torriani si sottomise alle nuove norme d'accesso agli appartamenti
Borgia senza fiatare. Nel giro di pochi minuti, giusto dopo essersi
lasciato alle spalle la porta dorata della cappella del Santissimo
Sacramento, li distinse chiaramente: erano nella terza sala, con gli occhi
fissi al soffitto e una strana espressione di trionfo dipinta in viso. Lì,
accanto alle finestre dell'ala orientale, al riparo dai rigori dell'inverno
romano, il maestro Annio da Viterbo e Sua Santità discorrevano
animatamente sotto certi affreschi che sembravano ultimati da poco.
Infatti odoravano ancora di pittura e resina.
Il pontefice, rasato e con i capelli metà castani e metà bianchi,
dissimulava la propria pancia sotto una veste talare color vino che lo
copriva dalla testa ai piedi. Annio invece aveva l'aspetto di una
donnola, il naso affilato dal quale spuntava un bosco di peletti neri e
irsuti, le mani lunghe e ossute di uno spaventapasseri con le quali
faceva gesti ampollosi in direzione dei dipinti.
Le parole accese di Nanni, come tutti chiamavano quel saggio,
rimbombavano come i tuoni di un temporale estivo.
"L'arte è la più indispensabile delle vostre armi, Santo Padre! Tenetela
sempre al vostro servizio e dominerete la cristianità! Perdetela e
fallirete nel vostro compito pastorale!" Torriani vide Alessandro VI
annuire in silenzio, e intanto sentiva il proprio stomaco contrarsi a poco
a poco. Aveva udito quel discorso molte volte. Quell'idea peregrina e,
con essa, il fior fiore delle arti fiorentine, aveva invaso Roma. Il papa in
persona aveva strappato un vero esercito di artisti a Lorenzo il
Magnifico, solo per soddisfare i desideri occulti di Annio.
Per non parlare delle sofferenze di Torriani di fronte all'inarrestabile
ascesa di pittori e scultori, sempre a detrimento dei diritti di frati e
cardinali. Infastidito, geloso dell'influenza che quel pernicioso monaco
di Viterbo esercitava sul Santo Padre, il generale dei domenicani si
finse distratto e si rivolse al capo delle guardie perché lo annunciasse. Il
massimo responsabile dell'ordine di San Domenico era lì, proprio come
Alessandro VI aveva sollecitato.
Il papa sorrise: "Mi rallegro di vedervi finalmente, caro Gioacchino!"
esclamò tendendo il suo anello al visitatore, che lo baciò con rispetto.
"Arrivate al momento opportuno. Proprio un attimo fa Nanni e io
parlavamo di quella questione che tanto vi preoccupa…" Il domenicano
alzò gli occhi dall'anello pontificio.
"Che cosa… cosa sapete?"
"Oh andiamo, maestro Torriani! Non è necessaria tanta discrezione con
me. So praticamente tutto: compreso il fatto che, a mio nome, avete
inviato una spia a Milano per verificare certe voci su una presunta
eresia che starebbe prendendo corpo alla corte del Moro. "
"Io…" l'anziano predicatore esitò. "Venivo proprio per informarvi su
ciò che il nostro uomo ha scoperto."
"Me ne compiaccio" rise. "Sono tutto orecchi." Annio da Viterbo e il
Santo Padre abbandonarono la contemplazione degli affreschi per
accomodarsi su due grandi sedie di cuoio che i domestici avevano
appena portato per loro.
Torriani, nervoso, preferì restare in piedi. Sotto il braccio stringeva una
cartella, nella quale custodiva una lunga lettera che io stesso avevo
scritto dopo la scoperta di un ceppo cataro nel cuore di Milano.
"Da mesi ormai" iniziò a spiegare Torriani, ancora impressionato dalle
mie rivelazioni "riceviamo informazioni secondo le quali il duca di
Milano si servirebbe di un celebre maestro fiorentino, Leonardo da
Vinci, per infondere di idee eretiche un'opera maestosa che sta
preparando, ispirata all'Ultima cena di Cristo."
"Leonardo, dite?" Il papa guardò Nanni, in attesa di uno dei suoi dotti
suggerimenti.
"Santità, Leonardo" ripeté costui. "Non lo ricordate?"
"Vagamente."
"E' naturale" lo scusò la Donnola. "Il suo nome non figurava nella lista
di artisti raccomandati dalla famiglia de' Medici per abbellire Roma,
quando eravate ancora cardinale. Per quel che sappiamo di lui, si tratta
di un uomo orgoglioso, irascibile e certamente poco amico di nostra
Santa Madre Chiesa. I Medici lo sapevano e, assennatamente, evitarono
di raccomandarvelo." Il papa sospirò: "Un altro uomo problematico?".
"Senza ombra di dubbio, Santità. Leonardo si sentì umiliato per non
essere stato raccomandato per lavorare a Roma, così nel 1482
abbandonò Firenze, voltò le spalle ai Medici e si trasferì a Milano, dove
avrebbe lavorato come inventore e cuoco, piuttosto che come pittore."
"A Milano? E come hanno accolto un uomo simile?" Il papa assunse
un'aria beffarda, prima di proseguire: "Ah, ora capisco… Per questo
dite che il duca non mi è fedele. Non è così, Nanni?".
"Questo, Santità, dovete chiederlo al maestro domenicano" rispose
brusco. "A quanto sembra, vi porta le prove per dimostrarlo." Torriani,
ancora in piedi, protestò: "Santità, al momento non ci sono prove, ma
soltanto indizi. Leonardo, manovrato e protetto dal Moro, si è
avventurato nell'elaborazione di un'opera dalle proporzioni colossali e
d'argomento devoto, ma piena di anomalie che preoccupano il priore
del nostro convento di Santa Maria delle Grazie".
"Anomalie?"
"Sì, Santità. Si tratta dell'Ultima cena."
"Che cos'avrebbe di strano un'opera simile?"
"Vedete, Santità, sappiamo che i suoi dodici apostoli non sono tali,
bensì ritratti di personaggi pagani o di dubbia fede, la cui disposizione
segreta sul dipinto sembra voler trasmettere un messaggio che non è
cristiano." Il papa e Nanni si guardarono. Quando il saggio di Viterbo
gli chiese maggiori particolari, il domenicano mise mano alla sua
cartella.
"Abbiamo appena ricevuto la prima relazione del nostro uomo a
Milano" disse estraendo la mia lettera. "E' un erudito di Betania, un
esperto in linguaggi cifrati e codici segreti, che attualmente sta
studiando tanto messer Leonardo quanto la sua opera. Ha esaminato
questa Ultima cena, figura per figura, e ha cercato relazioni tra di loro.
Il nostro esperto ha tentato quasi ogni interpretazione: dal collegare
ciascun apostolo a un segno dello zodiaco fino a cercare corrispondenze
tra la posizione delle loro mani e le note musicali. Presto avremo le sue
conclusioni e quelli che oggi sono indizi, domani forse potranno essere
prove." Nanni si irritò.
"Ma ha scoperto qualcosa di concreto, oppure no?"
"Certamente, padre Annio. La vera identità di tre degli apostoli è stata
completamente svelata. Sappiamo che il volto di Giuda Iscariota, per
esempio, corrisponde a quello di un certo frate Alessandro Trivulzio, un
domenicano morto impiccato nel centro di Milano poco dopo
l'Epifania…"
"Diamine! Come il vero Giuda!" sussurrò il pontefice.
"Proprio così, Santità. Non abbiamo ancora potuto stabilire se si è
suicidato o è stato assassinato, ma il nostro inviato ritiene che
appartenesse a una comunità di catari infiltrata nel convento di Santa
Maria. "
"Catari?" Il Santo Padre spalancò gli occhi dallo stupore.
"Catari, Santità. Si credono la vera Chiesa di Dio. Accettano soltanto il
Poter Noster come preghiera e rifiutano il sacerdozio e la figura del
vicario di Cristo quale unico rappresentante di Dio in terra…"
"Conosciamo i catari, maestro Torriani!" disse il papa, adirato. "Ma
credevamo che gli ultimi fossero stati bruciati a Carcassonne e a Tolosa
nel 1325. Non furono sterminati dal vescovo di Pamiers?" Torriani
conosceva bene quella storia. Non tutti erano morti. Dopo il trionfo
della crociata contro i catari nel Sud della Francia e la caduta di
Monts‚gur nel 1244, si era verificata una diaspora di famiglie eretiche
verso l'Aragona, la Lombardia e la Germania. Quelli che avevano
attraversato le Alpi, si erano stabiliti nei pressi di Milano, dove forze
politiche più indulgenti, come quella dei Visconti, li lasciarono vivere
in pace.
Tuttavia le loro idee più estremiste caddero in disuso e molti finirono
per scomparire senza perpetuare i loro riti e le loro idee eterodosse.
"Santità, la situazione potrebbe essere grave" proseguì Torriani, molto
serio. "Frate Alessandro Trivulzio non era l'unico sospettato di
professare il catarismo nel nostro convento milanese. Tre giorni fa un
altro frate ha dichiarato apertamente la propria eresia e poi si è tolto la
vita."
"Endura?" Gli occhi della Donnola scintillarono.
"Proprio così."
"Per tutti i santi!" gemette. "Hendura fu una delle pratiche più estreme
dei catari. Sono duecento anni che nessuno vi ricorre." Annio guardò il
pontefice, che sembrava non aver compreso bene cosa fosse quella
enduro.. L'assistente glielo spiegò immediatamente.
"Nella sua versione passiva consisteva nel voto solenne di non ingerire
alimenti n‚ altro che contaminasse il corpo del cataro che aspirava alla
perfezione. Se moriva puro, quel disgraziato credeva di salvare la
propria anima e di fondersi in Dio. Tuttavia esistette anche una versione
attiva, quella del suicidio per mezzo del fuoco, che si consumò solo
durante l'assedio di Montsgur. Gli abitanti di quell'ultimo bastione
cataro preferirono gettarsi su una grande pira di tronchi di legno,
piuttosto che consegnarsi alle truppe pontificie."
"Il frate di cui vi ho parlato, padre, si è immolato con il fuoco." Nanni
non si riprendeva dallo stupore.
"Maestro Torriani, stento a credere che qualcuno abbia resuscitato
questa vecchia formula. Immagino che disponiate di altre notizie per
dare fondatezza al vostro allarme."
"Sì, purtroppo. In realtà abbiamo motivo di pensare che le prove
dell'esistenza di una comunità catara attiva a Milano si nascondano nel
dipinto murale dell'Ultima cena, che Leonardo da Vinci sta terminando
in questo periodo. Lui stesso si è ritratto nella sua opera, mentre
discorre con un apostolo che in realtà rappresenta Platone. Come
sapete, il punto di riferimento nell'antichità di quei maledetti eretici."
La Donnola fece un salto sulla sedia.
"Platone? Ne siete sicuro?"
"Sicurissimo. La cosa peggiore, padre Annio, è che quel legame non è
esente da una sua logica perversa. Come sapete, Leonardo si formò a
Firenze sotto la guida di Andrea del Verrocchio, un eccellente artista
che godeva della considerazione dei Medici ed era molto vicino
all'Accademia fondata da Cosimo il Vecchio e diretta da un certo
Marsilio Ficino. Saprete anche che quest'Accademia fu creata per
imitare quella di Platone ad Atene."
"Ebbene?" L'assistente di Alessandro VI fece una smorfia, diffidando di
tanta erudizione.
"La nostra conclusione non potrebbe essere più ovvia, padre: se i catari
ripresero da Platone molte delle loro teorie più discusse, e persino
l'Accademia di Ficino pratica ancora usanze catare come quella di non
mangiare carne, che cosa ci impedisce di pensare che Leonardo si stia
servendo della sua opera per diffondere dottrine contrarie alla Chiesa di
Roma?"
"E cosa volete che facciamo? Che lo scomunichiamo?"
"Non ancora. Ci occorrono prove inconfutabili per affermare che
Leonardo ha esposto le proprie idee su quella parete. Il nostro uomo a
Milano sta lavorando per raccogliere tali evidenze. Poi potremo agire."
"Però, maestro Torriani" il viterbese lo interruppe prima che il suo
discorso si infiammasse "molti artisti come Botticelli o Pinturicchio si
sono formati all'Accademia e ciononostante sono eccellenti cristiani."
"Apparentemente, maestro Annio. Non dovete fidarvi."
"Voi domenicani siete sempre così sospettosi! Guardatevi intorno:
Pinturicchio ha dipinto questi affreschi meravigliosi per Sua Santità"
replicò indicando il soffitto. "Vedete forse in essi qualche ombra
d'eresia? Orsù! La vedete?" Il domenicano conosceva bene quella
decorazione. Su di essa Betania aveva aperto in gran segreto una
pratica, che non era mai riuscita a progredire.
"Maestro Annio, non dovreste lasciarvi affascinare. Soprattutto perché,
senza volerlo, mi state dando ragione. Osservate bene quest'opera di
Pinturicchio: divinità pagane, ninfe, animali esotici e scene che non
troverete mai nella Bibbia.
Solo a un seguace di Platone, imbevuto di vecchie dottrine pagane,
sarebbe venuto in mente di dipingere una cosa del genere."
"E' la storia di Iside e Osiride!" protestò la Donnola, ormai fuori di sé.
"Osiride, nel caso non lo sapeste, resuscitò dai morti come Nostro
Signore. E il suo ricordo, benché pagano nella forma, rinnova in noi la
speranza nella salvezza della carne. Osiride compare qui sotto forma di
toro, così come un toro è il nostro Santo Padre. Forse non avete mai
visto lo stemma dei Borgia? Non è ovvia la relazione tra questa figura
mitologica, simbolo di forza e coraggio, e il bicorne che spicca sul loro
blasone? I simboli non sono eresie, maestro!" Gioacchino Torriani
stava per rispondere, quando la voce vellutata e indolente del pontefice
li interruppe.
"Quel che non capisco molto bene" disse, strascicando le parole come
se quella discussione lo annoiasse, "è dove vedete una mancanza del
Moro in tutto ciò…"
"E' perché non avete visto l'opera di Leonardo, Santità!" sbottò
Torriani. "Il duca di Milano la sta sovvenzionando per intero e protegge
il suo artista dalle lamentele dei nostri frati. Il priore di Santa Maria
cerca ormai da mesi di ricondurre il progetto del Cenacolo a un'estetica
più devota, ma è impossibile. E' il Moro che ha permesso a Leonardo di
ritrarre se stesso di spalle a Cristo, impegnato in una conversazione con
Platone "
"Certo, certo" il pontefice sbadigliò. "Avete menzionato anche Ficino,
no?" Torriani annuì.
"Non è di lui che mi avete parlato così spesso, caro Nanni?"
"Certo, Santità" confermò con un sorriso falso. "Si tratta di un
personaggio straordinario. Unico. Non credo che sia un eretico come
vorrebbe dipingerlo il maestro Torriani. E' un canonico del Duomo di
Firenze e ora dovrebbe avere circa sessantaquattro o sessantacinque
anni. Il suo spirito illuminato vi sorprenderebbe."
"Spirito illuminato?" Il pontefice tossì. "Non sarà un altro come quel
Savonarola, vero? Non sono forse entrambi canonici della stessa
cattedrale?" Il papa strizzò un occhio a Torriani, e lui rabbrividì nel
sentire il nome dell'esaltato domenicano che predicava la fine
imminente della "Chiesa ricca".
"E' vero che appartengono alla stessa chiesa, Santità" si giustificò la
Donnola, turbata. "Ma sono uomini dalle personalità opposte. Ficino è
uno studioso che merita tutto il nostro rispetto. Un saggio che ha
tradotto in latino innumerevoli testi antichi, come i trattati egizi che
sono serviti a Pinturicchio per decorare queste volte."
"Davvero?"
"Prima di iniziare i vostri affreschi, Pinturicchio ha letto le opere di
Ermete che Ficino aveva appena tradotto dal greco. In esse sono narrate
queste belle scene d'amore tra Iside e Osiride…"
"E Leonardo?" borbottò il pontefice. "Anche lui ha letto Ficino?"
"Lo ha anche frequentato, Santità. Pinturicchio ne è a conoscenza. Sono
stati entrambi suoi discepoli nella bottega del Verrocchio, ed entrambi
hanno ascoltato le sue lezioni su Platone e sulla sua fede
nell'immortalità dell'anima. Ci può essere qualcosa di più
profondamente cristiano di quest'idea?" Nanni pronunciò quell'ultima
frase in aperta sfida al maestro Torriani. Sapeva anche troppo bene che
in larga maggioranza i domenicani erano tornisti, difensori della
teologia di Tommaso d'Aquino ispirata ad Aristotele, e nemici di ogni
tentativo di recuperare Platone dall'oblio. Il mio maestro generale capì
di trovarsi in posizione d'inferiorità con quell'interlocutore, perché
subito abbassò lo sguardo e annunciò con tono sottomesso il proprio
commiato.
"Santità, venerabile Annio" li salutò cortesemente. "E' inutile che
continuiamo a fare congetture sulle fonti d'ispirazione di questa Ultima
cena a Milano, fintantoché non siano concluse le nostre verifiche. Con
il vostro beneplacito, l'indagine proseguirà e determinerà il genere di
peccato che Leonardo sta commettendo contro la nostra dottrina."
"Sempre che di peccato si tratti" sottolineò l'uomo di Viterbo.
Il papa ricambiò il saluto di Torriani e, tracciando il segno della croce
nell'aria, aggiunse: "Padre Torriani, prima che vi ritiriate vi darò un
consiglio: d'ora in avanti guardate bene il terreno che calpestate".
35
Mai avevo visto facce così lunghe come quelle dei frati di Santa Maria
quella domenica mattina. Prima che fosse annunciato il mattutino, il
priore in persona aveva percorso il convento, cella dopo cella,
svegliandoci tutti. A urli ci aveva ordinato di prepararci il prima
possibile e di predisporre le nostre coscienze per un capitolo
straordinario della comunità.
Nessuno aveva osato fiatare. Non c'era frate che ignorasse che la morte
del sacrestano era un conto in sospeso da saldare prima o poi. Forse
questo spiegava il fatto che tutti avessero iniziato a sospettare di tutti,
quasi da un giorno all'altro. Agli occhi di un estraneo come me la
situazione era diventata insostenibile. I frati si erano divisi in piccoli
gruppi, a seconda della loro provenienza. Quelli del Sud di Milano non
parlavano con quelli del Nord, che a loro volta evitavano di frequentare
quelli dei laghi, come se questi ultimi avessero qualcosa a che vedere
con la disgraziata fine di frate Gilberto. Santa Maria era divisa… e io
ignoravo perché.
Quel mattino presto, dopo essermi lavato e vestito nella penombra,
compresi quanto profonda fosse la crisi. Benché fosse evidente che non
c'era frate che non sparlasse di un altro, tutti sembravano concordare su
una cosa: tenermi il più possibile lontano dalle loro afflizioni. Se c'era
una cosa che li terrorizzava, infatti, era che in virtù dei miei poteri di
inquisitore potessi aprire un processo contro la loro comunità. La voce
che frate Gilberto fosse morto predicando come un cataro li atterriva.
Nessuno, ovviamente, osò manifestarlo apertamente. Mi guardavano
come se avessi costretto io frate Alessandro a impiccarsi e avessi fatto
sì che il loro sacrestano uscisse di senno. Tale era il diabolico potere
che mi attribuivano.
Ma quello che più mi colpì fu vedere come Vincenzo Bandelle trasse
profitto da quelle paure.
Dopo averci fatto alzare, il priore ci riunì attorno a un grande tavolo
vuoto che lui stesso aveva allestito in un salone vicino alle scuderie.
Faceva freddo e la sala era illuminata ancora meno delle nostre celle.
Ma fu così, quasi al buio, che Bandelle ci mise al corrente dell'intenso
programma che ci aveva riservato. Dal mattutino alla compieta, disse,
ci saremmo dedicati alla preghiera, a rivedere i nostri peccati, agli atti
di contrizione e alla confessione pubblica. E alla fine di quella giornata
un gruppo di fratelli, designati da lui stesso, si sarebbe occupato di
riesumare i resti di frate Alessandro Trivulzio dal Chiostro dei Morti.
Non solo le sue povere spoglie sarebbero state strappate dall'abbraccio
della terra, ma sarebbero state portate fuori dalla città per esorcizzarle,
bruciarle e disperderle. Insieme a esse, anche le ossa del fratello
Gilberto.
Bandelle voleva che il suo convento fosse mondato dall'eresia prima del
tramonto. Lui che aveva creduto all'innocenza del frate bibliotecario e
aveva difeso addirittura la teoria di un complotto contro frate
Alessandro, ora sapeva però che aveva voltato le spalle a Cristo,
mettendo in serio pericolo l'integrità morale del suo priorato.
Vidi Mauro Sforza, il becchino, segnarsi nervoso a un'estremità del
tavolo.
Trovammo padre Vincenzo più serio e taciturno che mai.
Non aveva dormito bene. Le borse sotto i suoi occhi gli segnavano le
guance, conferendogli un aspetto desolante. E, in parte, la colpa di quel
suo stato deplorevole era mia. Il pomeriggio precedente, mentre il
maestro Ternani e papa Alessandro si incontravano a Roma a mia
insaputa. Bandelle e questo umile servo di Dio discutevano su ciò che
implicava aver avuto due catari infiltrati nella comunità. Milano - gli
spiegai - era attaccata dalle forze del male come mai negli ultimi cento
anni. Tutte le mie fonti lo confermavano. Dapprincipio il priore mi
guardò incredulo, come se dubitasse che un nuovo arrivato potesse
comprendere i problemi della sua diocesi, ma a mano a mano che gli
esponevo le mie argomentazioni cambiò atteggiamento.
Gli chiarii perché credevo che quella strana sequenza di morti che
avevamo subito non obbedisse a semplici casualità.
Gli spiegai persino in che modo fossero collegate con quelle dei
pellegrini assassinati nella chiesa di San Francesco. La stessa polizia
del Moro mi dava ragione. I suoi ufficiali avevano concluso che anche
quegli sventurati erano morti senza opporre resistenza, come frate
Alessandro. Non solo: la scena precisa dei crimini di San Francesco era
stato l'altare maggiore, proprio sotto una pala del maestro Leonardo
chiamata Maestà. Questo particolare, unito al fatto che tra i loro oggetti
personali avevano trovato solo una pagnotta e un mazzo di carte
illustrate, mi aveva fatto sospettare. Tutti i morti si portavano appresso
lo stesso bagaglio, come se ciò facesse parte di qualche oscuro rituale.
Forse, osservai, di un cerimoniale cataro fino ad allora sconosciuto.
Era strano. Leonardo, come suggerii al priore, era una singolare fonte di
problemi. Frate Alessandro era morto dopo aver posato per lui come
Giuda Iscariota, e mi risultava che anche il sacrestano fosse tra i frati
che più simpatizzavano per il toscano. Per non parlare di donna
Beatrice: venuta a mancare dopo avergli accordato tutta la sua
protezione. Come non vedere il filo sottile che univa tra loro quegli
avvenimenti?
Non saltava agli occhi che Leonardo da Vinci era circondato da potenti
nemici, forse tanto infastiditi dalla sua eterodossia quanto noi, ma
capaci di ricorrere alle armi per eliminare lui e i suoi seguaci?
Furono quelle vittime e la minaccia che avrebbero potuto essercene
altre, a spingermi a parlare a Bandelle dell'Augure.
E credo che feci bene.
All'inizio, quando gli spiegai che a Roma erano già stati informati di
questo susseguirsi di sventure, mi guardò incredulo. In realtà, aggiunsi,
le alte autorità pontificie da tempo ricevevano notizie da un misterioso
informatore, il quale aveva annunciato che sarebbe accaduto tutto ciò se
i lavori del Cenacolo non fossero stati fermati. Il profilo del
messaggero, spiegai, era quello di un individuo scaltro, intelligente, di
probabile formazione domenicana, che nascondeva la propria identità
per timore di subire rappresaglie da parte del duca.
Una persona che, senza dubbio, agiva per avversione contro il maestro
e la cui unica ossessione sembrava quella di condurlo alla rovina e al
discredito. Un uomo, insomma, che bisognava individuare
immediatamente, se volevamo arrestare quello stillicidio di morti e
accedere alle evidentissime prove incriminanti contro Leonardo, che
egli assicurava di possedere.
