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Di belle forme e moderne funzioni

Lopera fotografica di Arturo Ghergo


Che Arturo Ghergo sia da considerare liniziatore e il principale esponente di una via italiana alla glamour photography la tesi attorno cui abbiamo costruito la ricerca storica e il racconto della sua carriera, nonch la valutazione complessiva sia dei suoi esiti formali sia della sua incidenza sul complesso della cultura fotografica nazionale. La nozione stessa di glamour photography ancora oggi costituisce una tendenza stilistica e una destinazione duso ampiamente praticata dalla comunicazione per via fotografica, capace, in alcuni casi, di raggiungere livelli e riscontri di assoluta eccellenza, anche nellesigente ambito artistico (pensiamo ad autori come Richard Avedon, o Helmut Newton, ad esempio) ma che nella sua accezione generalista investe settori pi pragmaticamente interessati a valori commerciali che a quelli artistici e intellettuali. Se digitiamo il termine su un qualsiasi motore di ricerca, scopriremo che oggi sono infatti classificati come glamour sia i ritratti dei divi hollywoodiani, i sofisticati fashion shots di Vogue, ma anche certi esiti meno espliciti delladult entertainment, o i famigerati fotocalendari, o i nudi patinati e pretenziosi di tanti fotografi di provincia... Al tempo in cui Arturo inizia la sua fortunata carriera di ritrattista, per, il senso e il valore del concetto di glamour hanno un peso e unincidenza diversa e ben pi circoscritta. La parola inglese deriva da grammayre, ovvero incantesimo, magia, ma spendibile nelle varianti declinazioni di fascino, seduzione, eleganza, sensualit. unaura, indefinibile, che avvolge persone, cose, situazioni, e li trasforma in oggetti del desiderio. E in questo modo opera come un meccanismo di persuasione occulta, che trova ben presto la sua pi efficace applicazione nella pi glamour delle societ occidentali, gli Stati Uniti, ma da l si irradia rapidamente nel vecchio continente, proprio attraverso gli strumenti di comunicazione pi moderni e popolari, ovvero la fotografia e il cinema. Per comprendere pienamente il lavoro di Arturo Ghergo, la funzione e il valore delle sue fotografie, bisogna innanzitutto compenetrasi con lo zeitgeist degli anni Trenta e Quaranta, gli anni in cui il nostro eroe mette a punto una propria, personale, autarchica variante del glamour originario, riuscendo a declinarla nellaustera e aulica lingua dellItalia di allora. A Roma, a Roma... Il percorso che porta Arturo Ghergo da Montefano, piccolo paese delle Marche in provincia di Macerata, dove era nato nel 1901, a Roma, dove si trasferir nel 1929, per rimanervi fino alla morte, si intreccia inizialmente con le vicende professionali del fratello Ermanno1. Fu lui con ogni probabilit a introdurre Arturo, di qualche anno pi giovane, alla pratica fotografica, coinvolgendolo nella gestione di un atelier a Macerata, aperto nel 1923 in via S. Maria della Porta, ufficialmente intestato a entrambi e, nel 1926, di un secondo studio, questa volta a Montefano. Ma alla morte del padre, tre anni pi tardi, Arturo si decider ad intraprendere unambiziosa impresa personale, quella di affermarsi come fotografo ritrattista e di aprire uno studio tutto suo nella Capitale. Dellattivit di Arturo nel periodo marchigiano poco dato sapersi. Lo dobbiamo immaginare coinvolto nel tipico mnage di uno studio fotografico di provincia, tra ritratti famigliari e documentazione di riti di passaggio, ma anche intento ad affinare la tecnica, di ripresa, stampa e soprattutto di ritocco fotografico, molto in voga nellattardata provincia italiana, ancora appiattita su unestetica tardo-liberty, e che avrebbe rappresentato poi, applicata ad un gusto pi aggiornato e a alle specifiche funzioni sociali della ritrattistica celebrativa, la sua maggiore fortuna2.

La memorialistica familiare ce lo racconta animato da uno spirito bohmien, fortemente motivato a diventare il miglior fotografo di Roma, ma poco stato possibile ricostruire circa le reali modalit attraverso le quali, apparentemente senza alcun mezzo economico a disposizione, ma probabilmente con laiuto del fratello Ermanno, sarebbe riuscito di l a poco ad aprire uno studio tutto suo, prima in via Poli3 e infine al numero 61 della centralissima via Condotti peraltro gi appartenuto alla pi nota dinastia di fotografi della Capitale, i DAlessandri in una zona gi presidiata da altri affermati colleghi, Arturo Bragaglia (anche lui nei pressi di via Condotti)4, Elisabetta Petri (a Piazza di Spagna), e, soprattutto, lungherese Ghitta Carell (al quartiere Flaminio), allora la pi famosa e ricercata ritrattista attiva a Roma5. Proprio la contemporanea e non effimera presenza in unarea cos circoscritta di tanti atelier specializzati nel ritratto fotografico a cui si sarebbe aggiunto di l a poco pure quello di Elio Luxardo (dal 1932 in via del Tritone) lascia intuire lesistenza di un florido mercato del settore specifico, alimentato dai desideri autocelebrativi della classe sociale aristocratica e altoborghese, delle lites intellettuali, e della nuova classe dirigente fascista, che nel mezzo fotografico aveva da subito riposto una fiducia cieca, destinata, soprattutto in altri campi della comunicazione, a incidere pesantemente sugli sviluppi della cultura visiva italiana. Molti sono, infatti, i fotografi che, in quegli anni, devono le loro fortune proprio a riusciti ritratti di Mussolini particolarmente sensibile e attento alla celebrazione e alla veicolazione della propria personalit per via fotografica come quello realizzato nel 1922 da Eva Barret, inglese trapiantata nella Capitale con il suo lussuoso e affermato atelier, o come, qualche anno pi tardi, quello celeberrimo, quanto grottesco, della Carell, che ritrae il Duce nellatto di suonare il violino. Latelier un luogo mondano, crocevia di personalit politiche e intellettuali, ma anche e soprattutto unimpresa commerciale, dai moderni connotati produttivi, che si manifestano spesso anche attraverso unorganizzazione del lavoro, se non ancora di tipo industriale, certo modernamente artigianale, parcellizzata in specifiche competenze, e, soprattutto, assolutamente avvertita alle esigenze del nuovo mercato. E in quel mercato dal 1929 si sarebbe gettato a capofitto anche Arturo Ghergo, forte di una competenza tecnica di tutto rilievo, acquisita negli anni dellapprendistato maceratese, e di una volont daffermazione nel campo della fotografia, che le testimonianze dellepoca descrivono come risoluta, al limite dellincoscienza, incurante delle endemiche ristrettezze economiche e poco incline al compromesso mercantile. La nuova societ popolare e multimediale Alla fine degli anni Venti, quando Arturo sinsedia definitivamente a Roma, la cultura fotografica italiana, in provincia, ma soprattutto nella Capitale, in fase di profonda e decisiva trasformazione. Non tanto dal punto di vista della sua funzione estetico-artistica, dove, rispetto alla crescita, sia produttiva sia linguistica, che il mezzo aveva conosciuto, in particolare in Francia, Germania e negli Stati Uniti a partire dallultimo decennio dellOttocento, rimane ancorata prevalentemente a modelli tradizionali, condizionati dalla tradizione pittorica di estrazione accademica, quanto sul fronte ben pi incisivo della sua funzione comunicativa, assumendo molto rapidamente una centralit che mai fino ad allora aveva potuto sperimentare. La fotografia, si sa, nel Sistema delle Arti di allora, pagava e avrebbe pagato ancora per un pezzo antichi pregiudizi6, il suo essere frutto di pratiche sostanzialmente meccaniche, scarsamente spiritualizzabili, se non attraverso artificiose manipolazioni pittoriche, in fase di ripresa (attraverso luso di filtri, sfocature, pose), ma soprattutto di post-produzione (attraverso il fotomontaggio, la stampa materica, il diretto intervento pittorico), insomma tutto ci che poteva contribuire a ridimensionare nellimmagine finita lingombrante aderenza al referente materiale, rendendo cos pi evidente e centrale linterpretazione dellineludibile realt fenomenica messa in atto dallartista attraverso una propria sapiente ed elaborata techn.

Nella sua accezione meno benevola, il Pittorialismo fotografico coincide con un complesso dinferiorit che la Fotografia concede al suo parente pi prossimo e fortunato, la Pittura, appunto, espressa in termini dimitazione epidermica di modelli visivi avvallati dalla tradizione artistica pi consolidata. Ma a ben vedere, una tendenza questa, che si riverbera anche nella sfera pi strettamente concettuale, generando una divaricazione netta sul piano linguistico in tutta la pratica fotografica del Novecento, destinata a produrre una Storia della Fotografia a due velocit: da una parte limmagine quadro, dallaltra limmagine concetto, da una parte Stieglitz, dallaltra Duchamp7. Non una Storia con vincitori e vinti, beninteso, i due piani convivono, si intersecano e si contaminano, dando vita spesso a formule di straordinaria potenza visiva e intellettuale, ma la differenza ontologica dei due diversi approcci rimane evidente e sostanziale, a prescindere dai gusti personali e dagli esiti formali. Il Pittorialismo, insomma, non solo il limite fisiologico di una pratica fotografica che deve ancora credere in se stessa, nella propria peculiare ontologia, nella potenza distintiva della propria lingua, ma una condizione intellettuale che concepisce la propria collocazione ideale in un determinato e codificato sistema comunicativo, le cui finalit originarie rimangono sostanzialmente contigue a quelle delle arti tradizionali, Pittura in testa. Esprimere visivamente la propria idea del mondo attraverso un pennello tecnologicamente aggiornato, producendo oggetti quadro, fruibili in contesti e modalit contigui a quelli della Pittura (gallerie, mostre, concorsi, pubblicazioni specialistiche) significa accettarne le regole codificate, e dunque condivise, su un piano istituzionale. Significa contribuire, con altri mezzi, alla plurimillenaria storia dellIstituzione Arte, con il rischio, certo ben pi frequente allepoca rispetto ad oggi, dove il gap pare ampiamente colmato, di doverne abitare le periferie, soprattutto in un Paese largamente dotato di tradizioni artistiche di rilievo assoluto. Viceversa, anche in Italia, nel Sistema della Comunicazione, la prassi fotografica, negli stessi anni aveva gi acquisito un peso specifico ormai ineludibile, e si avviava a diventare il medium privilegiato, in quanto analogon del reale, copia attestativa, ma, soprattutto, messaggio insistito, attraverso la ridondanza dettata dalla sua potenzialmente infinita riproducibilit. LItalia dei primi anni Trenta, e Roma in particolare, sono, infatti, il teatro di una trasformazione epocale, tesa a recuperare rapidamente il ritardo accumulato rispetto alle pi evolute societ estere, ad imporre un nuovo stile di vita, che fosse il frutto della collettiva interiorizzazione dellideologia fascista. E in un Paese ancora scarsamente alfabetizzato, gli strumenti attraverso i quali il regime cerca di imporre alle masse i nuovi modelli esistenziali, non possono essere che quelli della visualit, quelli cio della fotografia, del cinema, della stampa illustrata, del fumetto e della pubblicit, coordinati in un vero e proprio sistema multimediale. La distanza tra le arti tradizionali ed elitarie, pittura in testa, a loro volta indirizzate a precise finalit educative, e le nuove forme emergenti della comunicazione visiva, viene enormemente ridotta, per favorire il conseguimento di una cultura nazionale popolare ed unitaria. Gli italiani, soprattutto nei centri urbani, si trasformano ben presto in fruitori multimediali, di radio, cinegiornali, film e soprattutto di periodici illustrati, che modificano radicalmente i propri contenuti in funzione delle nuove esigenze, affidando alle immagini, e alla fotografia in primis, il piano comunicativo principale, ribaltando di fatto la gerarchia che aveva fino ad allora regolato i rapporti tra cultura letteraria e cultura visiva, tra lite colte e masse popolari8. Limmagine foto-cinematografica in particolare, anche in ragione della natura referenziale che la identifica, il perno attorno cui il regime fa ruotare le sue strategie di comunicazione, ovvero di propaganda, affidandole il compito centrale di testimoniare e veicolare, in Italia e allestero, limmagine rinnovata del Paese, di rappresentare ed esaltare, con presunta fedelt analogica, la nuova societ fascista. Il ruolo attribuito ai media analogici cos vitale alle esigenze politiche, che il regime, gi nel 1924, aveva costituito una specifica istituzione, preposta alla produzione dellimmaginario fotocinematografico fascista, lIstituto LUCE (LUnione Cinematografica Educativa), che simpone indubbiamente come un organismo accentratore e di controllo, ma che costituir una decisa spinta in

senso modernista per tutto lambito della comunicazione, promuovendo anche nuovi e aggiornati moduli formali. Indubbiamente, almeno nellimmediato, lincidenza dei nuovi indirizzi della cultura visiva italiana risulta pi evidente nel campo della fotografia documentaria, meno in quello della fotografia artistica, dove il dibattito, nei circoli fotografici e nelle mostre darte, continua tutto sommato a ruotare su questioni estetiche convenzionali, incentrate sul conflittuale rapporto tra oggettivit ed espressione, vagamente intaccato dal Manifesto della fotografia futurista (firmato nel 1930 dal Filippo Tommaso Marinetti e Tato) e dalle prime timide esperienze moderniste portate avanti dalla nuove generazioni. Ma nel clima culturale appena sommariamente tracciato, il confine tra forma e funzione, tra pratica artistica e professionale, risulta enormemente pi sfumato di quanto oggi siamo abituati a percepirlo, e il trentenne Arturo Ghergo, seppur tecnicamente attrezzato a produrre immagini ad alto contenuto estetico-formale, non manifesta alcuna propensione a condividere le dinamiche tipiche dellambiente artistico. Certo, non possiamo escludere a priori che egli avesse della pratica artistica unidea personale e nozioni affatto specialistiche, anzi piuttosto empiriche, considerata la sua formazione entro la prassi della bottega artigiana, non gi dellAccademia, o degli studi teorici specifici. Dovendo valutare le sue aspirazioni in un quadro definito essenzialmente dai riscontri produttivi, questi ci dicono chiaramente che di sicuro non si considerava un mestierante prezzolato, un semplice commerciante, ma produrre immagini attraverso una pratica esteticamente consapevole e formalmente qualificata non significa automaticamente aspirare a essere un artista. Per fare ci occorre appunto intraprendere, attraverso determinati e codificati meccanismi, un percorso fatto di mostre collettive, concorsi, partecipazione al dibattito estetico costantemente alimentato dalle riviste specialistiche... tutte circostanze, queste, non solo mai riscontrate, ma sistematicamente negate dalle fonti memorialistiche pi vicine a Ghergo, concordi, anzi, nel sottolineare il totale disinteresse del fotografo per siffatte pratiche9. Ed utile anche ricordare che nella sua accezione pi allargata, infatti, lo stesso termine artistico, ai tempi di Ghergo, ha valenza affatto univoca ed spesso indifferentemente riferito a qualunque opera dingegno intellettualmente ed esteticamente qualificata. A differenza di quanto oggi siamo abituati a concepire, insomma, la fotografia artistica al tempo di Ghergo comprende tutta quella prodotta dagli atelier specializzati, dove il piano della formalizzazione tende a sovrastare quello della pura e semplice informazione, e il termine si applica sostanzialmente per distinguerla dalla mera pratica documentaria. Ghergo in definitiva, anche a Roma, rimarr sostanzialmente fedele al modello da cui era partito nella sua Montefano, ovvero la fotografia professionale datelier, concependo il proprio lavoro come una pratica altamente qualificata, dove lintuizione estetico-formale si coniuga con la pi sofisticata perizia tecnica e con i moduli tipici dellorganizzazione artigianale del lavoro. lavoro, appunto, su commissione, svolto con piena coscienza estetica, con lintenzione di creare un carattere riconoscibile, uno stile, ma anche dettato da esigenze commerciali, ovvero soddisfare le aspettative della committenza. Perch la pratica fotografica di Ghergo ruota esclusivamente intorno a questo principio fondamentale, condicio sine qua non della la sua stessa esistenza. Non fotografa per diletto, o per gratificazione spirituale, non vaga in cerca di soggetti attraverso cui esprimere la propria insopprimibile creativit, ma la devolve a richiesta e dietro adeguato compenso a chi riconosce in lui un garante autorevole di un determinato risultato formale. Gli anni dellaffermazione: 1930-1935 Dal punto di vista cronologico il primo riscontro documentato sullattivit di Arturo Ghergo, sembrerebbe contraddire quanto affermato finora, se non si trattasse di un caso isolato, della classica eccezione che conferma la regola. Riguarda, infatti, la sua partecipazione alla Prima Biennale Internazionale dArte Fotografica, allestita a Roma nel dicembre 193210, a Palazzo Venezia, cui, secondo la testimonianza della moglie Alice, avrebbe aderito con una certa riluttanza, su insistenza di

amici, e che costituisce lunica occasione di pubblica esposizione della sua opera in un ambito non strettamente professionale, culminata, stando per a informazioni non verificabili, addirittura con un premio11. In ogni caso lepisodio risulta doppiamente rivelatore, testimoniando da un lato la maturit qualitativa raggiunta dalla produzione fotografica di Ghergo gi in quei primi anni dattivit, visto che le otto fotografie esposte hanno comunque passato il vaglio di una giuria qualificata, confermando dallaltro, nonostante gli esiti comunque lusinghieri di quellesperienza, il suo disinteresse per una carriera artistica sganciata dalla pratica professionale. In ogni caso i primi significativi riscontri diretti dellattivit di Ghergo nel campo del ritratto su commissione ci confermano che il successo commerciale della sua impresa piuttosto repentino. In particolare, la pubblicazione, regolarmente accreditata in didascalia, di almeno cinque sue diverse fotografie su varie riviste dinformazione cinematografica, una delle quali in copertina12, ci induce ragionevolmente a ipotizzare che nel 1933, Ghergo disponesse gi di una non trascurabile committenza e di una riconoscibilit in ambito cinematografico, probabilmente maturata allinterno della Cines13. Leda Gloria, Germana Paolieri, Isa Pola, sono le dive italiane del momento, tutte trasfigurate nella tipica estetica di quegli anni, con i volti ammorbiditi dai vaporosi effetti di sfumato, e da un abbondante ritocco manuale, ma anche modulati con sapienza da un uso modernamente plastico della luce, che testimonia una precoce attitudine di Ghergo verso quei modelli di glamour photography, gi affermata nei paesi anglosassoni, che non aveva ancora epigoni in Italia. Ma soprattutto al servizio di una committenza altolocata e facoltosa, quella dellalta societ capitolina, che con ogni probabilit precede cronologicamente, anche se di poco, quella dambito cinematografico, che Ghergo inizia a imporre il proprio modello iconografico, destinato a diventare ben presto un marchio riconoscibile, una sorta di status symbol per chi desidera una rappresentazione lusinghiera di s, nel solco della tradizione del ritratto pittorico, ma nello stesso tempo aggiornata secondo i moderni canoni analogici proposti sulle riviste di moda, soprattutto quelle straniere (Vogue, Harpers Bazaar, Vanity Fair), e sui cineillustrati, ovvero le riviste popolari dinformazione cinematografica. La fortuna di Ghergo sembrerebbe appunto derivare da unimmediata identificazione nelle modalit di rappresentazione da lui proposte da parte di una determinata fascia sociale, economicamente abbiente, desiderosa di apparire e di apparire bene, trasfigurata attraverso specifiche modalit formali idealizzata in un astratto canone di bellezza, spesso supportato dal magico effetto del ritocco manuale ma in ogni caso diretta conseguenza di una formula estetica gi concettualmente compiuta, tecnicamente sofisticata, che indubbiamente configura la sua fotografia come un manufatto di alto artigianato artistico, fotografia darte, come abbiamo visto, secondo i canoni distintivi dellepoca, dove lelemento autoriale, la firma a garanzia del prodotto, acquisisce un peso specifico non secondario, n trascurabile14. dunque fin dora evidente quella che sar la conformazione della committenza di Ghergo, suddivisa quasi equamente in due ambiti apparentemente distinti, ma spesso tra loro tangenti o, addirittura, compenetranti: quello cinematografico, e quello privato-famigliare destrazione aristocratica e altoborghese. Ed proprio la relazione che possibile riscontrare tra questi due ambiti a costituire il piano pi interessante e significativo della proposta fotografica di Ghergo. La sostanziale novit, anche se incomincia fin da subito a manifestarsi chiaramente sul piano dellevidenza formale delle sue immagini, tanto da assumere i connotati di un vero e proprio stile personale, fondamentalmente concettuale, e riguarda la configurazione di un modello di rappresentazione fotogenica che abbandona i canoni tradizionalmente adottati fino ad allora. Il modello del ritratto artistico in auge a Roma al tempo degli esordi di Ghergo, tra la fine degli anni Venti e la prima met degli anni Trenta, infatti quello sostanzialmente identificabile nel lavoro di chi nel campo specifico si era gi affermato nel decennio precedente, come Ghitta Carell, e prima ancora Eva Barrett, entrambe titolari di avviatissimi studi fotografici, meta assidua di quella stessa clientela