"Se non mi sbaglio, padre, la passività di Roma di fronte alle sue
minacce lo ha indotto a farsi giustizia da solo."
"E perché, padre Leyre? Cosa può avere quest'uomo contro il nostro
pittore?" mi domandò il priore attonito.
"Ci ho pensato molto e, credetemi, ho trovato una sola spiegazione
plausibile." Bandelle mi guardò incuriosito e mi invitò a proseguire.
"La mia ipotesi è che, in un passato recente, l'Augure sia stato complice
di Leonardo da Vinci e sia arrivato addirittura a condividere
profondamente le sue credenze eterodosse. E' probabile che per qualche
oscura ragione, che dovremo determinare, il nostro uomo a un certo
punto si sia sentito tradito dal pittore e abbia deciso di denunciarlo.
Prima ha scritto lettere ossessive a Roma, informandoci dei delitti di
Leonardo contro la fede e delle perversità che stava nascondendo nel
Cenacolo, poi però, davanti al nostro scetticismo, si è esasperato e ha
deciso di passare all'azione."
"All'azione? Non vi capisco."
"Non posso farvene un rimprovero, priore. Nemmeno io ho tutte le
spiegazioni! Tuttavia la mia ipotesi acquista senso, se supponiamo che
l'Augure sia stato cataro come Alessandro o Gilberto. Per un certo
periodo anch'egli deve essersi creduto un erede degli autentici apostoli
di Dio e, come loro, deve aver atteso con pazienza il giorno del secondo
avvento del Messia.
E' il sogno di ogni bonhomme: essi credono che quel giorno la loro
"vera religione" troverà conferma agli occhi della cristianità."
Approfittai dell'attenzione di padre Vincenzo per ribadire la mia idea
con tono solenne: "Io credo che dopo una lunga e inutile attesa,
innervosito da qualche grave contrattempo, l'Augure abbia perso il
controllo della situazione, abbia rinnegato i suoi voti di non violenza e
abbia deciso di riprendersi col sangue il tempo che aveva perso con gli
"uomini puri"".
"Padre, è un'accusa terribile."
"Atteniamoci ai fatti, priore" lo invitai. "I catari conoscono molto bene
il Nuovo Testamento, cosicché quando l'Augure ha ucciso frate
Alessandro, ha disposto tutto in modo che sembrasse un suicidio.
Leonardo, invece, se ne è reso conto immediatamente e, pur cercando
di depistare le guardie ducali, senza volerlo quel giorno mi ha fornito
una pista fondamentale: Alessandro è morto nello stesso modo in cui
morì Giuda Iscariota, dopo aver tradito Gesù."
"Che importanza può avere questo?"
"Molta, priore. L'universo cataro si muove grazie al potere dei simboli.
Se l'Augure riusciva a far credere alla comunità dei perfetti che si
stavano ripetendo gli avvenimenti che precedettero la morte di Gesù,
poteva convincerli che il Secondo Avvento era vicino. Capite? Il
"suicidio" del bibliotecario doveva annunciare loro che stavano per
compiersi i tempi profetici: che presto Cristo sarebbe tornato sulla terra
e che la loro fede sarebbe risorta trionfante dalle tenebre."
"Laparusia…"
"Proprio così. Per questo Gilberto, impressionato da quella rivelazione,
ha abbandonato i suoi timori ed è uscito in strada a predicare come
cataro, dando la propria vita senza paura, nella certezza che all'avvento
del Signore lui sarebbe resuscitato dai morti. L'Augure sta consumando
la sua vendetta con un'intelligenza diabolica. "
"Sembrate molto sicuro della vostra ipotesi."
"Lo sono" ammisi. "Vi ho già detto prima che il nostro informatore ha
una personalità complessa: è brillante e non ha affidato niente al caso,
nemmeno il luogo scelto per impiccare Alessandro."
"Vale a dire?"
"Pensavo che ve ne foste accorto." Sorrisi ironico. "Quando ho visitato
la loggia del Palazzo della Ragione e ho ispezionato la trave dalla quale
pendeva il nostro bibliotecario, ho notato un curioso bassorilievo. Si
riferisce a un certo Oldrado da Tresseno, podestà e antico persecutore
di eretici, che l'iscrizione descrive come "Spada e tutore della fede per
aver fatto bruciare come si meritavano i catari". Curiosa beffa, non
credete?" Vincenzo Bandelle era sorpreso. La peste dell'eresia aveva
infettato il suo convento ben oltre l'immaginabile.
"Ditemi, padre Leyre" domandò costernato "fino a che punto ritenete
che l'Augure sia riuscito a ingannare i suoi antichi compagni?"
"Abbastanza per convincere quei pellegrini che sono venuti alla chiesa
di San Francesco ad abbandonare i loro rifugi tra le montagne e a
recarsi in città in cerca della salvezza. Hanno dato la propria vita
docilmente, convinti dell'imminenza della parusia. L'Augure ha
ottenuto così che la comunità catara si denunciasse da sola. E
probabilmente crede che sia solo questione di tempo, prima che il
maestro Leonardo faccia un passo falso."
"Dunque…" il priore esitò "… credete che l'Augure sia ancora tra noi."
"Ne sono convinto" sorrisi. "E si nasconde perché sa che è tardi per
ottenere il vostro perdono. Non solo ha peccato contro la dottrina della
Chiesa, ma anche infranto il quinto comandamento: "Non uccidere"."
"Come possiamo identificarlo?"
"Per fortuna ha commesso un piccolo errore."
"Un errore?"
"Nelle sue prime lettere, quando sperava ancora in un intervento di
Roma, ci ha lasciato un indizio affinché lo potessimo individuare." La
fronte corrucciata del priore si spianò per la sorpresa.
La sua mente, ben allenata a mettere in relazione tra loro informazioni
differenti e a risolvere enigmi, gli fornì la soluzione con la velocità di
un fulmine.
"Certo!" esclamò, portandosi la mano alla testa. "E' il vostro enigma!
La firma dell'Augure! Per questo era scritta sulla carta che abbiamo
trovato con il bibliotecario!"
"Frate Alessandro aveva cercato di risolvere il mistero per proprio
conto. Sono stato io stesso, incauto, a fornirgli il testo e forse è stata la
sua curiosità ad accelerarne la morte."
"In questo caso, padre Leyre, ormai lo abbiamo in pugno.
Basterà decifrare il suo rebus per trovarlo."
"Magari fosse così facile!"
36
Il buon priore non doveva aver chiuso occhio tutta la notte.
Appena lo vidi in piedi davanti ai suoi frati, con lo sguardo arrossato e
le occhiaie, immaginai che l'avesse trascorsa pensando e ripensando al
maledetto Oculos ejus dinumera. Quasi mi dispiacque di averlo gravato
di quella nuova responsabilità. Infatti, oltre al dovere di smascherare
chi tra i suoi monaci professasse credenze eretiche e di determinare che
genere di messaggio provocatorio si celasse nelle decorazioni del suo
stesso refettorio, si aggiungeva ora quello di individuare il frate che,
convinto di operare per una giusta causa, aveva istigato già diverse
morti.
I suoi confratelli lo guardavano sconcertati. Il capitolo stava per
iniziare.
"Fratelli" il priore esordì in modo solenne, in piedi, la voce dura e i
pugni stretti sul tavolo "da quasi trent'anni viviamo tra queste mura e
mai finora abbiamo dovuto affrontare una situazione come questa. Dio,
Nostro Signore, ha messo a dura prova la nostra temperanza,
chiamandoci a essere testimoni della morte di due dei nostri fratelli più
cari e rivelandoci che le loro anime erano macchiate dal fetore
dell'eresia. Come pensate che si senta il Padre Eterno al vedere la nostra
debolezza? Con quale disposizione d'animo possiamo pregarlo se noi,
con il nostro atteggiamento, non siamo stati capaci di vedere i loro
errori e abbiamo permesso che morissero nel peccato? I defunti che
oggi ripudiamo mangiavano il nostro pane e bevevano il nostro vino.
Questo non ci rende forse complici delle loro mancanze?" Bandelle
prese fiato.
"Ma Dio, cari fratelli, non ci ha abbandonati in questo terribile
frangente. Nella sua infinita misericordia ha voluto che ci fosse tra noi
uno dei suoi più sapienti dottori." Un mormorio si diffuse tra i presenti,
mentre il priore mi indicava con l'indice.
"Per questo egli è qui" disse. "Ho chiesto al nostro illustre padre
Agostino Leyre, del Sant'Uffizio romano, di aiutarci a far luce sui
tortuosi sentieri che stiamo percorrendo in questi momenti di dolore."
Mi alzai perché potessero vedermi e salutai con un leggero inchino.
Con tono più conciliante il priore continuò il suo discorso, facendo
grandi sforzi per non intimorire i suoi frati.
"Tutti avete vissuto al fianco di frate Gilberto e frate Alessandro. Li
conoscevate bene. Eppure nessuno ha denunciato irregolarità nel loro
comportamento, n‚ ha saputo vedere la loro funesta affiliazione al
catarismo. Dormivamo tranquilli convinti che quella dottrina si fosse
estinta ormai molti anni fa, e peccavamo di superbia nel credere che
non l'avremmo mai più dovuta affrontare. Ma non è stato così. Il male,
cari fratelli, è restio a svanire. Approfitta della nostra ignoranza. Si
nutre della nostra stoltezza. Per questo, allo scopo di difenderci da
nuovi attacchi, ho pregato padre Leyre di illuminarci sulla più maligna
delle deviazioni cristiane. E' probabile che nelle sue parole
identificherete abitudini e costumi che forse avete praticato, senza
conoscerne l'origine. Non temete: molti di voi provengono da famiglie
lombarde i cui antenati ebbero qualche contatto con gli eretici. E' mio
fermo proposito che, prima del tramonto, prima che abbandoniate
questa sala, facciate abiura da tutto ciò e vi riconciliate con la Santa
Chiesa di Roma. Ascoltate il nostro fratello, meditate le sue parole,
pentitevi e chiedete di confessarvi. Voglio sapere se i nostri fratelli
defunti sono stati o no gli unici contagiati dalla peste catara, e prendere
i provvedimenti opportuni." Il priore mi cedette la parola, indicandomi
con un cenno di accomodarmi a capotavola. Nessuno batté ciglio. I frati
più anziani, Luca, Giorgio e Stefano, troppo vecchi per svolgere
qualsiasi attività nel convento, allungarono il collo per riuscire a
sentirmi. Gli altri, lo so, seguirono i miei passi con autentico terrore;
non ebbi che da guardarli negli occhi.
"Stimati fratelli, laudetur Jesus Christus."
"Amen" risposero in coro.
"Ignoro, fratelli, fino a che punto conosciate la vita di san Domenico di
Guzmàn." Un mormorio percorse l'assemblea.
"Non importa. Oggi è un giorno eccellente perché insieme rinnoviamo
il suo ricordo e quello della sua opera." Dal tavolo si alzò un sospiro di
sollievo.
"Lasciate che vi racconti qualcosa. Agli inizi dell'anno 1200 i primi
catari si erano ormai diffusi in buona parte del Mediterraneo
occidentale. Predicavano la povertà, il ritorno ai costumi dei cristiani
primitivi e professavano una religione semplice, che non richiedeva
chiese, n‚ decime o privilegi per i ministri del Signore. I loro seguaci
rifiutavano il culto dei santi e della Vergine, alla stregua dei selvaggi o,
peggio ancora, dei mussulmani. Rinnegavano il battesimo. E quei rozzi
non esitavano ad affermare che il creatore del mondo non era stato Dio,
ma Satana. Che dottrina perversa! Riuscite a immaginarvelo? Per loro
Yahweh, il Dio Padre dell'Antico Testamento, era in realtà uno spirito
diabolico che allo stesso tempo cacciava Adamo ed Eva dal Paradiso e
distruggeva eserciti al passaggio di Mosè. Nelle sue mani noi uomini
eravamo soltanto marionette, incapaci di discernere il bene dal male. La
gente semplice accolse quelle calunnie con entusiasmo: vedeva in esse
una fede che li discolpava dal peccato e rendeva facile comprendere
perché ci fosse tanta sofferenza in un mondo creato dal Maligno. Che
bestemmia! Mettevano Dio e il Diavolo, il bene e il male, allo stesso
livello, con competenze e poteri identici!"
"La Chiesa" proseguii "volle correggere quegli infedeli dai pulpiti, con
la predicazione, ma il suo intervento non ebbe effetto. I sempre più
numerosi simpatizzanti si resero conto di quanto fosse sproporzionata la
loro lotta e la maggioranza finì per avere pietà degli eretici, che molti
consideravano vicini esemplari. Argomentavano che i catari
predicavano con l'esempio, dando prova di umiltà e povertà, mentre i
chierici indossavano pianete raffinate e altri orpelli per condannarli da
altari coperti di costosi paramenti. Così, lungi dallo sradicare l'eresia,
ciò che la Chiesa ottenne fu che si propagasse come la peste. San
Domenico fu l'unico a comprendere l'errore e decise di scendere sullo
stesso terreno dei "puri", perché è questo che significa il greco kathars,
per predicare loro dalla stessa povertà apostolica che ammiravano. Lo
Spirito Santo gli diede forza. Gli diede il coraggio per penetrare nei
baluardi eretici della Francia, là dove i catari erano una moltitudine,
dove confutò ogni singolo credo. Domenico smontò le loro assurde tesi
e proclamò Dio unico Signore della creazione. Ma persino uno sforzo
simile fu inutile. Il male era assai esteso." Bandelle mi interruppe:
anche lui aveva studiato quelle vicende, durante i suoi anni di
preparazione teologica, e sapeva che il catarismo non aveva guadagnato
adepti solo tra contadini e artigiani, ma anche tra re e nobili, che lo
consideravano il migliore espediente per evitare balzelli e cessioni di
privilegi agli ecclesiastici.
"E' vero" ammisi. "Non versare le decime che la Bibbia 18 aveva
istituito per i sacerdoti significava disprezzare le leggi di Dio. Roma
non poteva restare a braccia conserte. Il nostro amato Domenico si
prese tanto a cuore quella deviazione che decise di porvi rimedio. Per
questo fondò un gruppo di predicatori con i quali tornare a
evangelizzare ampi territori come la Linguadoca francese. Oggi noi
siamo gli eredi di quell'ordine e della sua divina missione. Tuttavia alla
morte di San Domenico, vedendo che era impossibile combattere il
male solo con le parole, il papa e le corone fedeli a Roma decisero di
scatenare una repressione militare su grande scala che eliminasse i
miscredenti. Sangue, morte, intere città messe a ferro e fuoco,
persecuzioni e dolore scossero per anni le fondamenta del popolo di
Dio. Quando le truppe del papa entravano in una città in cui aveva
attecchito l'eresia, ammazzavano tutti senza distinguere tra catari e
cristiani. Dio, dicevano, avrebbe riconosciuto i suoi fedeli quando
fossero arrivati in cielo." Prima di continuare, rivolsi lo sguardo agli
astanti. Il mio silenzio li spaventò.
"Fratelli" proseguii "quella fu la nostra prima crociata.
Sembra incredibile che sia accaduto meno di duecento anni fa, e tanto
vicino a qui. Allora non esitammo nell'alzare le spade contro le nostre
stesse famiglie. Gli eserciti amministrarono la giustizia delle armi,
isolarono i "puri", uccisero molti dei loro capi e costrinsero centinaia di
eretici all'esilio, lontano dalle terre che un giorno avevano dominato."
"E fu così che, fuggendo dalle truppe del Santo Padre, gli ultimi catari
arrivarono in Lombardia" aggiunse Bandelle.
"Giunsero in queste terre decimati. E benché tutto mirasse verso la loro
estinzione, ebbero fortuna: la situazione politica favorì la
riorganizzazione degli eretici. Vi ricordo che quella era l'epoca delle
lotte tra guelfi e ghibellini: i primi sostenevano che il papa era investito
di un'autorità superiore a quella di qualsiasi re. Per loro il Santo Padre
era il rappresentante di Dio in terra e, quindi, aveva diritto a un esercito
proprio e a grandi risorse materiali. Invece i ghibellini, con in testa il
capitano Matteo Visconti, rifiutavano questa idea e difendevano la
separazione dei poteri temporale e divino. Roma doveva occuparsi solo
dello spirito, il resto era compito dei re.
Perciò nessuno si stupì che i ghibellini accogliessero gli ultimi catari in
Lombardia: era un altro modo per sfidare il papa. I Visconti li
appoggiarono in segreto e, più tardi, gli Sforza continuarono con questa
politica. E' quasi certo che Ludovico il Moro segua ancora le medesime
direttive, e per tale motivo questa casa, che oggi si trova sotto la sua
protezione, si è trasformata nel rifugio di quei maledetti." Nicola da
Piadena si alzò in piedi e chiese la parola.
"Quindi, padre Leyre, accusate il nostro duca di essere ghibellino?"
"Non formalmente, fratello" replicai, schivando la sua insidiosa
domanda. "Non posso farlo senza prove, anche se sospetto che
qualcuno di voi le occulti. Ma non esiterò a ricorrere al tribunale del
Sant'Uffizio, o alla^tortura se fosse necessario, per ottenerle. Sono
deciso ad arrivare alle estreme conseguenze."
"E come pensate di dimostrare che esistono "uomini puri" in questa
comunità?" sbottò frate Giorgio, l'elemosiniere, da dietro lo scudo dei
suoi invidiabili ottant'anni. "Pensate di torturare voi stesso tutti questi
fratelli, padre Leyre?"
"Vi mostrerò cosa intendo fare." A un mio gesto Matteo, il nipote del
priore, si avvicinò al tavolo con una gabbia di vimini, nella quale aveva
rinchiuso un pollo. Glielo avevo chiesto qualche minuto prima che
iniziasse il capitolo. L'animale, disorientato, guardava da tutte le parti.
"Come sapete, i catari non mangiano carne e si rifiutano di ammazzare
qualsiasi essere vivente. Se voi foste un bon homme e vi dessi un pollo
come questo, chiedendovi di sacrificarlo davanti a me, vi rifiutereste di
farlo." Giorgio arrossì nel vedermi prendere un coltello e alzarlo sul
volatile.
"Se uno di voi si rifiuterà di ucciderlo, saprà che lo avrò riconosciuto. I
catari credono che negli animali vivano le anime degli uomini morti nel
peccato e che ritornino sotto tale forma per espiare le proprie colpe.
Temono che uccidendoli possano togliere la vita a un loro simile."
Afferrai con forza il pollo tenendolo sopra il tavolo, gli allungai il collo
in modo che tutti potessero vederlo e cedetti il coltello a Giuseppe
Boltraffio, il monaco a me più vicino. A un mio cenno la lama tranciò
in due il collo dell'animale, macchiando di sangue le nostre vesti.
"Come vedete, frate Giuseppe è immune da ogni sospetto" dissi,
sorridendo ironico.
"Padre, non conoscete un metodo più sottile per individuare un cataro?"
protestò Giorgio, inorridito.
"Sì, è ovvio, fratello. Ci sono molti modi per identificarli, ma tutti meno
diretti. Per esempio, se mostrate loro una croce, non la baceranno.
Credono che solo una Chiesa diabolica come la nostra sia capace di
adorare lo strumento di tortura su cui perì Nostro Signore. Non li
vedrete venerare reliquie, o mentire, e neppure temere la morte. Ma
questo, è chiaro, vale solo nel caso dei parfaits."
"parfaits?" Alcuni frati ripeterono il termine francese con stupore.
"I "perfetti"" spiegai. "Sono coloro che dirigono l'esistenza spirituale
dei catari. Credono di osservare la vita degli apostoli come non
saprebbe fare nessuno di noi; rifiutano qualsiasi forma di proprietà,
perché n‚ Cristo n‚ i suoi discepoli possedettero nulla. Spetta a loro
iniziare gli aspiranti al melioramentum, una genuflessione che questi
dovranno compiere ogni volta che incontreranno un parfait. Solo loro
possono presiedere all'apparellamentum, una confessione collettiva
durante la quale i peccati di ogni eretico vengono esposti, dibattuti e
perdonati pubblicamente. E, come se non bastasse, sono gli unici che
possono somministrare il solo sacramento che i catari riconoscono: il
consolamentum."
"Consolamentum?" tornarono a mormorare i frati.
"Funge insieme da battesimo, comunione ed estrema unzione" spiegai.
"Si amministra posando un libro consacrato sulla testa del neofita. Non
si tratta mai della Bibbia. Questo atto è considerato un "battesimo dello
spirito", e chi merita di riceverlo si convertirà, secondo loro, in un vero
cristiano. In un "consolato"."
"E che cosa vi ha fatto pensare che il sacrestano e il bibliotecario
fossero dei "consolati"?" domandò fra' Stefano Petri, il sorridente
tesoriere della comunità, sempre soddisfatto di portare a termine con
successo le incombenze materiali di Santa Maria. "Se mi permettete
l'osservazione, non li ho mai visti abiurare la croce, n‚ credo che
fossero stati battezzati mediante l'imposizione di un libro sulla testa."
Alcuni frati intorno a lui annuirono.
"Invece, fratello Stefano, li avete visti digiunare in modo estremo, non è
vero?"
"Tutti li abbiamo visti. Il digiuno eleva lo spirito."
"Non nel loro caso. Per i catari i digiuni estremi sono una via per
ottenere il consolamentum. Quanto alla croce, è opportuno non fare
confusione. Ai catari è sufficiente limare le estremità di un qualsiasi
crocefisso latino, rendendolo più smussato, per poterlo portare al collo
senza problemi. Se la croce è greca, la tollerano. Fratello Petri, di sicuro
li avrete visti recitare il Pater Master insieme a voi. Ebbene: questa è
l'unica preghiera che ammettono."
"Padre Leyre, voi fornite solo argomenti circostanziali" replicò Stefano,
prima di sedersi.
"Può essere. Sono disposto ad ammettere che frate Alessandro e frate
Gilberto fossero solo simpatizzanti in attesa del battesimo. Tuttavia ciò
non li esime dal peccato. Non dimentico nemmeno che il frate
bibliotecario si è prestato a collaborare con il maestro Leonardo alla sua
Ultima cena. Ha acconsentito a farsi ritrarre come Giuda al centro di
un'opera sospetta, e credo di sapere perché."
"Ditelo…" mormorarono.
"Perché per i catari Giuda Iscariota fu un servo del disegno di Dio.
Credono che agì bene: tradì Gesù perché si compissero le profezie ed
egli potesse dare la sua vita per noi."
"State dunque insinuando che anche Leonardo è un eretico?" La nuova
domanda di fra' Nicola da Piadena fece sorridere di soddisfazione padre
Benedetto, che poco dopo si allontanò dal tavolo per svuotare la propria
vescica nel chiostro.
"Fratello, giudicate voi stesso: Leonardo veste di bianco, non mangia
carne, è certo che non ucciderebbe mai un animale, non gli si conosce
alcuna relazione carnale e, se ancora non bastasse, nel vostro Cenacolo
ha omesso il pane della comunione e ha dipinto un pugnale, un'arma,
nella mano di san Pietro, indicando così dove ritiene che sia la Chiesa
di Satana.
Per un cataro, solo un servo del Maligno impugnerebbe una lama alla
tavola pasquale."
" Tuttavia il maestro da Vinci non ha tralasciato di rappresentare il
vino" osservò il priore.
"Perché i catari bevono vino! Ma osservate bene, padre Bandelle: al
posto dell'agnello pasquale, che secondo i Vangeli fu la pietanza di
quella sera, il maestro ha dipinto del pesce. E sapete perché?" Il priore
scosse il capo, mentre mi rivolgevo a lui: "Ricordate ciò che vostro
nipote ha sentito dalla bocca del sacrestano, prima che morisse? I catari
non accettano alcun alimento che provenga dal coito. Secondo loro i
pesci non copulano, perciò li possono mangiare".
Un mormorio di ammirazione si diffuse nella sala. I frati seguivano a
bocca aperta le mie spiegazioni, sconcertati per non aver scoperto prima
quelle eresie sulla parete del loro futuro refettorio.