elegante e altolocata cui Ghergo aspira per costruire la propria fortuna. Si tratta di una ritrattistica che, pur nelle differenti interpretazioni tonali offerte dalle due fotografe pi impastata e scura quella della Carell, pi high key, quasi sbiadita, quella della Barrett condivide un impianto pittorialista particolarmente accentuato, dove la persistenza di un gusto tardo-liberty sottolineato dal ricorso sistematico a modulazioni vaporose, sfumate, cariche di pesanti interventi grafico-pittorici, di norma dissimulati dalla fibrosit delle carte da stampa, ma che in alcuni casi appaiono particolarmente intensi, esibiti, garanzia di un valore aggiunto manuale, giustapposto alla meccanica analogica della fotografia. Accanto allanacronismo evidente delle due fotografe straniere, in particolare la Barrett, che passer di moda gi alla fine degli anni Quaranta, sono molti i fotografi che a Roma, contemporaneamente allascesa di Ghergo, si specializzano nel campo del ritratto su commissione, come i gi citati Elisabetta Petri e Arturo Bragaglia. Ma soprattutto il dalmata Elio Luxardo, dal 1932 a Roma, con un suo studio in via del Tritone, a contendere a Ghergo sia i favori della clientela cinematografica, sia le aspirazioni a conseguire risultati estetici personali e riconoscibili15. in ogni caso, quella appena evocata, una ritrattistica che, con le dovute distinzioni, ha gi abbandonato la retorica dellambientazione esotica, degli oggetti simbolici, e si affida, seppur timidamente, allo specifico fotografico della composizione, della posa e della costruzione luministica delle atmosfere, oltre che al maquillage fornito dal ritocco manuale. Ma proprio questultimo costituisce il primo sostanziale discrimine, tra la pratica tradizionale, a destinazione privata o tuttalpi famigliare, e le nuove esigenze della cultura di massa. Per Ghergo il ritocco non rappresenta unesibizione di techn artigianale, il valore aggiunto, spiritualizzante, il taumaturgico marchio del faber, che riscatta loggetto fotografico dalla sua brutale e arida meccanicit, bens uno strumento ausiliario, un espediente tecnico da secretare quanto pi possibile nella forma finita dellimmagine. un atto pragmaticamente asservito al raggiungimento di un predeterminato effetto visivo, una fotogenia ideale, oltre che, naturalmente, volto al compiacimento delleffigiato, che ama soprprendersi della sua naturale avvenenza. Specialmente se limmagine in questione parte di una precisa strategia comunicativa, come nel caso del ritratto dattore, prodotto spesso su specifica richiesta dellindustria cinematografica. cio parte, spesso parte determinante, di una sofisticata operazione di marketing, che trova compimento alla propria funzione primaria nella diffusione su larga scala, veicolata dai media popolari in centinaia di migliaia di esemplari, con un grado di incidenza irradiato su tutto il sistema della cultura visiva, sia quello colto sia quello popolare. Lintuizione di Ghergo sta, a nostro avviso, proprio in questi termini. Muovendosi entro un ambito specialistico e dovendosi anche confrontare, per tentare di emergere professionalmente, con una tradizione figurativa, stabilizzata in forme rigidamente codificate, egli appare fin da subito propenso a giocare su due distinte sponde dialettiche, su polarit apparentamente contraddittorie, costituite da una parte da una committenza elitaria e conformista, in particolare quella del gran mondo, dallaltra da moduli linguistici ad ampia fruibilit popolare, riscontrabili proprio nei modelli proposti dalla ritrattistica dambito cinematografico, quella degli Studios hollywoodiani in primis, che iniziano a diffondersi attraverso le riviste, ma, soprattutto, veicolati dai gadgets promozionali (cartoline, calendari, figurine...), contribuendo allaffermazione di uniconografia basata su canoni di fotogenia completamente rinnovati, che attingono in modo consistente ai modelli del divismo internazionale. Grazie a questa formula, allunificazione delle differenziate e specifiche funzioni della sua produzione fotografica sotto ununica estesa nozione di glamour, la sua fortuna commerciale e la riconoscibilit del suo stile si possono dire conseguite alla met degli anni Trenta, che lo vede gi pi volte autore accreditato sulle pagine dei pi popolari periodici dinformazione cinematografica, come Excelsior, Piccola, Stelle, Zenit, Lo schermo, Leco del cinema, Kinema, Cinema Illustrazione e

Novella, e spesso in copertina, con ritratti di dive del calibro di Isa Miranda, allora lattrice italiana pi la page, lunica in grado di competere con gli inarrivabili modelli doltreoceano16. Hollywood in via Condotti. Il glamour autarchico. La prima inequivocabile novit concettuale e insieme formale della fotografia di Ghergo , come detto, labbandono della retorica iconografica di derivazione pittorica, dei suoi abituali apparati kitsch, e di qualunque significanza extrafotografica, in favore di una costruzione dellimmagine sofisticata e al contempo sobria, composta con cura geometrica, dove la luce a plasmare la forma, a segnare il discrimine tra lordinario e lo straordinario. Una luce che non si piega mai alle esigenze estetiche di una fisiognomica imperfetta per quello c il ritocco manuale e meno che mai ai nuovi indirizzo auspicati dal regime, nel tentativo di ridefinire un modello femminile matronale, negli anni pi intransigenti dellautarchia. Prima di Ghergo la nozione stessa di fotogenia17 si basava su canoni differenti, legati ancora pesantemente alliconografia cinematografica del cinema muto e del teatro. Il pesante trucco facciale, le espressioni caricate, le pose plastiche e la gestualit affettata, tutto lartificioso armamentario messo precocemente in ridicolo dalla macchietta di Gastone, che Ettore Petrolini porta sulle scene gi nel 192418, costituisce il modello divistico imperante nellItalia dei primi due decenni del secolo, passato definitivamente di moda, e in parte assorbito da quello importato dagli Stati Uniti, attraverso uno star system di matrice prevalentemente industriale. Proprio le esigenze dellindustria cinematografica delle majors, produce infatti una prima sostanziale evoluzione della rappresentazione fotografica dellattore proponendo nuovi modelli estetici, in linea con una pi generale evoluzione del gusto modernista internazionale che dallArt Nouveau era giunto al Dco. A Hollywood, prima che altrove, il divismo del cinema sonoro trova spazio fuori delle sale, attraverso strategie di lancio del divo famoso, tramite la diffusione della sua immagine nei cineillustrati e nei rotocalchi popolari (negli Stati Uniti gi da tempo veicolo privilegiato di comunicazione di massa), nei quali la fotografia conquista un ruolo centrale, attraverso cui inventare il glamour, fornire informazioni personali sui divi, non importa se di pura invenzione, e far nascere limmagine della donna moderna ed evoluta, emancipata dalla dipendenza maschile, con il corpo snello, sportiva, che fuma e guida lautomobile. Sui principali periodici dellepoca, dai sofisticati magazines di moda come Vogue, Vanity fair, Harpers Bazaar, ai pi popolari Silver Screen, Modern Mirror, Movie Mirror, Screenland, Hollywood Tatler, il nuovo modello divistico assume i contorni di una vera e propria mitologia, costruito su un ideale di bellezza algido e sofisticato, quasi astratto, comunque intangibile, su cui il comune mortale non pu fare altro che sognare. Per ottenere questi risultati, e per praticarli su vasta scala commerciale, lindustria cinematografica statunitense gi negli anni Venti si affida a specialisti del genere, li ingaggia stabilmente tra le proprie file, come parte integrante della produzione. I ritratti vengono realizzati direttamente negli studios, in specifici set, contigui a quelli in cui si gira effettivamente il film, utilizzando il parco luci gi presente in loco, da fotografi che ben presto acquisiscono riconoscibilit, e uno status autoriale ben definito, prima fra tutte Ruth Harriet Louise della MGM19, e contribuiscono a configurare una tipologia estetica i cui caratteri ricorrenti sono fondamentalmente trasferiti dalle atmosfere cinematografiche. Amplificate dalla fissit iconica, le pose scultoree e coreutiche, gli abbigliamenti eleganti, le espressioni distaccate, i gesti sofisticati, le forme sensuali esaltate da marcati contrasti di luce, sono gli elementi che concorrono a stabilire una vera e propria personalizzazione del cinema nella figura del divo effigiato, e con essa il primato commerciale e culturale del cinema statunitense nel mondo. Parallelamente, iniziava ad assumere unidentit pi connotata la fotografia di moda (fashion photography), non solo attraverso le riviste specializzate (Harperss Bazaar, Vogue) e fotografi come Adolf de Meyer, Edward Steichen, George Hoyningen-Huene, Horst P. Horst ma anche presso la stampa pi

popolare, in cui compare con frequenza crescente, non definendo una precisa linea di distinzione da quella glamour, di cui condivide molti caratteri sia formali che concettuali. per questa via, dunque, prevalentemente popolare, veicolata sui rotocalchi di tutti i paesi occidentali, che la glamour e la fashion photography arrivano in Italia tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, ovvero nel pieno di una fase in cui il regime fascista si prefigge con sempre maggiore consapevolezza di incarnare una via nazionale al modernismo, fondata su valori coerenti con la tradizione culturale latina, facendo dellideale estetico un veicolo di propaganda politica che avrebbe dovuto favorire la presunta nascita di una nuova razza italica. La diffusione del canone fotogenico fondato sul glamour, coincide con ladozione da parte dellindustria cinematografica nazionale, in accordo con le aspirazioni del regime, dei modelli dello star system statunitense, con lintento di favorire laffermazione in Italia di un analogo processo culturale, in considerazione della sua presa sulle masse popolari. La creazione di un divismo nazionale, che si adatter ben presto ai rigidi canoni autarchici imposti dal fascismo a partire dalla met degli anni Trenta, sar affidata, come per il modello originale, alla fotografia, quella di scena, allora definita si gira, e al ritratto dattore, entrambi diffusi massivamente attraverso i periodici, ma anche attraverso altri veicoli, ugualmente di larga presa popolare, come cartoline, figurine, manifesti, riprodotti in migliaia di esemplari, spesso firmati dal divo effigiato e fruiti come vere e proprie immagini devozionali. Nelle rinnovate dinamiche produttive del cinema italiano, dunque, ancora la fotografia a svolgere il ruolo centrale nella divulgazione dei nuovi modelli estetici di riferimento. Ma non serve pi la fotografia darte, pittorialista, improntata a criteri formali ed espressivi derivati dallestetica accademica o del modernismo tardo-ottocentesco, serve, piuttosto, una via autarchica alla glamour e alla fashion photography che esprima un nuovo stile nazionale, moderno, portatore di nuovi valori, ma non in senso iconoclasta rispetto alla tradizione, informato degli indirizzi novo-classicisti che larte italiana del Ventennio stava proponendo. La fondazione di Cinecitt, inaugurata nel 1937 sotto i monumentali proclami mussoliniani che attribuiscono al cinema il ruolo di arma pi forte, sancisce linizio di questa nuova et delloro, e proietta il cinema italiano nella competizione globale, sia economica, ma soprattutto ideologicoculturale, costringendolo ad adeguarsi alle pi moderne strategie comunicative. Le principali case di produzione cinematografiche italiane, Cines, Titanus, e pi tardi Scalera, Lux, ICI, si attrezzano per alimentare questo florido mercato attraverso vere e proprie campagne pubblicitarie a base di anticipazioni fotografiche dei film in lavorazione. Ma soprattutto al ritratto da studio, curato nei minimi dettagli formali, che si tende ad affidare limmagine pubblica del divo, e per questo ci si rivolge agli specialisti, soprattutto a quelli che hanno gi saputo adeguarsi alle nuove e moderne iconografie provenienti doltreoceano. Come lo era gi stato per la glamour photography hollywoodiana, dove la gallery, sorta di catalogo iconografico dei divi di propriet di questa o quella major, costantemente rinnovato ad ogni nuovo lancio di film, costituiva lo strumento tipico della sua applicazione pubblicistica, anche in Italia sono le gallerie fotografiche, proposte dai cineillustrati a gruppi di quattro ritratti per pagina, a caratterizzare gli indirizzi della periodistica popolare, ma spesso, quando limmagine risulta particolarmente potente, gli si riserva volentieri lintera pagina, magari quella centrale, da staccare e conservare appesa alla parete. Laumento consistente della richiesta di ritratti fotografici per utilizzi specifici dellindustria cinematografica corrisponde, naturalmente, a un incremento esponenziale degli studi specializzati, soprattutto a Roma, che a partire dalla met degli anni Trenta, dopo oltre un decennio di declino, e anche grazie alla politica contributiva messa in atto dal regime, poteva aspirare di nuovo agli antichi fasti dellepoca doro del cinema muto. Lelenco dei fotografi ritrattisti, come entit singole o come studio, che risultano regolarmente impiegati a Roma dalle case di produzione cinematografiche, in un

periodo compreso tra la met degli anni Trenta e la fine del secondo conflitto mondiale, comprende, oltre ad Arturo Ghergo, certamente i nomi di Elio Luxardo, Arturo Bragaglia, Ampelio Ciolfi, Manlio Villoresi, Tito Venturini, Pasquale De Antonis, Emanuel, stando solo a quanto riportato nellAlmanacco del Cinema italiano del 1943, tutti riscontrabili con grande frequenza sulle pagine dei cineillustrati. Anche Ghergo, evidentemente, avrebbe beneficiato del nuovo fortunato corso della produzione cinematografica nazionale, rivelandosi assai precocemente il pi oculato interprete delle nuove esigenze iconografiche del nascente divismo autarchico. A partire dalle gi citate fotografie pubblicate nel 1933-1934, il ritratto dattore costituir per lui, come detto, una pratica costante che raggiunge il suo massimo sviluppo quantitativo negli anni 1938-1943, per poi bruscamente contrarsi, ma solo sul fronte dellutilizzo pubblicistico, a partire dal 1944, probabilmente in ragione dei nuovi indirizzi iconografici imposti dalla cultura neorealista, fin troppo ansiosa di troncare i legami con ci che laveva preceduta, senza per questo minimamente intaccare le preferenze della sua affezionata committenza. La fase autarchica del cinema italiano, improvvisamente liberato dalla concorrenza delle majors statunitensi, ritiratesi dal mercato a seguito dellintroduzione del Monopolio, avvenuta alla fine del 193820, comporta automaticamente unartificiosa espansione della produzione nazionale, che ai modelli culturali anglosassoni, fino ad allora sinonimo di modernit e fonte di pressoch acritica emulazione da parte delle masse popolari, contrappone lamplificazione del divismo nostrano, forse ben oltre le proprie effettive possibilit, e determina un conseguente adeguamento dei media rispetto ai nuovi scenari indotti dalla politica protezionistica del fascismo. Improvvisamente, sulle pagine dei cineillustrati, fino ad allora prevalentemente occupate dai divi doltreoceano, ritratti dai maestri del glamour hollywoodiano, a turbare i sogni di impiegati e massaie, arriva una nuova schiera di dive e divi nostrani, che, quantomeno sul piano iconografico, fanno del loro meglio per non far rimpiangere i loro colleghi stranieri, attingendo a piene mani alle efficaci formule fotogeniche dimportazione. Questo enorme incremento della richiesta da parte dellindustria cinematografica italiana, corrisponde per Ghergo ad una lunga stagione di riconoscimenti professionali che anche dal punto di vista puramente commerciale sar certo stata di qualche soddisfazione riscontrabili attraverso le molte immagini pubblicate su un gran numero di riviste, per un elenco di attrici ed attori che coprono praticamente tutto lo star system nazionale, da Isa Miranda a Mariella Lotti, e poi Leda Gloria, Alida Valli, Marina Berti, Assia Noris, Maria Denis, Marisa Merlini, Valentina Cortese, Clara Calamai, Doris Duranti, Isa Pola, Paola Barbara, Adriana Benetti, Carla Del Poggio, Carla Candiani, Lea Padovani, Iole Voleri, Elli Parvo, Vivi Gioi, Vera Carmi, Massimo Serato, Rossano Brazzi, Amedeo Nazzari, Massimo Girotti... Sono solo i nomi pi eclatanti di un catalogo che non sfigurerebbe troppo con quello del Don Giovanni mozartiano, soprattutto se consideriamo accanto a questi anche tutti i nomi delle innumerevoli aspiranti star che sfilano davanti al suo obiettivo in quegli anni, tutte trattate con identica perizia professionale, trasfigurate dal Ghergos touch, in sofisticate entit semidivine. Naturalmente, per quanto indice significativo e non trascurabile, la destinazione editoriale della fotografia di Ghergo dargomento cinematografico non era quella esclusiva, n quella delle riviste una committenza diretta, quanto piuttosto un semplice veicolo di diffusione delle strategie promozionali concepite dalle case di produzione. Anche in anni meno fortunati dal punto di vista della pubblicazione delle sue fotografie da parte della stampa dargomento cinematografico, Ghergo ha indubbiamente continuato a produrre un enorme numero di ritratti dattore, con funzioni pratiche differenziate, che vanno dallo star portrait per chi si gi affermato, e deve accontentare i fans, al portfolio di immagini per le aspiranti attrici, alla prova di fotogenia21 o al vero e proprio provino fotografico per verificare la compatibilit con uno specifico ruolo, oltre che, naturalmente, alle fotografie richieste direttamente dalle singole personalit del mondo cinematografico, per usi privati, incluso il vanitoso compiacimento di figurare come inclusi nel gi evocato catalogo gherghiano. Per tutti loro, essere

fotografati da Arturo Ghergo, aveva certo anche valore di affermazione personale, una sorta di elezione sociale e culturale da cui trarre beneficio non solo pratico, ma anche spirituale. Solo Elio Luxardo, a Roma, in quegli stessi anni, pu minimamente pretendere di contendergli i favori della committenza cinematografica. Alla compostezza e al rigore formale della fotografia di Ghergo la sua si presenta come una sorta di contraltare, laltra faccia, complementare, del glamour nostrano, un po barocca, spesso al limite del kitsch, ma di grande efficacia evocativa quando si tratta di trasmettere il turbamento erotico, materico, emanato dal volto di Doris Duranti, o la sensualit allusiva, adolescenziale di Maria Denis. un glamour virile, carnale, quasi anticipatore di certi esiti da girlie magazines, che spesso e volentieri necessita dellelemento scenografico, della simbologia oggettuale, per poter essere gustato completamente, del tutto opposto a quello tutto mentale di Ghergo. Macchine fotografiche e macchine da presa Il rapporto di Arturo Ghergo con il cinema non rimane circoscritto allesclusivo ambito del ritratto dattore, e registra un coinvolgimento che, anche se scarsamente documentato, lo vedrebbe impiegato su alcuni set con mansioni afferenti al campo di cui un indiscusso specialista, quello cio dellilluminazione scenica. In questa veste accreditato nei titoli di testa de La fuggitiva22, una produzione ICI del 1941, girata presso gli stabilimenti FERT di Torino per la regia di Piero Ballerini, espressamente voluto dalla protagonista Jole Voleri, che a Ghergo ha in quegli anni praticamente affidato lesclusiva della propria immagine fotografica23. Le memorie della moglie Alice gli attribuiscono un ruolo ancora pi specifico, quello di operatore cinematografico, almeno per il film di Carmine Gallone Le due orfanelle, girato nel 1942 a Cinecitt, dove, sempre secondo la sua testimonianza, verrebbe chiamato addirittura a sostituire il celebre Vaclav Vich24. In realt, al di l della testimonianza citata, non abbiamo trovato alcuna documentazione ufficiale che possa attestare un coinvolgimento diretto di Ghergo al film in questione, in cui loperatore ufficialmente accreditato risulta essere laltrettanto celebre Anchise Brizzi. Tuttavia, della presenza di Ghergo dietro una macchina da presa rimangono molte fotografie, sia per il film di Gallone, sia per quello di Ballerini, e anche per il film desordio di Alberto Lattuada, Giacomo lidealista25, girato sempre alla FERT di Torino nellestate del 1942. Il diario tenuto in quegli anni da Alice appunta le frequenti permanenze del marito a Torino e poi a Cinecitt, durante tutto il dicembre del 1941, per le riprese di un altro film di Gallone, Harlem, che uscir due anni pi tardi, ma anche in questo caso non dato di sapere in che veste26. Alice racconta anche di quanto questa nuova attivit coinvolgesse il marito, facendo espressamente riferimento al parallellismo fra macchina fotografica e macchina da presa, e di come nonostante linesperienza nel campo cinematografico, Ghergo riuscisse a ottenere ottimi risultati professionali. questo, temiamo, un mistero destinato a rimanere tale, data la scarsit e la contraddittoriet delle fonti consultabili. Sarebbe anche plausibile lipotesi di un Ghergo impiegato in queste occasioni prevalentemente nel suo ruolo abituale, quello di fotografo ritrattista, eccezionalmente operativo fuori dal proprio studio, direttamente sui set, per esigenze inderogabili della produzione e, a suffragio di questa tesi, vi sarebbe pure il contributo di Dario Reteuna, che nel suo Cinema di carta. Storia fotografica del cinema italiano, segnala come non del tutto occasionale la presenza di Ghergo su altri set, dal 1936 al 194327. Ma in archivio, verificando le intere serie fotografiche, non ci sono tracce dimmagini realizzate al di fuori dello studio di via Condotti, e anche le fotografie pi strettamente e chiaramente legate alla promozione di un film il ritratto di Mariella Lotti negli abiti di scena de La Gorgona, la Miranda in quelli di Senza Cielo e di Zaz, lAmedeo Nazzari in quelli di Caravaggio pittore maledetto sono state evidentemente scattate allinterno dello studio.