"Fratelli, ora occorre che rispondiate a uno a uno alla mia domanda"
dissi, cambiando il tono didattico in un altro più severo. "Fate un esame
di coscienza e rispondete davanti alla vostra comunità: qualcuno di voi
ha seguito, per volontà propria o altrui, una delle regole di
comportamento che vi ho descritto?" Vidi i frati trattenere il respiro.
"La Santa Madre Chiesa sarà misericordiosa con chi abiurerà le proprie
pratiche prima di lasciare questa assemblea. Dopo, il peso della
giustizia ricadrà su di lui."
37
L'Augure agì con una precisione impressionante.
Se qualcuno si fosse per malasorte imbattuto in lui, avrebbe dedotto che
si muoveva come se conoscesse anche l'angolo più nascosto del
convento. Avvolto in una cappa nera che lo copriva dalla testa ai piedi,
passò tra le file vuote delle panche della chiesa, girò alla sua sinistra
verso la cappella di Santa Maria delle Grazie e si addentrò nella
sacrestia. Non incrociò nessuno. I frati erano riuniti in capitolo
straordinario, ignari dell'arrivo di quell'intruso.
La sua ombra soddisfatta abbandonò l'oratorio, oltrepassando l'arco che
dava sul piccolo chiostro del priore; lo percorse a passo veloce e, una
volta nel Chiostro dei Morti, si lasciò alle spalle il refettorio per salire a
tre alla volta gli scalini che conducevano alla biblioteca.
L'Augure - uomo o spirito, angelo o demonio, poco importa - si
muoveva con disinvoltura. E così, dopo aver ispezionato con occhio
esperto lo scriptorium, si diresse verso il banco di frate Alessandro.
Non aveva tempo da perdere. Sapeva che Marco d'Oggiono e un pittore
complice del toscano, il cui nome era Bernardino Luini, avevano
appena lasciato la casa di Leonardo, proprio di fronte al convento di
Santa Maria delle Grazie, e presto sarebbero arrivati al refettorio.
Ignorava che cosa li portasse lì e, ancor di più, che su espresso
desiderio del toscano erano accompagnati da una giovane ragazza.
Con cura l'Augure appoggiò la cappa sul tavolo del bibliotecario e,
prestando attenzione a non fare troppo rumore, tastò il pavimento.
Incastrate una accanto all'altra, solo due mattonelle si mossero al suo
tocco. Era ciò che cercava.
L'ombra si chinò a esaminarle e vide che non erano fissate con malta,
ma avevano i bordi levigati e il retro pulito, segno inequivocabile di un
uso frequente. Quando le sollevò, riconobbe la conduttura del
riscaldamento a vapore. L'osservò con soddisfazione. L'Augure sapeva
che quel minuscolo canale nella muratura percorreva da lato a lato il
soffitto del refettorio e che, da lì, un orecchio ben allenato non avrebbe
perso un particolare di qualsiasi cosa fosse detta sotto quelle volte.
Con precauzione si sdraiò completamente, in modo da poter attaccare il
suo orecchio al pavimento, e chiuse gli occhi in cerca di
concentrazione.
Un minuto dopo si sentì un forte cigolio. Era il catenaccio del
refettorio. Gli invitati di Leonardo stavano entrando nella sala
dell'Ultima cena.
"Che cosa avrà voluto dirci il maestro, affermando che lui è l'omega?"
La domanda della bella Elena salì nitida lungo il canale fino al piano di
sopra. L'Augure fu sorpreso di sentire una voce di donna.
"La prima volta che gliel'ho sentito dire è stato in presenza di suor
Veronica, il giorno della sua morte" rispose Marco d'Oggiono, la cui
voce riconobbe immediatamente.
"Eravate con suor Veronica da Binasco, il giorno in cui si è compiuta la
sua profezia?" Elena non stava nella pelle dall'ammirazione.
Aveva trascorso la notte in bianco, a bocca aperta davanti alle
spiegazioni di Leonardo e tra le battute dei suoi discepoli, preparandosi
per la sua seduta di posa. Leonardo aveva accettato di ritrarla come il
discepolo Giovanni, se prima avesse dimostrato, con l'aiuto dei suoi
accompagnatori, che era capace di comprendere l'importanza di quel
dipinto murale.
Da quando l'aveva conosciuta il maestro, sedotto dalla bellezza della
primogenita dei Crivelli, non aveva potuto togliersela dalla testa. Era un
"Giovanni" perfetto. Ma non voleva essere precipitoso. In un paio di
occasioni l'aveva invitata, sempre scortata dal maestro Luini, alle sue
celebri serate con musicisti, poeti e cantastorie con cui intratteneva i
propri ospiti.
Desiderava sorvegliare da vicino l'evoluzione di quella coppia
imprevista. La giovane si sentiva esaltata: frequentare un circolo che
conosceva solo dai racconti di sua madre era come entrare nel mondo
dei sogni. E non voleva svegliarsi. Da quando Lucrezia Crivelli aveva
rischiarato le sue notti infantili con racconti di principi e giullari, di
cerimonie cavalieresche e di riunioni di maghi, Elena aveva desiderato
partecipare a simili incontri.
"Suor Veronica! Ah! Quella monaca si irritava con molta facilità"
ricordò Marco, che cercava di riscaldarsi le mani soffiandoci sopra. Il
refettorio era freddo. Era arrivata l'ora di aguzzare l'ingegno.
"Davvero?"
"Oh, sì. Rimproverava sempre al maestro i suoi gusti eccentrici e lo
criticava perché conosceva meglio le opere dei filosofi greci che le
Sacre Scritture. In realtà non parlavano spesso di arte, meno ancora dei
lavori del maestro, ma il giorno in cui è morta suor Veronica gli ha
chiesto di questo refettorio."
"E che cosa c'entra questo con la omega?" protestò Elena.
"Lasciate che ve lo racconti. Quel giorno Leonardo si sentì offeso: suor
Veronica l'accusò di aver minimizzato l'importanza di Cristo nel
Cenacolo e il maestro si arrabbiò. Le replicò che Gesù era l'unica alfa di
questa composizione. "
"Disse questo? Che Gesù era l'alfa del dipinto?"
"Gesù, disse, è il principio. Il centro. Il fulcro di questo lavoro. "
"Infatti" osservò Luini, sforzandosi di distinguere la sagoma del Cristo
nella penombra "è vero che Gesù occupa il posto dominante. C'è di più:
sappiamo che il punto di fuga della prospettiva di tutta la composizione
si trova esattamente sopra il suo orecchio sinistro, sotto i capelli. E' lì
che Leonardo puntò il compasso il primo giorno, lo vidi con i miei
occhi.
Poi, partendo da quel punto sacro, tracciò tutto il resto." L'Augure fu
sorpreso di sentire Luini. Era la prima volta che gli capitava. Dai temi
delle sue opere sapeva che condivideva la trama eretica di Leonardo.
Anch'egli dipingeva ossessivamente scene della vita di Giovanni: il suo
incontro da piccolo con Gesù lungo la strada per l'Egitto, il suo
battesimo nel Giordano o la sua testa servita su un vassoio d'argento a
Salomé, si ripetevano di continuo nelle tele e nelle tavole del giovane
maestro. Tutti i pellegrini che veneravano la Maestà di Leonardo lo
conoscevano bene. "I lupi" dedusse inquieto, quando constatò la sua
presenza nel sanata sanctorum del toscano "si muovono sempre in
branco."
"La vostra osservazione è corretta, messer Bernardino" disse Marco,
senza distogliere gli occhi dalla loro bella compagna, che ora iniziava a
scorgere i profili degli apostoli illuminati dal chiarore dell'alba. "Se
osservate il suo corpo, vedrete che così, con le braccia allungate in
avanti, ha la forma di un'enorme A. Di un'alfa gigante che sorge nel
centro esatto dei Dodici. Riuscite a distinguerla?"
"Certo che la vedo, ma l'omega?" insistette Elena.
"Be', credo che il maestro abbia detto così, perché si considera l'ultimo
dei discepoli."
"Chi? Leonardo?"
"Sì, Elena. Alfa e omega, principio e fine. Ha senso, no?" Luini e la
contessina si strinsero nelle spalle. Un alunno eccellente come Marco
intuiva che quella parete nascondeva un messaggio iniziatico di grande
importanza. Era evidente che se il maestro li aveva fatti arrivare fino a
lì senza offrire loro una chiave di lettura, in qualche modo li stava
mettendo alla prova. Erano dunque soli, davanti al rebus più grande mai
ideato dal toscano, e dalla loro abilità a ricostruirne il significato
dipendeva il loro accesso a segreti più importanti. E, soprattutto, la
salvezza della loro anima.
"Forse Marco ha ragione e il Cenacolo nasconde una specie di alfabeto
visuale." Quell'osservazione allarmò l'Augure.
"Un alfabeto visuale?"
"So che il maestro studiò l'"arte della memoria" con i domenicani di
Firenze. Anche il suo maestro, il Verrocchio, la praticò e la insegnò a
Leonardo, quando era solo un bambino."
"Non ci ha mai parlato di questo" disse Marco, un po' deluso.
"Forse non lo considerava importante per la vostra formazione. In fin
dei conti, si tratta solo di artifici mentali per ricordare una grande
quantità di informazioni o racchiuderle in determinate caratteristiche di
edifici o di opere d'arte. In questo modo rimangono sotto gli occhi di
tutti ma sono invisibili per i non iniziati alla loro lettura."
"E dove vedete qui questo alfabeto?" incalzò affascinato il d'Oggiono.
"Avete detto che il corpo di Gesù ha l'aspetto di una A e che per
Leonardo costituisce l'alfa della composizione. Se lui ha detto di se
stesso che è l'omega, converrete con me che non è assurdo cercare nella
figura di Giuda Taddeo qualcosa che ricordi una O." I tre si guardarono
con aria complice e, senza scambiare altre parole, si avvicinarono ai
piedi della mensa pasquale. La figura del Taddeo era inconfondibile:
guardava verso il lato opposto rispetto a dove si svolgeva l'azione.
Chino in avanti, teneva le braccia incrociate con entrambi i palmi rivolti
verso il cielo. Indossava una tunica rossiccia, senza fibbia, e non c'era
nulla nel suo ritratto che evocasse un'omega.
"Alfa e omega possono riferirsi anche a san Giovanni e alla
Maddalena" mormorò Bernardino, mascherando la propria delusione.
"Che intendete dire?"
"E' facile, Marco. Voi e io sappiamo che questa parete è segretamente
consacrata a Maria Maddalena."
"Il nodo!" ricordò. "E' vero! Il nodo scorsoio all'estremità della
tovaglia!"
"Credo che Leonardo abbia voluto depistarci. Da tempo il maestro va
diffondendo la voce che il nodo è il suo singolare modo di firmare
l'opera. In volgare. Vinci deriva dalla parola latina vincoli, cioè laccio o
catena. Tuttavia il suo significato occulto non può essere così
grossolano. Dev'essere collegato per forza alla prediletta di Gesù."
L'Augure si agitò, inquieto nel suo nascondiglio.
"Un momento!" protestò Elena. "E questo cos'avrebbe a che vedere con
l'alfa e l'omega?"
"Lo dicono le Scritture. Se leggete i Vangeli, noterete che Giovanni
Battista svolse un ruolo fondamentale all'inizio della vita pubblica del
Messia. Giovanni battezzò Gesù nel Giordano. Di fatto, in un certo
modo servì da punto di partenza, da alfa, per la sua missione terrena. La
Maddalena, invece, fu determinante per la sua fine: era presente quando
resuscitò dalla tomba, e a modo suo anche lei lo aveva battezzato
ungendolo, pochi giorni prima di questa ultima cena, in presenza dei
discepoli.
O non ricordate l'episodio in cui Maria di Betania gli lava i piedi? 19
Ella agì in quel frangente come una vera omega."
"Maddalena, omega…" La spiegazione non convinceva del tutto la
ragazza. Prima di tutto Giovanni e il Taddeo non mostravano punti in
comune, tranne il fatto che nessuno dei due guardava Cristo. Era da un
po' che Elena stava meditando un'interpretazione alternativa per quella
O così fuori posto. Guardava da un lato all'altro della parete dipinta,
cercando di dare un senso a quell'enigma.
Presto avrebbe fatto giorno e dovevano affrettarsi, se volevano
concludere la loro prova prima che arrivassero i monaci. Se nel
Cenacolo c'era qualcosa da "leggere", dovevano trovarlo al più presto.
"Credo stiate proponendo delle interpretazioni troppo elaborate" disse
infine. "Mentre il maestro, per quel poco che lo conosco, è un grande
amante della semplicità." Marco e Bernardino si voltarono verso la
contessina.
"Se ha annodato in modo così evidente una delle estremità della
tovaglia, lasciando piana l'altra, è perché desidera richiamare
l'attenzione dello spettatore verso quell'angolo del tavolo. Lì, dove lui
stesso si è rappresentato, c'è qualcosa che vuole mostrarci." Luini alzò
il braccio verso il nodo, accarezzandolo con la punta delle dita. Quel
laccio era dipinto con grande maestria, ogni piega del tessuto gli
conferiva uno straordinario realismo.
"Credo che Elena abbia ragione" ammise.
"Ragione? E come?"
"Guardate bene, Marco: la parte del dipinto evidenziata dal nodo è
l'area in cui la luce della composizione risulta più intensa. Osservate qui
le ombre sui visi degli apostoli. Le vedete? Sono più marcate, più forti
delle altre." Il profilo greco del d'Oggiono percorse la parete
orizzontalmente, confrontando l'ampio ventaglio di chiaroscuri sugli
abiti e sulle facce dei Dodici.
"Forse ha un senso" continuò Luini, come pensando ad alta voce.
"Quella parte appare più illuminata delle altre, perché per Leonardo la
conoscenza ha origine da Platone. Egli è come il sole che illumina la
ragione. E il discepolo più luminoso di tutto il gruppo è san Simone,
quello con il viso del greco e l'unico mantello bianco della scena…"
Quel particolare restituì a Luini un ricordo importante: "E Matteo, il
discepolo che sta gomito a gomito con il maestro, altri non è se non
Marsilio Ficino… E' chiaro!" esclamò di colpo a voce alta. "Ficino
affidò al maestro i testi di Giovanni, prima che partissimo da Firenze.
Ecco la chiave!" Elena lo guardò perplessa. "Quale chiave?"
"Ora capisco. Gli antichi fedeli iniziavano i propri adepti ponendo loro
sul capo un vangelo non riconosciuto di Giovanni. Credevano che in
questo modo si trasmettesse per contatto l'essenza spirituale di
quell'opera alla mente e al cuore dell'aspirante vero cristiano. Quel libro
di Giovanni conteneva importanti rivelazioni riguardo la missione di
Cristo sulla terra e mostrava il percorso da seguire per ottenere un posto
nel cielo. Leonardo…" Luini prese fiato "… Leonardo ha sostituito quel
testo con un'opera pittorica che ne contenesse i simboli fondamentali.
Per questo ci ha mandati qui a iniziarti, Elena! Perché crede che la sua
opera ti investirà del segreto mistico di Giovanni!"
"E voi potete iniziarmi, senza sapere esattamente quello che il maestro
ha nascosto qui?" il tono della giovane era d'incredulità.
"In mancanza di altri indizi, sì. In passato ai novizi non era concesso
nemmeno di aprire il libro perduto di Giovanni. Di sicuro molti non
sapevano neanche leggere. Perché questo dipinto murale non dovrebbe
agire nello stesso modo con noi?
Inoltre, osservate Cristo: si trova a un'altezza sufficiente sulla parete
perché vi possiate mettere sotto di lui e ricevere la sua mistica
imposizione delle mani, un palmo a proteggere il vostro capo e l'altro
rivolto al cielo." La contessina gettò un'altra occhiata all'alfa.
Bernardino aveva ragione. La scena del banchetto era dipinta a
un'altezza sufficiente per accogliere una persona di una certa altezza
sotto la tovaglia. Era un buon posto per assorbire lo spirito dell'opera;
nonostante ciò la mente pragmatica di Elena la costringeva a cercare
un'interpretazione più razionale. Leonardo era un uomo pratico, poco
incline a elucubrazioni mistiche.
"Be', credo di sapere come possiamo leggere il messaggio del
Cenacolo…" Elena esitò. Un'intuizione improvvisa l'aveva colpita
appena si era messa sotto l'alfa, sotto la sua protezione.
"Ricordate gli attributi che il maestro vi fece memorizzare per quando
avreste ritratto i Dodici?" Bernardino annuì perplesso. Le immagini del
giorno in cui la contessina gli aveva strappato dalle mani quella lista
erano ancora vive nella sua memoria. Arrossì.
"E sapreste dirmi qual era la virtù attribuita a Giuda Taddeo?" insistette
lei.
"Al Taddeo?"
"Sì, al Taddeo" incalzò Elena, mentre Luini cercava quel dato tra i suoi
ricordi.
"E' Occultator. Colui che nasconde."
"Esatto" sorrise. "Una O. Vedete? Così abbiamo di nuovo la nostra
omega. E non può essere un caso."
38
"Per tutti i diavoli!" Il grido di giubilo di Bernardino Luini risuonò tra
le quattro pareti del refettorio.
"Non può essere così facile!" Assorto nella scoperta della contessina, il
maestro cominciò a riesaminare la disposizione degli apostoli. Dovette
indietreggiare di tre passi per guadagnare una visione d'insieme.
Solo spostandosi a qualche metro dalla parete settentrionale era
possibile distinguerli tutti, da Bartolomeo a Giovanni e da Tommaso a
Simone. Erano suddivisi in gruppetti di tre, tutti con il viso rivolto
verso Cristo tranne il discepolo prediletto, Matteo e il Taddeo, che
avevano gli occhi socchiusi o guardavano da un'altra parte.
Luini strappò uno dei cartoni che Leonardo teneva sparsi per terra e con
un carboncino cominciò ad abbozzare sul retro le figure della scena.
Marco ed Elena seguivano i suoi movimenti con curiosità. Intanto, un
piano più su, l'Augure si spazientiva nel non sentir pronunciare una sola
parola.
"Ora so come leggere il messaggio del Cenacolo" annunciò infine. "Per
tutto questo tempo lo abbiamo avuto sotto gli occhi e non siamo stati
capaci di vederlo." Il pittore si piazzò quindi a un'estremità della parete.
Bartolomeo, ricordò loro da sotto la sua figura chinata in avanti e
assorta, era Mirabilis, il prodigioso. Leonardo lo aveva ritratto con i
capelli ricci e fulvi, seguendo ciò che Jacopo da Varagine aveva scritto
nella sua Legenda aurea: che era siriano e di carattere focoso, come si
conviene ai rossi. Luini annotò una M sul cartone, accanto alla sua
sagoma. Poi fece lo stesso con Giacomo il Minore, il pieno di grazia o
Venustus, che spesso veniva confuso con Gesù e che per le sue opere
meritò quell'appellativo. Una V si aggiunse al suo schema. Andrea o
Temperator, colui che modera, ritratto con le mani tese in avanti come
per sottolineare tale caratteristica, diventò in un batter d'occhio una
semplice T.
"Vedete?" Marco, Elena e il giovane maestro sorrisero. Tutto ciò
iniziava ad acquistare un senso. M-T-V sembrava l'inizio di una parola.
La frenesia crebbe nel verificare che il successivo gruppo di apostoli
formava un'altra sillaba pronunciabile.
Giuda Iscariota si trasformò nella N di Nefandus, l'empio traditore di
Cristo. La sua collocazione, tuttavia, era un po' ambigua: benché quella
di Giuda fosse la quarta testa da sinistra, la peculiare posizione di Pietro
- con il braccio armato alle spalle del traditore - poteva dar adito a un
errore di computo.
In ogni caso, Luini spiegò che la N continuava a essere valida, giacché
Simon Pietro fu l'unico dei Dodici che ripudiò Cristo per tre volte. La
N, quindi, di Negatio.
Elena obiettò che la cosa più logica era farsi guidare dall'ordine delle
teste dei personaggi e dalle caratteristiche di ciascuno, secondo la
lezione di Leonardo. Nient'altro.
Seguendo tale sequenza il successivo era Pietro. Chino verso il centro
della scena, meritava tanto la E di Ecclesia quanto quella di Exosus,
assegnatagli dal toscano. La prima in ossequio a Roma; la seconda, che
significava "colui che odia", rifletteva il carattere di quell'individuo dai
capelli bianchi e lo sguardo minaccioso, pronto a eseguire la propria
vendetta armato con un pugnale dalla grossa lama. E Giovanni, semi-
addormentato, il capo inclinato e le mani raccolte come le dame ritratte
da Leonardo, faceva onore alla sua M di Mysticus. NE-M, dunque, era
lo sconcertante risultato del trio.
"Gesù è la A" ricordò Elena, quando arrivarono al centro della parete.
"Proseguiamo." Tommaso, il dito puntato in alto come se indicasse
quale tra i presenti fosse il primo a meritare il privilegio della vita
eterna, passò sul bozzetto di Luini con la L di Litator. colui che placa
gli dèi. Questo suo attributo sollevò una breve discussione. Nel
Vangelo di Giovanni era Tommaso che aveva messo il suo dito nel
costato di Cristo. E sempre lui era caduto in ginocchio al grido "Signore
mio e Dio mio!", 20 placando così l'eventuale ira del resuscitato per
non essere stato immediatamente riconosciuto.
"Inoltre" insisteva Bernardino, per suffragare la sua teoria "siamo
davanti all'unico apostolo che riproduce la lettera che rappresenta nella
propria sagoma."
"Dimenticate l'alfa di Gesù" puntualizzò la contessina.
"Solo che qui la lettera non si nasconde nel corpo di Tommaso, ma nel
dito che alza al cielo. Lo vedete? L'indice teso forma, insieme alla base
del pugno e al pollice sporgente, una chiara L maiuscola." I compagni
di Luini annuirono stupefatti. Osservarono quindi con attenzione
Giacomo il Maggiore, ma non furono capaci di trovare in lui alcun
tratto che riproducesse la O che lo rappresentava.
"Tuttavia" chiarì Bernardino "chi ha studiato la vita di quest'apostolo,
concluderà che la sua O di Oboediens, colui che obbedisce, gli calza
come un guanto. " Così era. Dello Zebedeo Jacopo da Varagine aveva
scritto che era fratello carnale di Giovanni e che "entrambi aspirarono a
occupare nel regno dei cieli i posti più prossimi al Signore e a sedersi
uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra". Leonardo, pertanto, aveva
ricreato nel Cenacolo una mensa divina, estrapolata dal mondo della
perfezione dove abitano le anime pure. In essa Giovanni e Giacomo
occupavano i posti che Cristo aveva promesso loro.
Arrivato così a Filippo, Sapiens tra i Dodici, l'unico che indicava se
stesso mostrando dove bisognava cercare la salvezza, Luini fu in grado
di completare una terza e ancor più sconcertante sillaba: L-O-S.
L'ultimo gruppo di apostoli fu risolto con identica velocità.
Matteo, il discepolo il cui nome, secondo il vescovo da Varagine,
significava "dono della prontezza", sembrava pronosticare una
conclusione tanto veloce. Luini sorrise nel ricordare che Leonardo lo
aveva battezzato Navus, il diligente. La sua lettera segreta, unita
all'omega del Taddeo, già formava una sillaba leggibile: N-O. Quando
aggiunsero la C di Simone, Confector, colui che porta a termine, quel
che ne risultò parve loro evocativo: quattro gruppi di tre lettere, sempre
con una vocale al centro, e un'enorme A che presidiava la scena. Si
lasciavano leggere come se costituissero una strana e arcaica formula
magica: MUT NEM A LOS NOC Bartolomeo Giacomo il Minore
Andrea Giuda Iscariota Pietro Giovanni Tommaso Giacomo il
Maggiore Filippo Matteo Giuda Taddeo Simone Mirabilis Venustus
Temperator Nefandus Exosus Mysticus Litator Oboediens Sapiens
Navus Occultator Confector Il prodigioso Il pieno di grazia Colui che
modera L'empio Colui che odia Colui che conosce il mistero Colui che
placa gli dèi Colui che obbedisce L'amante delle cose elevate Il
diligente Colui che nasconde Colui che porta a termine "E ora?" Elena
si strinse nelle spalle. "Significa qualcosa?" I due uomini ripeterono
ancora quell'espressione, senza trovarle altro senso che quello di una
successione di monosillabi pronunciabili come un'antica litania. Ma
non se ne stupirono. Era tipico del maestro che un enigma portasse a un
altro mistero più grande. Leonardo si divertiva a creare questo genere di
passatempi.