Tecnica e prassi. Il lavoro di studio. Lapproccio di Ghergo al ritratto, a prescindere se il soggetto sia o meno appartenente al mondo dello spettacolo, si fonda sempre su modelli fotogenici di derivazione divistica, in cui pu esprimere appieno la sua formula iconografica, codificabile nelle sue linee guida attraverso alcuni specifici elementi fondanti: prevalenza di primo piano, focalizzazione sullo sguardo, accurata composizione geometrica su direttrici diagonali, assenza di elementi scenografici, gestualit sapientemente coreografate, composta eleganza delle pose28. Il risultato prefisso quello di conferire alleffigiato quellalterit indispensabile a renderlo una pura icona, immateriale concrezione di sostanza luminosa. Gli espedienti retorici sono esclusivamente affidati proprio alla luce, avvolgente, misterica, a volte vagamente simbolica. Il resto lo fa il ritocco manuale, vero e proprio intervento di chirurgia estetica, materialmente eseguito sulle carni vive della pellicola fotografica e poi dissimulato con ulteriori espedienti pittorici, e sapienza dalchimista. I fianchi e le braccia si sfinano, i seni si sollevano, la pelle diventa liscia come seta, gli occhi brillano di una luce profonda, soprannaturale... indubbio che tutta la fotografia di Ghergo si fondi su unassoluta padronanza del mezzo, sia in fase di ripresa, che nelle elaborazioni successive che ne configurano la forma finita. Dal punto di vista della tecnica, uno straordinario performer, non nel senso dellostentazione virtuosistica, tuttaltro, quanto nellapplicazione rigorosa di una prassi quasi rituale, in cui la perizia artigiana, asservita completamente alla paziente ricerca di un determinato risultato formale, sintesi di espressione, posa, atmosfera, sguardo. Le sedute di posa, racconta ancora Alice nelle sue memorie, erano spossanti non di rado lattrice fotografata finisce quasi per svenire dallo sforzo al quale sottoposta sotto le luci calde dei proiettori. Questo il momento migliore per ottenere lespressione voluta: la volont del soggetto non si oppone pi alla volont del fotografo29. Le modalit di ripresa sono sempre le stesse, nello studio di via Condotti, c una pedana, un fondale di gesso, due lampade da 500 watt, una di sfondo per illuminare il controluce, una poltrona, una sedia a sdraio... Ghergo posiziona il soggetto e inizia a comporre linquadratura, a plasmare la luce, schermandola con le mani per ottenere ombre e tagli incisivi. Usa una vecchia macchina in legno, di formato 18x2430, su cui pu montare il suo obiettivo preferito, un Hermagis, che, anche a diaframma tutto aperto, gli consente di ottenere unincisione pi profonda sui piani sfocati. Solo negli ultimi anni le affiancher una pi moderna Linhof, sempre dello stesso formato. Ghergo scatta solo quando veramente sicuro dellimmagine che si materializza diafana sul vetro smerigliato della macchina. Lesposizione lunga, uno o due secondi, in cui il soggetto, una volta raggiunta la posa e lespressivit desiderata, deve restare immobile per scongiurare il rischio del mosso. I materiali sensibili sono inizialmente lastre di vetro e poi pellicole Ferrania o Gevaert, che appena impressionati vengono sviluppati dallassistente di studio, per verificare immediatamente il risultato conseguito31. Lo studio Ghergo funziona come un laboratorio artigiano. Ha regolarmente almeno due assistenti, che attendono alle mansioni tecniche di routine, sviluppo, ritocco, stampa, delle fotografie realizzate dal titolare, ma anche ai servizi esterni, come i matrimoni, dove Ghergo si limita al ritratto ufficiale della sposa, in studio o a casa di questultima, affidando la parte relativa alla cerimonia quasi sempre ai propri dipendenti. Dal 1941 questo ruolo fondamentale verr ricoperto da Antonio Bosco, detto Tonio32, destinato ad assumere competenze determinanti e di assoluta incidenza sul risultato finale della produzione fotografica dello studio. A Tonio vengono, infatti, affidate molte delle fasi che seguono la ripresa, a partire dallo sviluppo e stampa del negativo, questultima prevalentemente eseguita a contatto, mediante luso di un bromografo, e pi raramente, secondo le abitudini dellepoca, ingrandite per proiezione. Se sempre Ghergo che imposta sul piano concettuale i tagli e le correzioni direttamente sul negativo per eliminare le imperfezioni che lobiettivo ha registrato impietoso33, ancora Tonio che completa il lavoro di ritocco, ridisegnando i contorni con la matita su una base di mattoleina34, stesa sullemulsione per consentire alla grafite di fare presa, e sfumando le

zone incise per dissimulare lintervento chirurgico. La stampa, su carte morbide a superficie opaca, su cui alloccorrenza si interviene ancora con sapienti tocchi di ferrocianuro, eseguiti a pennello, completa il processo. Per tutte queste ragioni, in considerazione della complessa articolazione delle procedure appena descritte, la fotografia di Ghergo, intesa come opera finita il risultato di una prassi codificata e, soprattutto stratificata, che non si risolve unicamente in fase di ripresa. Sono modalit produttive ampiamente diffuse e condivise dai suoi colleghi, che non mettono certo in discussione la piena autorialit dellopera, frutto di un lavoro a pi mani, di ruoli differenziati e organici, ma di cui Ghergo resta naturalmente il gestore concettuale, il fondamentale responsabile e garante del risultato finale. lui il demiurgo che individua le significanze estetiche e concettuali, e le traduce in unicona definita e preposta ad assolvere specifiche finalit, n pi n meno di come accadeva nelle botteghe artigiane del Cinquecento. Il culto della bellezza Se gli anni 1938-1943 avevano significato per Ghergo la massima esposizione mediatica delle sue immagini, attraverso la loro frequente pubblicazione sui cineillustrati, gli anni successivi, e limmediato Dopoguerra, testimoniano, come detto, una decisa contrazione in termini di visibilit della sua fotografia, che investe fondamentalmente solo il campo del ritratto dattore. I modelli fotogenici di Ghergo, ma pi in generale quelli di derivazione hollywoodiana, vengono messi in discussione dal nuovo corso del cinema italiano, e dallestetica Neorealista in particolare, che guardano al glamour autarchico come a un residuo di un passato che si vorrebbe rimuovere in tutta fretta. La nuova iconografia divistica, pur non avendo sostanzialmente modificato la propria nomenclatura, attinge a una tipologia di rappresentazione pi diretta, in accordo con le mutate funzioni del cinema, non pi luogo di mitologie e favole consolatorie, ma potente strumento politico-pedagogico, in cui la centralit del canone realista non pu che emarginare le atmosfere sofisticate e le algide icone che solo due anni prima erano ancora il fulcro dello star system nazionale35. Tuttavia, nonostante i tempi siano meno favorevoli, la firma di Ghergo, nel privato, continua a riscuotere un successo immutato. Saranno ancora molte, infatti, le divinit del cinema italiano, vecchie e nuove, che fino a tutti gli anni Cinquanta busseranno alla porta dello studio di via Condotti, per sottoporsi ai trattamenti di bellezza garantiti dal Ghergos touch: Silvana Mangano, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Silvana Pampanini, Silva Koscina, Eleonora Rossi Drago, Annamaria Ferrero, Rossella Falk... e anche tutte le nuove leve del cinema italiano, non pi autarchico, e di nuovo in sintonia con i mercati internazionali, non perderanno loccasione di essere immortalate dallobiettivo di Ghergo, che, ad onta delle abitudini nazionali, rimane fondamentalmente fedele al suo stile, continuando a testimoniare il proprio personale e incrollabile culto della bellezza. Una bellezza non necessariamente reale, frutto di analogica registrazione chimico-fisica, ma costruita faticosamente con la luce (e il bisturi), artificiosa, sublimata e immaginifica, che risiede gi nella mente di Ghergo, prima che nella fisionomia delleffigiato. In questi anni, in cui il rapporto con la celebrazione divistica per via fotografica imbocca altre vie, la committenza dellalta societ, non solo romana, che peraltro non lo aveva mai abbandonato, anche negli anni precedenti, acquisisce una ancor maggiore centralit nella produzione di Ghergo. La gamma delle funzioni cui lo studio assolve nella sua pratica quotidiana comprendono tutti i campi della fotografia privato-famigliare, documentando i suntuosi matrimoni del Gran Mondo, seguendo le tappe di crescita dei figli, immortalando le pi importanti personalit di quellambiente, nella manifestazione determinata del loro status sociale.

Nella galleria gherghiana trovano posto anche molti rappresentanti delle istituzioni, come lallora presidente della Repubblica Luigi Einaudi, o ministri come Alcide De Gasperi, un giovane Giulio Andreotti, Mario Scelba, nonch Pio XII, ritratto nel 1939 per unimmagine ufficiale. Ma anche in questo ambiente esclusivo e rigidamente classista, non v dubbio che il soggetto femminile sia per Ghergo il prediletto, quello in cui meglio esprime tutto il suo fervore creativo, lo zelo compositivo, il carisma del metteur en scne. Al posto delle pose austere, ingessate, prevalentemente frontali, adottate fino ad allora dalla ritrattistica celebrativa, il Gran Mondo fotografato da Ghergo si misura quasi sempre con lallure delle dive cinematografiche, nelle espressioni, ora suadenti ora altere, nelle inquadrature scorciate, nei plastici tagli di luce, e nei geometrici ritmi compositivi. Tutto concorre a conformare una nuova e pi moderna nozione di fascino, in cui la nuova classe dominante, e soprattutto, com naturale, la sua componente femminile, si lascia trasfigurare, apparentemente senza opporre resistenza, anzi, calandosi felicemente nella parte. proprio la compenetrazione di questi due mondi, separati per censo dalla nascita, ma evidentemente riunificati da una nuova e pi allargata concezione di jet set, che consente a Ghergo di configurare uno stile unitario, e di applicarlo senza sostanziali soluzioni di continuit, sia che il soggetto fosse la diva del momento, da esibire sulle pagine patinate dei settimanali popolari, sia che fosse una rampolla della nobilt nera, desiderosa di aggiornare la propria immagine in ossequio a nuovi e meno rigidi costumi sociali. Spesso, per queste ultime, loccasione costituita da un abito, indossato in veste di testimonial per le nascenti case di moda Fontana, Gabriella Sport, Galitzine, Simonetta, Carosa, Botti, Ventura, Gattinoni36 ed allora ancora pi facile abbandonarsi al glamour tipico della fotografia haute couture, imitando le pose delle modelle viste su Vogue o su Harpers Bazaar. Del Ghergo anticipatore della nascente fotografia di moda molto si gi scritto37, e non c pubblicazione sullargomento che non lo comprenda tra gli autori significativi per levoluzione di quellambito specifico38. In realt, il suo coinvolgimento nelle strategie comunicative dellallora nascente industria della moda sembra piuttosto estemporaneo e occasionale, pur risultando, a posteriori, unindispensabile fonte di documenti storici sullevoluzione del costume nazionale. Anche se di fatto realizza un gran numero di immagini chiaramente incentrate sulle creazioni sartoriali, quando non direttamente su commissione degli stessi atelier, come ad esempio quello delle sorelle Fontana, non adotta un linguaggio fotografico differente da quello abituale, rendendo cos le immagini di moda completamente assimilabili al resto della sua produzione di studio. Anche se in Italia non esistevano, almeno fino alla met degli anni Sessanta, dei magazines specialistici che potessero tenere il passo dei loro celebrati modelli stranieri, il gusto imposto dalla fashion photography internazionale, si poteva, in tono minore, comunque riscontrare sulle pagine di quelle riviste, come Dea, Eva, La Donna, e soprattutto Bellezza, che almeno nelle intenzioni degli organi di Stato, Ente Italiano della Moda in testa, avrebbero dovuto promuovere una via nazionale e ancora una volta autarchica, alleleganza. Fin dai primissimi anni Quaranta, gli sforzi in questo senso non lasciano nulla dintentato, concependo la pubblicistica di settore come uno dei veicoli trainanti della riscossa industriale e insieme culturale italiana. Fondato nel 1941, Bellezza viene affidata ad un direttivo che vede tra le sue fila personalit del calibro di Cipriano Efisio Oppo, Gio Ponti, Lucio Ridenti, Irene Brin, Anna Banti, Elsa Robiola, e mostra subito un uso sufficientemente evoluto della fotografia, spesso stampata a tutta pagina, in un impianto impaginativo moderno ed efficace. I fotografi regolarmente accreditati sono molti, spesso autori dinteri servizi, con ambientazioni in esterni non troppo lontane se non negli esiti formali, quantomeno nelle intenzioni dallo spirito dei loro colleghi doltreoceano. Oltre ai servizi interni, firmati con il logo della testata, questi rispondono ai nomi di Crimella, Pallavicini, Ridenti, Bogino, Emmer, DAragona, Luxardo, Porta, De Antonis. Di Ghergo poche, casuali tracce, prelevate direttamente dalle sue ormai celebri gallerie di varia nobilt. Ancora una volta, dunque, egli non sembra disposto a farsi coinvolgere direttamente dai meccanismi industriali, preferendo lasciare il segno del suo stile attraverso il solito veicolo, che diventa modulo

stilistico, del ritratto privato. Le sue modelle porteranno cos i nomi altisonanti del gran mondo, saranno una giovanissima Marella Caracciolo, non ancora signora Agnelli, Consuelo Crespi, Mary Colonna, Jos del Drago, Irene Galitzine, Mariella Dentice di Frasso, Pepita Ruspoli, in un immaginario defil di all star della mondanit. Dal 1947 se ne trovano frequenti tracce proprio sulla rivista che di quellambiente una sorta di bollettino, Gran Mondo39, appunto, pubblicazione trimestrale, dedicato alla vita (bella) e alle opere (poche), dellaristocrazia italiana, ancora per qualche anno magister elegantiarum, riverita e vezzeggiata dalle principali case di moda, e modello ambito per una borghesia ancora complessata e succube. Una fine e altri inizi Scrive Ghergo alla moglie Alice, che in visita alla famiglia, trasferita a Rio de Janeiro durante la guerra, nel novembre-dicembre 1957: Il mio lavoro fotografico va discretamente bene. Oggi ho preso persino una ordinazione di 1000 cartoline dalla C.ssa Matarazzo (...) tutte insieme fanno 100.000 Lire! (...) Questa mattina ho fotografato una sposa e questa sera il direttore del Teatro dellOpera, un mio vecchio conoscente di trentanni fa (...) Nella giornata di oggi ho fatto anche il ritratto a una vice direttrice di Bulgari (...) In mezzo ho trovato il tempo per fare la solita spesa. E in unaltra lettera, di qualche giorno dopo Oggi venuto Villani da Bologna e mi ha pagato 912.000 Lire per il noto lavoro ed ha preso gli altri due negativi degli auguri per fare, naturalmente per Ferrania, degli ingrandimenti di 4 x 3 metri, naturalmente diapositivo. La giornata tipo di Arturo Ghergo alla met degli anni Cinquanta ce lo mostra come un professionista affermato. I suoi servizi sono ricercati ed economicamente ben valutati. La sua solida fama di grande ritrattista continua ad assicurargli una florida clientela. Da qualche anno ha iniziato ad affrontare il colore, sempre in grande formato, e la circostanza gli consente di approfondire il suo storico rapporto con la Ferrania, che gi aveva utilizzato alcune sue immagini per il catalogo di carte da stampa. Ma il colore, naturalmente, costituisce un problema per le tipiche procedure a cui Ghergo abituato: non si pu ritoccare. Almeno non fino a quando il solito Tonio trova il modo di intervenire sulle emulsioni delle pellicole con i pastelli colorati Stabilo, ottenendo gli stessi stupefacenti esiti del bianco e nero40. Per la Ferrania produrr, sempre a colori, anche alcune immagini pubblicitarie, che lazienda di prodotti fotografici utilizza per realizzare cartoline promozionali dauguri e cartelloni promozionali di grande formato. In questi anni per la passione di Ghergo tutta concentrata su una nuova attivit, questa s assolutamente libera da qualsiasi vincolo pragmatico, la pittura. Da sempre appassionato darte, antica e moderna, frequentatore assiduo di antiquari, nei cui negozi spesso lascia buona parte dei propri guadagni, Ghergo, passati i cinquantanni affida alle tele e ai pennelli la propria nuova stagione creativa, attraverso modelli ben distanti dalla matrice estetica della propria fotografia, accostandosi, seppur timidamente, a quellavanguardia, in particolare ad alcune suggestioni post-cubiste, su cui, nellattivit professionale, non avrebbe potuto indugiare41. Il confronto serrato che in questi ultimi anni intrattiene con i due mezzi espressivi gli suggerisce un progetto per un non meglio definito libro sulla luce. Ma quella della pittura destinata a restare una svolta incompiuta nella sua vita artistica, che si manifesta in forma finita, in appena cinque tele, perch a met del 1958 Ghergo si ammala e nel gennaio del 1959 muore. A ulteriore riprova della matrice professionale della sua fotografia, il suo nome, anche dal punto di vista strettamente commerciale, ovvero il logo dello studio, destinato a sopravvivergli almeno per altri quindici anni, attraverso il lavoro della moglie di Arturo, Alice Barcinska, che prende le redini dellattivit, sempre affiancata da Tonio, in assoluta continuit con lestetica del marito. In realt, il ruolo di Alice, anche prima della morte del marito, non era stato affatto marginale, e laveva vista fin dalla fine degli anni Trenta assumere mansioni e competenze specifiche nella distribuzione del

lavoro di studio, soprattutto per un determinato genere di impegni, che non richiedevano espressamente laura del marito. Nata a Lodz, in Polonia, da una ricca famiglia dindustriali tessili, Alice era una ragazza moderna, appassionata di fotografia, abituata fin da giovanissima a viaggiare da sola per lEuropa. Dal 1935 frequentava saltuariamente Roma, dove aveva trovato impiego proprio presso lo studio di Ghergo in qualit di assistente fotografa. Presto il rapporto professionale con il suo datore di lavoro si era trasformato in una relazione affettiva, che era proseguita anche nei lunghi periodi in cui Alice rientra in patria. Lasciata definitivamente la Polonia nel 1939, a seguito dellinvasione nazista, Alice era tornata stabilmente a Roma allinizio degli anni Quaranta e, nel 1944, aveva infine sposato Arturo, da cui avrebbe avuto due figlie, Cristina e Irene. Con la prematura morte del marito, Alice si trova improvvisamente a fare i conti con una gravosa situazione economica e con gli impegni professionali ereditati da Arturo, e decide di farvi fronte con coraggio, riprendendo in mano lantica passione per la fotografia che la vedr da l in poi impegnata in prima persona. La committenza ora prevalentemente circoscritta allambito privato-famigliare del solito gran mondo che le frutter, tra altri successi, il ritratto ufficiale dellultima regina di Libia, la copertina di Paris Match per il ritratto ufficiale di Paola Ruffo di Calabria nel giorno delle nozze con il Principe Alberto, futuro Re del Belgio42 e alle immagini a destinazione pubblicitaria per la Ferrania. Sar ancora lei, negli ultimi anni della sua vita, a redigere lampia memorialistica sul marito, della quale anche questa ricerca si nutrita. Con il proprio impeccabile lavoro Alice garantir la continuit dello studio Ghergo fino al 1975, quando decide definitivamente di abbandonare lattivit, che per verr ripresa solo qualche anno pi tardi dalla figlia maggiore della coppia, Cristina, a tuttoggi affermata ritrattista e fotografa di moda, collaboratrice delle pi importanti riviste del settore. A lei si deve anche il faticoso recupero dellarchivio paterno, dopo anni di abbandono, oggi ritornato alla piena efficienza. E proprio a Cristina toccher, nellagosto del 1999, dopo la morte della madre, lingrato compito di chiudere e smantellare lo storico studio di via Condotti, per proseguire in altri luoghi una splendida storia fotografica lunga settantanni.