"Mut, Nem, A, Los, Noe…" Qualche metro sopra le loro teste, quei
suoni percorsero la gola dell'Augure. Li mormorò varie volte, prima di
abbandonare euforico il suo osservatorio clandestino. "Che astutissima
burla" pensò.
Soddisfatto, si mise a pensare a come avrebbe fatto pervenire il suo
enigma a Roma.
39
Roma, qualche giorno dopo "Dobbiamo affrettarci, presto saranno le
dodici." Giovanni Annio da Viterbo non lasciava mai il suo palazzetto
sulla riva occidentale del Tevere senza la carrozza e il fedele segretario
Guglielmo Ponte. Era un altro dei privilegi che la Donnola aveva
ottenuto da Sua Santità Alessandro vi. E tuttavia tanto fasto gli
offuscava la ragione. Annio da Viterbo non poteva infatti sospettare che
il giovane Guglielmo, oltre che colto e raffinato, fosse nipote di padre
Torriani. E ancor meno, che sarebbero stati i suoi occhi a illuminare
Betania sulle attività di uno dei personaggi più ambigui e truffaldini che
i secoli ricordino.
"Le dodici!" ripeté. "Mi hai sentito? Le dodici!"
"Non dovete preoccuparvi" rispose Guglielmo, garbatamente.
"Arriveremo puntuali. Il vostro cocchiere è piuttosto veloce." Non
aveva mai visto la Donnola così nervosa. La fretta era inusuale in uno
come lui. Da quando si era stabilito nelle immediate vicinanze degli
appartamenti Borgia per espresso desiderio di Sua Santità, Annio
spadroneggiava per Roma come se la città fosse sua. Non doveva
spiegazioni a nessuno. Le sue ore di ingresso e uscita non erano
soggette ad alcun protocollo; tutto ciò ch'egli faceva era dato per
scontato. Le malelingue dicevano che si era guadagnato i suoi privilegi
grazie alla smania del Pontefice di dare lustro alla propria antichissima,
nobilissima e divinissima stirpe con racconti che ne giustificassero la
grandezza. Ed era vero che Annio aveva saputo narrarli come nessun
altro. Sul papa valenzano arrivò ad affermare cose incredibili. Si
inventò che discendeva dal dio Osiride, il quale avrebbe visitato l'Italia
nella notte dei tempi per insegnare ai suoi abitanti a dissodare le terre,
fabbricare la birra e persino potare gli alberi. Basava sempre le sue
menzogne su testi classici, e spesso recitava passaggi interi tratti da
Diodoro Siculo per suffragare la sua singolare ossessione per la
mitologia dei faraoni.
Né‚ Betania né‚ il Sant'Uffizio poterono mai intaccare simili fantasie. Il
papa adorava quel ciarlatano. E ne condivideva l'odio viscerale per lo
splendore delle colte corti di Firenze e Milano, nelle cui biblioteche la
Donnola vedeva una seria minaccia alle proprie idee campate in aria.
Sapeva che le traduzioni di Marsilio Ficino dei testi attribuiti al gran
dio egizio Ermete Trismegisto, conosciuto anche come Toth, il dio
della saggezza, mandavano in malora la maggior parte delle sue
invenzioni. Non parlavano della venuta di Osiride in Italia, n‚
collegavano gli Appennini ad Api o il centro di Osiricella a una
remotissima visita di quel dio nei dintorni di Treviso.
Fino a quel giorno Guglielmo aveva pensato che il solo ricordo di
Ficino fosse in grado di far uscire dai gangheri il maestro Annio. Ma
evidentemente si sbagliava.
"Hai già visto le decorazioni degli appartamenti del papa?" Guglielmo
scosse la testa. Era assorto già da un po' di tempo nel ticchettio degli
zoccoli dei cavalli sul selciato, mentre cercava di immaginare dove
stesse andando tanto di fretta la Donnola.
"Te li mostrerò io" gli disse entusiasta. "Oggi, Guglielmo, conoscerai il
grande artefice di quelle pitture."
"Davvero?"
"Ti ho mai mentito? Se avessi visto le scene di cui ti sto parlando,
capiresti quanto sono importanti. Esse mostrano il dio Api, il bue sacro
degli egizi, come l'icona profetica dei tempi in cui viviamo. O non hai
notato che anche sullo scudo del nostro papa compare un bue?"
"Un toro… vorrete dire."
"Che importa? Quello che conta è il simbolo, Guglielmo! Accanto ad
Api è rappresentata la dea Iside. Solenne come la regina cattolica di
Spagna, appare seduta su un trono celeste con in grembo un libro
aperto, nell'atto di insegnare a Ermete e a Mosè le leggi e le scienze.
Riesci a immaginare una scena simile?" Guglielmo chiuse gli occhi,
come per concentrarsi sulle parole del suo maestro.
"Il significato di quegli affreschi, mio caro, è che Mosè ricevette
dall'Egitto tutto il suo sapere e che da lui l'abbiamo ereditato noi
cristiani. Comprendi la genialità dell'arte? Intuisci ora il sublime
messaggio di quanto ti sto dicendo? La nostra fede, caro Guglielmo,
proviene da là, dal lontano Egitto.
Proprio come la famiglia del nostro papa. Persino i Vangeli dicono che
Gesù si rifugiò in quel paese per sfuggire a Erode.
Non capisci? Tutto viene dal Nilo!"
"Anche la persona che state per incontrare, maestro?"
"No. Lui no. Ma sa molte cose di quel luogo. Mi ha procurato molte
cose da quel paradiso di saggezza." Annio tacque. Parlare delle origini
egizie del cristianesimo gli provocava sensazioni contrastanti. Da un
lato lo confortava sapere che ogni giorno cresceva il numero di saggi
che, come quel Leonardo di Milano, conoscevano il segreto e gli
davano forma in opere come la Maestà, dove era stato rappresentato un
plausibile incontro tra Giovanni e Gesù durante la ruga di quest'ultimo
verso il paese dei faraoni; dall'altro, una divulgazione imprudente di
quelle verità avrebbe potuto mettere in pericolo la stabilità morale della
Chiesa e farle perdere alcuni dei suoi privilegi. Come avrebbe reagito il
popolo, quando avesse saputo che Cristo non fu l'unico uomo-dio a
risorgere dai morti? Venendo a conoscenza dei profondi parallelismi tra
la sua vita e quella di Osiride, non avrebbero forse formulato domande
scomode? Non avrebbero rivolto spiacevoli accuse al papa, additando i
Padri della Chiesa come volgari copisti di una storia sacra che non
apparteneva a loro?
Nanni si mosse inquieto sul suo sedile.
"Sai, Guglielmo? Tutta la saggezza racchiusa negli affreschi del
palazzo non è nulla, confrontata con quella che spero di ricevere oggi!"
L'assistente abbassò gli occhi, temendo che il suo maestro potesse
scoprirvi la curiosità che le sue parole risvegliavano in lui.
"Se mi consegna ciò che aspetto da lui, avrò la chiave di quanto ti ho
raccontato. Saprò tutto…" Annio tacque di nuovo, quando notò che la
vettura rallentava. Gettò un'occhiata attraverso le tendine e vide che si
trovavano già fuori Roma, molto vicini alla loro destinazione.
"Stiamo arrivando, padre Annio" annunciò il suo assistente.
"Magnifico. Riesci a vedere qualcuno che ci aspetta?" Guglielmo
sporse la testa dalla carrozza per scrutare l'enorme facciata intonacata
del Gigante Verde, una locanda della campagna romana famosa per
essere il punto d'incontro tanto di pellegrini quanto di chi fuggiva alla
giustizia. Un cavaliere solitario, avvolto in una cappa marrone, li
salutava dalla porta dell'osteria.
"C'è un uomo che sembra averci riconosciuto."
"Dev'essere lui: Oliviero Jacaranda. E' passato molto tempo dall'ultima
volta che ci siamo visti."
"Jacaranda?" ripeté il giovane assistente. "Lo conoscete, maestro?"
"Certo. E' un vecchio amico. Non devi preoccuparti."
"Maestro, con il dovuto rispetto, questo non è un posto particolarmente
sicuro per uno come voi. Se vi riconoscessero, potremmo essere assaliti
o, magari, rapiti…" Annio sorrise divertito. Guglielmo ignorava quante
volte avesse concluso affari in quello stesso luogo. E molto prima che
occupasse un incarico protocollare presso Alessandro vi, il Gigante
Verde era stato uno dei suoi "uffici" preferiti. I proprietari lo
conoscevano bene e lo rispettavano. Non aveva nulla da temere. Ai
tavoli della locanda statue, dipinti, antiche stele, scritti, vesti, profumi e
addirittura corredi funerari completi erano stati scambiati con borse
rigonfie di oro dei tesori pontifici. Jacaranda era uno dei suoi fornitori
migliori. Gli oggetti che gli aveva procurato gli avevano fatto scalare
più di un gradino nella sua carriera. Per questo, se lo spagnolo era
tornato a Roma e aveva chiesto di vederlo con urgenza, significava che
aveva qualcosa d'importante da offrirgli.
Prima ancora di mettere piede a terra, Annio tremò d'emozione: avrebbe
ottenuto finalmente il vecchio tesoro? Jacaranda gli avrebbe portato
l'oggetto ineguagliabile, quello cui tanto aveva anelato?
La fertile immaginazione del maestro era un fiume in piena. Mentre
Guglielmo apriva la porta della carrozza per farlo scendere, la Donnola
si rallegrava pensando a quanto era imminente il più grande dei suoi
successi. Perché, altrimenti, il suo fedele "fornitore" l'avrebbe fatto
venire fin lì?
Jacaranda arrivava in un momento quanto mai opportuno.
La sera precedente Nanni aveva di nuovo incontrato il generale dei
domenicani, lo scontroso Gioacchino Torriani, per sentire dalle sue
labbra le ultime novità su quella faccenda dell'Ultima cena. In udienza
privata con Sua Santità Alessandro vi, aveva ammesso di aver trovato il
messaggio celato dietro quell'impressionante dipinto murale.
"Leonardo" aveva detto "ha nascosto tra i suoi personaggi una frase,
un'invocazione scritta in una lingua strana che ora ci proponiamo di
decifrare. Una lettera giunta da Milano ha risolto il mistero per noi."
Torriani aveva recitato quella frase davanti al papa e alla Donnola.
Nessuno aveva capito una parola. Tuttavia a Nanni la sentenza nascosta
nel Cenacolo era sembrata inequivocabilmente egizia.
"Mut-nem-a-los-noc" aveva sussurrato.
Non era forse chiara la sua origine? Non citava per caso la dea Mut,
sposa di Amon, regina di Tebe? Non risultava provvidenziale che
Oliviero Jacaranda, un vero esperto in geroglifici, arrivasse quasi in
contemporanea con quel messaggio?
Non lo aveva mandato Dio stesso per aiutarlo a risolvere quell'enigma e
guadagnarsi così il rispetto eterno del papa?
Sì, la provvidenza - pensò Nanni - era dalla sua parte.
Davanti alle scuderie del Gigante Verde, Jacaranda baciò l'anello di
Annio e lo invitò a entrare. Dovevano parlare del vecchio tesoro e del
rebus.
Condotto nel ventre della locanda, Annio si accomodò in un piccolo
vano riservato. Per Betania fu una fortuna insperata che Guglielmo
potesse assistere alla conversazione che si tenne là dentro.
"Mio caro Nanni" disse lo spagnolo, già sprofondato nella sua sedia,
mentre si serviva una generosa brocca di birra "spero di non avervi
spaventato con questa visita improvvisa."
"Al contrario. Sapete che vi attendo sempre con impazienza. E' un
peccato che non vi facciate vedere più spesso in questa corte dove tanto
siete apprezzato."
"E' meglio così."
"Meglio?" Oliviero decise di tagliare corto: "Questa volta porto notizie
che non vi faranno piacere".
La vostra visita è già un piacere per me. Che altro posso volere?"
"Il vecchio tesoro, naturalmente."
"Ebbene?"
"Non vuole cadere nelle mie mani. " Annio si accigliò. Sapeva che
ottenere quell'oggetto non sarebbe stato facile. In fin dei conti il suo
tesoro era arrivato in Italia da più di cento anni e da troppo tempo
passava di mano in mano, svanendo nei momenti più inaspettati. Non
era un gioiello n‚ una reliquia sacra, e nemmeno qualcosa che
soddisfacesse i costosi gusti di un re. Il suo tesoro era un libro. Un
antico trattato orientale, rilegato in marocchino e cuoio, grazie al quale
sperava di scoprire la verità sulla resurrezione del Messia e i suoi
legami con la potente e ancestrale magia egizia. 21 E a quanto ne
sapevano entrambi, Leonardo era il suo ultimo possessore. Di fatto, la
miglior riprova stava nella misteriosa frase che padre Torriani aveva
rinvenuto nel suo Cenacolo. Un'invocazione egizia simile non poteva
provenire da nessun'altra fonte.
"Oliviero, mi deludete" sbuffò la Donnola. "Se non lo portate con voi,
perché mi avete convocato?"
"Ve lo spiegherò: non siete l'unico che ambisce a quel tesoro, maestro
Annio. Persino la principessa d'Este lo ha desiderato, prima di perdere
la vita."
"Ma questa è acqua passata!" protestò. "So che quella povera ingenua si
è rivolta a voi, ma ora è morta. Che cosa vi ostacola, dunque?"
"Maestro, c'è altro."
"Un nuovo rivale?" La Donnola s'infiammò. Il mercante d'arte
sembrava intimidito. "Che cosa volete. Jacaranda? Altro denaro? Si
tratta di questo? Vi ha offerto più denaro e siete venuto ad alzare il
vostro onorario?" Lo spagnolo scosse la testa. Il suo viso tondo e gli
occhi stanchi denotavano una serietà che di rado aveva visto in lui.
"No. Non si tratta di denaro."
"E di cosa, allora?"
"Ho bisogno di sapere chi ho di fronte. Chi cerca il vostro tesoro è
disposto a uccidere per ottenerlo."
"A uccidere, dite?"
"Una decina di giorni fa ha ammazzato uno dei miei intermediari: il
bibliotecario del convento di Santa Maria delle Grazie. E sapete? Quel
mascalzone ha continuato a eliminare quanti hanno mostrato interesse
per la vostra opera. Per questo ho voluto vedervi: dovete spiegarmi chi
ho di fronte."
"Un assassino…" la Donnola sussultò.
"Non è un criminale qualunque. E' un uomo che firma i suoi delitti: si
burla di noi. Nella chiesa di San Francesco ha tolto la vita a vari
pellegrini e accanto a ogni cadavere ha lasciato un mazzo dei tarocchi
Visconti-Sforza a cui mancava sempre la stessa carta."
"Una carta?"
"La sacerdotessa. Ora capite?" Annio ammutolì.
"Proprio così, Nanni. La stessa carta che sia donna Beatrice sia voi mi
avete consegnato per trovare il vostro tesoro." Oliviero bevve un altro
sorso della sua birra, che scese veloce a bagnargli la gola. Quindi
proseguì: "Sapete cosa penso?
Che l'assassino sa del nostro interesse per il libro della sacerdotessa.
Credo che la scelta di quella carta non sia casuale. Ci conosce ed
eliminerà anche noi, se ostacoliamo i suoi piani".
"Certo, certo" la Donnola sembrava turbata. "Ditemi, Oliviero, questi
pellegrini uccisi a San Francesco cercavano anch'essi il mio tesoro?"
"Ho fatto alcune verifiche presso i gendarmi del Moro e posso
assicurarvi che non erano pellegrini qualsiasi."
"Ah, no?"
"L'ultimo di essi è stato identificato come il fratello Giulio, un vecchio
"perfetto" cataro. L'ho saputo poco prima di partire per incontrarvi. La
polizia di Milano è sconcertata. A quanto sembra quel Giulio era stato
riabilitato dal Sant'Uffizio pochi anni orsono, dopo che aveva diretto
un'importante comunità di perfetti a Concorezzo."
"Concorezzo? Siete sicuro?" Jacaranda annuì.
L'antiquario non poté percepire il brivido che percorse la colonna
vertebrale del vecchio maestro. Il mercante ignorava che quel paese, a
nordest di Milano, era stato uno dei principali nuclei catari della
Lombardia. Il luogo in cui, secondo tutte le fonti, era rimasto custodito
per più di duecento anni il libro che Annio tanto desiderava. Tutto
quadrava: i sospetti di Torriani riguardo la fede catara di Leonardo, i
perfetti assassinati a Milano, la frase egizia nel Cenacolo. Se non si
sbagliava, l'origine di tutto andava cercata in quel tesoro: un testo di
grandissimo valore teologico e magico, carico di riferimenti occulti agli
insegnamenti che Cristo affidò alla Maddalena dopo la sua
resurrezione. Un'eredità che metteva in evidenza gli impressionanti
parallelismi tra Gesù e Osiride, resuscitato grazie alla magia della sposa
Iside, l'unica che gli fu vicina nel momento del suo ritorno alla vita.
Per anni il Sant'Uffìzio aveva cercato di entrare in possesso di quel
trattato. Il massimo che erano riusciti ad accertare era che una copia,
forse addirittura l'unica esistente, doveva aver lasciato Concorezzo ed
essere finita nelle mani di Cosimo il Vecchio durante il Concilio di
Firenze del 1439. E che non era mai tornata. Di fatto, solo
un'indiscrezione di Isabella d'Este, la sorella di donna Beatrice, durante
i festeggiamenti per l'elezione di papa Alessandro nel 1492, informò
opportunamente la principessa che il libro era stato a Firenze nelle mani
di Marsilio Ficino, il traduttore ufficiale dei Medici, e che questi l'aveva
regalato a Leonardo da Vinci poco prima della sua partenza per Milano.
Non era, dunque, improbabile che i "poveri di Concorezzo" fossero
anch'essi in possesso di queste notizie e volessero recuperare la loro
opera.
"Ebbene, padre Annio" domandò Jacaranda, distogliendo il prelato
dalle sue riflessioni "perché non mi spiegate che cosa rende tanto
pericoloso questo libro?" Annio vide la disperazione impressa tra le
rughe del suo vecchio amico e comprese che non aveva scelta.
"E' un'opera straordinaria" rispose infine. "Riporta il dialogo che
Giovanni e Cristo intrattennero in cielo sulle origini del mondo, la
caduta degli angeli, la creazione dell'uomo e le vie che abbiamo noi
mortali per ottenere la salvezza della nostra anima. Fu scritto
esattamente dopo l'ultima visione che ebbe il discepolo prediletto prima
di morire. Dicono sia una narrazione lucida, intensa, che mostra
particolari della vita ultraterrena e dell'ordine del creato, a cui mai
nessun altro mortale ha avuto accesso."
"E perché credete che un'opera simile possa interessare Leonardo?
Quell'uomo non è certo molto amico della teologia…" La Donnola levò
l'indice per zittire Jacaranda: "il vero titolo del "libro blu", caro
Oliviero, vi spiegherà tutto, dovete solo ascoltarmi. Fu Anselmo di
Alessandria, duecento anni orsono, a rivelarlo nei suoi scritti sugli
eretici: lo chiamò Interrogatio Johannis o La cena segreta. Stando alle
informazioni di cui dispongo, Leonardo ha utilizzato i misteri contenuti
nelle pagine iniziali per illustrare la parete del refettorio dei
domenicani. Né più, né meno".
"E' il libro che compare sulla carta della sacerdotessa?" Nanni annuì. "Il
suo segreto è stato sintetizzato da Leonardo in una sola frase, che
desidero mi traduciate."
"Una frase?"
"In antico egizio. Dice: Mut-nem-a-los-noc. La conoscete?" Oliviero
scosse la testa.
"No. Ma ve la tradurrò, statene certo."
40
Dall'alba al tramonto.
Tanto durarono gli interrogatori del ventiduesimo giorno di gennaio.
Ricordo che il priore Bandelle, fra' Benedetto e io nei nostri colloqui
esaminammo i frati di Santa Maria delle Grazie uno per uno, tentando
di trovare nelle loro parole indizi che risolvessero i nostri enigmi. Ci
furono momenti sorprendenti.
Tutti avevano qualcosa da confessare. Tremando, supplicavano
l'assoluzione dai loro peccati e giuravano che non avrebbero mai più
dubitato della natura divina di Cristo. Poveretti!
Quasi tutte le loro rivelazioni erano frutto di un'educazione teologica
scarsissima: confondevano fatti irrilevanti con peccati gravissimi, e
viceversa. Tuttavia fu così che a poco a poco, a forza di pazienti
domande, i fratelli Alessandro e Gilberto andarono delineandosi come
l'avanguardia di una peculiare operazione per sorvegliare dall'interno il
convento, il luogo che avrebbe ospitato il Cenacolo. I quattro religiosi
che risultarono maggiormente implicati ci confessarono in separata
sede la potente motivazione che li animava: quella gigantesca opera del
toscano racchiudeva ciò che definirono un'immagine talismanica".
Ossia un tracciato geometrico ingegnoso, disegnato per sedurre le menti
sprovvedute e incidere nella loro memoria un'informazione che,
purtroppo, nessuno di loro fu in grado di definire a parole. "E' la terza
rivelazione di Dio" si spinse ad affermare uno.
Quella cosa richiamò la mia attenzione.
I nostri quattro eretici provenivano da paesini a nord di Milano, dalla
regione dei laghi e ancora più su, e si erano uniti ai domenicani subito
dopo la fondazione del nuovo convento. Lo fecero quando vennero a
sapere delle intenzioni del Moro di convertirlo nel sepolcro di famiglia.
E va detto che, a differenza degli altri, costoro erano uomini di cultura,
seguaci della celebre massima di san Bernardo: "Dio è lunghezza,
larghezza, altezza e profondità". Conoscevano Pitagora, avevano letto
Platone e lo stimavano più di Aristotele, l'ispiratore del nostro sistema
teologico. Presto tra loro si distinse frate Guglielmo Arno, il cuoco.
Non solo fu l'unico che si rifiutò di confessare i propri peccati davanti
al nostro tribunale, ma ci trattò anche con freddezza perché militavamo
nella "Chiesa falsa".
Il poco che sapevo fino ad allora di lui era la grande amicizia che lo
univa a Leonardo. Frate Alessandro era stato il primo a parlarmene. Del
resto erano attratti entrambi dagli stessi piaceri; disprezzavano tra le
risate i banchetti esagerati del Moro, contrapponendo agli arrosti di
carne i germogli di cavolo, le prugne, le rondelle di carote crude o i
dolci fermentati.
Venni a sapere inoltre che Guglielmo e il maestro ebbero il loro
momento di gloria nel Natale del 1495, quando inventarono un dolce
con l'aspetto della cupola bramantesca di Santa Maria e lo presentarono
al banchetto ducale del 25 di dicembre. 22 Fu un successo tale, che
persino donna Beatrice li implorò di rivelarle il segreto per far lievitare
l'impasto in quel modo.
Frate Guglielmo non le fece caso. La duchessa insistette. E ancora molti
ricordavano la villana sfacciataggine del frate, che gli valse cinque
settimane d'arresto tra le sue stesse casseruole e una severa
ammonizione da parte di casa Sforza.
Frate Guglielmo non era cambiato per nulla da allora. Le sue smorfie e
la sua ostilità nei nostri confronti dimostravano che avrebbe preferito
morire piuttosto che ritrattare le proprie azioni. Bandelle ordinò che lo
rinchiudessero, mentre mormorava tra i denti ciò che pensava del suo
cuoco: "E' incapace di controllare il suo carattere. Non c'è rimedio.
Quando posò come Giacomo il Maggiore per il Cenacolo, persino
Leonardo non riusciva a temperarne l'ira".
Scossi la testa incredulo.
"Oh!" esclamò. "Non ve lo aveva detto nessuno? Forse la lunga chioma
dell'apostolo vi ha sviato, padre Leyre, ma se osservate bene i
lineamenti del cuoco, lo riconoscerete. Fui io stesso ad autorizzarlo:
Leonardo mi chiese un uomo focoso, che gesticolasse come fa Giacomo
al tavolo, e pensai subito a lui."
"Ma perché il maestro voleva inserire un carattere simile tra i Dodici?"
"Feci la stessa domanda al maestro e sapete che cosa mi rispose?
"Geometria! Tutto è geometria." Mi spiegò che in un nudo misurava la
bellezza comparando la distanza tra i capezzoli con quella che separa il
seno dall'ombelico, e a sua volta con quella tra l'ombelico e le gambe.
In quanto all'ira, mi assicurò che era capace di rappresentarla anche
solo abbozzando uno sguardo. Quando tornerete al Cenacolo, guardate
gli occhi di Giacomo. Evitano il volto di Cristo e si abbassano con
orrore verso il tavolo, come se lì il discepolo avesse scoperto qualcosa
di terribile. "
"Ossia che uno dei suoi compagni sta per tradire il Messia" dissi.
"No!" Il guercio ruppe il suo silenzio, come se avessi detto qualcosa di
inadeguato. "Questo è ciò che ha voluto farci credere. Non vi hanno
forse detto i nostri frati che ci troviamo davanti a un talismano? In un
congegno simile i simboli, o la loro assenza, sono fondamentali per il
suo significato. E in questo caso ciò che Giacomo guarda inorridito è il
gesto di Giuda e Gesù, che si contendono uno stesso tozzo di pane… O
magari l'assenza del calice di Cristo. Il Graal." La sua osservazione era
acuta.
"Badate a un'altra cosa: Giacomo, l'iracondo, si trova sul lato del
Cenacolo dove la luce è più brillante. E' al cospetto dei giusti." Fra'
Benedetto ci spiegò che aveva avuto l'opportunità di assistere ad alcune
lezioni sulla distribuzione dello spazio e della luce nella pittura,
impartite dal maestro nel chiostro dell'ospedale. I suoi discorsi erano
insieme strani e inebrianti.
Mostrava come la materia inerte, se distribuita in modo armonico,
poteva arrivare a vivere di vita propria. Spesso confrontava tale
prodigio con quello che accadeva alle note di una partitura: scritte sulla
carta non erano che una successione di segni statici senza altro valore
che quello ideografico. Tuttavia, scelti dalla mente di un musico e
trasferiti alle sue dita o ai suoi polmoni, quei segni vibravano,
riempivano l'aria di sensazioni nuove e arrivavano addirittura ad
alterare il nostro animo. Poteva esistere qualcosa di più vivo della
musica? Per Leonardo, no.
Il magister pictorum considerava alla stessa stregua le proprie opere. In
apparenza erano natura morta, poco più che stucchi o tavole ricoperti di
pigmenti e colla. Tuttavia, se esaminate da un occhio addestrato,
acquistavano una forza smisurata.
"E come pensate che Leonardo possa dar vita a qualcosa che non ne
ha?" domandai.
"Per mezzo della magia astrale. Saprete già che quell'eretico di
Leonardo ha studiato i testi di Ficino, vero?" La domanda di fra'
Benedetto suonò come un tranello. Il guercio doveva conoscere i miei
sospetti grazie a padre Bandelle cosicché, prudente, chinai il capo in
segno d'affermazione.
"Orbene" continuò "Ficino ha tradotto dal greco l'Asclepios, un'opera
attribuita a Ermete Trismegisto, in cui si descrive come i sacerdoti dei
faraoni dessero vita alle statue dei loro templi."
"Davvero?"
"Essi conoscevano a fondo lo spiritus, una scienza oscura mediante la
quale sopra le immagini disegnavano segni cosmici che le collegavano
alle stelle. Segni astrologici, per intenderci.
Il maestro ha applicato queste tecniche al Cenacolo." 23 Il priore e io ci
guardammo sconcertati.
Egli sostiene che i discepoli del Cenacolo siano distribuiti in quattro
gruppi di tre per rappresentare i quattro elementi della natura, e assegna
a ciascuno di essi un segno zodiacale. Così a Simone, che si trova
all'estremità destra del tavolo, corrisponde il primo segno zodiacale,
l'Ariete. A Taddeo, il Toro. A Matteo, i Gemelli. Il segno del Cancro è
per Filippo, il Leone per Giacomo il Maggiore, la Vergine per
Tommaso. L'equilibrio della Bilancia è prerogativa di Giovanni, che
secondo Sementovsky ha un valore simbolico fondamentale, se si
considera il giovane Giovanni come l'elemento equilibratore della
futura Chiesa. Il resto dei segni è così distribuito: Scorpione per Giuda,
Sagittario per Pietro, Capricorno per Andrea, Acquario per Giacomo il
Minore e Pesci per Bartolomeo.
"Ma non capite, fratelli? Dodici apostoli, dodici segni dello zodiaco.
Ogni discepolo corrisponde a una costellazione e Gesù, al centro,
incarna l'ideale del sole. E' un'opera talismanica!"
"Calmatevi, fra' Benedetto. Queste sono solo supposizioni…"
"Nient'affatto! Osservate bene il Cenacolo, perché che si tratti di un
dipinto murale vivo non è il suo peggior difetto.
Considerata alla luce della nostra conoscenza delle credenze catare,
quest'opera racchiude alla perfezione la più profonda delle tesi degli
eretici. E' una specie di "Bibbia nera". Nel nostro refettorio!"
"A quale tesi vi riferite, Benedetto?" gli domandai.
"Al dualismo, padre. Se non vi ho frainteso questa mattina, tutto il
sistema di convinzioni dei bonhommes si basa sull'esistenza di uno
scontro permanente tra un Dio buono e uno cattivo."
"Sì, è esatto."
"Quando vi recherete di nuovo al refettorio, dunque, provate a notare se
la lotta tra il bene e il male è rappresentata o meno nel Cenacolo. Cristo
sta nel centro come l'ago di una bilancia, a metà strada tra il mondo
dello spirito e quello della carne. Alla sua destra - che è la nostra
sinistra - si trova la zona delle tenebre, del male. Andate a vedere la
parete alla vostra sinistra: è in ombra, senza luce. Non è un caso che da
questo lato ci sia Giuda Iscariota, ma anche Pietro con il suo pugnale.
Con l'arma che, secondo voi, gli conferisce un carattere satanico."
L'irascibile anziano riprese fiato, prima di concludere il suo discorso:
"Invece sul lato opposto ci sono quelli che Leonardo considera la luce.
E' la zona illuminata del tavolo, dove non solo ha ritratto se stesso ma
anche Platone, l'antico ispiratore di molte delle dottrine eretiche dei
catari".
All'improvviso ebbi un'intuizione. "Come pure i fratelli Guglielmo e
Gilberto, i due catari confessi" aggiunsi. "Non siete stato voi a dirmi
che Gilberto aveva posato per la figura dell'apostolo Filippo?" Il
guercio annuì.
"A proposito" osservai ricordando la disposizione geometrica degli
apostoli "anche voi siete lì. Date vita a san Tommaso. O sbaglio?"
Benedetto, a disagio, borbottò qualcosa, quindi reagì energicamente.
"Veniamo al sodo. E' giusto che ci sforziamo di interpretare il murale di
Leonardo, ma quello che davvero dovrebbe starci a cuore è decidere
cosa fare con quest'opera. Fratelli, ve lo dirò una volta per tutte: o
andiamo alla radice della questione e facciamo murare il dipinto,
oppure il contenuto di quella parete diventerà un faro per gli eretici e ci
causerà solo problemi."
41
"Non capisco. Rimarrete qui immobile, in attesa che lo condannino?"
Lo stupore di Bernardino Luini non impietosì minimamente il maestro
Leonardo. Già da un po' di tempo se ne stava all'addiaccio nel suo orto,
concentrato sullo sviluppo della sua prossima macchina, e aveva a
malapena notato l'arrivo dei suoi discepoli. E perché, poi? Dentro di s‚
nutriva poche speranze che Elena, Marco e Luini tornassero dal
Cenacolo illuminati dalla saggezza che con tanta cura aveva impresso
in quel luogo. Il maestro era stanco di aspettare. Lo infastidiva
quell'andirivieni di suoi seguaci incapaci di comprendere il suo
particolare modo di scrivere l'arte.
Per di più, come ormai d'abitudine, i suoi pupilli portarono dal
convento solo notizie desolanti. Dicevano che Santa Maria era sul piede
di guerra. Che padre Bandelle aveva deciso di interrogare i suoi frati in
cerca di eretici e aveva ordinato di isolare il suo caro fratello
Guglielmo, il cuoco, accusandolo di cospirazione contro la Chiesa.
Il maestro ascoltò quelle spiegazioni suo malgrado, senza sapere che
dire.
"Nemmeno io vi capisco, maestro" intervenne d'Oggiono.
"Vi fa forse piacere quello che è accaduto? Non temete per la sorte del
vostro amico? State diventando insensibile a tal punto, messere?"
Leonardo alzò lo sguardo azzurro dalla cassa degli attrezzi e lo fissò sul
suo amato Marco.
"Frate Guglielmo resisterà" disse infine. "Nessuno potrà rompere il
circolo che rappresenta."
"Smettetela con le allegorie! Non vedete il pericolo? Non vi rendete
conto che presto verranno a cercare voi?"
"L'unica cosa di cui mi rendo conto, Marco, è che voi non mi
ascoltate…" replicò con asprezza. "Nessuno lo fa."
"Un momento!" La giovane Elena, che fino a quel momento era rimasta
in silenzio dietro Luini e d'Oggiono, fece un passo avanti e s'intromise
fra i tre uomini. "Adesso so cosa volete insegnarci, maestro! Ora lo
comprendo! Sta tutto nel Cenacolo]" Le folte sopracciglia di Leonardo
s'inarcarono di fronte a quella reazione inaspettata. La contessina
proseguì: "Avete utilizzato frate Guglielmo per rappresentare Giacomo
il Maggiore, su questo non c'è dubbio. E nel Cenacolo egli incarna la
lettera O. La omega. Proprio come voi".
Luini si strinse nelle spalle, e arrossì guardando il maestro.
In fin dei conti era stato lui a insegnare tutto ciò alla giovane Crivelli.
"Questo può voler dire soltanto una cosa" aggiunse lei.
"Frate Guglielmo e voi siete gli unici in possesso di quel segreto che
volete che troviamo. Ma c'è di più: voi siete sicuro della sua
discrezione, quanto lui lo è della vostra. Dopo tutto, rappresentate lo
stesso disegno."
"Ammirevole" approvò Leonardo. "Noto che siete perspicace quanto
vostra madre. E sapete anche perché ho scelto la lettera O?"
"Sì… almeno credo" esitò la ragazza.
Il toscano la guardò incuriosito. I suoi compagni, ancora di più.
"Perché la omega è la fine, il contrario dell'alfa che è il principio" disse.
"In tal modo vi situate all'estremità finale di un progetto che ebbe inizio
con Cristo, la unica A del vostro dipinto."
"Ammirevole" ripeté il maestro. "Davvero ammirevole."
"E' chiaro! Frate Guglielmo e voi siete coloro che devono trasmetterci
la Chiesa di Giovanni!" esclamò Luini. "Questo è il segreto!" Il saggio
tornò a chinarsi sulla strana macchina che aveva appena finito di
progettare per il suo pezzo di terra e scosse il capo.
"C'è di più, Bernardino. C'è di più." Leonardo aveva davanti a sé un
marchingegno tremendo.
Si era concentrato su di esso subito dopo il fallimento del suo tentativo
di meccanizzare le cucine della fortezza sforzesca. I suoi bollitori
automatici, il tritatutto per la carne, quegli enormi mantici che
ravvivavano il fuoco di una pentola ciclopica piena d'acqua in
ebollizione e la macchina per tagliare il pane azionata ad aria, erano
costati vari feriti ed erano risultati del tutto inutili per soddisfare i
barbari gusti gastronomici del Moro. Ma la sua nuova invenzione
sarebbe stata diversa. Se tutto andava a buon fine, il duca non si sarebbe
più burlato della raccoglitrice gigante di rape proponendola come la sua
futura arma da guerra contro i francesi. Era vero che il suo primo
collaudo nei terreni fuori Porta Vercellina aveva causato tre vittime, ma
con qualche opportuno aggiustamento la macchina avrebbe smesso di
essere letale.
"Maestro…" protestò Luini di fronte alla distrazione del toscano.
"Abbiamo fatto un enorme passo in avanti nella comprensione del
vostro Cenacolo e guardatevi: la cosa non sembra interessarvi per nulla.
Non vedete che è arrivata ormai l'ora di trasmettere il vostro segreto?
L'Inquisizione sta chiudendo il cerchio intorno a voi. Può essere che
domani ci vengano ad arrestare, a interrogarci. Se lo faranno, il vostro
intero progetto si perderà."
"Vi ho ascoltato con attenzione, Bernardino" disse Leonardo senza
distogliere lo sguardo dal suo congegno. "E pur apprezzando il fatto che
abbiate trovato le lettere da me celate nel Cenacolo, mi rendo anche
conto che non siete capaci di interpretarle. Se dunque voi, che sapete
dove guardare, sembrate bambini che ancora non sanno leggere, quanto
più smarriti saranno quei frati che secondo voi mi perseguitano!"
"Un libro. La soluzione è quella, vero maestro? Un libro dal quale avete
appreso tutto." La nuova affermazione di Luini suonò come una sfida.
"Che cosa vorreste dire?"
"Andiamo, messere. Il tempo degli enigmi è finito e voi lo sapete. Ho
visto nel Cenacolo il volto del vostro vecchio amico Ficino, il
traduttore. Non fu con lui che concordaste che un ritratto simile avrebbe
segnalato l'avvento della Chiesa di Giovanni? Non fu lui a consegnarvi
un libro destinato a essere la nuova Bibbia di quella Chiesa?" Leonardo
lasciò cadere i suoi attrezzi accanto alla raccoglitrice di rape,
sollevando un polverone nel giardino.
"Cosa volete saperne!" ribatté.
"Ciò che voi mi avete insegnato: che dai tempi di Gesù due Chiese
lottano per il controllo delle nostre anime. Una, quella di Pietro, è stata
pensata come una Chiesa temporale. Utile per indicare agli uomini il
cammino del risveglio della coscienza, è solo la precorritrice di un'altra
costruzione più gloriosa che nutrirà il nostro spirito, quando saremo
pronti a riceverla. Pietro rappresenta la Chiesa del passato, che ha
spianato la via a quella futura: la Chiesa di Giovanni. La vostra." Il
toscano voleva ribattere, ma il suo antico discepolo non aveva ancora
terminato: "Quell'uomo che avete dipinto come Matteo nel Cenacolo,
cioè Ficino, vi affidò un libro con testi di Giovanni perché lo studiaste.
Me lo ricordo bene, ero presente il giorno in cui ve lo consegnò. Allora
ero solo un bambino. E se ora vi siete preoccupato di ritrarlo, e anche di
fornire ad altri come noi la chiave d'accesso alla vostra opera, è perché
credete sia giunto il momento del cambio di guardia, vero? Questo è il
significato del vostro Cenacolo.
Ammettetelo. L'annuncio della nuova Chiesa".
Marco ed Elena non osavano nemmeno battere ciglio. Leonardo zittì
Luini con un gesto che usava spesso: gli piaceva indicare il cielo con
l'indice alzato, come se chiedesse licenza a Dio di parlare.
"Mio caro Bernardino" disse, cercando di placare il cattivo umore che si
stava scatenando dentro di lui. "E' vero che Ficino mi rese depositario
di alcuni testi di grandissimo valore, proprio prima che decidessi di
trasferirmi a Milano. Così come sono esatte le vostre osservazioni sulle
due Chiese. Non negherò nessuna delle due cose. Sono anni che
dipingo Giovanni Battista nelle mie opere, aspettando l'arrivo di un
momento come questo. E credo, in effetti, che sia già arrivato."
"Che cosa ve lo fa credere, maestro?"
"Che cosa?" rispose a Elena, già molto più tranquillo. "Non è forse
sotto gli occhi di tutti? Il papa ha ridotto la Chiesa temporale a un
livello di depravazione difficile da eguagliare. Persino i suoi chierici,
come quel Savonarola di Firenze, gli si sono rivoltati contro. E' venuto
il momento che la Chiesa dello spirito, quella del Battista, sostituisca
quella di Pietro e ci conduca alla vera salvezza."
"Ma nel Cenacolo non compare il Battista, maestro."
"Il Battista, no." Sorrise a Marco d'Oggiono, sempre attento ai piccoli
dettagli. "Ma Giovanni, sì."
"Non vi seguo…"
"Si trova quasi tutto nelle Scritture. Se rileggete i Vangeli con
attenzione, vedrete che Gesù non iniziò la sua vita pubblica finché il
Battista non lo battezzò nelle acque del Giordano.
I quattro evangelisti sentirono il bisogno di giustificare la missione di
Gesù riferendosi a Giovanni quale parte della sua preparazione come
Messia. Per questo lo dipingo sempre con il dito levato verso il cielo: è
il mio modo di dire che lui, il Battista, è venuto per primo."
"Allora perché adoriamo Gesù e non Giovanni?"
"Faceva tutto parte di un piano calcolato con cura. Giovanni non fu
capace di trasmettere a quel pugno di uomini rozzi e incolti i suoi
insegnamenti spirituali. Come far capire a dei pescatori che Dio è
dentro di noi e non in un tempio? Gesù lo avrebbe aiutato a
indottrinarli. Progettarono una Chiesa temporale sul modello di quella
ebraica e un'altra spirituale, segreta, come non si era mai vista sulla
terra. I suoi insegnamenti vennero affidati a una donna intelligente,
Maria Maddalena, e a un giovane sveglio, anch'egli chiamato
Giovanni… E quest'ultimo Giovanni, caro Marco, lui sì che c'è nel
Cenacolo."
"Come pure la Maddalena!" Il toscano non poté nascondere la propria
ammirazione per quella giovane impetuosa. Luini, rosso d'imbarazzo, si
vide costretto a giustificare quella reazione: era stato lui a insegnarle
che, dove avesse visto dipinto un nodo grande e ben visibile, avrebbe
saputo di trovarsi davanti a un'opera vincolata alla Maddalena.
Nell'Ultima cena c'era il nodo.
"Lasciate che vi spieghi qualcos'altro" aggiunse il maestro, ormai
affaticato. "Giovanni è molto più di un nome. Così vennero chiamati a
quei tempi tanto il Battista quanto l'Evangelista; tuttavia Giovanni è
anche un titolo: si tratta del nomen mysticum che portano tutti i
depositari della Chiesa spirituale. Come la papessa Giovanna, quella
delle carte dei Visconti."
"La papessa Giovanna? Non era una leggenda? Una favola per gli
sprovveduti?"
"Quale favola non nasconde anche fatti reali. Bernardino?"
"Quindi…"
"Dovete sapere che l'uomo che disegnò quelle carte fu Bonifacio
Bembo di Cremona. Un perfetto. Costui, vedendo in pericolo il destino
dei nostri fratelli, decise di nascondere in questo mazzo di carte per i
Visconti alcuni simboli fondamentali della nostra fede. Per esempio la
credenza che noi siamo la discendenza mistica di Gesù Cristo. Quale
miglior simbolo, per una simile certezza, che una papessa incinta, con
in mano la croce del Battista, per indicare a chi sappia leggerlo che
dalla vecchia Chiesa nascerà presto la nuova? Quella carta" aggiunse il
maestro in tono reverenziale "è l'esatta profezia di ciò che sta per
accadere…"
42
Non so per quale strana ragione padre Bandelle decise di affidarmi una
simile missione. Se avessi avuto il dono della profezia e avessi potuto
prevedere ciò che stava per succedermi, di sicuro mi sarei trattenuto nel
convento, in sua compagnia. Ma il destino è imprevedibile e Dio, in
quel giorno di gennaio, lanciò i dadi del mio futuro, fedele ai suoi
imperscrutabili piani.
All'inizio, lo confesso, l'idea mi disgustava.
Dissotterrare, insieme a Benedetto il guercio, Mauro il becchino e frate
Giorgio, il fagotto funerario di padre Trivulzio mi rivoltava le viscere.
Erano ormai più di cinquantanni che il Sant'Uffizio non riesumava il
cadavere di un reo per bruciarlo su un rogo e, benché avessi supplicato
il priore di lasciare in pace i morti, non potei impedire che frate
Alessandro tornasse a vedere la luce del giorno. Il suo cadavere,
saponoso e pallido, emanava un fetore insopportabile. Nonostante i
miei compagni e io avessimo preso la precauzione di avvolgerlo in un
nuovo sudario e lo avessimo legato stretto come un salame, il suo
olezzo non smise di accompagnarci per tutto il percorso. Per fortuna
non tutto fu così brutto. Mi colpì il fatto che, mentre era impossibile
respirare vicino al corpo di frate Alessandro, non accadeva lo stesso
con quello del sacrestano. Frate Gilberto non aveva odore.
Assolutamente nessuno. Il becchino attribuì il fenomeno al fuoco, che
lo aveva consumato in piazza Mercanti e che doveva aver distrutto i
suoi organi corruttibili, conferendogli quella strana prerogativa. Il
guercio invece difendeva con veemenza un'altra teoria: per lui l'essere
rimasto all'addiaccio in un cortile dell'ospedale dell'ordine, esposto a
una temperatura di vari gradi sotto zero, aveva fatto evaporare i
peggiori effluvi del sacrestano. Non sapevo a chi dei due credere.
"Se ci pensate bene, con le bestie accade lo stesso" cercò di
convincermi il guercio. "Ha forse qualche odore il corpo di un cavallo
abbandonato su un sentiero innevato?" Arrivammo alla piana di Santo
Stefano senza aver concluso la nostra discussione, quando mancava
appena un'ora e mezzo ai vespri. Avevamo superato il controllo militare
della porta della curia arcivescovile, lasciandoci alle spalle la sede del
capitano di giustizia, senza aver dovuto fornire troppe spiegazioni alle
guardie. La polizia era informata delle nostre vicissitudini e approvava
che avessimo deciso di portare gli eretici ben lontano dalla città. Il
carriaggio che spingevamo, carico di attrezzi e corde, passò tutte le
ispezioni. Così arrivammo a Santo Stefano, una radura solitaria e
silenziosa in mezzo al bosco, con un terreno di roccia dura sul quale
non sarebbe stato difficile impilare le fascine di legna che avevamo
trasportato per ardere i nostri defunti.
Giorgio, con fare sollecito, diresse i lavori.
Fu lui a organizzare a gesti la costruzione del mucchio di tronchi che
avrebbe ridotto in cenere i due frati e a mostrarci il modo migliore per
innalzare una pira solida e molto combustibile. Per uno come me, che
aveva presenziato a tanti autodafé senza muovere nemmeno un
ramoscello, fu una sensazione nuova. Giorgio ci fece vedere come
sistemare i legni secondo un ordine inverso alla loro grandezza. Aveva
visto anche troppe volte come si faceva. Fu lui a insegnarci che la legna
più sottile doveva essere disposta alla base, affinché la fiamma si
propagasse in modo efficace ai pezzi più grossi. Una volta terminato
questo lavoro, ci fece svolgere una grande fune intorno alla pira, per
fissarla, e poi issare con l'altra estremità i corpi dei nostri fratelli fino in
cima. Avremmo quindi eseguito gli ordini del nostro priore e saremmo
rientrati prima che facesse notte e i soldati del Moro sbarrassero le
porte d'accesso alla città "Sapete qual è la cosa migliore di questo
lavoro?" ansimò fra' Benedetto, mentre terminavamo di sistemare il
corpo di Gilberto sul mucchio di tronchi. Il guercio si era arrampicato
insieme al becchino sopra la pira, in modo da poter sollevare dall'alto
anche le spoglie di frate Alessandro.
"Perché, ha qualcosa di buono?"
"La cosa buona, fratello Mauro" sentii grugnire Benedetto "è che con
un po' di fortuna le ceneri di questi disgraziati cadranno sui catari che si
nascondono tra questi monti."
"Catari qui?" protestò l'altro. "Fratello, voi li vedete ovunque."
"E per di più li supponete molto perspicaci" intervenni dal basso,
mentre sistemavo la corda intorno a frate Alessandro.