Ermanno Ghergo era nato a Montefano nel 1897 e si era specializzato, prima come pittore e decoratore e poi come fotografo, nello studio di Irmeno Perucci a Macerata. Dopo la definitiva partenza di Arturo per Roma, nel 1929, chiuso lo studio di Montefano, Ermanno concentra la propria attivit in quello maceratese, che comunque rimane sotto la dicitura Ermanno Ghergo & F.llo. Continuer lattivit di fotografo fino alla morte, avvenuta nel 1951, partecipando anche a numerosi concorsi, che gli sarebbero valsi premi e lonoreficenza di Cavaliere dellOrdine della Corona dItalia. 2 Non abbiamo nessun riscontro certo relativo alla produzione fotografica di Arturo Ghergo degli anni marchigiani. 3 Di questa prima sistemazione di Ghergo nel tessuto commerciale della Capitale esiste anche una fotografia dellinterno, conservata presso nella collezione di un gallerista bolognese. 4 Le vicende dei fratelli Arturo, Anton Giulio e Carlo Ludovico Bragaglia, tutti e tre variamente coinvolti nei primi anni Dieci nella genesi del Fotodinamismo Futurista, e animatori del milieu artistico davanguardia, sia sul fronte dellimmagine che di quello letterario, sempre risultata di difficile ricostruzione univoca, proprio in ragione della loro multiforme e centrifuga attivit. Tralasciando le imprese di Anton Giulio, uomo di teatro, poliedrico animatore culturale, e, soprattutto, autore del concept teorico del celeberrimo volume Fotodinamismo futurista, materialmente illustrato dalle fotografie dei due fratelli minori, il campo fotografico fu, appunto, prevalentemente di competenza di Arturo, specializzato proprio nel ritratto e nella fotografia di scena, e, pi saltuariamente, di Carlo Ludovico, attivo poi soprattutto come regista cinematografico. I tre fratelli fondarono nel 1918, proprio in via Condotti 21, la Casa dArte Bragaglia, galleria con annesso studio fotografico, attiva fino al 1922 quando Anton Giulio e Carlo Ludovico diedero vita al Teatro degli Indipendenti in via degli Avignonesi, e Arturo, in societ col fotografo Riccardo Bettini, ad un atelier in via Bocca di Leone, una parallela di via Condotti. Nel 1932, lattivit fotografica di Arturo documentata anche in Piazza di Spagna, fino al 1939, quando lo studio

venne ceduto ad un altro fotografo destinato ad una notevole carriera nel campo del ritratto e della moda, il pescarese Pasquale De Antonis. 5 Ghitta Carell era nata a Budapest nel 1899 ed era arrivata in Italia, a Firenze, nel 1924. Qui entra in contatto con il raffinato milieu culturale della citt, frequentando personaggi come Bernard Berendson, Luigi Dalla Piccola, Marino Marini, Giuseppe Ungaretti e si afferma come fotografa grazie ad una foto fatta a un bambino, poi scelta per un manifesto. Da Firenze si trasferisce a Milano, dove diventa la ritrattista preferita dallalta finanza. Dal 1930 a Roma dove apre un proprio studio nel quartiere Flaminio assiduamente frequentato dalla classe dirigente fascista e dalla nobilt romana. Le leggi razziali del 1938 la colpiscono solo in parte: le verr chiesto dal regime di non mettersi troppo in mostra. Vivr isolata fino alla fine della guerra, continuando lattivit di ritrattista restando fedele al proprio stile, ormai ampiamente passato di moda. Se ne va dallItalia nel 1969 per trasferirsi in Israele. Muore in un kibbutz ad Haifa nel 1972. Cfr. Marina Lombardi, Ghitta Carell. La fotografia della maschera, La Tartaruga, Milano 1985. 6 Il poeta francese Charles Baudelaire aveva, in un celebre pamphlet del 1859, sentenziato la sostanziale inadeguatezza del mezzo fotografico a produrre oggetti artistici, in quanto il processo di spiritualizzazione della materia trasmesso dallartista, risultava troppo mediato dalla meccanicit del procedimento che determinava la fotografia. 7 Cfr. C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, Bruno Mondadori, Milano 1999. 8 Cfr. Giuseppe Pinna, Italia, Realismo, Neorealismo: la comunicazione visuale nella nuova societ multimediale, in Enrica Vigan (a cura di) NeoRealismo. La nuova immagine in Italia 1932-1960, Edizioni Admira, Milano 2006, pp. 12-27. 9 Le testimonianze della moglie Alice Barcinska in proposito attestano una sostanziale indisponibilit di Ghergo verso qualunque forma di autopromozione al di fuori del proprio lavoro di studio. Cfr. Alice Barcinska Ghergo, Ritratto di Arturo Ghergo, in Alberto Pellegrini (a cura di), Arturo e Ermanno Ghergo fotografi, Il contastorie, Macerata 1998, p. 20-21. 10 La Prima Biennale Internazionale dArte Fotografica, Indetta dalla Comunit Nazionale Fascista dei fotografi italiani, Sotto gli auspici della Federazione Fascista Autonoma Artigiani dItalia, aperta il 18 dicembre del 1932, fu la seconda manifestazione ufficiale dambito fotografico organizzata dagli apparati corporativi del regime fascista nella Capitale (la prima era stata, nel 1930, la Mostra Nazionale dArte Fotografica, tenuta allAranciera di Villa Umberto). Si trattava di unesposizione dedicata espressamente ai professionisti del settore, preclusa dunque al vasto ambito fotoamatoriale, il cui bando prevedeva una quota discrizione di 10 Lire e la suddivisione delle opere in sei diverse sezioni: Ritratto, Studio del nudo, Paesaggio, Natura morta e composizione, Fotografia pubblicitaria, Fotografia futurista. 11 Non abbiamo trovato riscontri documentali circa lattribuzione dei premi previsti dal bando della Biennale Internazionale dArte Fotografica. Le otto fotografie presentate da Ghergo nelloccasione e selezionate da una giuria composta da Vincenzo Buronzo, Commissario Governativo della Federazione Fascista Artigiani dItalia, dal fotoincisore Remo Hinna Danesi, dal Capo della Comunit Nazionale dei Fotografi, Adolfo Ermini, dal pittore Giovanni, dal fotografo Alfredo Pesce e dal critico darte Ercole Rivalta sono riportate nel catalogo della manifestazione, con i seguenti titoli: Studio di nudo (bromolio), Lanciatore di giavellotto (bromolio), Ritratto (clorobromuro), Maschera (clorobromuro), Ritratto (clorobromuro), Mio fratello Ermanno (bromolio), Mara Dussia (clorobromuro), Germana Paolieri (bromolio). Una di queste, un volto femminile di profilo, stampata con tecnica al clorobromuro, anche riprodotta (Ritratto, tavola XC), nella ridotta scelta dimmagini presentate nel catalogo. Molti dei soggetti descritti potrebbero essere identificati con fotografie ancora presenti nellarchivio di Ghergo, ma sono comunque di difficile individuazione univoca, esistendo pi di unimmagine compatibile con la descrizione fornita. Nella presentazione di Alberto Neppi alla sezione italiana possiamo leggere: Meno personale, invece, ci appaiono le produzioni del ritrattista Salvini di Firenze, del bergamasco Sacchi (...) del Gherzo (sic) di Roma, ritrattista di Germana Paolieri, di Mara Dussia, della marchesa Berlingeri, e ricercatore di plasticit caravaggesche, mediante la luce di candela, nella Maschera. Cfr. Prima Biennale Internazionale dArte Fotografica, Edizioni Enzo Pinci, Roma 1933, s.n.; cfr. anche Il Progresso fotografico, n. 1, 30 gennaio 1933, pp. 26-29. 12 Si tratta di una foto di Isa Pola in copertina di Piccola. Le altre fotografie di Ghergo in quel 1933 vengono pubblicate su Exelsior, Novella, Stelle, Zenit, tutti periodici popolari dargomento cinematografico, riccamente illustrati. 13 La societ di produzione cinematografica per cui tutte e tre le attrici nominate, oltre ad altre fotografate da Ghergo negli anni immediatamente successivi, stavano allora lavorando. 14 Non ci sono tracce in archivio di una pratica fotografica indirizzata a una committenza popolare, che, se potrebbero essere andate perdute, in considerazione dello scarso valore certamente attribuito da Ghergo a un determinato genere di materiali, risulta altres altamente improbabile, e, in ogni caso, numericamente insignificante, data la natura estremamente elaborata della fotografia da lui praticata, economicamente poco accessibile ad una clientela poco abbiente. 15 Alla luce dei riscontri oggettivi relativi alla produzione dei diversi studi fotografici della capitale alla Carell, oltre allaristocrazia, vanno i favori dellapparato istituzionale del fascismo e dellambiente intellettuale, mentre Ghergo coltiva la nobilt pi mondana e la crema del divismo autarchico, spartendolo pi o meno equamente con Luxardo, oltre che con una fitta nomenclatura di professionisti che operavano nellambito specifico ai confini tra la fotografia di studio e quella di scena, come Pesce, Vaselli, Ciolfi, Gneme, Bragaglia, Venturini.