"Li credete davvero capaci di distinguere queste ceneri da quelle dei
loro falò? Permettete che ne dubiti." Questa volta il guercio non replicò.
Attesi per un istante che la corda si tendesse e cominciasse a issare il
bibliotecario, ma non si mosse niente. N‚ Mauro Sforza approfittò
dell'occasione per replicare alle osservazioni sempre amare
dell'assistente del priore. Uno spiacevole e prolungato silenzio era
calato di colpo sulla radura.
Meravigliato, feci un passo indietro per vedere cosa stesse succedendo
lassù. Fra' Benedetto era immobile come una statua di sale, il viso
girato all'indietro e lo sguardo perso in qualche punto ai margini del
bosco; aveva lasciato cadere la fune.
Mauro non potevo nemmeno vederlo; tutto quello che riuscii a
distinguere fu il leggero tremito della barbetta bianca del guercio.
Ingoiava aria a fatica, come uno di quei mistici davanti alle loro visioni
estatiche del paradiso. Gli occhi spalancati, non sembrava in grado di
articolare alcun movimento. Di colpo compresi: Benedetto, paralizzato
dallo sbigottimento, sembrava volermi indicare qualche cosa con il
mento, alzandolo con spasmi irregolari e dando colpetti nell'aria con il
naso. Quando girai su me stesso e puntai lo sguardo sul luogo verso il
quale guardava Benedetto, caddi quasi per terra dallo spavento.
Non esagero.
Proprio sul limitare del bosco, a una ventina di metri da noi, un gruppo
di quindici uomini incappucciati osservava in silenzio i nostri
movimenti. Nessuno li aveva visti arrivare. Vestivano di nero dalla
testa ai piedi, tenevano le mani nascoste dentro lunghe maniche e
pareva che fossero lì da un bel po', a sorvegliare la radura di Santo
Stefano. Non sembravano ostili - in effetti non avevano armi con s‚, n‚
bastoni o altro con cui aggredirci -, ma devo riconoscere che non ci
tranquillizzò molto il loro atteggiamento: ci osservavano da sotto i loro
cappucci, senza articolare una sola parola o dare mostra di avvicinarsi a
noi. Da dove erano spuntati? Per quel che sapevamo, non esistevano
conventi o eremi nei dintorni, e quella non era una ricorrenza liturgica
che giustificasse la presenza di monaci all'aperto.
Ma allora, che cosa volevano? Erano forse venuti a presenziare
all'esecuzione post mortem dei nostri eretici?
Mauro Sforza fu il primo a scendere dalla pira e a dirigersi verso gli
incappucciati con le braccia aperte, ma il suo gesto ricevette in risposta
solo indifferenza. Nessuno dei visitatori mosse un muscolo.
"Dio Santo" riuscì a esclamare finalmente il guercio. "Questi sono
"poveri"!"
"Poveri"?"
"Ma non lo vedete, padre Leyre?" balbettò tra la perplessità e la rabbia.
"Ve ne stavo appunto parlando. Se ne vanno avvolti in abiti neri, senza
cinture n‚ ornamenti, proprio come i catari che aspirano alla
perfezione."
"Catari?"
"Non sono armati" aggiunse. "La loro fede glielo proibisce." Mauro,
che aveva sentito, fece un altro passo verso gli sconosciuti.
"Avanti, fratello" lo incoraggiò il guercio. "Non vi succederà nulla a
toccarli. Se non sono capaci di ammazzare un pollo, come possono
pensare di farvi del male?"
"Laudetur Jesus Christus! Sono qui per i loro morti!" esclamò Giorgio,
che si era aggrappato al mio abito tremante di paura non appena si era
reso conto di cosa stava succedendo.
"Vogliono che glieli restituiamo!"
"E ciò vi intimorisce? Non avete sentito fra' Benedetto?" gli sussurrai,
pregandolo di calmarsi. "Questa gente è incapace di usare alcuna
violenza contro di noi." Non seppi mai se il fratello Giorgio riuscì a
rispondermi, perché all'improvviso gli intrusi intonarono un sentito
Poter Master che scosse tutta la radura. I loro timbri virili riempirono
Santo Stefano, lasciandoci senza parole. Giorgio, però, si era sbagliato.
I bonhommes non erano venuti a recuperare i corpi dei loro
correligionari. Non avrebbero mai fatto una cosa simile. Essi
disprezzavano i corpi, li consideravano la prigione dell'anima, un
ostacolo diabolico che li allontanava dalla purezza dello spirito. Se
erano venuti fin lì, rischiando di essere catturati e messi in prigione, era
perché avevano deciso di pregare per le anime dei loro correligionari
morti.
"Siate tutti maledetti!" imprecò contro di loro fra' Benedetto, alzando i
suoi pugni dalla cima della pira. "Maledetti una e mille volte!" La
reazione del guercio colse tutti di sorpresa. Frate Giorgio e il fratello
Mauro rimasero di stucco, quando lo videro saltare a terra e correre
verso i "poveri" come fuori di s‚. Era rosso d'ira, il viso sul punto di
scoppiare e le vene del collo gonfie. Benedetto investìcon violenza il
primo incappucciato che si trovò davanti. L'uomo cadde a terra
bocconi. E il guercio, impazzito, si inginocchiò su di lui impugnando
un coltello, che aveva preso Dio solo sa dove.
"Dovreste essere morti! Tutti! Non avete il diritto di stare qui!" gridò.
Prima che riuscissimo a fermarlo, il nostro fratello aveva affondato la
sua lama fino al manico nella schiena del "povero". Un urlo di dolore
scosse la radura.
"Andate all'inferno!" gemette.
Quello che accadde poi è tuttora confuso nella mia mente.
Gli incappucciati si scambiarono uno sguardo, prima di lanciarsi su
Benedetto. Lo strapparono via dalla schiena ferita del loro fratello, che
perdeva sangue a fiotti, e lo spinsero contro un pino. Il guercio, che
continuava a proferire maledizioni contro di loro, aveva l'unico occhio
iniettato di sangue.
Quanto agli altri, ricordo ancora meno. Giorgio, l'ottantenne, corse in
direzione della città con un'agilità che non sospettavo. Mauro, invece,
lo persi di vista non appena uno di quegli uomini mi gettò un sacco
sulla testa legandomelo al collo con una cinghia. Doveva contenere
qualche sostanza strana: dopo un istante, mi accorsi che stavo
lentamente perdendo i sensi.
D'un tratto smisi di sentire le urla dell'incappucciato ferito e una strana
sensazione di leggerezza si impadronì inesorabilmente dei miei arti.
Prima di venir meno, tuttavia, feci ancora in tempo a sentire una voce.
Mormorava qualcosa che non riuscii bene a comprendere: "Ora, padre,
potrò finalmente rispondere ai vostri dubbi".
Quindi, intontito e perplesso, svenni.
43
Mi svegliai in preda alla nausea e con un forte mal di testa, senza sapere
quanto tempo fossi rimasto incosciente. Tutto girava intorno a me e la
mia mente era più confusa che mai.
La colpa era di quella pressione costante alle tempie. Era un dolore
ciclico, circolare, che a brevi intervalli mi attraversava il cranio da
sinistra a destra, sconvolgendo i miei sensi. Erano tanto forti le sue fitte,
che per un bel po' di tempo non provai nemmeno ad aprire gli occhi.
Ricordo persino che mi tastai la testa in cerca di ferite, ma non riuscii a
trovare nulla. Il danno doveva essere interno.
"Padre, non vi preoccupate. Siete tutto intero. Riposate ora, presto vi
rimetterete." Una voce dolce, la stessa che avevo sentito prima di
perdere i sensi, mi fece sussultare prima che riuscissi a mettermi seduto.
Si rivolse di nuovo a me con un tono sereno, familiare, come se mi
conoscesse da molto tempo.
"L'effetto del nostro olio durerà ancora qualche ora soltanto. Poi vi
sentirete di nuovo bene."
"Il vostro… olio?" Disorientato, indebolito, con le braccia e le gambe
intorpidite, disteso su un pavimento irregolare, riuscii a riunire le forze
per cercare di parlare. Dedussi che mi avevano portato in qualche luogo
al coperto, perché le mie vesti erano asciutte e il freddo non era così
intenso come nella radura di Santo Stefano.
"Il sacco che vi abbiamo gettato sulla testa era impregnato di un olio
che causa il sonno, padre. E' un'antica formula. Un segreto degli
stregoni di questi borghi."
"Veleno…" mormorai.
"Non esattamente" rispose. "Si tratta di un unguento che si estrae da
zizzania, giusquiamo, cicuta e papavero. Non fallisce mai. Basta
assorbirlo in piccole dosi attraverso la pelle, perché il suo effetto
soporifero sia immediato. Ma vi passerà presto, non vi preoccupate."
"Dove sono?"
"Al sicuro."
"Datemi da bere, vi prego."
"Subito, padre." Alla cieca afferrai la brocca che lo sconosciuto posava
tra le mie mani. Era un vino caldo e amaro, che aiutò il mio corpo
malconcio a riprendersi. Strinsi la terracotta con ansia, cercando di
raccogliere le forze prima di socchiudere gli occhi e dare uno sguardo
intorno a me.
Il mio istinto non aveva sbagliato. Non ero più a Santo Stefano. E
chiunque fossero i miei rapitori, mi avevano separato da Giorgio,
Mauro e Benedetto, isolandomi in una stanza chiusa, senza finestre, che
doveva essere una specie di cella improvvisata in qualche casa sperduta
nella campagna. Mi sembrava di aver trascorso un'eternità sdraiato su
quella stuoia di paglia.
La mia barba era lunga e qualcuno mi aveva addirittura spogliato
dell'abito di san Domenico: al suo posto indossavo un saio di lana
grezza. Ma da quanto tempo stavo lì? Impossibile calcolarlo. E dove
erano finiti i miei fratelli? Chi mi aveva portato in quel luogo? Perché?
Una sensazione di angoscia mi strinse la gola.
"Dove… sono?" ripetei.
"Al sicuro. Questo luogo si chiama Concorezzo, padre Leyre.
E sono felice di vedervi ristabilito. Abbiamo molto, molto da discutere.
Vi ricordate di me?"
"Co… come?" esitai.
Volli girarmi verso il mio interlocutore, ma una nuova fitta mi obbligò
a rimanere immobile.
"Orsù, padre! Il nostro olio vi ha addormentato, ma non vi ha cancellato
la memoria. Sono l'uomo che dice sempre la verità, non vi ricordate di
me? Quello che ha giurato di risolvere un certo enigma che vi
tormenta." Una sferzata scosse il mio cervello. Era vero, Benedetto
Iddio. Avevo già sentito quel timbro di voce da qualche parte. Ma
dove? Con uno sforzo immane riuscii a mettermi seduto e a cercare il
viso del mio interlocutore. E, Gesù Santo, alla fine lo vidi. Era proprio
dietro di me. Il volto tondo e le guance rosse come sempre. Gli occhi di
smeraldo, chiari e svegli. Mario Forzetta, non c'era dubbio!
"Vi ricordate di me?" Annuii.
"Padre, mi dispiace di aver dovuto ricorrere a questi metodi per portarvi
qui. Ma, credetemi, non avevamo altra scelta. Con le buone maniere
non sareste mai venuto con noi." Sorrise.
Quel plurale mi sconcertò.
"Avevamo? Chi siete, Mario?" Il viso di Forzetta si illuminò nel
sentirmi pronunciare il suo nome.
"Gli uomini puri di Concorezzo, padre. La nostra fede ci vieta di
utilizzare la violenza, ma non l'ingegno."
"Bonhommes… Tu?"
"Sarete terrorizzato, lo so. Avete liberato un eretico dalla prigione che
si meritava. Ma prima che pronunciate il vostro giudizio su questo fatto,
vi supplico di ascoltarmi. Ho molto da raccontarvi."
"E i miei fratelli?"
"Li abbiamo lasciati a Santo Stefano, addormentati come voi. A
quest'ora, se non si sono congelati, saranno già tornati a Milano e
avranno la vostra stessa emicrania." Mario aveva un aspetto piuttosto
buono. Si notava ancora la cicatrice che gli aveva tagliato il viso in due
alcuni giorni prima, ma si era lasciato crescere la barba e la sua
carnagione aveva il colorito sano della vita all'aria aperta. Era ben
diverso dallo spettro che aveva conversato con me nelle prigioni di
palazzo Jacaranda. Aveva recuperato peso e il suo volto irradiava
felicità. Sapersi fuori dalla portata di don Oliviero gli aveva fatto bene.
Quello che non riuscivo a capire era perché avesse deciso di
trattenermi. Di far prigioniero proprio colui che gli aveva concesso la
libertà.
"I miei fratelli e io abbiamo esitato molto, prima di fare questo passo"
chiarì Mario, mentre si sedeva per terra accanto a me. "Padre, so che
siete un inquisitore e che il vostro ordine perseguita da più di duecento
anni famiglie che, come noi, hanno un modo diverso di accostarsi a
Dio."
"Ma…"
"Ma quando ieri vi ho visto a Santo Stefano, ho capito che eravate un
segno inviato da Dio. Siete apparso lì, e io avevo appena trovato le
risposte che avevo giurato di darvi. Ricordate?
Non è forse un miracolo? Ho convinto il nostro perfetto a portarvi qui,
affinché potessi saldare il mio debito con voi."
"Non esiste alcun debito."
"Esiste, padre. Dio ha fatto incrociare le nostre strade per qualche
ragione che solo Lui conosce. Forse non per aiutarvi a risolvere il
vostro enigma, ma perché affrontiamo insieme il nostro comune
nemico." Quell'affermazione mi sconcertò.
"Come dici?"
"Ricordate l'enigma che mi avete confidato, il giorno in cui mi avete
rimesso in libertà?" Annuii. Oculos ejus dinumera continuava a sfidare
la mia intelligenza. Avevo quasi dimenticato che anche Forzetta ne era
a conoscenza.
"Dopo essermi congedato da voi, mi sono recato nella bottega di
Leonardo. Sapevo che la sua casa era l'unico posto a Milano dove avrei
trovato rifugio, come in effetti è stato. E naturalmente ho parlato con il
maestro. Gli ho raccontato del mio incontro con voi, gli ho riferito della
vostra infinita generosità e gli ho chiesto di aiutarmi. Non solo volevo
che il maestro mi proteggesse dall'ira di Jacaranda, ma desideravo
anche dimostrare a voi la mia gratitudine per quanto avevate fatto
tirandomi fuori dalle sue celle."
"Ma non sei più un discepolo del maestro… non è così?"
"No. Anche se, in realtà, non si smette mai di esserlo. Leonardo tratta
sempre i suoi pupilli come figli e, sebbene qualcuno non si dimostri
all'altezza del suo ideale di pittura, serba sempre il suo affetto per tutti
noi. In fin dei conti, i suoi insegnamenti trascendono il semplice
mestiere dell'artista."
"Capisco. Così sei andato a rifugiarti sotto l'ala protettrice di messer
Leonardo. Che cosa ti ha detto?"
"Gli ho mostrato il vostro enigma. Gli ho detto che racchiudeva il nome
di una persona che stavate cercando, e il maestro l'ha risolto per me."
Ironia della sorte. Leonardo aveva decifrato la firma di chi aveva scritto
a Betania per cercare la sua rovina? Pieno di curiosità, cercai di vincere
la nausea e afferrai le mani di Mario per enfatizzare la mia domanda:
"E dimmi, ci è riuscito?".
"Sì, padre. Posso persino riferirvi che nome racchiude." A quel punto
Mario posò a terra la carta della sacerdotessa, proprio tra le nostre
gambe.
"Messer Leonardo si è molto stupito, quando gli ho domandato del
vostro enigma" continuò. "Mi ha detto, infatti, di conoscerlo molto
bene. Un fratello di Santa Maria glielo aveva portato qualche tempo
prima e già allora lo aveva risolto per lui."
"Frate Alessandro!" Il ricordo di Oculos ejus dinumera scritto sul
rovescio di una carta come quella ritrovata insieme al cadavere del
bibliotecario mi fece sussultare. Di colpo tutto acquistava un senso:
l'Augure doveva aver ordito un piano per far sospettare di Leonardo e
aveva assassinato frate Alessandro, quando si era accorto di essere stato
smascherato da lui. Uccidere un oscuro religioso era facile, non
altrettanto eliminare il pittore preferito della corte. Perciò aveva deciso
di cercare di farlo incriminare come eretico. Ecco il perché delle sue
lettere a Betania.
Prima che la mia immaginazione si perdesse in voli pindarici, Mario
proseguì.
"Sì, padre, frate Alessandro. Ricordo molto bene le parole del maestro:
diceva che i due enigmi, la carta e i versi, erano intimamente collegati. I
vostri versi erano incomprensibili senza la carta della sacerdotessa,
perché senza di essa era impossibile trovare la chiave del nome che
cercate. Sono come la testa e la croce di una stessa moneta." Pregai
Mario di spiegarsi meglio. Il giovane prese allora la frase latina
annotata sul pezzo di carta che gli avevo consegnato a Milano e la
accostò all'immagine enigmatica dei tarocchi Visconti-Sferza. Ancora
una volta ancora avevo davanti a me quelle sette righe maledette:
Oculos èjus dinumera, sed noli voltum àdspicere.
In latere nominis mei notam rinvenies.
Contemplari et contemplata aliis iradere.
Veritas "In realtà, è un facile enigma a tre livelli" disse Mario. "Il primo
livello riguarda l'identificazione della carta che vi aiuterà a risolvere il
rebus. "Conta i suoi occhi, ma non guardare la faccia" ha un significato
molto semplice: se osservate bene, in questa carta esiste un solo occhio
possibile al di fuori del viso della donna."
"Un occhio? Dove?" Mario sembrava divertito.
"Sulla cintura, padre. Non lo vedete? E' l'occhiello del nodo attraverso
il quale passa la corda che cinge la vita della donna.
Si tratta di una metafora, usata con grande abilità dal vostro uomo."
"Ma questo non è tutto. Se riflettete un istante, non sappiamo dove
cercare la soluzione del nome in questione. "Sul fianco Particolare
dell'"occhio" sulla cintura troverai la cifra del mio nome" lascia aperta
una grande incognita. E' sul lato destro o su quello sinistro che
dobbiamo cercare tale cifra? Ve lo dirò io: al lato destro della donna."
"Come puoi esserne tanto sicuro?"
"Il maestro è arrivato alla risposta grazie a un particolare
"steganografico".
"Steganografico"?
"Padre, i greci furono maestri nell'arte di nascondere messaggi segreti
in scritti o opere che stessero sotto gli occhi di tutti. Nella loro lingua
steganos significa "scrittura occulta", e qui chiaramente è stata
utilizzata. Un errore ci fornisce la chiave di interpretazione: rinvenies si
dovrebbe scrivere senza "r". Un uomo tanto meticoloso come il
codificatore di questo messaggio non poteva ignorare un simile
dettaglio, cosicché ho ripassato con attenzione i vostri versi scoprendo
che oltre alla "r" esistevano altre cinque lettere evidenziate, questa volta
con un punto. Nel caso non ci abbiate fatto caso, ecco le parole che le
contengono: ejus, dinumera, sed, àdspicere e tradere.
Mi meraviglia che nessuno le abbia notate prima." Mi chinai incredulo
sulla firma dell'Augure per vedere meglio quanto Mario mi stava
mostrando e scoprii, in effetti, che le lettere e, d, s, a e t avevano quello
strano punto.
"Lo vedete, ora?" insistette. "Con esse, più la "r" di rinvenies, si può
comporre la parola "destra". Cioè, l'indicazione che ci mancava." Era
stupefacente. Leonardo aveva fatto ciò che a nessuno di noi era venuto
in mente prima: mettere in relazione la carta della sacerdotessa con
l'enigma delle lettere dell'Augure. Intuizione o visione geniale che
fosse, vero è che provai le vertigini sapendomi tanto vicino alla
soluzione.
"A questo punto il resto è molto semplice, padre. Secondo la lezione
dell'ars memoriae, in qualsiasi raffigurazione sono sempre le mani a
dare le cifre. E su questa carta, come vedete, ci sono due mani che
mostrano un numero differente di dita.
Se il vostro uomo ci dice che dobbiamo scegliere la mano destra, è
perché la cifra del suo nome equivale a cinque."
"Mars memoriae? La conosci anche tu?"
"E' una delle discipline preferite di Leonardo."
"Suppongo, quindi, che ora dovrei cercare un frate il cui nome sia
formato da lettere che diano cinque come somma, non è vero?"
"Non è più necessario" disse Mario, più orgoglioso che mai. "Messer
Leonardo l'ha già trovato: si chiama Benedetto. 24 E' l'unico in tutta
Santa Maria il cui nome abbia questo valore numerico." Benedetto?
Sono certo che quella rivelazione cambiò l'espressione del mio volto,
perché Mario si fermò a fissarmi con aria assorta. Benedetto? L'uomo
con un occhio solo, come l'occhiello della cintura della sacerdotessa?
Una simile coincidenza mi disarmò.
Perché non ero stato capace di capirlo prima? Come avevo fatto a non
rendermi conto che il guercio, in quanto uomo di fiducia del priore,
aveva accesso a tutti i segreti del convento ed era l'unico
sufficientemente violento per scagliarsi contro Leonardo? Questa
rivelazione non calzava forse come un guanto al profilo che avevo
tracciato dell'Augure, quando avevo intuito che si trattava di un
discepolo rinnegato del toscano? Il suo volto non compariva forse nel
Cenacolo, dando vita all'apostolo Tommaso, come prova inconfutabile
della sua antica affiliazione alla setta del maestro?
Abbracciai Mario, senza sapere molto bene chi avrei dovuto perseguire
prima: se l'assassino di frate Alessandro o quel nucleo di cristiani
deviati.
44
Fra' Benedetto starnutì e tossì di nuovo sopra il bacile, sputando un
altro grumo di sangue.
Aveva un brutto aspetto. Molto brutto.
Dopo che era rimasto sei ore all'addiaccio nella piana di Santo Stefano,
privo di sensi e scalzo sulla neve, il guercio non era più tornato a
respirare normalmente. Tossiva. I suoi polmoni erano intasati e gli
risultava sempre più difficile muoversi.
Fu il priore a disporre che lo portassero all'ospedale. Lì lo misero a letto
e lo isolarono dagli altri ammalati, gli prescrissero vapori balsamici,
salassi quotidiani e pregarono con grande fervore per la sua guarigione.
Ma Benedetto dormiva male.
La febbre saliva in modo inesorabile, facendo temere a tutti per la sua
vita.
L'ultimo giorno di gennaio il più oscuro dei frati di Santa Maria,
esausto, chiese che gli dessero l'estrema unzione. Aveva trascorso il
pomeriggio delirando, pronunciando frasi incomprensibili in strane
lingue e ammonendo i suoi fratelli perché dessero fuoco al refettorio, se
volevano ancora salvare le proprie anime.
Fu frate Nicola Zessati, decano con cinquant'anni di servizio nella
comunità e vecchio amico di Benedetto, a somministrargli l'olio santo.
Prima gli aveva chiesto se voleva confessarsi, ma il guercio aveva
rifiutato. Non voleva dire nemmeno una parola su ciò che era accaduto
a Santo Stefano. Tutti i tentativi del frate risultarono inutili. N‚ lui n‚ il
priore riuscirono a strappargli una sola parola sulla mia sorte, meno
ancora sugli uomini che ci avevano assalito.
So che furono giorni di sconcerto. Per quanto strano possa sembrare,
nemmeno frate Giorgio fu loro di grande aiuto.
L'elemosiniere ricordava a malapena quegli strani monaci in nero in cui
ci eravamo imbattuti. Era corto di vista e l'età lo ingannava. Perciò,
quando raccontò che il guercio aveva assalito a coltellate uno di loro, lo
presero per matto. Giorgio venne ricoverato nell'ospedale di Santa
Maria, nella stessa ala di Benedetto, con le mani bruciate dal gelo e un
raffreddamento dal quale, miracolosamente, si riprese in fretta.
Quanto al mio terzo confratello, frate Mauro, da giorni era muto per lo
spavento. La sua giovane età aveva sopportato bene il freddo, ma dal
suo ritorno a Santa Maria nessuno lo aveva visto uscire dalla sua cella.
Quelli che gli fecero visita ebbero paura del suo sguardo perso nel
vuoto. Mangiava a malapena qualcosa e non prestava attenzione
quando gli si parlava.
Aveva perso il bene della ragione.
Fu frate Giorgio ad avvisare il priore del peggioramento di padre
Benedetto. Accadde il 31 di gennaio, un martedì. L'elemosiniere trovò
Bandelle nel refettorio, intento a ispezionare con Leonardo gli ultimi
progressi del Cenacolo.
Dopo i funerali di donna Beatrice e la mia sparizione, il toscano aveva
ripreso con impeto inusitato i suoi lavori. All'improvviso, sembrava
aver fretta di terminare la propria opera: quel giorno stesso aveva dato
le ultime pennellate al volto adolescente di san Giovanni e lo stava
mostrando orgoglioso al priore, che guardava il tutto con diffidenza.
L'apostolo era magnifico. Sfoggiava una lunga chioma bionda che gli
ricadeva sulle spalle, uno sguardo languido, gli occhi socchiusi e la
testa inclinata alla sua destra, in atto di sottomissione. Il suo viso
emanava luce. Una luminosità soprannaturale, magica, che invitava alla
contemplazione e alla vita mistica.
"Mi hanno detto che avete usato una ragazza come modella per questo
viso." Il rimprovero del priore fu la prima cosa che udì Giorgio, mentre
entrava nel refettorio. Dalla sua posizione non vide sorridere il maestro.
"I pettegolezzi volano" ironizzò.
"E arrivano più lontano dei vostri uccelli di legno."
"Va bene, priore, non lo negherò. Ma prima che vi irritiate con me,
dovete sapere che ho utilizzato quella ragazza solo per dare qualche
ritocco al discepolo prediletto." Giorgio riconobbe all'istante
l'umorismo pungente del maestro.
"Quindi è vero…"
"Padre Bandelle, Giovanni era una creatura dolce" riprese Leonardo.
"Sapete che era il più giovane dei discepoli e che Gesù lo amava come
un fratello. Anzi, ancora di più: come un figlio. Saprete anche che non
sono riuscito a trovare tra i vostri frati nessuno che mi ispirasse quel
candore che gli attribuiscono i Vangeli. Che importanza può avere che
io sia ricorso a una fanciulla innocente per completare la sua figura?
Cosa ci vedete di male, di fronte al risultato che vi presento?"
"E chi è la fanciulla, si può sapere?"
"Certo che si può." Leonardo si inchinò cortese verso Bandelle. "Ma
dubito che la conosciate. Si chiama Elena Crivelli e appartiene a una
nobile famiglia lombarda. Non molti giorni fa ha visitato la mia
bottega, accompagnata dal maestro Luini.
Non appena l'ho vista, ho saputo che mi era stata mandata da Dio per
aiutarmi a concludere il Cenacolo." Il priore lo guardò di sbieco.
"Ah, se la vedeste! La sua bellezza è incantevole, pura, perfetta per il
volto di Giovanni. Lei mi ha regalato quest'aura di beatitudine che ora
irradia il nostro apostolo."
"Maestro, non ci furono donne alla cena pasquale…"
"E chi può affermarlo con certezza, padre? Inoltre, di Elena ho preso
solo le mani, lo sguardo, l'atteggiamento di dedizione delle sue labbra e
gli zigomi. Le sue caratteristiche più innocenti."
"Reverendo padre…" L'interruzione di Giorgio, che attendeva
impaziente una pausa nella conversazione, non diede possibilità di
replica a Bandelle. Dopo una frettolosa genuflessione, il frate si accostò
al suo orecchio e gli riferì le cattive notizie sulla salute del guercio.
"Dovete venire con me" sussurrò. "I medici dicono che non gli rimane
molto da vivere."
"Che cosa gli succede?"
"Non può quasi respirare e la sua pelle si fa sempre più pallida, priore."
Leonardo osservò con curiosità le mani bendate di Giorgio e dedusse
che doveva trattarsi di uno dei frati assaliti qualche giorno prima fuori
dalle mura di Milano.
"Se vi interessa la mia opinione" intervenne in tono confidenziale
"credo che il vostro fratello sia afflitto da tubercolosi.
Una malattia mortale, incurabile."
"Come dite?"
"I sintomi che avete descritto sono quelli di una tubercolosi.
Se lo ritenete opportuno, fratelli, metto a disposizione la mia scienza
medica per alleviare la sua sofferenza. Conosco a sufficienza il corpo
umano per suggerirvi un trattamento efficace."
"Voi?" replicò Bandelle. "Pensavo che lo odiaste…"
"Andiamo, priore. Come posso augurare il male a qualcuno con cui
sono in debito? Ricordate che fra' Benedetto posò come san Tommaso
per il Cenacolo. Potrei forse odiare Elena, che mi ha ispirato nel
dipingere Giovanni? O il bibliotecario che prestò il suo viso a Giuda?
No. Al vostro fratello devo il volto di uno degli apostoli più importanti
del Cenacolo." Il priore lo ringraziò per la sua cortesia chinando la
testa, senza cogliere l'ironia di quelle parole. Era vero che san
Tommaso aveva i tratti di un fra' Benedetto più giovane. Il toscano si
era persino dato la pena di dipingerlo di profilo per nascondere la sua
grave deformità. Ma non era meno vero che da tempo Benedetto e il
maestro non andavano d'accordo.
Con il benestare di Bandelle, Leonardo raccolse in tutta fretta i suoi
pennelli, chiuse le boccette con le ultime miscele di colori e si diresse a
passo spedito verso il vicino ospedale.
Lungo il percorso si aggiunse a loro frate Nicola, che già portava il
recipiente con l'acqua benedetta, un vasetto con l'olio santo e un
aspersorio d'argento.
Trovarono fra' Benedetto adagiato su una branda al secondo piano, in
una delle poche stanze indipendenti dell'ospedale, solo e nascosto da un
grande telo di lino che pendeva dal soffitto.
Sulla porta, il maestro chiese ai frati che lo aspettassero nel giardino.
Spiegò loro che la prima fase del suo trattamento richiedeva una certa
intimità e che erano assai pochi gli uomini che, come lui, erano immuni
ai mortali effluvi della tubercolosi.
Quando Leonardo si trovò da solo davanti al letto del guercio, scostò il
telo che li separava e guardò il vecchio brontolone. Perché non aveva
ancora inventato un congegno che lo liberasse dai suoi nemici?
Facendo di necessità virtù, il gigante di Vinci lo scosse per svegliarlo.
"Voi?" Fra' Benedetto si sollevò per lo stupore.
"Che diavolo ci fate qui?" Leonardo osservò il moribondo con curiosità.
Aveva un aspetto peggiore di quanto si aspettasse. L'ombra bluastra che
si era insediata sulle sue guance non lasciava presagire niente di buono.
"Mi hanno detto che siete stati assaliti nel bosco, fratello.
Mi dispiace davvero."
"Non siate ipocrita, messer Leonardo!" Tossì, espellendo nuovamente
muco. "Sapete anche meglio di me che cosa è successo."
"Se è quello che credete…"
"Sono stati i vostri fratelli di Concorezzo, vero? Quei bastardi che
negano Dio e rifiutano la natura divina del Figlio dell'Uomo…
Andatevene da qui! Lasciatemi morire in pace!"
"Benedetto, sono venuto a parlarvi non appena ho saputo della vostra
malattia. Credo che siate precipitoso nel vostro giudizio, lo siete sempre
stato. Quelle persone a cui vi riferite non negano Dio. Sono cristiani
puri, che venerano il Salvatore allo stesso modo in cui lo fecero i primi
apostoli."
"Basta! Non voglio ascoltarvi! Non ditemi più nulla! Andate via!" Il
guercio era rosso per l'ira.
"Se riflettete per un istante, padre risparmiandovi la vita quei "bastardi"
hanno dimostrato un'infinita misericordia nei vostri confronti.
Soprattutto sapendo che avete ucciso a sangue freddo molti loro
fratelli." In un batter d'occhio l'ira del frate si trasformò in stupore.
"Come osate, Leonardo?"
"Io so che cosa siete diventato. E so anche che avete fatto tutto il
possibile per allontanarmi da questo luogo e lasciare nell'incertezza la
fede di tutta quella gente. Prima avete ucciso frate Alessandro. Poi
avete trapassato il cuore al fratello Giulio. Quindi avete stordito con le
vostre storie i fratelli che erano sulla via della purezza…"
"Dell'eresia, piuttosto" sottolineò, il suo unico occhio spalancato come
una luna.
"E avete inviato messaggi apocalittici a Roma, lettere anonime firmate
Augur diyit, unicamente per provocare un'indagine segreta contro di
me, che non vi coinvolgesse. Non è vero?"
"Siate maledetto, Leonardo!" Il petto del monaco stridette in un nuovo
rantolo. "Maledetto per sempre!" Il pittore, impassibile, slegò dalla
cintura la sua inseparabile scarsella bianca e la posò sul letto. Sembrava
più piena del solito. Il maestro la slacciò con solennità e ne estrasse un
piccolo libro rilegato di blu, che lasciò cadere sul materasso.
"Lo riconoscete?" sorrise sornione. "Anche se ora mi maledite, padre,
sono venuto a perdonarvi. E a offrirvi la salvezza. Siamo tutti anime di
Dio e la meritiamo." La pupilla del guercio si dilatò per l'eccitazione
nel vedere quel volume a due palmi da lui.
"Era questo che cercavate, vero?"
"In… tetro… gatto Johan… ms" Benedetto decifrò il titolo inciso sul
dorso. "Il testamento finale di Giovanni! Il libro con le risposte che il
Signore diede al suo amato discepolo durante la loro cena segreta, nel
regno dei cieli."
"La cena segreta, infatti. Proprio il libro che ho deciso di svelare al
mondo." Benedetto allungò una delle sue deboli braccia per toccare la
copertina.
"Distruggerete la cristianità, se lo fate" disse fermandosi per riprendere
fiato. "Questo libro è maledetto. In questo mondo nessuno merita di
leggerlo… E nell'altro, al cospetto del Padre Eterno, nessuno ne ha
bisogno. Bruciatelo!"
"Eppure c'è stato un tempo in cui desideravate impossessarvene."
"Sì, è vero" gemette. "Poi mi sono reso conto del peccato di superbia
che ciò implicava. Per questo ho abbandonato la vostra causa. Per
questo ho smesso di lavorare per voi. Mi avete riempito il capo di
sciocchezze come avete fatto con i fratelli Alessandro e Gilberto, ma mi
sono accorto per tempo del vostro inganno…" boccheggiò quasi
agonizzante "… e sono riuscito a sottrarmi a voi." Il guercio, pallido, si
portò la mano al petto prima di proseguire con voce rauca: "So cosa
volete, Leonardo. Siete venuto nella cattolica Milano infarcito di teorie
stravaganti… I vostri amici, Botticelli, Raffaello, Ficino, vi hanno
riempito la testa di vuote idee su Dio. E ora desiderate dare al mondo la
formula per comunicare direttamente con Lui, senza la necessità di
intermediari n‚ della Chiesa".
"Come fece Giovanni."
"Se il popolo credesse a questo libro, se sapesse che Giovanni parlò con
il Signore nel Regno dei cieli e poi tornò indietro per scriverlo, perché
mai qualcuno dovrebbe aver bisogno dei ministri di Pietro?"
"Vedo che avete compreso."
"E capisco anche perché il Moro vi ha appoggiato per tutto questo
tempo… " tossì. "Indebolendo Roma, egli diventerà più forte. Con la
vostra opera voi volete cambiare la fede dei buoni cristiani. Siete un
diavolo, un figlio di Lucifero." Il maestro sorrise. Quel frate moribondo
poteva a malapena immaginare l'ingegnosità del suo piano: erano mesi
che Leonardo permetteva ad artisti francesi e italiani di avvicinarsi al
suo Cenacolo per copiarlo. Meravigliati dalla sua tecnica e dalla
disposizione inusuale delle figure, maestri come Andrea Solari, il
Giampietrino, Bonsignori, e tanti altri avevano già riprodotto il suo
dipinto e cominciavano a diffonderlo per mezza Europa. Inoltre, la
discutibile tecnica della tempera a secco, nella sua effimera durata,
trasformava il proposito di copiare quell'opera in qualcosa di urgente.
La meraviglia del Cenacolo era destinata a sparire per espresso
desiderio del maestro, e solo uno sforzo continuo, meticoloso e
pianificato per riprodurla e farla conoscere ovunque sarebbe riuscito a
salvare il suo vero progetto… E, di conseguenza, a divulgare il suo
segreto molto più di quanto avesse mai fatto qualsiasi altra opera d'arte
nella storia.
Leonardo non replicò. Perché avrebbe dovuto?
Le sue mani sapevano ancora di vernice e solvente, quello in cui aveva
immerso i pennelli con cui aveva ritoccato il volto di Giovanni: l'autore
del vangelo che ora giaceva aperto sul letto del guercio. Lo stesso testo
che i Visconti-Sforza, duchi di Milano, avevano rappresentato chiuso
nella mano della sacerdotessa del loro mazzo di carte, o che appariva in
grembo alla Madonna di Santa Maria del Fiore, proprio sopra l'ingresso
del Duomo di Firenze. Insomma, un libro ermetico che ora Leonardo
intendeva rivelare al mondo.
Senza dire una parola, prese quel volume e lo aprì alla prima pagina.
Chiese a Benedetto di rammentare la cena del Signore dipinta nel
refettorio e di prepararsi a comprendere il suo disegno. Quindi sistemò
il libro sotto il suo naso e lesse solenne: Io, Giovanni, vostro fratello e
partecipe nella tribolazione per poter aver accesso al Regno dei cieli,
mentre ero reclinato sul petto di nostro Signore Gesù Cristo, gli dissi:
"Signore, chi è colui che ti tradirà?". Ed egli mi rispose: "Colui che
intinge con me la mano nel piatto". Allora Satana entrò in lui ed egli
cercava il modo di tradirmi. 25 Benedetto si spaventò: "E' dunque
questo che avete dipinto nel Cenacolo… Benedetto Iddio!".
Leonardo annuì.
"Maledetto serpente!" Benedetto ebbe un altro attacco di tosse.
"Non ingannatevi, padre. La mia opera è molto più che una scena di
questo vangelo. Giovanni rivolse nove domande al Signore. Due erano
su Satana, tre sulla creazione della materia e dello spirito, altre tre sul
battesimo di Giovanni e un'ultima sui segni che precederanno il ritorno
di Cristo. Domande sulla luce e sulle tenebre, sul bene e sul male, sui
poli opposti che muovono il mondo…"
"E tutto questo nasconde un sortilegio, lo so."
"Lo sapete?" La sorpresa brillò sul volto del maestro. L'intelligenza di
quel vecchio restio a morire era ancora all'erta.
"Sì…" ansimò "mut-nem-a-los-noc… Anche a Roma lo sanno: li ho
informati io. Presto, Leonardo, piomberanno su di voi e distruggeranno
ciò che avete costruito con tanta pazienza. Quel giorno, maestro, morirò
soddisfatto."
45
Dodici giorni dopo Milano, il 22 febbraio del 1497 "Mut-nem-a-los-
noc… " Sentii per la prima volta quella strana frase il giorno della festa
della Cattedra di San Pietro. Erano passate quasi due settimane da
quando fra' Benedetto aveva reso l'anima a Dio nell'ospedale di Santa
Maria, durante uno di quei terribili attacchi di tosse. Dio aveva
castigato la sua superbia. L'Augure non ebbe tempo di vedere Roma,
scatenare la propria ira contro il maestro Leonardo e demolire il suo
progetto. Il declino fu rapido. I medici che lo assistevano notte e giorno
si arresero quando l'anziano perse la voce e le pustole si impadronirono
del suo corpo.
Benedetto morì la sera del mercoledì delle Ceneri, solo, in preda alla
febbre e mormorando ossessivamente il mio nome, nel disperato
tentativo di attirarmi al suo capezzale e aizzarmi contro il toscano. Per
sua sfortuna, avrei impiegato ancora molti giorni prima di ritornare
dalla mia reclusione tra gli "uomini puri".
Ora sospetto che Mario Forzetta avesse atteso proprio la sua morte
prima di lasciarmi tornare a Milano. Nelle settimane in cui rimasi a
Concorezzo, Mario non mi parlò mai della malattia del guercio, n‚ mi
istigò affinché agissi contro di lui o informassi il Sant'Uffizio dei suoi
peccati contro il quinto comandamento. E non ravvivò nemmeno la
fiamma dell'odio nei suoi confronti. Quell'atteggiamento mi meravigliò.
La conoscenza dei segreti della scrittura occulta aveva permesso di
smascherare padre Benedetto e la sua complessa firma, ma la strana
morale che guidava quella comunità gli impediva di vendicarsi per
l'assassinio dei suoi correligionari. Una fede davvero strana, la loro!
Arrivai a pensare che i "poveri" di Concorezzo mi avrebbero trattenuto
per sempre. Comprendevo che il rispetto estremo che avevano per la
vita impediva loro di uccidermi, ma mi rendevo anche conto che tutti in
quel villaggio avevano una certezza: se mi avessero liberato, le loro vite
sarebbero state in pericolo.
La discussione sul da farsi si prolungò per giornate intere.
Ne approfittai per mescolarmi a loro e apprendere qualcosa di più sulle
loro abitudini di vita. Mi sorprese sapere che non entravano mai in una
chiesa per pregare, preferendo una grotta o l'aperta campagna.
Confermai molto di quanto già sapevo su di loro: per esempio che
rinnegavano la croce o ripudiavano le reliquie, considerandole ricordi
impuri del corpo materiale, quindi satanico, che un giorno aveva
ospitato l'anima di grandi santi. Ma scoprii anche cose che mi
meravigliarono, come la loro gioia di fronte alla morte. Ogni giorno che
passava si rallegravano di essere più vicini al momento in cui si
sarebbero separati dall'involucro corporale e si sarebbero avvicinati allo
spirito luminoso di Dio. Essi, che tra loro si chiamavano "veri
cristiani", mi guardavano con compassione e facevano grandi sforzi per
coinvolgermi nei loro riti.
Un giorno Mario arrivò nella mia stanzetta molto agitato e mi svegliò:
mi pregò di vestirmi in tutta fretta e mi condusse giù dal monte verso il
sentiero selciato che portava fino a Porta Vercellina. Ero sbalordito.
Quel giovane aveva preso una decisione che comprometteva tutta la sua
comunità: avrebbe reso al mondo un inquisitore che aveva visto una
confraternita di catari dall'interno, aveva presenziato alle loro preghiere
e conosceva alla perfezione i punti deboli degli ultimi "uomini puri"
della cristianità. Ma, nonostante tutto, si arrischiava a liberarmi.
Perché? E perché quel giorno, tanto di fretta?
Non avrei tardato molto a scoprirlo.
Mentre ci avvicinavamo al sentiero che mi avrebbe condotto ai domini
cittadini del duca, Mario cambiò per la prima e ultima volta il tono
della sua conversazione. Si era vestito di bianco immacolato, con un
saio che lo copriva fino alle ginocchia e una fascia in testa che fermava
i suoi capelli arruffati. Sembrava che mi stesse accompagnando a un
ultimo e strano rituale.
"Padre Leyre" disse con solennità "ora avete conosciuto i veri discepoli
di Cristo. Avete visto con i vostri occhi che non impugniamo armi n‚
offendiamo la natura. Per questa stessa ragione, e perché i seguaci
originari di Gesù non avrebbero mai accettato che vi privassimo della
libertà, non possiamo trattenervi più a lungo. Appartenete a un altro
mondo, distinto dal nostro. Un luogo di ferro e oro, nel quale gli uomini
vivono voltando le spalle a Dio…" Volevo replicare, ma Mario non me
lo permise. Mi guardava con tristezza, come si stesse congedando da un
amico.
"Da questo momento" proseguì"il nostro destino è nelle vostre mani. I
vostri crociati non avrebbero potuto dirlo meglio: Deus lo volt!, così ha
disposto il Padre. O ci concedete un indulto e vi unite a noi
convertendovi in un parfait, oppure ci denunciate e causate la nostra
morte e la rovina dei nostri figli. Ma sarete voi, in piena libertà, a
scegliere la strada. Noi, purtroppo, siamo abituati a essere perseguitati.
E' il nostro destino."
"Mi liberi?"
"In realtà, padre, non siete mai stato prigioniero." Lo guardai, senza
sapere cosa dire.
"Vi chiedo soltanto che riflettiate su una cosa, prima di consegnarci al
Sant'Uffizio: ricordate che anche Gesù fu un perseguitato." Poi Mario
mi si buttò al collo e mi strinse a sé. Quindi, scrutando il debole
chiarore che anticipava l'alba, mi consegnò un involto con un po' di
pane e di frutta e mi lasciò da solo, accanto al sentiero per Milano.
"Andate al refettorio" mi esortò prima di svanire su per il bosco. "Al
refettorio di Santa Maria. Durante la vostra assenza sono accadute
molte cose che vi riguardano. Meditatele e poi decidete il vostro
cammino. Sarebbe bello tornare a incontrarci un giorno e poterci
guardare negli occhi come fratelli dell'unica fede. " Camminai per
quattro ore prima di distinguere all'orizzonte la sagoma fortificata di
Milano. Che strana prova era quella a cui mi sottoponeva la Divina
Provvidenza? Mario mi restituiva alla corte del duca perché eliminassi
il suo nemico, fra' Benedetto, o per qualche altra oscura ragione?
Fu nell'avvicinarmi al posto di guardia che mi resi conto di quanto mi
aveva cambiato la permanenza a Concorezzo. All'ingresso la guardia
ducale non mi degnò di un saluto. Ai suoi occhi non ero più il
rispettabile domenicano, inghiottito dal bosco di Santo Stefano quasi un
mese prima. Non potevo fargliene una colpa: la città credeva che
quell'uomo fosse morto in un'imboscata. Nessuno mi aspettava. Il mio
aspetto era rozzo, sporco ed ero vestito come un contadino. Indossavo
calzoni neri e un grezzo pellicciotto di pecora che mi faceva sembrare
un pastore. Il mio volto era ricoperto da una barba folta e nera. Persino
la chierica stava scomparendo, nascondendo in modo definitivo la mia
condizione di sacerdote.
Attraversai dunque il posto di guardia senza badare a nessuno e mi
dileguai per i vicoli che mi avrebbero riportato al convento di Santa
Maria. Benché non ci fosse il sole e fosse sabato, si respirava una certa
aria di festa. I dintorni del convento erano stati ornati con stendardi,
composizioni floreali e nastri colorati. Per le strade si aggirava molta
gente in vena di chiacchiere. Sembrava che il duca fosse appena passato
di lì, diretto a qualche celebrazione importante.
Fu allora che sentii dalle labbra di una passante il motivo di tanta
confusione: Leonardo aveva terminato il Cenacolo e Sua Eccellenza
Ludovico il Moro si era affrettato a visitarlo, per ammirarlo in tutto il
suo splendore.
"Il Cenacolo?" La donna mi guardò divertita.
"Ma in che mondo vivete?" rise. "Tutta la città sfilerà per vederlo.
Tutta! Dicono che è un miracolo. Che sembra reale. I frati apriranno il
loro convento per un mese, affinché tutti possano ammirarlo." Uno
strano malessere mi prese allo stomaco. Il toscano aveva concluso
un'impresa alla quale aveva lavorato per più di tre anni; ma aveva
completato anche il temibile progetto iconografico che l'Augure voleva
fermare a tutti i costi? E il priore?
Si era arreso anch'egli al fascino di quell'opera? Non dovevo avvertirlo
immediatamente della vera identità del suo segretario personale? E
come mi sarei presentato al suo cospetto? Che cosa gli avrei detto degli
uomini che mi avevano catturato?
Quando raggiunsi il convento e riuscii a farmi largo tra l'enorme folla
che lo circondava, restai di stucco. La casa ducale aveva allestito un
grande palco sul quale il duca di Milano, splendidamente agghindato
con una sopravveste di velluto nero e un copricapo a tesa bassa con
nastro dorato, conversava con alcuni maggiorenti della città. Tra loro
distinsi Luca Pacioli, il matematico, che ostentava disinvoltura.