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Ghergo fotografer Isa Miranda ripetutamente a partire almeno dal dicembre 1935, circostanza documentata dalla copertina del n. 50 di Novella, e dalle quattro immagini a corredo dellarticolo Il cinema e la moda, sul n. 5 di Lo schermo, e probabilmente almeno fino al 1942. 17 Codificata nel cinema a partire dagli anni Trenta da autori come Delluc ed Epstein, in campo fotografico la nozione di fotogenia viene ripresa prima da Andr Bazin, che la associer all'antico rito dell'imbalsamazione, poi da Roland Barthes che la colloca tra i processi di connotazione del messaggio fotografico: il messaggio connotato nellimmagine stessa, imbellita (cio in genere sublimata) da tecniche di illuminazione, di impressione e di stampa (Cfr. R. Barthes, Il messaggio fotografico, in LOvvio e lOttuso, Einaudi, Torino 1985, p.13) 18 Si tratta della celebre commedia Gastone, scritta e portata in scena da Ettore Petrolini gi nel 1924. Il Gastone di Petrolini ancora attore fotogenico, ma di variet teatrale. Il divismo fatale del nostro cinema muto era ormai fenomeno archeologico, spazzato via in prossimit del 1918 (luomo rovinato dalla guerra), relegato, pateticamente, in qualche figura antiquata del teatro leggero, a sua volta in crisi. La fotogenia, cos comera stata intesa da Petrolini, sembra essere passata completamente di moda. Quello che ieri era ridicolo solo per le minoranze dei pi critici, ora lo era diventato per tutti. 19 La glamour photography nasce e si diffonde a Hollywood a partire dalla met degli anni Venti, quando i principali studi cinematografici adottano strategie di comunicazione specifiche per promuovere il divismo anche al di fuori della sala cinematografica, attraverso la periodistica specialistica, costituita da innumerevoli magazines, prevalentemente popolari. La fotografia assume unassoluta centralit nelle dinamiche pubblicitarie ideate dallindustria cinematografica, indirizzata ad una rappresentazione dellattore basata su nuovi canoni fotogenici, non pi indirizzati ad evocare una particolare espressivit, quanto piuttosto comunicare fascino (il glamour, appunto), atmosfere sofisticate, bellezza assoluta ed irraggiungibile, e soprattutto quella necessaria distanza che il divo stabilisce con i comuni mortali. Le pose coreutiche, luso plastico della luce, le scenografie sontuose, lostentazione del lusso, sono i caratteri principali di questa nuova tipologia di rappresentazione, affidata a specialisti, spesso alle dirette dipendenze degli studios, a cui con il passare degli anni viene concessa anche unidentit autoriale. Tra i tanti in particolare si affermeranno Ruth Harriet Louise, Cecil Beaton, George Hurrell, Clarence Sinclair Bull, Laszlo Willinger, Eugene Richee, Ernst Bachrach. 20 Il mercato cinematografico italiano negli ultimi anni del fascismo fu caratterizzato da una quasi totale scomparsa dei film americani, in seguito all'embargo decretato dalle majors americane come ritorsione nei confronti di un decreto legge del settembre 1938 (Legge Alfieri) che istituiva un Monopolio di Stato per l'acquisto e la distribuzione dei film stranieri. In base ad essa, i produttori stranieri avrebbero trattato con un unico soggetto, lo Stato, le condizioni economiche relative allacquisizione e distribuzione dei diritti cinematografici, eliminando di fatto qualunque forma di contrattazione. 21 Tra le funzioni tipiche del ritratto dattore vi quella della prova di fotogenia, che precede spesso il provino cinematografico vero e proprio, ed utilizzato sopratutto per verificare da una parte la resa dei tratti fisiognomici trasposti sulla pellicola (la fotogenia, appunto), dallaltra lespressivit e la duttilit delleffigiato a ricoprire una gamma quanto pi vasta possibile di ruoli. 22 Cfr. Everardo Artico (a cura di), Gli anni del cinema italiano. Cast & credits 1931/41/51/61/71/81, Marsilio, Venezia 1991, p. 14. Nei titoli de La fuggitiva, Ghergo accreditato alla voce Luci. 23 Testimonianza di Jole Voleri 24 Cfr. Alice Barcinska Ghergo, Ritratto di Arturo Ghergo, op. cit., p. 20-21. 25 Nel film di Lattuada loperatore accreditato Carlo Nebiolo, in quello di Gallone ancora Anchise Brizzi. 26 I continui viaggi di Ghergo a Torino, durante il biennio 1941-1942, testimoniati nei taccuini tenuti da Alice, farebbero pensare a impegni professionali di una certa entit, a cui il fotografo avrebbe finito per rinunciare, seppur a malincuore, resosi conto dellimpossibilit di gestire contemporaneamente ad essi lattivit dello studio romano, e pure il mnage famigliare. Ma, a parte lesperienza de La fuggitiva, in cui effettivamente Ghergo accreditato nei titoli, e di cui rimangono alcune immagini del fotografo dietro una macchina da presa, gli appunti in questione restano a tuttoggi lunica labile traccia di molte delle circostanze narrate, e anche fonti depoca, e dunque piuttosto attendibili, come lAlmanacco del cinema italiano del 1943, lo include esclusivamente nella lista dei fotografi che lavorano per lindustria cinematografica, e non in altre categorie tecniche. Cfr. Almanacco del cinema italiano 1943, Societ Anonima Editrice Cinema, Roma 1943, p. 228. 27 Cfr. D. Reteuna, Cinema di carta. Storia fotografica del cinema italiano, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2000, pp. 405406. La presenza del noto ritrattista romano (Ghergo n.d.r.) stata rilevata nei sottoindicati set dove ha eseguito numerose fotografie dattore nelle pause di lavorazione dei film: Una donna tra due mondi, 1936, di G. Alessandrini; La danza dei milioni, 1940, di C. Mastrocinque; Le due orfanelle, 1942, di C. Gallone; La Gorgona, 1942, di G. Brignone; Accadde a Damasco, 1943, di P. Zeglio; La Boheme, 1943, di M. LHerbier; Non canto pi, 1943, di R. Freda; Turno di notte, 1943, di J. Faurez; Ho tanta voglia di cantare, 1944, di M. Mattoli. 28 A questo proposito, se la matrice glamour di ascendenza hollywoodiana rimane per Ghergo limprinting pi probabile, culturalmente compatibile con il decorso della cultura visiva italiana di quegli anni, questo appare per mediato anche dalla

coeva esperienza dello studio parigino Harcourt, le cui codificate caratteristiche estetiche corrispondono perfettamente alla formula ritrattistica tipica del fotografo marchigiano, cos come sono state esposte. per una valutazione, questa, puramente fondata su evidenti similitudini formali, priva cio di riscontri oggettivi che possano ratificare uneffettiva influenza del modello francese sulla fotografia di Ghergo visto che laffermazione dello stile Harcourt a livello internazionale, e soprattutto la sua visibilit sui media italiani piuttosto tarda rispetto agli stessi esiti conseguiti dalla sua produzione e forse si tratta di una mera coincidenza, testimonianza di una comune interpretazione delle istanze originarie, una sorta di via europea allestetica glamour. Fondato nel 1934 dai fratelli Lacroix e impostato immediatamente ad una concezione quasi industriale dellattivit, lo studio Harcourt dal 1936 al 1960 costituir il passaggio obbligato per le pi importanti personalit del mondo culturale, politico e cinematografico francese, tanto da far dire a Roland Barthes che in Francia un attore tale solo se stato fotografato allo Studio Harcourt. 29 Cfr. Alice Barcinska Ghergo, Ritratto di Arturo Ghergo, op. cit., p. 20-21. 30 Non si conoscono deroghe significative a questa scelta originaria, almeno in ambito professionale. Larchivio Ghergo composto unicamente da negativi di formato 18x24 e gli unici formati inferiori, prevalentemente 6x6 cm, riguardano fotografie dambito famigliare. 31 Le fonti utilizzabili per questo genere di considerazioni sono anchesse in larga parte di natura memorialistica, tratte dallintervista realizzata ad Antonio Bosco da Maurizio di Puolo, nel 1994. 32 Antonio (Tonio) Bosco era nato nel 1923 e ad appena 10 anni entra nello studio fotografico Cavalieri di Perugia, dove apprende la tecnica del ritocco manuale, per rimanervi fino al 1941 quando decide di trasferirsi a Roma e trova immediatamente impiego allo studio Ghergo, in sostituzione del vecchio assistente di questi. L si perfezioner anche come stampatore, ma la sua specialit sar sempre il ritocco del negativo, che raggiunge lapice quando nei primi anni Cinquanta riuscir a trovare il modo di intervenire anche sui materiali a colori, usando delle semplici matite colorate Stabilo. Alla morte di Ghergo rimarr stretto collaboratore di sua moglie Alice e poi di sua figlia Cristina, continuando a lavorare nello studio fino alla fine della sua vita. Muore a Roma nel 1995. 33 Secondo le testimonianze di Alice, lilluminazione imposta da Ghergo al soggetto, era spesso incurante degli effetti sulla loro resa fisionomica. Ci che contava era lottenimento di una particolare atmosfera espressiva, e gli eventuali difetti prodotti da una luce troppo incidente sui volti del soggetto venivano in seguito corretti con il ritocco manuale. Cfr. Alice Barcinska Ghergo, Ritratto di Arturo Ghergo, op. cit., p. 20-21. 34 Si tratta di una colla trasparente formata da pece greca e trementina che funge da base per permettere alla grafite della matita di far presa sulla superficie lucida della pellicola. 35 Il ritratto di Silvana Pampanini, una delle poche immagini di Ghergo che, nel 1955 finisce sulla copertina di Cinema, costituisce il sintomo esemplificativo delle ormai mutate tendenze della rappresentazione divistica nel nostro Paese, nella percezione, segnalata dalla didascalia, dello stile di Ghergo come anacronistico, o quantomeno non pi in linea con le tipologie pi diffuse nello star system nazionale. Nella didascalia infatti leggiamo: Silvana Pampanini, pur dovendo cedere secondo lattuale costume ad atteggiamenti divistici e a foto sexy da copertina, preferisce talvolta essere colta in nobili atteggiamenti. Si fatta perci ritrarre da Ghergo in una posa elegante che ricorda le fotografie ufficiali distribuite da una sovrana ai sudditi. (...) Cfr. Cinema, n. 148, 10 agosto 1955. 36 Le nascenti case di moda italiane, spesso poco pi strutturate di unartigianale sartoria, non avevano labitudine di utilizzare modelle professioniste e spesso utilizzavano le giovani rappresentanti dellalta societ come indossatrici e, allo stesso tempo, prestigiose testimonial delle loro creazioni. 37 Cfr. il contributo specifico di Massimo Di Forti sullargomento in questo stesso volume. 38 Cfr. Eva Paola Amendola (a cura di) Vestire italiano. Quarantanni di moda nelle immagini dei grandi fotografi, Edizioni Oberon, Roma 1983, pp. 64-69 e Lo sguardo italiano. Fotografie italiane di moda dal 1951 ad oggi (catalogo della mostra), Charta, Milano 2005, p. 40, 208, 374. 39 Gran Mondo. Cinematografo, attualit, variet nasce nel 1933 come rivista femminile per diventare nel Dopoguerra Gran Mondo. Aristocrazia, diplomazia, mondanit. Un gran numero di fotografie di Ghergo vengono pubblicate a partire dal 1947, ma anche in questo caso non sar in veste di collaboratore diretto della rivista. Sono le stesse persone da lui ritratte che forniscono alla rivista le immagini che le riguardano. Gran Mondo infatti un bollettino mondano dedicato allalta societ italiana, rappresentata nelle sue principali occupazioni: matrimoni, cocktail party, defil di moda. 40 Riportiamo la testimonianza autografa di Antonio Bosco, redatta nel dicembre 1994: I primi approcci con il colore li feci con il materiale Ferraniacolor, con risultati molto soddisfacenti, ma ben presto sorsero dei problemi, cio il ritocco dei negativi. Non fu facile trovare il sistema, dato che il negativo era basato sulla tricromia: il giallo, il blu e il rosso. (...) Dopo varie prove con i vari sistemi ero ancora lontano dalla soluzione. Stavo colorando una foto di una signora e mi venne tra le mani una matita pastello del colore base dei negativi a colori. La prima prova di ritocco la feci su un ritratto del professor Valdoni: usando la tecnica dei tre colori ottenni un risultato meraviglioso. Avevo cos vinto una grande battaglia: il ritocco a colori, cosa ancora sconosciuta a qualsiasi fotografo.

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Da una lettera di Ghergo alla moglie Alice, nel novembre-dicembre1957: Della pittura ! Non ho certo molto tempo per dedicarmi ad essa ma domani, domenica, far qualunque sforzo per poterti mandate prestissimo una, due fotografie insieme a quelle del divanetto. Di ci che pensa Sts (ndr. fratello di Alice) nel rapporto tra la fotografia, la pittura e me, non posso dir molto, poich troppo difficile parlarne per lettera. Certo esiste un conflitto tra le cose che sono obbligato a fare e quelle che voglio fare, ma questo non spetta solo a me in questo mondo! Dovr aggiungere che credo di sapere ci che cerco e spero tra non molto di trovare la strada buona per arrivare al sognato incontro (anche con te sogno lincontro!). Cfr. il contributo specifico di Duccio Trombadori sulla pittura di Arturo Ghergo in questo stesso volume. 42 Cfr. Paris Match, n. 535, 2 luglio 1959, copertina.

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