Qualcuno disse che solo pochi giorni prima aveva consegnato al Moro
il suo libro De divina proporzione, nel quale svelava i misteri
matematici della Creazione. Antonio Billi invece, cronista di corte,
sembrava abbagliato dalla bellezza che avevano appena visto i suoi
occhi.
Individuai anche il maestro Leonardo, appartato in secondo piano a
commentare qualcosa con un piccolo gruppo di ammiratori. Tutti erano
vestiti con eleganza, ma sembravano un po' nervosi. Guardavano da una
parte e dall'altra, come se aspettassero l'arrivo di qualcuno o sapessero
che qualche cosa in quella cerimonia non andava come avrebbe dovuto.
Ero così intento a cercare di leggere sulle labbra di quella comitiva ciò
che stava succedendo, che non notai che qualcuno si era aperto un
varco nella folla e si stava dirigendo proprio verso di me.
"Il cielo mi protegga!" esclamò quando mi raggiunse e riuscì a
sfiorarmi una spalla. "Padre Leyre, tutti vi davano per morto!"
Quell'uomo robusto, con berretto viola e piuma d'oca, la spada alla
cintura e gli stivali da cavallo, era Oliviero Jacaranda. Il suo accento
straniero lo tradiva fra tanti lombardi.
"Non dimentico mai una faccia. Men che meno la vostra!"
"Don Oliviero…" Lo spagnolo mi scrutò dall'alto al basso, senza
riuscire a comprendere perché non indossassi l'abito bianco e nero di
san Domenico. Dal canto suo, era venuto nella piazza antistante Santa
Maria per ammirare l'opera di Leonardo. La sua condizione di mercante
di oggetti preziosi gli garantiva un accesso privilegiato, permettendogli
di trovarsi al centro del più grande evento sociale della città dai funerali
di donna Beatrice.
"Padre… " esitò. "Mi volete spiegare che cosa vi è successo?
Mi sembrate in pessimo stato. Che cosa ci fate vestito così?" Cercai di
addurre una scusa plausibile, che non rivelasse la mia singolare
situazione. Non potevo dirgli di aver vissuto più di due settimane sotto
il tetto dell'uomo che era stato suo prigioniero.
L'avrebbe considerata una slealtà, e Dio solo sapeva come avrebbe
reagito lo spagnolo davanti a una simile rivelazione.
"Ricordate la mia passione per risolvere enigmi in latino?" Jacaranda
annuì.
"In realtà venni a Milano per risolverne uno, su incarico del superiore
dell'ordine. Ma per riuscirci, mi sono visto costretto a sparire per un
certo periodo. Ora ritorno in incognito e intendo proseguire nelle mie
ricerche. Perciò vi chiedo discrezione."
"Ah, voi frati! Sempre con i vostri segreti!" sorrise. "In realtà avete
finto di svanire per continuare a indagare sui crimini di San Francesco
Grande, non è così?"
"E cosa ve lo fa pensare?" dissi, stupito.
"Il vostro aspetto, naturalmente. Vi ho già detto un giorno che sono
poche le cose di questa città che mi sfuggono. Questa vostra tenuta mi
ricorda quella dei disgraziati che sono stati trovati morti sotto la Maestà
dei francescani."
"Ma…"
"Niente ma!" m'interruppe. "Ammiro il vostro metodo, padre. Non mi
sarebbe mai venuto in mente di farmi passare per una vittima, allo
scopo di arrivare all'assassino…" Tacqui.
Avevo immaginato molte volte che se per caso ci fossimo reincontrati,
non avremmo avuto una conversazione gradevole. Ecco perché mi
sorprese vederlo, all'improvviso, preoccuparsi per me. In fin dei conti
mi ero immischiato nei suoi affari, avevo liberato un suo prigioniero, e
non avevo prestato attenzione al suo tentativo di incolpare Leonardo da
Vinci dell'assassinio di frate Alessandro. Era ovvio che don Oliviero
aveva cose più importanti a cui pensare. L'antiquario mi parve
preoccupato. Quasi non fece commenti sulla fuga di Forzetta, che anzi
si affrettò a giustificare come parte della mia strategia per indagare
sulle morti di frate Alessandro e dei pellegrini di San Francesco. Era
come se il mio abbigliamento daparfait lo avesse colpito più di ogni
altra cosa.
"E' molto che siete tornato a Milano?" dissi per cambiare argomento.
"Sarà una decina di giorni. E, a dire il vero, è da allora che vi cerco. Mi
avevano detto che eravate morto in un'imboscata…"
"Sono contento che non sia vero."
"Anch'io, padre."
"Ditemi, dunque: perché mi cercavate?"
"Ho bisogno del vostro aiuto" si lasciò scappare con tono mesto.
"Ricordate ciò che vi dissi del maestro Leonardo, il giorno in cui ci
conoscemmo?"
"Leonardo?" Gettai un'occhiata alle mie spalle, là dove avevo appena
visto il toscano. Non volevo che ascoltasse una falsa accusa di omicidio
come quella che Jacaranda era sul punto di pronunciare. Quindi annuii.
"Bene. Già sapete che sono stato a Roma, e lì un confidente vicino al
papa mi ha rivelato il segreto finale che messer da Vinci ha voluto
nascondere nel suo Cenacolo."
"Il segreto finale?" La fronte spaziosa dello spagnolo si aggrottò
davanti alla mia diffidenza.
"Lo stesso segreto che ha portato alla tomba il vostro bibliotecario,
padre Leyre. Dev'essere stato ricavato dal "libro blu" che donna
Beatrice d'Este mi incaricò di trovare per lei, ma che non ho mai potuto
consegnarle. Lo ricordate?"
"Sì."
"Quel segreto, padre, ora è in mio possesso. Si tratta di un altro dei
maledetti enigmi del toscano. Poiché so che siete esperto nel risolvere
rebus e, per la vostra posizione, non potete essere complice di nessuno,
ho pensato che mi avreste aiutato a decifrarlo." Oliviero pronunciò
quella frase trattenendo la rabbia. Potevo ancora indovinare nella sua
voce il desiderio di vendicare l'amico Alessandro. E anche se stava
sbagliando bersaglio, mi incuriosiva sapere che genere d'informazione
avesse ricevuto dal suo confidente. Non avrei certo immaginato che
anche a Betania fossero a conoscenza di quel segreto e che da giorni
cercassero disperatamente di rintracciarmi per farmelo avere.
"Mi mostrerete il segreto, dunque?"
"Solo davanti al Cenacolo, padre."
46
Che strana sensazione.
Vestito con gli stracci che mi aveva dato Mario Forzetta prima di
lasciarmi tornare a Milano, varcai la soglia della chiesa di Santa Maria
senza che nessuno dei frati che incontrammo mi riconoscesse. L'odore
dell'incenso mi fece esitare.
Mi sentivo come se mettessi piede in una chiesa per la prima volta.
Quella profusione di motivi floreali, rombi rosso-azzurri e disegni
geometrici che ornavano le volte mi parve un eccesso improprio per la
casa di Dio. Fino a quel giorno non ci avevo fatto caso, ma ora
all'improvviso mi infastidiva.
Oliviero non si accorse del mio turbamento e mi trascinò fino all'abside,
obbligandomi quindi a svoltare a sinistra e a superare la moltitudine di
fedeli che pregavano e cantavano in attesa di poter accedere al
refettorio.
Frate Adriano da Treviglio, con il quale non mi ero incrociato più di
due volte durante la mia permanenza al convento, salutò lo spagnolo e
intascò soddisfatto la moneta che questi mise nella sua mano. Benché
m'avesse lanciato uno sguardo perentorio, non mi riconobbe. Meglio
così. Quel refettorio, che ricordavo freddo e inerte, ora ferveva
d'attività. Era tuttora privo di mobilia, ma i frati lo avevano messo in
ordine, arieggiato e pulito a fondo. Non restava traccia dell'odore di
pittura e la parete appena terminata dal maestro brillava in tutto il suo
splendore.
"La cena segreta…" mormorai.
Oliviero non mi sentì. Mi spinse fino al centro della sala e, una volta
trovato uno spazio tra la folla, disse qualcosa - metà in spagnolo e metà
in lombardo - che lìper lìnon seppi valutare: "Il mistero di questo luogo
ha a che vedere con gli antichi egizi.
I discepoli sono distribuiti in gruppi di tre come le triadi delle divinità
del Nilo. Lo vedete? Però il suo autentico segreto è che ciascun
personaggio di questa scena rappresenta una lettera".
"Una lettera?" Le vecchie lezioni dell'are memorial mi tornarono alla
mente. "Che genere di lettere?"
"Solo una di esse è evidente, padre. Osservate bene la grande A che
forma la figura di Nostro Signore: quello è il primo indizio. Insieme
alle altre, celate negli attributi dei Dodici elencati da fra' Jacopo da
Varagine, forma uno strano inno, scritto in antico egizio, che spero voi
sappiate decifrare…"
"Un inno?" Oliviero annuì, compiaciuto per il mio stupore.
"Esatto. Unendo tra loro le lettere che Leonardo ha assegnato a ciascun
discepolo, e che mi sono state mostrate a Roma, si forma una frase:
Mut-nem-a-los-noc."
Mut.
Nem.
A.
Los.
Noe.
Ripetei una alla volta quelle sillabe, cercando di memorizzarle.
"Dite che si tratta di un testo egizio?"
"Che altro, sennò? Mut è una dea di quella civiltà, sposa di Amon
"l'Occulto", il gran dio dei faraoni. Di sicuro Leonardo ha sentito
parlare di Mut da Marsilio Ficino. Ricordate, vero, che il maestro
conservava libri suoi nella bottega?" Come potevo dimenticarlo. Ficino,
Platone, frate Alessandro, il guercio, erano tutti lì sul muro, davanti ai
miei occhi!
Si guardavano tra loro, come se confabulassero per preservare il loro
mistero da coloro che non meritavano di scoprirlo. Tutti erano stati
rappresentati come veri discepoli di Cristo. Come bonhommes,
insomma.
"E se non fosse egizia la lingua di questa frase?" Il mio dubbio esasperò
lo spagnolo. Si avvicinò al mio orecchio e, cercando di farsi sentire in
mezzo al tumulto dei curiosi e al brusio delle preghiere, si sforzò di
spiegarmi quanto aveva appreso su quegli uomini ridotti a lettere per
bocca di Annio da Viterbo. Contemplai uno per uno quei discepoli così
vivi. Bartolomeo, con le mani appoggiate sul tavolo, osservava la scena
come una sentinella. Giacomo il Minore cercava di calmare i bollenti
spiriti di Pietro. Andrea, impressionato dalla rivelazione che un
traditore si nascondesse tra loro, mostrava le proprie palme in segno di
innocenza. E Giuda.
Giovanni. Tommaso che indicava il cielo. Il "fratello" di Cristo,
Giacomo il Maggiore, con le braccia incrociate a preannunciare il
futuro supplizio del Messia. Filippo. Matteo. Il Taddeo che dava le
spalle a Cristo. E infine Simone dal suo angolo di tavolo, con le mani
protese, quasi un invito a contemplare la scena un'altra volta.
Contemplarla un'altra volta.
Gesù!
Fu come un lampo nella notte.
Come se di colpo una di quelle lingue di fuoco che illuminarono i
discepoli il giorno di Pentecoste si fosse accesa sopra di me.
Santo Dio! Lì non c'era alcun enigma. Leonardo non aveva criptato
nulla nel Cenacolo. Assolutamente nulla.
Un'emozione singolare, come poche volte ne avevo provata nei miei
anni a Betania, mi colpì con forza le viscere.
"Ricordate ciò che mi avete detto un giorno sulle peculiarità della
scrittura di Leonardo?" Oliviero mi guardò, incapace di trovare un
nesso tra la mia domanda e la sua rivelazione.
"Vi riferite alla mania di scrivere tutto a rovescio? E' un'altra delle sue
eccentricità. I suoi discepoli hanno bisogno di uno specchio per poter
leggere ciò che il maestro scrive loro. Fa così con tutto: i suoi appunti,
gli inventari, le ricevute, le lettere personali, addirittura la lista della
spesa!… E' un demente."
"Forse." L'ingenuità di Oliviero mi fece sorridere. N‚ lui n‚ Annio da
Viterbo si erano resi conto di niente, pur avendo avuto la risposta tanto
vicina.
"Oliviero, ditemi: da dove avete iniziato a leggere la vostra litania
egizia?"
"Da sinistra. Bartolomeo è la M, Giacomo il Minore la U, mentre la
T…" All'improvviso ammutolì.
Allungò quanto poté la testa verso l'estremità destra del dipinto e
s'imbatté in Simone, che con le sue braccia protese sembrava invitarlo a
entrare nella scena. Come se non bastasse, sempre da quella parte c'era
il nodo della tovaglia, a segnalare quale fosse il lato del tavolo da cui
bisognava iniziare a "leggere".
"Santo Dio, si legge al contrario!"
"E che cosa leggete, Oliviero?" Lo spagnolo, dubitando di ciò che stava
vedendo e senza riuscire a comprenderlo, pronunciò per la prima volta
il vero segreto del Cenacolo. Gli bastò sillabare la sua litania, quel
misterioso mut-nem-a-los-noc, proprio come faceva da tre anni il
maestro da Vinci: con-sol-a-men-tum.
Post scriptum: nota finale di padre Leyre Quella rivelazione cambiò la
mia vita.
Non fu un evento brusco ma una metamorfosi lenta e inarrestabile,
simile a quella che subisce un bosco all'arrivo della primavera.
All'inizio non me ne resi conto e quando volli reagire era già troppo
tardi. Suppongo che le pacifiche chiacchierate di Concorezzo e la
confusione nella quale navigai al mio ritorno a Milano contribuirono al
miracolo.
Attesi che passassero quei giorni di grande affluenza a Santa Maria
delle Grazie per tornare al Cenacolo e mettermi davanti al dipinto, sotto
le mani di Cristo. Desideravo ricevere la benedizione di quell'opera
viva, palpitante, che avevo visto crescere in modo quasi impercettibile.
Ancora non so bene perché‚ lo feci. N‚ perché non mi presentai al
priore, per raccontargli dove ero stato e che cosa avevo scoperto
durante la mia assenza. Ma, come ho detto, qualcosa era cambiato in
maniera profonda dentro di me. Qualcosa che avrebbe finito per
seppellire definitivamente il vecchio Agostino Leyre, predicatore e
membro dell'Archivio segreto dello Stato Pontificio, ufficiale del
Sant'Uffizio e teologo.
Illuminazione? Chiamata divina? O forse pazzia? Probabilmente morirò
su questa rupe di Jabal al-Tarif senza sapere che nome dare a quella
trasformazione.
Ormai poco importa.
Vero è che trovare il sacramento dei catari, esposto a contemplazione e
venerazione nel centro stesso della casa dei domenicani, fondatori
dell'Inquisizione e guardiani dell'ortodossia della fede, ebbe un effetto
abbagliante sulla mia anima.
Scoprii che la verità evangelica si era fatta strada tra le tenebre del
nostro ordine, ancorandosi nel refettorio come un potente faro nella
notte. Era una verità ben diversa da quella a cui avevo creduto per
quarantacinque anni: Gesù non aveva mai, in nessun momento, istituito
l'eucarestia come unica via per entrare in contatto con Lui. Anzi. Aveva
insegnato a Giovanni e a Maria Maddalena come trovare Dio dentro di
noi, senza la necessità di ricorrere ad artifici esteriori. Gesù era ebreo.
Aveva vissuto sulla propria pelle gli effetti del controllo che i sacerdoti
del tempio esercitavano sulla fede, rinchiudendo Dio nel tabernacolo. E
aveva lottato contro di essi. Quindici secoli dopo Leonardo si era
trasformato nell'ambasciatore segreto di quella rivelazione e l'aveva
affidata al suo Cenacolo.
Forse impazzii in quel preciso istante, lo ammetto. Ma tutto accadde
così come l'ho riferito in queste pagine.
Ormai sono passate tre decadi da quei fatti e Abdul, che come
d'abitudine ha raggiunto la mia grotta con la cena, mi ha portato anche
una strana notizia: un gruppo di eremiti, seguaci di sant'Antonio, è
giunto al suo villaggio con l'intenzione di stabilirsi qui vicino. Ho
scrutato le sponde del Nilo cercando di localizzarli, ma i miei poveri
occhi non sono riusciti a distinguere il nuovo accampamento. Loro, lo
so, potrebbero essere la mia ultima speranza. Se qualcuno volesse
accogliere le mie confidenze nell'ultimo scampolo di vita che mi
rimane, affiderei alle sue mani questi fogli. Gli farei capire l'importanza
di conservarli in un luogo sicuro, finché‚ giungesse il tempo di renderli
noti.
Ma le mie forze m'abbandonano e non so nemmeno se sarò capace di
scendere da questa rupe e di avvicinarli.
Del resto, anche se lo facessi, non sono sicuro che capirebbero.
Oliviero Jacaranda, per esempio, non comprese mai il segreto del
Cenacolo pur avendolo avuto davanti agli occhi. Che i suoi tredici
protagonisti incarnassero le tredici lettere del consolamentum, l'unico
sacramento ammesso dagli uomini puri di Concorezzo - un sacramento
spirituale, invisibile, intimo -, non gli disse granché. Ignorava quanto
quel simbolo fosse legato al suo anelato "libro blu", che non sarebbe
mai riuscito ad avere. E di sicuro non sospettò mai che il suo servitore
Mario Forzetta lo avesse tradito a causa di quel volume. Un libro che
per generazioni era stato utilizzato nelle cerimonie catare per
immergere i neofiti nella Chiesa dello spirito, quella di Giovanni, e
iniziarli alla ricerca individuale del Padre.
So che Oliviero tornò in Spagna, stabilendosi vicino alle rovine di
Tarraco, e restò in affari con papa Alessandro. In quel periodo
Leonardo affidò La cena segreta al suo discepolo Bernardino Luini, il
quale a sua volta la consegnò a un artista della Linguadoca che finì per
portarsela a Carcassonne, dove fu intercettata dal Sant'Uffizio francese
che, però, non la seppe interpretare. Luini non dipinse mai l'ostia
dell'eucarestia. Come non la dipinsero mai Marco d'Oggiono e gli altri
amati discepoli di Leonardo.
Un destino curioso fu anche quello di Elena, che non conobbi di
persona. Dopo aver posato per il maestro, l'intelligente contessina
comprese che forse la Chiesa di Giovanni non sarebbe stata instaurata.
Per questo si allontanò dalla bottega, smise di perseguitare lo sventurato
Bernardino ed entrò in un convento di clarisse vicino alla frontiera con
la Francia. Leonardo, ammirato dalla vivace intelligenza della giovane,
finì per rivelarle il grande segreto a cui era legata la sua stirpe: Maria
Maddalena, sua remota antenata, aveva visto Gesù resuscitato e fatto
luce, fuori dalla tomba che Giuseppe d'Arimatea aveva preparato per
lui. Per secoli la Chiesa rifiutò di sentire quel racconto completo;
Leonardo invece lo volle ascoltare. In quel remoto giorno di quindici
secoli prima Maddalena aveva visto Gesù vivo, ma non nelle sue
spoglie mortali. Il cadavere - inerte e freddo - giaceva ancora nella sua
tomba, quando lei s'imbatté in quel "corpo di luce". Impressionata,
decise di rubare i resti del Galileo, li nascose in casa sua, dove li
imbalsamò con cura, e li portò con se in Francia quando iniziarono le
persecuzioni del sinedrio.
Questo e nessun altro era il segreto: Cristo non resuscitò con il suo
corpo mortale. Lo fece nella luce, mostrandoci la strada verso la nostra
stessa trasformazione, quando sarà il momento.
Seppi che Elena, colpita da questa rivelazione, restò con le clarisse solo
altri cinque anni, finché‚ un bel giorno sparì dalla sua cella e nessuno la
vide mai più. Dicono che accompagnò Leonardo nel suo esilio in
Francia, che si stabilì alla corte di Francesco I come dama di compagnia
della regina e che continuò a posare occasionalmente per il maestro.
Sembra che il Toscano ne abbia reclamato la presenza fino al giorno
della sua morte, e che le abbia chiesto in prestito viso e mani per
ultimare il ritratto di una dama che tutti conoscevano come Gioconda.
In effetti, chi l'ha vista dice che le somiglianze tra il Giovanni del
Cenacolo e la donna di quella piccola tela sono più che eloquenti. Io,
purtroppo, non ebbi modo di giudicare.
Non so se Elena ebbe accesso o meno ad altri segreti della Chiesa di
Giovanni e Maddalena che Leonardo aveva progettato di restaurare. Di
sicuro se li portò nella tomba: prima che decidessi di venire a
consumare i miei ultimi giorni in questo luogo, Elena infatti morì di
febbri.
Mi resta, dunque, da spiegare soltanto perché‚ approdai qui in Egitto, a
scrivere queste pagine. E perché‚ non denunciai mai l'esistenza di una
comunità di perfetti a Concorezzo, legata al maestro Leonardo.
La colpa, ancora una volta, fu di quel gigante dagli occhi azzurri e dalle
vesti bianche.
Dopo la presentazione pubblica del Cenacolo, non lo vidi mai più.
Anzi, dopo aver scoperto il suo significato occulto tornai a Roma e
bussai alle porte della Casa della verità, a Betania, dove ripresi il mio
lavoro senza che nessuno facesse troppe domande. Venni a sapere che
Leonardo era fuggito da Milano l'anno successivo, quando le truppe
francesi annientarono le difese del duca e s'impadronirono della città. Il
maestro si rifugiò a Mantova, poi a Venezia e infine a Roma, dove
lavorò al servizio di Cesare Borgia, il figlio di papa Alessandro VI. Per
Borgia fu "architetto e ingegnere generale", accantonando le sue altre
virtù. Ma nemmeno questo incarico durò molto; fece tuttavia in tempo a
incontrare il responsabile del sacro palazzo, Annio da Viterbo.
Nanni ne restò molto colpito. Il suo segretario, Guglielmo Ponte,
informò puntualmente Betania della conversazione che ebbero nella
primavera del 1502. Parlarono della suprema funzione dell'arte, delle
sue applicazioni per preservare la memoria delle cose e della sua
smisurata influenza sulla mente del popolo. Ma furono due le frasi del
toscano che, secondo Guglielmo, più lo impressionarono.
"Tutto ciò che ho scoperto sul vero messaggio di Gesù non è niente, in
confronto a quello che ancora dev'essere rivelato" aveva risposto molto
solenne a una domanda della Donnola.
"E come per la mia arte mi sono dissetato a fonti egizie, e mi sono
addentrato nei segreti geometrici tradotti da Ficino e Pacioli, così vi
assicuro che alla Chiesa resta ancora molto da attingere dai vangeli che
sono tuttora sepolti sulle rive del Nilo." Giovanni Annio da Viterbo
morì cinque giorni dopo, probabilmente avvelenato da Cesare Borgia.
Un mese più tardi, scosso dalle rivelazioni e sospettando che presto
avrei subìto rappresaglie da parte di chi temeva il ritorno della Chiesa
di Giovanni, lasciai per sempre Betania alla ricerca di questi vangeli.
So che sono vicini, ma ancora non li ho trovati. Giuro che li cercherò
fino alla fine dei miei giorni.
Nel 1945, in un insediamento vicino al villaggio egiziano di Nag
Hammadi, sull'Alto Nilo, furono rinvenuti tredici vangeli, rilegati in
cuoio. Erano scritti in copto e contenevano alcuni insegnamenti di Gesù
sconosciuti all'Occidente. La loro scoperta, molto più importante di
quella dei celebri rotoli del Mar Morto a Qumran, dimostra l'esistenza
di un'importante corrente di cristiani primitivi che attendevano
l'avvento di una Chiesa fondata sulla comunicazione diretta con Dio e
sui valori dello spirito.
Oggi sono conosciuti come "vangeli gnostici", e si sa con certezza che
alcune copie giunsero in Europa verso la fine dell'Alto Medioevo,
influenzando vari ambienti intellettuali.
La grotta di Jabal al-Tarif, dove padre Leyre morì nell'agosto del 1526,
distava solo trenta metri dalla nicchia in cui furono trovati questi libri.
Fine.

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